Purché ci resti Itaca: nelle radici una speranza per domani. La voce di Consolo

Ada Bellanova

Purché ci resti Itaca:

nelle radici una speranza per dopodomani.

La voce di Consolo.

1. Ripensare i luoghi in forma di idillio. Il dramma di Ulisse e di Ifigenia.

            Senza la letteratura Itaca sarebbe semplicemente una piccola isola greca nel Mediterraneo. Invece Omero, la tradizione, le invenzioni letterarie l’hanno resa il luogo per eccellenza delle radici e della memoria, la patria ritrovata dopo un lungo viaggio: l’hanno trasformata in simbolo[1].

            Ulisse in viaggio, intento ad affrontare pericoli, mostri e tempeste, porta con sé l’immagine di Itaca luogo del cuore, patria perfetta, a cui desidera a tutti i costi tornare. Una polarità netta si crea tra il mondo minaccioso – e avventuroso – e il nucleo accogliente e protettivo della patria e della casa. Eppure Ulisse, una volta sbarcato, è costretto a interrogarsi subito sull’identità della terra, sullo scarto tra il sogno che ha cullato durante la lunga distanza e la realtà[2]. Molte cose infatti sono cambiate: lui non è più lo stesso e Itaca è mutata, non solo per i soprusi dei Proci, ma anche perché il tempo ha segnato la sua geografia a tal punto da conferirle un paesaggio nuovo, diverso. Per queste ragioni, e non solo per l’intervento di Atena, Ulisse si guarda intorno e, smarrito, si pone la domanda: «Dove sono capitato?». Sebbene il finale dell’Odissea risulti confortante – l’eroe ottiene di nuovo il suo ruolo di re dopo la sconfitta dei Proci e l’intesa del talamo con Penelope – sorge il dubbio che l’Itaca ritrovata sia un po’ deludente rispetto al sogno e alla nostalgia. Perché altrimenti Ulisse sceglierebbe, come insegna l’altra tradizione, di ripartire? Non dovrebbe godersi la terra tanto amata? Il fatto è che, come scrive Jankelevitch, la nostalgia, per l’esule – per qualunque esule –, è insanabile, inestinguibile[3]. Già nel momento del primo distacco dalla patria ha inizio un cambiamento, nel luogo e nell’individuo, che non permette di colmare la distanza, in alcun modo, neppure nell’opportunità di un ritorno. 

            Ifigenia a sua volta, la sfortunata figlia di Agamennone, salva ma costretta all’esilio tra i feroci Tauri autori di sacrifici umani, non fa altro che sognare la sua Argo: una reggia preziosa, in cui è stata bambina, principessa, ma ormai, senza che lei lo sappia, luogo insanguinato dagli omicidi, la morte del padre per mano di sua madre, quella di sua madre per mano di suo fratello. La Tauride – anche in questo caso la responsabilità è della letteratura – assume la connotazione di una terra selvaggia, priva di ogni forma di civiltà: la dolente sacerdotessa greca, pur investita dell’autorità religiosa, non può far altro che sciogliere il suo canto d’esilio, insieme alle schiave sue compagne. È la trama dell’Ifigenia in Tauride euripidea: l’autore antico ha composto una tragedia che recita il dramma della nostalgia, la stessa di Ulisse. La città lontana di Argo, nella mente di chi vive l’esilio, ovvero la protagonista e, con lei, il coro, assume i tratti di uno spazio desiderato e armonioso, un territorio caro, in cui rispecchiarsi e ritrovarsi: è emblema della Grecia della civiltà. Eppure, come dicevo, la terra lontana non è affatto così come l’esule se la dipinge e, anche di fronte al lieto fine, mentre Ifigenia e il fratello ritrovato salpano dalla Tauride ostile e si allontanano dai sacrifici, c’è da augurarsi che non ci sia nessun ritorno a casa. Ritrovare Argo infatti non è possibile e il ritorno può essere estremamente traumatico.

           Il mito e la letteratura, proponendo una caratteristica veste per certi luoghi reali, li trasformano in simboli, metafore efficaci anche per la contemporaneità e per il nostro modo di vivere gli spazi.

            Ne sa qualcosa Vincenzo Consolo che in tutta la sua opera pone l’accento sul suo esilio nel Nord e sull’irredimibile nostalgia per la Sicilia lontana, patria del ricordo, e perciò idealizzata nella distanza, come in un’odissea contemporanea, tra le nebbie di una Milano grigia che ha più di un tratto in comune con la Tauride euripidea. L’olivo e l’olivastro (1994) e poi anche Lo Spasimo di Palermo (1998) descrivono un ritorno doloroso che ha i tratti di un incauto procedere tra le rovine di una patria in fiamme. Nel primo libro, che reca già nel titolo l’omaggio e la simbolizzazione degli spazi omerici – nell’Odissea olivo e olivastro segnano lo spazio del naufragio di Ulisse sulla costa dei Feaci – al giovane migrante siciliano che, fuggito dal terremoto di Gibellina – ecco Enea che abbandona un’Ilio compromessa – prova a ritornare dopo tanti anni, il nóstos è negato: Itaca non c’è più, fuor di metafora, perché la vecchia città è scomparsa sotto il sudario di cemento del Cretto di Burri, e la nuova, con la Stella texana che segna l’ingresso nel Belice, è, per dirla con le parole di Consolo, «costruita dai Proci»[4], non ha insomma molto a che fare con la tanto sospirata patria delle radici. Nel secondo, poi, veramente amaro è il ritorno del protagonista, lo scrittore Chino Martinez, a Palermo: la città degli anni Novanta, già compromessa dalla ferocia della speculazione edilizia, dal sacco che ha cementificato la Conca d’oro, deve fare i conti con la violenza mafiosa, esemplificata dalla drammatica esplosione finale in via d’Astorga che allude in maniera netta alla strage di via d’Amelio. A queste opere possono essere aggiunte moltissime pagine, come il testo eponimo di Le pietre di Pantalica, che piange il degrado – culturale, ambientale – dello scenario della bianca Siracusa, chiamando in causa i simboli della tragedia euripidea[5], tradotta tra l’altro proprio da Consolo con Del Corno[6], che è messa in scena nel teatro antico. L’autore fa del suo vissuto il motore dell’invenzione narrativa: la sua personale prospettiva interpreta gli spazi e li reinventa sul piano letterario. In questo processo Itaca e Argo rimandano a un mondo che non c’è più: un universo intatto, in armonia, cancellato da una modernità incivile e snaturante, e divenuto un perenne labirinto fitto di mostri e pericoli, una Tauride in cui si sacrificano gli innocenti. Nella prospettiva consoliana allora non è solo la Milano affarista ad assumere i tratti di luogo ostile: l’osservazione dell’intero spazio della contemporaneità – l’Italia, il Mediterraneo con i suoi naufraghi e ogni luogo in cui il migrante è perseguitato, ferito, il paesaggio mortificato dagli incendi, dall’industrializzazione, da un turismo becero e superficiale – denuncia una perdita irreparabile in termini di valori e identità[7]. La polarità non è più, o comunque non solo, tra lo spazio fisico dell’esilio e la terra delle radici, ma tra lo spazio del presente, omologante e svilente, e quello del passato, in cui è ancora possibile un equilibrio.

2. Proteggere le radici.

Io sono una forza del Passato.

Solo nella tradizione è il mio amore.

Vengo dai ruderi, dalle chiese,

dalle pale d’altare, dai borghi

abbandonati […]

       P.P. Pasolini[8]

            Eppure, affrontato il rischio della rottura dell’idillio, si può scoprire che Itaca non è del tutto allo sfacelo e che sulle colonne di Argo si può ricostruire. Conviene però prendere coscienza del punto a cui siamo arrivati. Conviene ripartire dalle radici, ritrovare angoli vivi del paesaggio, lasciarsi ispirare da quanto di buono essi comunicano. Il che non vuol dire smettere di vedere le criticità di ciò che è stato: significa valorizzare ciò che può essere valorizzato e trovare una nuova via alternativa all’omologazione e allo sfruttamento.

            La vera letteratura ha questo di utile, ci svela a noi stessi, e le pagine di Consolo parlano a tutti e di tutti, toccano le corde del legame doloroso o vivificante che abbiamo con gli spazi e tentano di fare chiarezza su questioni grandi e urgenti: invitano cioè ad una consapevolezza ambientale nel senso più ampio dell’espressione come unica strada non solo per non perdere il luogo, ma anche per non perdere noi stessi.

           Trovo illuminante la sua riflessione sulla Sicilia e sul Mediterraneo: nell’amarezza di fronte allo scempio, di fronte ai facili stereotipi che semplificano lo spazio, lo appiattiscono – il seducente paradiso a buon mercato da una parte, il degrado, i sotterfugi dall’altro –, avvallati in maniera semplicistica da un certo tipo di informazione e da un certo tipo di politica, l’autore rivendica il valore della complessità. Lo spazio ha molte facce, molte sfumature, la bellezza ha una sua indubbia fragilità.

            Nella sua rappresentazione dello spazio individuiamo la valorizzazione di alcune isole di sopravvivenza: gli Iblei con l’arte intatta degli apicoltori e i Nebrodi coi pascoli verdissimi non sono semplice idillio, Itaca e Argo del ricordo in cui sarebbe meglio non tornare mai, ma un esempio di risposta concreta alla crisi del paesaggio e dell’identità contemporanea. Descrivendo la miracolosa armonia tra uomo e natura, la ricchezza ambientale – piante, animali –, tradizioni gastronomiche e saperi antichi, che caratterizzano queste oasi di sopravvivenza, Consolo valorizza una Sicilia quasi arcaica. In ciò non rifiuta il progresso in sé, piuttosto evidenzia la necessità che esso non faccia perdere all’uomo la sua identità storica e culturale, come è invece accaduto nel caso della violenta industrializzazione dell’isola. Mette cioè in evidenza che i luoghi non sono uno sfondo e che, se smettono di essere quello che sono – fagocitati dall’omologazione, da interessi economici, dalla costruzione di barriere –, inevitabili e funeste sono le conseguenze anche sugli esseri umani. Così strettamente interrelate sono l’identità degli uomini e quella degli spazi.

            La sua opera invita dunque – e in ciò risiede, secondo me, la grande attualità del messaggio consoliano – a conservare le radici, a prendercene cura, perché solo nella salvaguardia di ciò che è rimasto possiamo sperare di non perdere noi stessi.

            Il passato – come insegnava anche Pasolini nella sua strenua definizione dell’ambiente storico e umano come territorio composito e stratificato nel tempo, insieme universo linguistico, identità dei luoghi, creazione artistica – può non essere un ricordo perduto: può anzi configurarsi come forza a cui attingere.

            Mi piace pensare che nei versi di Accordi,con l’ignoto tu, Consolo alluda ad un’identità sua e di tutti i figli del Mediterraneo, un’identità nata da una relazione vecchia di secoli con la terra, le piante, i muri a secco, con i paesaggi: tolto tutto questo, cosa saremmo?

Sei nato dal carrubo

e dalla pietra

da madre ebrea

e da padre saraceno.

S’è indurita la tua carne

alle sabbie tempestose

del deserto,

affilate si sono le tue ossa

sui muri a secco

della masseria

Brillano granatini

sul tuo palmo

per le punture

delle spinesante[9].

            Solo se ripartiamo da questo, allora, da ‘Itaca’, attraverso un cammino, senz’altro faticoso, difficile, di consapevolezza degli spazi e della nostra relazione con essi, possiamo avere qualche opportunità di sopravvivere anche noi. Possiamo avere qualche speranza, se non per domani, almeno per dopodomani. 


[1]A. Montandon, Itaque au fil du temps, in B. Westphal (a cura di), Le rivage des mythes. Une géocritique mediterranéenne. Le lieu et son mythe, Pulim, Limoges 2001, pp. 18-36.

[2]Odissea XIII 200-202.

[3]V. Jankélévitch, L’irréversible et la nostalgie, Flammarion, Paris 1983, pp. 370-371.

[4]V. Consolo, L’olivo e l’olivastro, in Id., L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, Mondadori, Milano 2015, p. 869.

[5]V. Consolo, Le pietre di Pantalica, in Id., Le pietre di Pantalica, in Id., L’opera completa, cit., pp. 615-621.

[6]Ifigenia fra i Tauri, trad. di Vincenzo Consolo e Dario Del Corno, Istituto Nazionale del Dramma Antico -XXVII ciclo di spettacoli classici (27 maggio-4 luglio 1982), INDA, Siracusa 1982.

[7]«Non si ritorna più nei luoghi da cui si è partiti, perché quelli non sono più i luoghi che noi abbiamo lasciato. Non si è più di nessun luogo», V. Consolo, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Donzelli, Roma 1993, p. 69. Dello stesso tono sono le affermazioni di Consolo nell’intervista con D. Calcaterra: «Una volta che si è partiti i ritorni sono impossibili. Qualsiasi ritorno, anche quello di Odisseo, dopo l’allontanamento, non riesce a colmare il distacco […] Nell’assenza si è consumato un duplice mutamento: dell’individuo e del luogo d’origine. Si prova una gran pena quando non riconosci più la tua terra, e la metamorfosi acquista la drammatica cifra dell’inesorabile degrado, della perdita, dello smarrimento. Ogni ritorno è dunque dolore. […] Oggi siamo tutti degli Ulissidi, degli erranti, espropriati del proprio luogo della memoria. Viviamo nell’indefinito, senza sicuri punti di riferimento, senza segni, intorno a noi c’è un mare da cui non s’intravede alcun approdo possibile, e d’altra parte non vediamo più la sponda da cui siamo partiti. Il destino dell’uomo contemporaneo è quello dell’errante, che ha perso la propria identità, la propria patria» (D. Calcaterra, Vincenzo Consolo, le parole, il tono, la cadenza, Prova d’autore, Catania 2007, pp. 20-22).

[8]P.P. Pasolini, 10 giugno 1962, in Poesie mondane, in Poesia in forma di rosa, in Id., Tutte le poesie, a cura di W. Siti, 2 voll., Mondadori, Milano 2003, I, p. 1099.

[9]Accordi. Poesie inedite, a cura di Claudio Masetta Milone e F. Zuccarello , Zuccarello editore, Sant’Agata di Militello 2015.
pubblicato “La macchina sognante” (28 dicembre 2020)

La luna di Consolo, tra passato e presente

di Irene Di Mauro

Lunaria, opera multiforme, come l’astro cui è dedicata la narrazione, si presenta come sintesi della sfiducia di Consolo nei confronti del genere letterario del romanzo, e della scrittura prosastica cui esso è collegato. È un esperimento poetico, teatrale, un ritorno alla tradizione siciliana del cuntu, in una prospettiva settecentesca, che risulta ricca di stimoli per una rilettura critica del presente, in quanto «la stessa metafora portante della Luna, proprio perché rimanda alla poesia e a valori di autenticità e umanità, conferisce uno spessore etico-politico a un testo che a prima vista parrebbe tutto fantastico, svagato, quasi dimentico della realtà».[1] Il linguaggio che dà forma e corpo allo scenario arcaico e immaginifico della narrazione, è quanto mai ‘verticale’, arricchito da continui rimandi poetici, resi espliciti in diversa misura e saturi di echi visionari:

Lo stile si avvicina alla poesia come mai prima era avvenuto: il testo pullula di anafore, allitterazioni, rime interne. Si assiste così a una sorta di tendenza mimetica per cui al tema dell’intima necessità per il mondo della poesia (simboleggiata dalla Luna) corrisponde uno stile che si fa poesia. Il linguaggio si presenta talvolta oracolare, la forma espressiva risulta nervosa, essenziale: la parola si fa incantatrice e trascina il lettore nella “poesia” della vita.[2]

Risulta quindi imprescindibile la comprensione di questa molteplicità di forme, linguaggi e riecheggiamenti, come l’eredità letteraria a cui l’autore ha attinto nella composizione della ‘favola teatrale’ della caduta e rinascita della luna. Quest’ultima, ‘astro’ da sempre presente nell’immaginario popolare, ha influenzato con la sua languida evanescenza poeti e scrittori, fin dal sesto libro della Farsaglia di Lucano, la cui rappresentazione nelle vesti di divinità funesta e ingannevole durante il celebre scontro tra Cesare e Pompeo, appare come la summa di un retaggio immaginifico proveniente dal pantheon greco. L’accezione magico-misterica della figura della dea, correlata all’inquietudine e alla melanconia sepolcrale delle ore notturne, per cui spesso viene associata all’oltretomba, è assimilata nella cultura latina alla figura delle «femmine tessale che svelgono la luna dal cielo»[3], descritte da Platone nel Gorgia. Sono molte le testimonianze di autori classici, segnalate da Leopardi nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, che attribuiscono poteri magici ad alcune donne risiedenti nella regione greca ed in particolar modo Virgilio, Seneca, Orazio, Ovidio, Tibullo, Stazio fanno riferimento all’operazione magica narrata da Platone. Non stupisce la rassegna di Leopardi, la cui produzione letteraria mostra come la luna sia un topos onnipresente nel panorama letterario, in cui vengono analizzate le ricorrenze nei testi antichi dell’immagine della caduta dell’astro, nei capitoli quarto e decimo Della magia e Degli astri nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi:«fu un nulla per gli antichi, dopo aver divinizzati gli astri, il supporre che qualcuno tra essi precipitasse talvolta dal cielo, con pericolo evidente di rompersi il collo».[4] Il retaggio popolare e letterario correlato alla luna viene ereditato da Lucano e filtrato attraverso la personale lente del poeta romano, che connota la narrazione della Farsaglia di sfumature grottesche e misteriche, dando forma ad uno dei più affascinanti temi letterari. Le suggestioni popolari sulla luna, trasformate in poesia da Lucano, saranno spunto per scrittori come Baudelaire e Goethe, che ne richiameranno l’accezione sepolcrale, nella formulazione di chiari rimandi alla letteratura latina. La luna delle visioni del poeta francese, sembra quasi la stessa che secoli prima era stata strappata dalla sua nicchia celeste dalla maga Erichto:

non la luna placida e discreta che visita il sonno degli uomini puri,

ma la luna strappata dal cielo, vinta e ribelle, che le Streghe della

Tessaglia costringono spietatamente a ballare sull’erba atterrita![5]

Baudelaire risente del fascino della «sinistra luna inebriante», a cui fa corrispondere la personificazione della donna, che la luna ha segnato «con il suo temibile influsso»[6] e la cui effimera immagine ha suscitato nel poeta il desiderio di imprimerla perpetuamente. Tuttavia, la donna ‘lunatica’ di Baudelaire, a differenza delle temibili incantatrici tessale, è in qualche misura ella stessa vittima del sortilegio lunare e fautrice dell’inganno dell’astro esclusivamente per potere riflesso. La luna conferisce alla donna amata la medesima forza attrattiva che l’uomo le ha, nei secoli, riservato:

Tu sarai bella alla mia maniera. Amerai quello che io amo e quello che mi ama: l’acqua, le nuvole, il silenzio e la notte; il mare immenso e verde; l’acqua informe e al contempo multiforme; il luogo in cui non sarai; l’amante che non potrai conoscere; i fiori mostruosi; i profumi che danno il delirio; i gatti che spasimano sui pianoforti gemendo come delle donne con voce roca e dolce!

“Sarai amata dai miei amanti, corteggiata dai miei cortigiani. […] di quelli che amano il mare, il mare immenso, tumultuoso e verde, l’acqua informe e al contempo multiforme; il luogo in cui non sono, la donna che non conoscono; i fiori sinistri che assomigliano ai turiboli di una sconosciuta religione, i profumi che sconvolgono la volontà, gli animali selvaggi e voluttuosi che sono gli emblemi della loro follia”.

Ed è per questo, maledetta fanciulla viziata, che ora sono ai tuoi piedi, cercando in tutto il tuo corpo il riflesso della temibile Divinità, della fatidica madrina, della velenosa nutrice di tutti i lunatici.[7]

È ormai evidente il distacco dalle violente immagini della Farsaglia, distacco suggerito e in qualche misura anticipato dal Faust di Goethe nel 1831:

Oh, fosse questa l’ultima volta, o Luna, che tu guardi sopra di me travagliato! quante volte dinanzi a questo leggio io ho vegliato tardi nella notte aspettandoti: e tu, mesta amica, sei pur sempre apparsa, a me su libri e su carte! Oh, potessi in sulle cime dei monti aggirarmi per entro la tua amabile luce, starmi sospeso cogli Spiriti in sui burroni, divagarmi, avvolto da’ tuoi taciti albori, sui prati, e, sgombro da tutte le vanità della scienza, bagnarmi e rinfrancarmi nella tua rugiada.[8]

Il corollario di immagini che accompagnano la comparsa della luna appare in ogni caso imprescindibilmente legato alla sfera orfica, immaginifica e dell’inconscio, tradizionalmente associata alle ore notturne. L’astro diviene strumento poetico per esaltare i dissidi dell’animo, «i quali, pur non conciliandosi, sembrano confondersi nell’alternanza in un unico sentimento che esprime la condizione esistenziale dell’uomo».[9] Questa accezione empatica, introdotta dai poeti romantici, trasmuta la luna in un essere non più vessillo di vendetta, brutalità e  immonda crudezza, come era stata per Erichto, la maga che «asperge di abbondante umore lunare»[10] le sue vittime, dopo averne squarciato il petto e il ventre. La luna ora ha una dimensione più empatica, si presenta al poeta « soave come l’occhio dell’amico/ sul mio destino »[11] Gli epiteti a lei rivolti però, appaiono in qualche modo gli stessi, la luna che suscita i sospiri nei poeti romantici, è lo stesso astro che illuminava la notte precedente allo scontro di Cesare e Pompeo:

O tu, lassù, perennemente immune da vecchiaia, dai tre nomi e dalle tre forme, te invoco io, nella calamità del mio popolo, Diana, Luna, Ecate! Tu che i cuori sollevi, tu, assorta nei pensieri più profondi, tu tranquilla splendi, in te stessa ascosa e violenta, apri l’orribile abisso delle tue ombre, l’antica potenza si manifesti senza aiuto di magia.[12]

Dei Canti leopardiani, nel trentasettesimo inequivocabilmente, troviamo il cardine, la congiunzione tra il percorso evolutivo fin qui analizzato e l’opera di Vincenzo Consolo, che riassume e rielabora tutte le accezioni che la luna, nei secoli, ha assunto in ambito letterario. Il tema del sogno della luna caduta, è assimilato, in entrambi gli autori, dalle reminiscenze popolari classiche, in entrambi è spunto per la narrazione dialogica e teatrale, la cui voce più veritiera è affidata ai pastori, nel Canto leopardiano tratti dalla Favola pastorale di Guidobaldo Bonarelli: 

ALCETA

Odi, Melisso: io vo’ contarti un sogno

di questa notte, che mi torna a mente

in riveder la luna. Io me ne stava

alla finestra che risponde al prato,

guardando in alto: ed ecco all’improvviso

distaccasi la luna; e mi parea

che quanto nel cader s’approssimava,

tanto crescesse al guardo; infin che venne

a dar di colpo in mezzo al prato; ed era

grande quanto una secchia, e di scintille

vomitava una nebbia, che stridea

sí forte come quando un carbon vivo

nell’acqua immergi e spegni. Anzi a quel modo

la luna, come ho detto, in mezzo al prato

si spegneva annerando a poco a poco,

e ne fumavan l’erbe intorno intorno.

Allor mirando in ciel, vidi rimaso

come un barlune, o un’orma, anzi una nicchia

ond’ella fosse svèlta; in cotal guisa,

ch’io n’agghiacciava; e ancor non m’assicuro.[13]

Ed è proprio ai pastori, i «villani della Contrada Senza Nome, che Consolo consegna il potere della «memoria, l’antica lingua, i gesti essenziali»[14] in grado, attraverso antichi rituali di sapore arcardico, di far rinascere in cielo la luna, e con essa «il sogno che lenisce e che consola»[15] e imprescindibilmente, la poesia. Il rito compiuto dai contadini con i cocci della luna infranta, richiama alla memoria la luna ancestrale latina, che risorge dall’oblio, insieme al retaggio mistico degli epiteti ad essa correlati:

PRIMA DONNA

Così è finita, così è stata

seppellita la Regina.

SECONDA DONNA

La Signora, la Sibilla,

la Ninfa Oceanina.

[…]

          QUARTA DONNA

Ecate dei parti,

Kore risorgente,

QUINTA DONNA

Malòfora celeste,

Vergine beata.[16]

La danza delle contadine, con le litanie, «muta lamentazione di prefiche»[17], le vesti nere e i capelli sciolti, i «gesti essenziali» dei quali unico depositario sembra essere il popolo, che, custode delle diversità culturali, del variegato corollario di influenze ormai perduto altrove dalla campagna, si mostra unico artefice, grazie alle ‘esequie della luna’, della rinascita dell’astro. Solo il Viceré Casimiro, non a caso punto di contatto tra l’arcadico mondo contadino della Contrada Senza Nome e la Palermo settecentesca, mostra di percepire il lascito classico del prodigio lunare in atto, cadendo in una sorta di estasi visionaria in cui rivolge alla luna il suo lamento, che diviene supplica e invocazione:

Luna, Lucina, Artemide divina, possente Astarte, Thanit crudele, Baalet, Militta, Elissa, Athara, Tiratha, Regina degli Umori, Selene eterna dalle ali distese e celebrate, Signora, Dea dalle bianche braccia, perché abbandoni il luminoso scettro? […] Deh madre, sorella, sposa, guida della notte, méntore, virgilia, dimmi, parlami, insegnami la via.[18]

Divinità che richiamano la fertilità, la fecondità, l’amore, ma anche la guerra, la morte la bramosia di sacrifici. Consolo include tutte le sfumature e le accezioni dell’astro, richiamando gli aspetti più grotteschi e crudi, rispettando quelli più morbidi e romantici; la «letteratura sulla letteratura»[19] di cui parla Cesare Segre, si fa più che mai evidente, adempiendo alla verticalità da sempre caratterizzante la scrittura dell’autore, che si mostra consapevole e attento agli echi che la narrazione suscita:

Quando Consolo mi mise tra le mani il meraviglioso libretto, e io mostrai di riconoscerne alcune fonti, invece di chiudersi nell’enigma mi procurò la fotocopia dei testi cui più si era ispirato, lieto che io ripercorressi i suoi itinerari. Mai come in questo caso la letteratura cresce su sé stessa, e se ne vanta. Il lettore deve partecipare, come in un gioco, all’invenzione dello scrittore.[20]

La stessa attenzione dipinge di sfumature rossastre la luna che rischiara la notte dei villani della Contrada Senza Nome, mentre ammirano il fenomeno che ne anticipa la caduta, speculando, al pari degli antichi, sulla reale motivazione. Il particolare fenomeno introduce l’elemento magico-misterico della caduta, gettando la campagna sottostante in un’atmosfera tragica in cui si insinua l’ululato ultraterreno, a cui i contadini pronti rispondono parando i forconi. La luna rossa diventa condizione necessaria e anticipatrice della magia, come per Orazio nel Sermo VIII, segnalato da Leopardi:

Serpentes, atque videres

Infernas errare canes, lunamque rubentem,

Ne foret his testis, post magna latere sepulchra.

Orazio dà l’epiteto di rubentem alla luna, perchè questa appare infatti rossa al suo levarsi; e il poeta avea detto poco prima che le maghe per dar principio ai loro incantesimi aveano aspettato il sorger della luna:

Nec prohibere….(possum) modo simul ac vaga luna decorum

Protulit os, quin ossa legant, herbasque nocentes.[21]

L’incanto è introdotto dall’aleatoria presenza del lupo mannaro, percepibile dall’ululato che, sempre più forte, scatena le reazioni atterrite degli astanti:

OLIVA   Mamma, il lupo mannaro!…

[…]

MELO   Basta un graffio, in fronte…

PIETRO   Una stilla di sangue…

VENERA   Ma non c’è quadrivio, non c’è incrocio…

La tradizione a cui attinge Consolo per la composizione di questa spettrale atmosfera, torna ad essere nostrana, seguendo il filone delle leggende popolari da lui già esaminate nel 1977:

Un urlo bestiale rompeva il silenzio nella notte di luna piena. Ed era uno svegliarsi, un origliare dietro le porte serrate, uno spiare dietro le finestre socchiuse, un porsi in salvo al centro dei crocicchi o impugnare la lama per ferire alla fronte e far sgorgare gocce di nero sangue. […] Il lupo mannaro era l’incubo, lo spavento notturno, nella vecchia cultura contadina, carico di male e malefizio, contro il quale opponeva crudeli gesti esorcistici.[22]

L’attestazione di questa credenza popolare è lungamente descritta da Cervantes ne Los trabajos de Persiles y Sigismunda, dimostrando l’arcaica permanenza nell’immaginario siciliano della figura del lupo mannaro, e la definizione dialettale della patologia ad esso correlata è di indubbia provenienza araba: «male catubbo, derivato dall’arabo catrab o cutubu, che significano canino o lupino».[23] Cervantes mostra di essere a conoscenza della forte presenza in Sicilia di questa superstizione, costituendo una testimonianza seicentesca le cui reminiscenze appaiono nell’immaginario consoliano, così come nella pirandelliana novella Mal di luna:

Lo que se ha de entender desto de convertirse en lobos es que hay una enfermedad, a quien los médicos llaman manía lupina, que es de calidad que, al que la padece, le parece que se haya convertido en lobo, […] y hoy día sé yo que hay en la isla de Sicilia (que es la mayor del Mediterráneo) gentes deste género, a quienes los sicilianos laman lobos menar, los cuales, antes que les dé tan pestífera enfermedad lo sienten y dicen a los que están junto a ellos que se aparten y huyan dellos, o que los aten o encierren, porque si no se guardan, los hacen pedazos a bocados y los desmenuzan, si pueden, con las uñas, dando terribles y espantosos ladridos.[24]

Gli individui affetti da «manía lupina» avvertono i loro cari in prossimità dell’esternarsi dei sintomi, «que se aparten y huyan dellos, o que los aten o encierren», similmente al Batà di Pirandello, che si premura di mettere al sicuro la moglie dall’irruenza della sua trasformazione: «–Dentro… chiuditi dentro… bene… Non ti spaventare… Se batto, se scuoto la porta e la graffio e grido… non ti spaventare… non aprire… Niente… va’! va’!»[25]. Pirandello, rispetto alla precedente descrizione di Cervantes, introduce come elemento imprescindibile la luna, che diviene, come in Consolo, causa della trasformazione, ritratta, ancora una volta, in rossastre sfumature:

Batà mugolò di nuovo, si scrollò tutto per un possente sussulto convulsivo, che parve gli moltiplicasse le membra; poi, col guizzo d’un braccio indicò il cielo, e urlò:

   – La luna!

Sidora, nel voltarsi per correre alla roba, difatti intravide nello spavento la luna in quintadecima, affocata, violacea, enorme, appena sorta dalle livide alture della Crocea.[26]

La luna interagisce e dialoga con i personaggi, intervenendo essa stessa nell’intreccio della vicenda, al pari di Lunaria, la cui influenza sui personaggi fa sì che possa essere annoverata «tra gli eroi e gli antagonisti, ‘oggetto del desiderio’ ricco di valenze simboliche, sognata, contemplata, persa, rimpianta e infine riconquistata».[27] La sequenza del racconto di Batà della contrazione del ‘male’ ricalca l’immaginario romantico del dialogo notturno con l’astro, richiamando gli scenari ritratti dai poeti ‘lunari’ e la stessa tipologia di interazione che si riscontra, tra le altre, in Claire de lune di Hugo, «la lune était sereine et jouait sur les flots»:[28]

che la madre da giovane, andata a spighe, dormendo su un’aja al sereno, lo aveva tenuto bambino tutta la notte esposto alla luna; e tutta quella notte, lui povero innocente, con la pancina all’aria, mentre gli occhi gli vagellavano, ci aveva giocato, con la bella luna, dimenando le gambette, i braccìni. E la luna lo aveva «incantato».[29]

Il Viceré di Lunaria risente a tal punto della sua influenza, da trasmutarsi in luna egli stesso, intonando una cantilena, o supplica, ricca di allitterazioni e assonanze, «in cui la quantità di sillabe si fa progressivamente più esigua fino a culminare, con geniale intuizione poetica, in un’unica sillaba, ampia e limpida, con un’assonanza nella ‘a’ che significa ‘luna’ in quella lingua antica e pura che ancora oggi si parla in Iran: il persiano classico»:[30]

Lena lennicula,

lemma lavicula,

làmula,

lémura,

màmula.

Létula,

màlia,

Mah.[31]

Ogni personaggio del microcosmo di Lunaria risente in qualche misura dell’influsso della rossastra luna in «quintadècima», il cui aspetto inconsueto genera un dibattito e le goffe argomentazioni avanzate dal dottor Elia, rimandano anch’esse in qualche modo alle arcaiche credenze popolari, che da sempre hanno cercato di colmare i vuoti del sapere, fornendo pittoresche spiegazioni ai fenomeni atmosferici:

DOTTOR ELIA     Nessun prodigio. È solo morbo o fiotto per caso scivolato dal diurno Astro in su l’occaso, quand’è rosso scarlatto, ingallando l’argentea sembianza, la pallida sostanza della vergine, la solitaria pellegrina della notte…[32]

L’ironica caricatura del dottor Elia, che si affanna dietro il rudimentale cannocchiale nell’analisi delle inconsuete condizioni dell’astro, affiancato dall’aromatario Alì, che produce un’analisi meno accademica, ma più calzante in quanto supportata dall’osservazione diretta della natura, e le loro dissertazioni animate, diventano un esempio letterario della figura dell’uomo ignorante ritratta da Leopardi:

La credulità è, e sarà sempre, come sempre è stata, una sorgente inesauribile di pregiudizi popolari. […] Un uomo ignorante, e che nella maggior parte delle cose non presume di sapere più di un altro crederà sempre tutto ciò che gli verrà detto, e stimerà effetto di folle arroganza ed anche di stupidità il dubitarne. Si sarà sempre credulo finchè non si saprà esaminare, o almeno non si ardirà tentare di farlo, […] Accade però bene spesso che gl’ignoranti non siano assai docili, e non prestino fede facilmente a chi vuol persuaderli di qualche verità. […] L’affezione che quell’uomo ha per le antichissime opinioni e per le vecchie costumanze delle genti di villa; la profonda venerazione che conserva per i suoi maggiori che gliele hanno trasmesse e raccomandate caldamente; […] altrettante sorgenti di errori popolari inespugnabili; renderanno inutili le cure di chi travaglierà a disingannarlo.[33]

La «profonda», ma spesso fuorviante, «venerazione», di cui parla Leopardi, viene espressa con vigore macchiettistico dal dottor Elia, che con estrema confusione mette a tacere mastr’Alì, tacciandolo di mancanza di spessore culturale, elencando una sequela di luminari di svariate discipline, allo scopo di conferire dignità alle proprie credenze, nonostante l’identità di alcuni di loro sia ignota: «Tacete, pratico! Voi non avete letto- voi non sapete leggere- in libri autorevoli. Voi non conoscete Ippocrate, Galeno, Avicenna, Bellèo, Alàimo, Petronillo…».[34] La lacuna generata da una parziale mancanza di supporto scientifico, viene colmata dall’uomo con l’immaginazione, che genera, tra le altre, le astruse teorie dell’Accademia dei Platoni Redivivi, spunto per Consolo di una caustica satira sul sapere, i cui protagonisti sono ridotti ad astratte categorie. L’Accademico Anziano, l’ Astronomo, il Fisico, il Metafisico, il Protomedico, si ritrovano a «pontificare sulla luna, coscienti della loro importanza e sapienza, mostrando conoscenze scientifiche e idee preconcette del Settecento»[35], creando un’ulteriore legame con le riflessioni leopardiane sull’approccio ai fenomeni astronomici:

Si vede un effetto meraviglioso, e come avviene bene spesso, se ne ignora la cagione. […] Ciò bastava per far nascere un pregiudizio, poichè l’uomo non si contenta di osservare un effetto, rimanendo nella sua mente affatto incerto intorno alla causa di esso. Sovente egli si forma subito nel suo intelletto un’idea ordinariamente falsa di ciò che può produrlo. […] Le stelle si vedevano muoversi regolarmente e con ordine invariabile: esse si crederono animate. […] Da che sono nati tutti questi errori, se non dall’ignoranza delle cause?[36]

In antitesi, questa «idea ordinariamente falsa», a patto di formarsi negli animi incontrovertibilmente inclini alla scrittura, che non attribuiscono ai doni dell’immaginazione dignità scientifica, genera poesia, mito, che fin dagli albori della civiltà umana è intervenuto là dove la scienza coeva era manchevole. E il mito della luna sembra aver avuto un crollo, al pari della luna di Lunaria, in un preciso momento individuato da Consolo nelle considerazioni conclusive sulla genesi dell’opera stessa, conferendo a Piccolo il primato di aver anticipato,

(o l’aveva anticipato Leopardi?) quello che sarebbe effettivamente accaduto da lì a qualche anno- la caduta del mito della luna, appunto-, che il 21 luglio del 1969 un’astronave di nome Apollo-il fratello gemello di Diana- approdasse sulla superficie di quell’astro e che degli uomini lo profanassero danzandovi sopra con i loro scarponi di metallo (ah, fu quello un giorno fatale per i poeti, ma Piccolo fece in tempo a non viverlo, era scomparso nel maggio di quello stesso anno).[37] 

L’amara, ma profondamente ironica, considerazione di Consolo, sembra estendersi, attraverso il generico appellativo di ‘poeti’, a chi abbia sognato la luna e abbia trasformato questo sogno in poesia. Il viaggio sulla luna, astro prima d’ora irraggiungibile, ha incantato poeti e scrittori, che hanno tentato di colmare il divario tecnologico con l’assegnazione di connotazioni sempre diverse all’ipotetica conquista della stessa: a partire da Dante, fino a Calvino, la luna ha cambiato il proprio volto, ma è rimasta sempre, pur sotto diversi aspetti, specchio dell’umano. E l’impavido paladino di Ariosto, il poeta «cosmico e lunare»[38] viene richiamato alla memoria da Consolo in forma diretta all’interno dell’opera, a suggellare la connessione che, attraverso i secoli, perdura nella letteratura di chi omaggia la luna:

 Là, dove giunse Astolfo in groppa all’Ippogrifo per cercarvi il senno del folle Paladino, là, come canta il Poeta, è dammuso, catoio, pozzo nero di tutte le carenze, le pazzie, i sonni, gli oblii, gli errori della Terra.

Dall’apostolo santo fu condutto

in un vallon fra due montagne istretto,

ove mirabilmente era ridutto

ciò che si perde o per nostro difetto

o per colpa di tempo o di fortuna:

ciò che si perde qui, là si raguna.[39]

Ariosto assegna alla luna il ruolo di detentrice di ciò che sulla terra è stato perso e la descrizione operatane risulta reduce di precedenti lezioni, alcune accolte, altre riprese ironicamente. Tra di esse troviamo l’esempio più illustre, il viaggio dantesco, i cui versi sono esplicitamente riportati nell’opera di Consolo, che affronta, tra le questioni dottrinali, quella delle macchie lunari, spunto di dissertazione sulle caratteristiche dell’astro:

La concreata e perpetüa sete

del deïforme regno cen portava

veloci quasi come ’l ciel vedete.

[…]

Parev’ a me che nube ne coprisse

lucida, spessa, solida e pulita,

quasi adamante che lo sol ferisse.

          Per entro sé l’etterna margarita

ne ricevette, com’ acqua recepe

raggio di luce permanendo unita.[40]

La superficie lunare viene indagata da un punto di vista astronomico, con particolare attenzione alla presenza di imperfezioni sulla sua superficie, sulla cui origine Dante interroga Beatrice:

Ma ditemi: che son li segni bui

di questo corpo, che là giuso in terra

fan di Cain favoleggiare altrui?».[41]

La luna di Ariosto, al contrario, ironicamente «non ha macchia alcuna», pur presentando un paesaggio speculare a quello terreno, per sottolinearne il legame con le vicende umane. Il poeta appare d’altro canto accogliere la descrizione presente nel Somnium di Leon Battista Alberti, in cui Libripeta annovera «enormi vesciche piene di adulazione, di menzogne, di flauti e trombe risonanti» accostate ai «benefici: sono ami d’oro e d’argento»[42], costruendo un paesaggio speculare a quello albertiano:

Vide un monte di tumide vesiche,

che dentro parea aver tumulti e grida;

e seppe ch’eran le corone antiche

e degli Assirii e de la terra lida,

e de’ Persi e de’ Greci, che già furo

incliti, et or n’è quasi il nome oscuro.

[…]

Ami d’oro e d’argento appresso vede

in una massa, ch’erano quei doni

che si fan con speranza di mercede

ai re, agli avari principi, ai patroni.[43]

Descrizione ritrovata nell’arringa dell’Accademico Eccentrico in Lunaria, che richiama alla mente degli astanti il volo siderale di Astolfo, e le conseguenti osservazioni sul suolo lunare: «si fe’ allora specchio, retaggio, monito perenne, ricettacolo delle sventure umane, fondaco d’otri, di vessiche, di regni, filosofie, idoli trapassati».[44] Il momento di congiunzione tra la visione letteraria di Ariosto e la valenza che la luna assume nell’opera di Consolo, ultimo baluardo di poesia contro l’inaridimento e l’afasia, si manifesta in Calvino, che, ripristinando tramite la narrazione iconografica del Castello dei destini incrociati il viaggio ariostesco, preannuncia le riflessioni consoliane, immaginando il paladino Astolfo nell’atto di interrogare un solitario poeta, ultimo abitante lunare:

Quale saggezza trarre per norma della Terra da questa Luna del delirio dei poeti? Il cavaliere provò a porre la domanda al primo abitante che incontrò sulla Luna: il personaggio ritratto nell’arcano numero uno, Il Bagatto, nome e immagine di significato controverso ma che qui pure può intendersi — dal calamo che tiene in mano come se scrivesse — un poeta.

Sui bianchi campi della Luna, Astolfo incontra il poeta, intento a interpolare nel suo ordito le rime delle ottave, le fila degli intrecci, le ragioni e sragioni. Se costui abita nel bel mezzo della Luna, — o ne è abitato, come dal suo nucleo più profondo, — ci dirà se è vero che essa contiene il rimario universale delle parole e delle cose, se essa è il mondo pieno di senso, l’opposto della Terra insensata.[45]

La poesia rimane dunque l’ultimo elemento sull’astro ormai spoglio, ben lontano dalla ricchezza paesaggistica in Ariosto e maggiormente affine al sentire di Consolo: «la vita lassù, impraticabile, si fe’ esigua, disparve mano a mano».[46] Nonostante il decorso che l’astro ha avuto in entrambi gli scrittori, la luna continua ad avere un’ incontrastata, probabilmente ineguagliata, valenza poetica:

«No, la Luna è un deserto,» questa era la risposta del poeta, a giudicare dall’ultima carta scesa sul tavolo: la calva circonferenza dell’Asso di Denari, «da questa sfera arida parte ogni discorso e ogni poema; e ogni viaggio attraverso foreste battaglie tesori banchetti alcove ci riporta qui, al centro d’un orizzonte vuoto.»[47]

 Il Viceré Casimiro e gli abitanti di Lunaria

I figuranti che ruotano intorno alla luna sono occasione in Consolo per compiere quella critica sociale, onnipresente nelle sue opere, in cui lo scrittore doveva necessariamente impegnarsi per non risultare complice delle incongruenze del presente. Persino un’opera così strettamente legata all’immaginifico mondo settecentesco, grazie alla sapiente caratterizzazione dei personaggi, «figure archetipiche che si elevano a categoria di universali, incarnando realtà ontologiche e qualità permanenti»[48] diviene strumento di lettura dell’umano, prescindendo dal momento storico. Primo fra tutti il Viceré, di cui viene svelato l’inganno già dalle prime pagine attraverso l’espediente del manichino, scudo e alter ego del regnante, inganno confermato dall’epilogo che mostra la profonda consapevolezza di un disilluso Viceré di rappresentare un’effige di un potere fittizio, il cui risveglio, dipinto con sfumature squisitamente ironiche, sembra ricalcare le patetiche rimostranze del Giovin Signore del Giorno di Parini: «No, no, no… Avverso giorno, spietata luce, abbaglio, città di fisso sole, isola incandescente…»[49]. Il Viceré viene pazientemente accudito dal valletto Porfirio, similmente ai servi fedeli, che si affrettano a schermare i raggi del sole per favorire il sonno tardivo del nobile parodiato da Parini:

Già i valetti gentili udìr lo squillo

de’ penduli metalli a cui da lunge

moto improvviso la tua destra impresse;

e corser pronti a spalancar gli opposti

schermi a la luce; e rigidi osservaro

che con tua pena non osasse Febo

entrar diretto a saettarte i lumi.[50]

La caricatura di regnante offerta dal Viceré Casimiro, a cui viene dato maggiore spazio rispetto alla precedente versione di Piccolo, con la quale l’opera di  Consolo ha un esplicito rapporto di complementarità, è in origine dipinta  dal barone sulla falsa riga del fratello Casimiro, con palesi intenti canzonatori confermati dalla descrizione fattane dallo stesso Consolo, in cui l’ossessione per le bacinelle d’acqua, disseminate in ogni dove all’interno della dimora nobiliare, ricorda l’ossessione del Viceré di Piccolo per la tintura, di cui erano ricolme numerose ciotole, similmente posizionate all’interno dell’abitazione:

Ogni tanto appariva anche il fratello, il barone Casimiro, bello fresco rasato ed elegante come dovesse uscire per qualche festa. Era invece, come mi rivelò una volta in gran confidenza, ch’egli dormiva di giorno e vegliava di notte, e nel tardo pomeriggio, quando s’alzava, faceva toilette perché più tardi sarebbe cominciata la sua grande avventura dell’attesa notturna delle apparenze, delle materializzazioni degli spiriti. Il barone era un cultore di metapsichica e studiava trattati e leggeva riviste come “Luci e ombre”. Mi spiegò una sua teoria sulle materializzazioni, non solo di uomini, ma anche di cani,

di gatti, mi disse che a quelle presenze, per lo sforzo nel materializzarsi, veniva una gran sete ed era per questo che per tutta la casa, negli angoli, sotto i tavoli, faceva disporre ciotole piene d’acqua.[51]

Il processo di rielaborazione del reale, innestato alle componenti storico-immaginifiche su cui affonda le radici l’intreccio della narrazione, viene puntualmente esaminato da Sciascia, le cui riflessioni sullo stile di Piccolo sono estendibili al sentire poetico di Consolo, essendo entrambi fautori di uno stile barocco e verticale:

Ma la realtà è, per un poeta barocco specialmente, insufficientemente poetica: e viene perciò sottoposta a un processo di «degnificazione». Vale a dire che la realtà viene per troppo amore soppressa, liquidata, nel punto stesso della massima esaltazione.[52]

I due autori, specchio di due modi diversi di intendere la scrittura barocca e il proprio apporto alla società, di aristocratico distacco in uno, di convinto e profondo intervento nell’altro, hanno in comune la piena adesione al sostrato spagnolo da cui la cultura palermitana in special modo è stata profondamente influenzata:

Il macabro, nello stesso tempo fastoso, caratteristico di certi ambienti e di certe mentalità di Palermo (che ora non ci sono più, credo) proviene dalla Spagna, proviene dall’elemento spagnolo che noi palermitani abbiamo subìto molto.[53]

Non è un caso che Cesare Segre assimili la figura del Viceré a quella del Principe Sigismondo de La vida es sueño di Calderòn de la Barca[54], in quanto i due nobili condividono entrambi i volti della speranza: il sogno e l’illusione.  L’intera esistenza per Sigismondo è sogno, dominata dall’illusorietà, intrinseca nella sfera onirica, in cui illusorio è persino il tempo, realtà fugace e velleitaria, del cui sentire il Viceré Casimiro si mostra in qualche misura erede:

Tutto è macèria, sabbia, polvere, erbe e arbusti ch’hanno coperto i loro resti. Malinconia è la storia. Non c’è che l’universo, questo cerchio il cui centro è ovunque e la circonferenza da nessuna parte, questo incessante cataclisma armonico, quest’immensa anarchia equilibrata. Ma se malinconia è la storia, l’infinito, l’eterno sono ansia, vertigine, panico, terrore. Contro i quali costruimmo gli scenari, i teatri finiti e familiari, gli inganni, le illusioni, le barriere dell’angoscia.[55]

Tuttavia l’epilogo della medesima inferenza è differente: la morte come unica realtà possibile per il principe polacco, disvelatrice delle illusioni dell’esistenza e dell’inconsistenza dell’universo sensibile, la luna per il Viceré palermitano, «questa mite, visibile sembianza, questa vicina apparenza consolante, questo schermo pietoso, questa sommessa allegoria dell’eterno ritorno. Lei ci salvò e ci diede la parola, Lei schiarì la notte primordiale, fugò la dura tenebra finale».[56] L’inganno della realtà teatrante viene svelato e Sigismondo, divenuto Principe, non è più Sigismondo, d’altro canto Casimiro non è più il Viceré, ammette con amarezza di averlo malvolentieri impersonato e teatralmente si sveste delle effigi del potere, abbandonando scettro e mantello. È proprio nei momenti essenziali del racconto, il prologo e l’epilogo, che Consolo denuncia la natura metateatrale di Lunaria, in cui i confini tra realtà e finzione vengono consapevolmente e visibilmente intrecciati, per restituire al lettore un ordito di sensibile profondità critica:

Dal “Preludio”, il Viceré, collocato dietro il suo manichino che chiama “quel muto commediante di quest’Opra”, presenta lo scenario dove si sviluppa la favola, spogliato della sua personalità come fosse un attore mentre recita il suo proemio: “E qui è il corpo grande, la maschera della giovine disfatta, la rossa, la palmosa, la bugiarda…”. Al termine dell’opera, nel suo “Epilogo”, Consolo è ancora più esplicito: “Non sono più il Viceré. Io l’ho rappresentato solamente (depone lo scettro, si toglie la corona e il mantello). E anche voi avete recitato una felicità che non avete. Così Porfirio (Porfirio si spoglia della livrea, degli scarpini, del turbante)”.[57]

Il lascito di entrambe le sceneggiature teatrali, è ancora una volta speculare: «è finzione la vita, malinconico teatro, eterno mutamento»[58], «Qué es la vida? Una ilusiòn, una sombra, una ficciòn…»[59], in quanto l’esplicito impianto teatrale diviene spunto per polemizzare, attraverso i due periodi storici in cui operano gli autori, barocco per Calderon de la Barça e moderno per Consolo, sulla vuotezza dei ruoli societari, rovesciando i rapporti di potere attraverso l’intreccio della narrazione.  In Consolo l’esasperazione delle dicotomie negli exempla di accademici, la cui ironica categorizzazione riflette la staticità del ruolo e la cristallizzazione del pensiero, svela le contraddizioni di chi presumibilmente detiene il sapere, ma sceglie di avvalersene autoreferenzialmente. Ad essi, così come agli ecclesiastici, a cui il Viceré riserva caustici interventi, i quali, irrimediabilmente distanti dalla sostanza ascetica e spirituale cui la loro veste dovrebbe tendere, digradano verso le bassezze della gola, dell’avarizia e dell’abuso di potere, Consolo contrappone la saggezza popolare dei villani della Contrada Senza Nome. Essi, provenienti da una contrada spogliata dai nomi dei luoghi, e quindi in qualche modo dalla propria storia, recuperano i gesti essenziali e la memoria dell’antica lingua, dei rituali atavici, in cui risiede la poesia e dunque la rinascita del mito della luna. Sotto un sole «tiranno indifferente, occhio che abbaglia, che guarda e che non vede»[60] si consuma il decadimento di una Palermo che è effige dell’intera società siciliana, al pari della Regalpetra di Sciascia, che è in ogni dove e in nessun luogo, in quanto realtà altra, ma plasmata dallo stampo di tutte le desolanti realtà su cui l’occhio sagace dello scrittore si è posato.  E la desolante realtà presentata da Consolo è quella di un mondo «antico e nuovo, carico di memoria, invaso dall’oblio»[61] e nell’ossimoro si consuma la ricchezza del popolo siciliano. La catarsi anelata da Consolo, inquieta supplica alle Muse nell’epiclesi, ha un’unica via per la sua manifestazione: «un velo d’illusione, di pietà, / come questo sipario di teatro»[62] e non è forse la luna, «sipario dell’eterno»[63], l’assoluzione, il riscatto, praticando essa stessa la catarsi rinascendo sopra le contrade siciliane? La poesia, come la storia è imperituro teatro destinato alla malinconia dell’eterno ritorno, ed è nella sua intrinseca attitudine alla rinascita che risiede la salvezza dell’uomo.

«Dopo è l’arresto, l’afasia. È il silenzio».[64]


[1] Gianni Turchetta, Da un luogo bellissimo e tremendo, in Vincenzo Consolo, L’opera completa, a cura di Gianni Turchetta, I Meridiani, Milano, Mondadori, 2015, p. LV.

[2] Paola Baratter, Lunaria [di Vincenzo Consolo]: il mondo salvato dalla Luna, «Microprovincia», Stresa, XLVIII, 2010, pp. 85-93.

[3] Platone, Gorgia, citato in Giacomo Leopardi, Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, a cura di Prospero Viani, Firenze, Le Monnier, 1851, p. 47.

[4] G. Leopardi, Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, a cura di Prospero Viani, Firenze, Le Monnier, 1851, pp. 127-128.

[5]Charles Baudelaire, Il desiderio di dipingere, in Lo Spleen di Parigi. Poemetti in prosa, XXXVI, in. Tutte le poesie e i capolavori in prosa, trad. di Claudio Rendina, Roma, Newton & Compton, 1998, pp. 549-551.

[6] Ibidem.

[7]C. Baudelaire, I benefici della luna, XXXVII, Ivi, p.552.

[8] Johann Wolfgang Goethe, Faust, capitolo I, traduzione di G. Scalvini, Milano, Giovanni Silvestri, 1835, p. 22.

[9] Giovanni Carpinelli, Invocazioni poetiche alla luna, «Belfagor», 21 giugno 2014, http://machiave.blogspot.com/2014/06/invocazioni-poetiche-alla-luna.html

[10] Lucano, Farsaglia, cit., vv. 667-669.

[11]J. w. Goethe, An den mond (Alla luna), Vienna, Diabelli, 1850, vv. 7-8.

[12]J.W. Goethe, Faust e Urfaust, traduzione, introduzione e note di G. V. Amoretti, Feltrinelli, Milano, 1965, p. 451.

[13] Ivi, XXXVII Canto, Odi, Melisso o Lo spavento notturno, pp. 141-142, vv. 1-20.

[14] V. Consolo, Lunaria, cit., p. 80.

[15] Ibidem.

[16] Ivi, pp. 71-72.

[17] Ibidem.

[18] Ivi, p. 65.

[19] Cesare Segre, Un profilo di Vincenzo Consolo, in Vincenzo Consolo, L’opera completa, a cura di Gianni Turchetta, I Meridiani, Milano, Mondadori, 2015, pp. XIV-XV.

[20] Ibidem.

[21] Orazio, Sermo VIII, citato in G. Leopardi, Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, cit., p. 37.

[22] V. Consolo, Paesaggio metafisico di una folla pietrificata, «Corriere della Sera», 19 ottobre 1977.

[23] Daragh O’Connell, La notte della ragione – fra politica e poetica in Nottetempo, casa per casa, Milano, Università degli Studi, 6 – 7 marzo 2019, http://vincenzoconsolo.it/?p=1815 [ultimo accesso: 14 novembre 2020]

[24] Miguel de CERVANTES, Los trabajos de Persiles y Sigismunda, a cura di C. Romero, Madrid, Cátedra, 2002, p. 244.

[25] Pirandello, Male di luna, «Corriere della Sera», 22 settembre 1913, poi in Le due maschere, Quattrini, Firenze 1914, poi nella nuova edizione riveduta della raccolta dal titolo Tu ridi, Milano, Treves, 1920 col titolo Quintadecima, ora in Id. Novelle per un anno, in Opere di Luigi Pirandello, vol I, Milano, Mondadori, 1980, pp. 1297-1298.

[26] Ibidem.

[27] P. Baratter, Lunaria [di Vincenzo Consolo]: il mondo salvato dalla Luna, cit., pp. 85-93.

[28] V. Hugo, Claire de lune, Les Orientales, Parigi, Ollendorf, 1912, p. 670, v. 1.

[29] Pirandello, Male di luna, cit., pp. 1300-1301.

[30] Irene Romera Pintor, Introduzione a Lunara: Consolo versus Calderòn, a cura di G. Adamo, La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo, Lecce, Manni, 2006, p.171.

[31] V. Consolo, Lunaria, cit., p.60.

[32] Ivi, p .46.

[33] G. Leopardi, Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, cit., pp. 300-01.

[34] V. Consolo, Lunaria, Milano, Mondadori, 2013, p.45.

[35]Irene Romera Pintor, Introduzione a Lunara: Consolo versus Calderòn, cit., pp.166-167.

[36] G. Leopardi, Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, cit., pp.302-03.

[37] V. Consolo, Lunaria, pp.125-26.

[38] I. Calvino, Una pietra sopra: discorsi di letteratura e società, Torino, Einaudi, p. 183.

[39] V. Consolo, Lunaria, cit., p. 64.

[40] D. Alighieri, Canto II, Paradiso, Commedia, a cura di Umberto Bosco e Giovanni Reggio, Firenze, Le Monnier, 1984, vv. 19-36.

[41] Ivi, vv. 49-51.

[42] L. B. Alberti, Intercenales, a cura di Bacchelli e D’Ascia, Bologna, Pendragon, 2003, pp. 228-241.

[43] L. Ariosto, Orlando Furioso, XXXIV, a cura di Lanfranco Caretti, Torino, Einaudi, 2015, vv. LXXVI-LXXVII.

[44] V. Consolo, Lunaria, cit., p.64.

[45] I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, Milano, Mondadori, 2016, p.40.

[46] V. Consolo, Lunaria, cit., p.64.

[47] Ivi, p.41.

[48] I. R. Pintor, La parola scritta e pronunciata, cit., p. 169.

[49] V. Consolo, Lunaria, cit., p.18.

[50] G. Parini, Il mattino, (seconda edizione), Il Giorno, in Id., Il giorno, le odi, dialogo sopra la nobiltà, introduzione e note di Saverio Orlando, Milano, Rizzoli, 1978, vv.70-75.

[51] V. Consolo, Il barone magico, «L’Ora», 17 febbraio 1967.

[52] L. Sciascia, Le “soledades” di Lucio Piccolo, in La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia, Torino, Einaudi, 1970, p. 23.

[53] A. Pizzuto, L. Piccolo, L’oboe e il clarino, a cura di A. Fo e A. Pane, Milano, Scheiwiller, 2002, pp. 177-181.

[54] C. Segre, Teatro e racconto su frammenti di luna, in Intrecci di voci, Torino, Einaudi, 1991, pp. 87-102.

[55] V. Consolo, Lunaria, cit., p. 80.

[56] Ibidem.

[57] I. R. Pintor, La parola scritta e pronunciata, cit., pp. 169-170.

[58] V. Consolo, Lunaria, p.85.

[59] Don Pedro Calderon de la Barça, La vida es sueno, II Giornara, scena 19, a cura di C. Morón, Madrid, Catedra, 2005, vv. 2183-4.

[60] V. Consolo, Lunaria, cit., p.85.

[61] Ibidem.

[62] V. Consolo, Catarsi, cit.

[63] V. Consolo, Lunaria, cit., p.85.

[64] V. Consolo, Per una metrica della memoria, Relazione tenuta al Centro di Studi sul Classicismo di Palazzo Pratellesi a San Gimignano in collaborazione con l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, Milano, 12 gennaio 1996, versione cartacea in «Bollettino ‘900 – Electronic Newsletter of ‘900 Italian Literature», VI-XI, 1997, pp. 25-29.



Il Mediterraneo di Vincenzo Consolo, Marinai ignoti, perduti (e nascosti).ean-Claude Izzo e Waciny Larej

NORA MOLL

Il Mediterraneo di Vincenzo Consolo,
Marinai ignoti, perduti (e nascosti).ean-Claude Izzo e Waciny Larej
Sapienza Università di Roma
Hommes perdus d’autres ports, qui portez avec vous la conscience du monde Louis Brauquier O Mediterraneo, doce, sem mistérico, classico, ummar par bater De incontro a esplanadas olhadas de jardins próximos
por estátuas brancas! Alvaro de Campos/Fernando Pessoa 1

Narrare il Mediterraneo, e rappresentarlo in forma saggistica, significa da sempre intrecciare una pluralità di voci e mettere in armonia sonorità provenienti da aree culturali diverse, da civiltà che si sono mescolate nel corso dei secoli sviluppando un’immagine di sé aperta, ibrida, fluida. La frontiera liquida del mare racchiuso da tre continenti, l’Europa, l’Africa e l’Asia, è uno spazio-dimezzo che allo stesso tempo unisce, mette in comunicazione, armonizza i contrasti, e divide, diventa barriera invalicabile, cimitero di speranze e di vite umane. Se a partire dalla prospettiva della longue durée in riferimento all’area mediterranea prevale l’idea di un dinamismo culturale portatore di innovazione e di originalità, di una traduzione tra le culture senza la quale la stessa civiltà europea sarebbe privata delle sue fondamenta, uno sguardo rapido sulla realtà attuale di questo grande lago fa venire lo sconforto: tra l’inquinamento e la tratta di migranti sans papiers, tra il deturpamento delle coste e il decadimento delle antiche città portuali, dal Mediterraneo provengono ora molte dissonanze,con punte acute di disperazione spesso soffocate nel mare, forse più grande,della comunicazione di massa. Che è per lo più impegnata ad abbozzare maldestramente e furbescamente, a sua volta, una narrazione del Mediterraneo all’ insegna del grande e ben sfruttabile tema dello “scontro tra le civiltà”.Fortunatamente, nella parola letteraria si scoprono ancora oggi innumerevoli aspetti che disegnano un Mediterraneo diverso e ben più complesso da quello veicolato dalla cultura di massa. In molti autori del XX e del XXI secolo provenienti da quella “rete interletteraria” tricontinentale 2, il discorso su questa grande regione terracquea viene condotto su due binari: coniugando la dimensione storica con la rappresentazione narrativa del presente, essi volgono lo sguardo sul mare che cancella ogni traccia del passato e al contempo traducono il peso del territorio retrostante, sul quale sono inscritte, pietrificate, le manifestazioni di secoli e millenni di storia. Dall’apocalisse culturale di Stefano D’Arrigo alla desolazione estraniante ma fascinosa di Albert Camus e alla sensualità carnale di Jean Giono, per fare solo alcuni esempi, i risultati di quelle che sono delle vere e proprie poetiche mediterranee sono diversi e sfaccettati; sempre complessi e non facilmente riassumibili in un discorso logico, cartesiano e binario, dialettico magari ma unidirezionale. Del resto, come insegna Édouard Glissant, dalla sua prospettiva caraibica, le poetiche fondate sulla diversità sono portatrici di imprevedibilità,inerente al processo di creolizzazione, di mescolanze che procedono liberamente per vie mai percorse prima, che ci costringono ad abbandonare tali schemi logici, favorendo piuttosto un pensiero polifonico, contrappuntistico 3. Confrontandosi con questo mare interno, fenici, greci, siriani, egizi, romani,arabi e molte altre civiltà e tanti popoli ancora, hanno sviluppato la capacità di efinire sé stessi, nel confronto con gli altri, nello scambio di conquiste materiali e scientifiche, di merci e di beni, nel disegno di cartine nautiche come rappresentazioni del proprio mondo, e della propria cosmovisión 4. Tali espressioni materiali della cultura mediterranea non sono, tuttavia, mai state disgiunte dallo sforzo di narrare la propria comunità, abbracciando a partire dal contesto ristretto della singola Heimat quello più grande della regione d’appartenenza. Nella più importante e fertile di tali foundational fictions, l’Odissea, vi è infatti lo sforzo, collettivo ed epico, di trasformare lo spazio concreto attraversato dal suo protagonista in uno immaginario, mitico, uno sforzo che è allo stesso tempo mitopoietico e mitologico 5. In altre parole, il secondo poema omerico (ma lo stesso vale anche per il primo, l’Iliade) è allo stesso tempo un motore creatore di miti e di figure mitiche (la maga Circe, Calipso, lo stesso Odisseo, Polifemo e molti altri ancora), e un grande contenitore di miti, religiosi ed eziologici, già esistenti, una sorta di archivio che permette di salvare un patrimonio mitologico e di consegnarlo alle future generazioni 6. Una creazione mitica, poetica e narrativa di uno spazio, reale e immaginario, che ha conosciuto una immensa fortuna di rielaborazioni e di riscritture dentro e fuori dal suo contesto di provenienza,parallelamente alla persistenza dell’epos odissaico nella cultura orale mediterranea: infatti, sappiamo che ancora oggi circolano narrazioni epiche popolari che hanno come protagonista degli Odissei, pur portando nomi diversi 7.Se nell’Iliade Odisseo era figura di guerriero (pur umanamente ontrovoglia,dapprincipio troppo attaccato alla sua famiglia e ai suoi beni per accettare la ottomissione ad una superiore “ragion di Stato” o ad una astratta volontà divina),ma anche di sapiente artefice (vedi il suo ruolo di artifex del piano per la conquista di Troia), nell’Odissea egli si trasforma in viaggiatore, in marinaio (pur mantenendo come dote essenziale la “phronesis”): diventa Capitano Ulisse, dirla con Alberto Savinio 8, che non solo ha il desiderio di ritornare alla sua Itaca, ma anche la responsabilità di riportare a casa i suoi compagni. Odisseo,così come ci è stato tramandato nel secondo poema omerico, è anzi l’archetipo della figura del marinaio – se per marinaio intendiamo “l’uomo di mare” (ted.Seemann) senza distinzione di sorta tra gradi e gerarchie – una figura che tanto successo ha conosciuto nella letteratura europea e mondiale, dove tale archetipo è però affiancato da quello orientale di Sindbad 9. Da Coleridge a Conrad, da Melville a Coloane, da Baudelaire a London, i marinai sono figure di uomini che appartengono al mare, che definiscono la propria identità a partire da e attraverso di esso. Uomini che vivono ai margini del consorzio umano, e che proprio in virtù di tale liminarità sociale mettono in comunicazione comunità differenti dal punto di vista etnico e geografico-spaziale. Il marinaio, per via della sua precarietà sociale, è inoltre in contatto con i veri e propri emarginati, come la delinquenza portuale e le prostitute. La sua proverbiale infedeltà, già odissaica, è contrapposta alla tensione psicologica verso un punto fermo, una famiglia, una Penelope che lo attende; una oscillazione che è fonte di inquietudine, infelicità, di conflitti. Il suo essere sempre in viaggio, o tra un viaggio e l’altro, la sua erranza marina-terrestre, ne fa del resto il prototipo dell’ansia profondamente umana verso la conoscenza: una conoscenza del mondo di cui egli è portatore e narratore 10 e una conoscenza della complessa varietà umana che passa attraverso l’esperienza del mare, della sua bellezza e dei suoi pericoli. Come ricorda Eric Leed nel suo magistrale studio sulla letteratura del viaggio, il concetto di esperienza e quello di erranza sono profondamente connessi, se solo prestiamo attenzione all’etimologia del termine tedesco Erfahrung (esperienza autentica, diretta, tratta dal vissuto), derivato dall’antico tedesco irfaran (viaggiare, errare)11. Una parola alla quale si ricollega però etimologicamente anche la forma verbale tedesca (sich) irren (sbagliare), così come del resto vi è una assonanza significativa e parentela derivativa tra l’italiano errore ed errare/erranza, il che ci ricorda che l’esperienza è anche sempre (considerata oltre che di fatto) foriera di errori; e nel caso del marinaio la sovrabbondanza di esperienza porta quasi inevitabilmente verso le zone oscure della illegalità, della immoralità, della malattia, e infine anche della morte (affrontata con ogni nuova partenza, se è vero che nell’ immaginario popolare partire equivale a morire). Pur constatando la grande fertilità letteraria del modello umano del marinaio – che in ambito mediterraneo ricollega in una circolarità ermeneutica la letteratura,e la cultura, contemporanea con quella antica – non lo si può e si deve definire tout court come un tema letterario 12. Piuttosto, esistono diversi complessi tematici che si irradiano a partire da tale figura e prototipo umano, senza escludere però che, in rari casi, essa diventi il modus principale con cui tali complessi tematici si manifestano: e solo in quel caso si può parlare a ragione del “tema del marinaio”. Tra i complessi tematici, a cui in parte ho già accennato, si annoverano l’avventura, il viaggio, l’eros, l’adulterio, il ritorno, il superamento di limiti (interiori) e di sfide (esterne), la libertà, la vita come “navigatio”e come intrigo conflittuale di esperienze. Come è stato giustamente ribadito da Mario Domenichelli, lo stesso Odisseo (omerico e ultraomerico) non è propriamente un tema, bensì un personaggio letterario nel quale si accentra una serie di temi, parzialmente coincidenti con quelli appena menzionati, laddove la nozione di tema, secondo lo studioso, richiederebbe sempre un grado maggiore di astrazione 13. Sottolineando altresì l’aspetto “dinamico” del tema, Domenichelli si oppone, infatti, sia a definizioni come quella di Cesare Segre, che lo limitano all’idea di «unità di significato stereotipe ricorrenti in un testo o gruppo di testi», sia alla tentazione, a tutt’oggi alquanto diffusa, di assegnare il tema esclusivamente alla dimensione del contenuto, separandolo dagli aspetti formali e ntroducendo implicitamente un giudizio di valore negativo sull’opportunità di studiare il “materiale di riempimento”, o Stoff, di un testo, sia sul piano sincronico che su quello diacronico 14. Il suo dinamismo caleidoscopico ne farebbe invece una “forma formante” che estetizza l’esperienza del mondo, un «interfaccia tra esperienza ed esperienza estetica, tra vita e letteratura»15. All’importanza,paragonata da Domenichelli a quella ricoperta dal tema o dal Leitmotiv musicali, che esso assume all’interno del singolo testo letterario, si aggiunge inoltre come importante plus-valore, sul quale si concentrano gli studi comparatistici,il suo ruolo esercitato a livello diacronico e intertestuale, sottolineando che «temi, topoi, articolazioni di motivo sono marche di identità e di appartenenza dell’opera, che concorrono a formare la tradizione e l’identità della tribù»16. Il tema letterario, insomma, non sarebbe altro che una “forma dell’esperienza”dall’importanza strutturale e strutturante per il singolo testo – e, ggiungerei, fondamentale per la comprensione dell’opera complessiva e della poetica di un autore – ma anche una via maestra per accedere alla comprensione delle costanti culturali e delle specificità identitarie di una collettività o di una civiltà (quella europea, nel caso analizzato da Domenichelli). La tematologia, potremmo quindi riassumere, nella sua rivisitazione critica e nella strenua difesa dei suoi assunti teorico-metodologici, si profila quindi come una possibile modulazione sia dell’imagologia letteraria che della geocritica – annoverata dalla comparatistica francese tra le aree di ricerca più innovative emerse in anni recenti 17 – oltre che come nesso e ponte tra la comparatistica letteraria e gli studi culturali, di più recente sviluppo e dalla metodologia spesso assai incerta.D’altronde, si dirà, chiunque abbia una pur vaga conoscenza dell’opera di E.R. Curtius, Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter (1948)sarà poi tanto stupito dall’idea che la tematologia possa essere usata come chiave metodologica degli studi europei. Difatti, già in Curtius lo studio dei temi, o meglio dei topoi letterari è posto all’insegna della comprensione e della canonizzazione della modernità letteraria europea, ricollegata alle sue radici tardolatine esaltate nel loro ruolo di trait d’union tra antichità greco-latina e odernità.Tuttavia, a questa e a tante altre creazioni ingegnose e mirabilmente erudite del “mito” monoculturale della letteratura europea 19 andrebbe giustapposta – per correzione e non per contrapposizione – l’idea di una base interculturale della stessa letteratura europea, data dal confronto e dalla mescolanza di culture/civiltà diverse, dalla traduzione e dall’adattamento di generi, forme, temi,stili provenienti anche dal suo esterno, dalla compenetrazione dell’immaginario culturale occidentale con quello orientale, dall’idea che la stessa antichità greca affondi le sue radici nella (non) lontana Africa, oltre che in Asia 20. Usare quindi la tematologia come strumento per lo studio dell’interculturalità mediterranea – nonché per il collegamento geocritico e interculturale del Mediterraneo con altre aree culturali come quella dei Caraibi – sembra una delle possibili vie percorribili al fine di evitare lo slittamento della pur evidente e molto praticata europeità degli studi letterari verso un eurocentrismo che, con altrettanta evidenza, sembrerebbe ormai necessario superare 21. In questo testo, la triangolazione italo-franco-algerina della ripresa della figura letteraria del marinaio è posta appunto sotto tale insegna, ma viene usata anche con l’obiettivo, di derivazione imagologica e geocritica, di mostrare le diverse modulazioni di un discorso dall’interno e sul Mediterraneo che si incrocia con la rielaborazione della figura del marinaio mediterraneo, nonché con quello di creare una, pur ristretta, esemplificazione delle “forme formanti” che essa può assumere. I marinai che appaiono nelle opere di Jean-Claude Izzo, di Vincenzo Consolo e di Waciny Larej occupano,difatti, una posizione tematico-formale dall’importanza via via decrescente,dal tema letterario vero e proprio (Izzo), al Leitmotiv coniugato con un uso originale dell’ekphrasis (Consolo), al semplice motivo (Larej), dalla ricorrenza meno estensiva e solo debolmente strutturante. Quello che è stato, inoltre, un importante stimolo, per così dire immaginativo, nel trattare questo argomento,era l’idea che così come il marinaio, nella realtà mediterranea (ma non solo) è ed è sempre stata una figura capace di mettere in contatto e di tradurre culture diverse, il tema, Leitmotiv e motivo del marinaio permette un interessante confronto tra opere peraltro molto differenti, sebbene prodotte nello stesso arco di tempo, ma suscettibili di apparire sotto una luce nuova all’ interno di tale intreccio comparatistico-ermeneutico.Il romanzo che rappresenta la prima fascia dell’intreccio-treccia è intitolato Les marins perdus, e fu pubblicato in Francia nel 199722. Il suo autore, il marsigliese di origini italiane Jean-Claude Izzo, prematuramente scomparso nel 2000, si era imposto già precedentemente all’attenzione del pubblico francese con la trilogia noir Casino totale, Chourmo e Solea, ambientata come il resto della sua opera a Marsiglia 23.L’amore per la sua città – che traspare anche in Marinai perduti attraverso una lunga serie di descrizioni del suo porto e delle sue vie, delle indicazioni particolareggiate su locali e bistrot e i piatti tipici che vi vengono serviti – nonché per la cultura mediterranea in generale, sono due punti focali dell’opera di Izzo, dei suoi veri e propri miti personali 24. Dalle prime pagine di Marinai perduti, l’occhio del narratore si sofferma sulla sua bellezza, collegata con un momento significativo della gioventù di uno dei marinai protagonisti del romanzo, nonché con aspetti che sfumano nel mito,capace di far sentire la suo eco attraverso secoli e millenni, frammento di un immaginario culturale che viene rinnovato costantemente nell’immaginario del singolo:Anche a Diamantis piaceva quella città. L’aveva amata fin dalla prima volta che vi era sbarcato. Aveva appena vent’anni allora. Era mozzo a bordo dell’Ecuador, un vecchio cargo arrugginito che non si avventurava mai al largo di Gibilterra. Quel giorno se lo ricordava benissimo. L’Ecuador aveva doppiato l’arcipelago del Riou. Poi, superate le isole del Frioul,l’insenatura gli si era spalancata di fronte. Quasi una linea netta di luce rosata che separava l’azzurro del cielo dall’azzurro del mare. Ne era rimasto come abbagliato. Marsiglia, aveva pensato allora, è una donna che si offre a chi arriva dal mare. L’aveva perfino annotato sul giornale di bordo. Senza sapere che stava citando il mito fondatore della città: la leggenda di Gyptis, principessa ligure che si diede a Protis, marinaio francese, la notte in cui questi entrò nel porto. Da allora Diamantis aveva perso il conto degli scali 25.Il mito fondatore marsigliese di Gyptis e Protis, insieme alla descrizione del porto con immagini sensuali e una metafora erotica, rappresenta un importante nucleo immaginativo e semantico per il romanzo di Izzo, a partire dal quale si dipana tutta la sua trama nelle sue singole fasce narrative: l’arrivo del marinaio,la donna che gli si dona, la bellezza del mare e del porto. Tuttavia, la poesia e la valenza erotica dell’episodio mitico e dell’immagine della città sono rilegate al passato, alla giovinezza del marinaio greco Diamantis, dopo anni nuovamente approdato con la nave sulla quale è “secondo” al porto di Marsiglia, per non ripartire più. Difatti, la rappresentazione dello stesso porto, questa volta visto da terra e non dal mare, con cui si apre il romanzo, contrasta decisamente con i colori, il tempo atmosferico e la metaforicità del passo appena citato:Marsiglia quel mattino aveva colori da mare del Nord. […] Il cielo minacciava tempesta e, in lontananza, le isole del Frioul non erano che una macchia scura. A stento si distingueva l’orizzonte. Proprio un giorno senza futuro, pensò Diamantis. Attraccati, relegati laggiù, in fondo ai sei chilometri della diga del Largo. Lontani da tutto. Senza niente da fare. E senza un soldo. Ad aspettare l’ipotetico acquirente di quel sfottuto cargo 26. Diamantis, insieme al capitano libanese Abdul Aziz e un marinaio semplice,il giovane turco Nedim, sono degli uomini di mare costretti all’immobilità, spinti dalla difficile situazione legale della loro nave, l’Aldébaran (bloccata dal tribunale a garanzia dei debiti contratti dall’armatore) in una trappola, una empasse che è allo stesso tempo economica e psicologica. Infatti, nell’impossibilità di abbandonare la nave, sulla quale continuano a vivere consumando gli avanzi delle loro provviste, nella difficoltà di trovare un altro impiego e nel rifiuto di accettare l’indennizzo offertogli dal tribunale (come aveva fatto il resto della variopinta ciurma, dileguatasi dopo pochi giorni dall’attracco della nave), si traduce la situazione esistenziale in cui versano tutti e tre i personaggi. Una situazione di stallo, di vuoto («Non abbiamo più il mare di mezzo. E di colpo scopriamo il vuoto», p. 15), che li conduce alla rielaborazione del proprio passato,ai ricordi che lentamente essi si cominciano a scambiare, e che sono incentrati principalmente sulla loro scelta di diventare marinai, come anche sulle donne protagoniste della loro vita, durante i loro viaggi (le prostitute e le altre donne dei porti) come durante le brevi permanenze a casa (le fidanzate e le mogli,madri dei loro figli). Se la loro esistenza di marinai è posta all’insegna di un destino al quale non possono sfuggire, della scelta di una libertà alla quale non vogliono rinunciare («In mare, e soltanto lì, si sentiva libero. In mare non si sentiva né vivo né morto. Solo altrove. Un altrove in cui riusciva a trovare qualche buona ragione per essere se stesso. E gli bastava», p. 14), tale destino è allo stesso tempo la condanna ad una instabilità nei rapporti d’amore, arrivati in tutti i tre gli uomini a un momento di svolta: mentre Abdul Aziz sta per essere lasciato dalla moglie, che pur amandolo soffre troppo per via delle lunghe assenze del marito, Nedim prende coscienza della impossibilità di costruirsi un’esistenza con la giovane fidanzata, di rispondere alle attese della sua famiglia di scegliere un lavoro da sedentario. Diamantis, invece, separato da anni dalla moglie da cui ha avuto un figlio, è ora alla ricerca di un suo grande amore giovanile, una donna di origine marocchina conosciuta a Marsiglia vent’anni prima, da lui abbandonata in circostanze oscure, a causa di un intrico di paure e di incapacità che nel corso della narrazione riceve man mano delle delucidazioni.Infatti, la ricerca del suo antico amore da parte di Diamantis costituisce il motore del racconto nonché l’anello di congiunzione tra le varie vicende che si dispiegano intorno ai singoli personaggi. Nedim si innamora di Lalla, una bella entraîneuse conosciuta in un locale del quartiere portuale, la quale è accompagnata da una quarantenne che si rivela essere Amina, la donna ricercata da Diamantis. Tirato dentro un inganno dalle due donne e dai proprietari del locale per il quale lavorano, Nedim chiede aiuto a Diamantis che entra così in contatto con l’entourage malavitoso delle due donne, assistendo infine all’uccisione di Amina da parte del suo compagno, un capo mafioso che l’aveva costretta a lavorare per lui. In un intrico noir, gestito alla perfezione da Izzo, esperto del genere, si narra infine anche la morte tragica di Nedim per mano di Abdul, l’arresto di questi e il salvataggio di Lalla, che in realtà è la figlia che Amina aveva avuto da Diamantis dopo essere stata da lui abbandonata. Diamantis, invece,trova in ultimo rifugio presso una donna marsigliese, una Calipso che gli offre il suo amore materno, e che si prende cura anche della giovane Lalla. Quest’ultimo rimando ad una figura femminile di memoria omerica non è solo di tipo associativo. Diamantis, infatti, è collocato volutamente nell’orbita degli ulissidi, ed è egli stesso cosciente di essere un erede del mitico navigatore del Mediterraneo, così come suo padre, marinaio anche lui, si era identificato con questi. La sua passione per l’Odissea, che Diamantis legge al figlio durante i periodi a terra, si inscrive in un profondo amore per il Mediterraneo, fonte di continue riflessioni che egli annota sul suo diario di bordo. Diamantis colloca se stesso in quella narrazione continua che è il poema omerico, tentando di leggervi il significato della propria esistenza e il proprio futuro:[…] In effetti l’Odissea non ha mai smesso di essere raccontata, da una taverna all’altra, di bar in bar:… e Ulisse è sempre fra noi. La sua eterna giovinezza è nelle storie che continuiamo a raccontarci anche oggi se abbiamo ancora un avvenire nel Mediterraneo è di sicuro lì. […] I porti del Mediterraneo… sono delle strade. Strade per mare e per terra. Collegate.Strade e città. Grandi, piccole. Si tengono tutte per mano. Il Cairo e Marsiglia, Genova e Beirut, Istanbul e Tangeri, Tunisi e Napoli, Barcellona e Alessandria, Palermo e…»Ritrovò infine il pensiero che lo assillava, e le parole per esprimerlo.«In realtà ci vuole una motivazione personale per navigare sul Mediterraneo»27.Per Diamantis, l’Odissea non è tuttavia l’unica fonte per la re-interpretazione e la riflessione sul Mediterraneo. Come emerge da una serie di luoghi testuali,egli è un personaggio intellettualmente complesso ed autoriflessivo, un portavoce dei pensieri e delle ricerche dello stesso Izzo sull’argomento. Molte delle osservazioni di Diamantis sul suo mare sono di natura colta, e vanno ben al di là della narrazione delle proprie storie (pur presenti, come quelle intorno alle tempeste e ai naufragi vissuti durante la sua ventennale vita in mare), o della ripetizione ossessiva delle vicende odissaiche, così come è di natura erudita la sua passione per gli antichi peripli marini. Per di più, Izzo traduce nel suo personaggio principale la propria conoscenza degli scritti di Fernand Braudel e di Predrag Matvejevic´, due studiosi menzionati esplicitamente dall’autore in una postilla al suo romanzo. Di chiara ispirazione matvejeviciana sono, infatti, passaggi come il seguente: Diamantis rinunciò a rituffarsi nelle sue carte nautiche. Le riordinò accuratamente. Ma prese ancora un appunto: «Il Mediterraneo non è solo geografia. Non è solo storia. Ma è più di una semplice appartenenza»28.Sia per la sua natura odissaica che per le sue riflessioni e passioni colte,Diamantis è un uomo profondamente mediterraneo, che come marinaio ha del resto rinunciato a navigare su altri mari, scegliendo di lavorare su delle vecchie imbarcazioni, inadatte ad essere utilizzate per il commercio navale dell’oceano.Diversamente da lui, Abdul Aziz, il capitano dell’Aldébaran, è pervaso da aspirazioni diverse, ovvero da quella ultra-omerica di “prendere” altri mari, di misurarsi con il più vasto Oceano, con l’altrove immenso e imprevedibile, come emerge dalle parole con cui egli interrompe il discorso, prima citato, di Diamantis sul Mediterraneo:«Io… per me, sì, per me, il Mediterraneo… il mare… Per me il mare è bello solo più in là. Una volta passata Gibilterra. L’oceano…»«E qual è la sua motivazione personale?» domandò Lalla a Diamantis.«Trovare me stesso, credo».Pensava a una frase di suo padre. «Tutto è ambivalente nell’animo dell’uomo» diceva.«Ma i duplici valori cercano di ritrovarsi in un luogo in cui i contrari facciano un tutt’uno».«O, più esattamente, riunire in me stesso tutto ciò. Ci si perde a non sapere chi siamo».«L’oceano» lo interruppe Abdul alzando la voce.Non sapeva bene cosa dire. Voleva soltanto riprendere il ruolo di protagonista. Porca miseria! Che era? L’anarchia? Era lui il comandante della nave.. E ne aveva comandate tante altre. Avevano il dovere di ascoltarlo! Voleva raccontare il mare. Quello vero. L’avventura.Non quella pietosa del povero Ulisse imbrigliato nei fili che il Mediterraneo, brutta troia di un ragno, tesseva intorno agli uomini. Era Penelope, quella troia di un ragno. Gli aveva annodato un filo alla caviglia a quel poveraccio. Il filo che alla fine l’avrebbe riportato a casa. Nelle braccia di Circe, nel letto di Calipso, Ulisse era legato a Penelope. Al suo tran tran familiare. Alla vita domestica. Il mare partoriva delle donne ragno. Delle Penelopi. Delle Penelopi e delle Céphée.L’oceano, l’avventura.«Solo altrove il mare è bello» ripeté alzando la voce 29.Il desiderio del capitano dell’Aldébaran di andare oltre, di recidere i legami fisici con il suo mare e quelli sentimentali con la sua Penelope, equivale alla tensione autodistruttiva di cancellare parte della propria identità, ricercata invece da Diamantis nel mar Mediterraneo. Una necessità, quella di Diamantis, che egli riesce a sintetizzare davanti alla giovane Lalla, con delle parole che irritano profondamente Abdul, spinto invece a perdersi e a cancellare il proprio passato per via della grande delusione ricevuta dalla moglie e dall’incapacità di uscire fuori dal circolo vizioso della sua erranza in mare. Sono entrambi dei “marinai perduti” – come lo è anche il giovane Nedim che diventa addirittura vittima della momentanea violenza (auto)distruttiva da parte di Abdul – ma ognuno in modo diverso: Abdul, nella sua cieca disperazione e con l’omicidio da lui commesso si immette nel vicolo cieco dell’illegalità e viene incarcerato, mentre Diamantis giunge attraverso un malinconico ripiegamento sul proprio passato e su una storia amorosa rimasta aperta, nonché attraverso le sue riflessioni sul suo mare, ad una presa di coscienza dei propri errori e dei propri limiti, salvando infine se stesso, anche grazie all’aiuto (ancora una volta, e molto all’insegna del suo mitico antenato) di una donna. Un aiuto e un’apertura verso un possibile futuro che, però, porta i connotati mediterranei della città nella quale, questa volta volutamente, Diamantis si è perduto, gustandone i profumi e i sapori e registrando i suoi tanti colori, le sue tante varietà umane che vi si mescolano in un movimento sensuale e creativo, in un “caos mondo” pieno di luce e di musica 30.Marsiglia diviene così una sorta di specchio e riassunto urbano di quella cultura del mare che Diamantis (e con lui l’autore di Marinai perduti) ama profondamente, diviene un’utopia realizzabile una volta che si è trovati accesso al suo linguaggio segreto, che si diventa esperti delle lingue che i suoi abitanti vi parlano. Il discorso di Izzo, in apparenza tanto aderente al presente della cultura mediterranea (e non privo di denunce rivolte al suo degrado, come emerge dalle vicende legate ai pignoramenti di navi, e alla speculazione illecita da parte delle compagnie di assicurazioni tramite delle messe in scena di naufragi), in realtà usa il passato (storico e mitico) di quella cultura come pietra di paragone da tenere sempre in mente («Il mare, continuò Diamantis, non lo si scopre mai da soli, e non lo si vede solo con i propri occhi. Lo si guarda come altri lo hanno visto, attraverso immagini e racconti che ci hanno tramandato», p. 36), trovando così un’apertura verso il futuro. Il tema del marinaio – un tipo umano capace di “ridisegnare il mondo” (p. 32) attraverso la conoscenza/esperienza del mare e della vita – riceve così, al di là delle sue variazioni relative ai singoli personaggi protagonisti del romanzo e nei suoi risvolti noir, un significato più profondo,ossia quello di un’utopia tratta dal presente vissuto con piena adesione e con l’idea momentanea ma illuminante che «tutto è possibile»31. All’eterno presente di Izzo, con le sue diramazioni verso il futuro e il passato,fa da contrappunto lo scavo nel passato attuato da Vincenzo Consolo, autore dai timbri ben diversi, più vicini alla polifonia della musica barocca, alla quale l’autore siciliano si avvicina anche per l’idea di conferire la stessa importanza a stili e linguaggi diversi (oltre quello narrativo, quello giuridico, quello aggistico-documentario, nonché la traduzione verbale di quello figurativo), gestiti con abile tecnica di incastro e con rimandi impliciti a temi e motivi comuni. Nel suo romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio, del 197632, Consolo alterna la narrazione vera e propria degli eventi legati alle rivolte di contadini e braccianti contro il potere dei feudatari, scatenatesi contemporaneamente all’arrivo dei garibaldini nel 1860, nonché quella di due scene che vedono al centro il barone Mandralisca e l’avvocato Giovanni Interdonato, entrambi favorevoli alla rivoluzione “dal basso” che aveva avuto un suo lontano preludio nei Vespri siciliani, a documenti politici e giuridici relativi agli stessi eventi, autentici o manipolati dallo stesso Consolo, a passaggi tratti da uno studio di malacologia, e infine alle trascrizioni di graffiti che i prigionieri politici, autori dei moti contadini, avevano lasciato inscritti sui muri del loro carcere sotterraneo. Ma più che approfondire la natura delle soluzioni linguistico-stilistiche de Il sorriso dell’ignoto marinaio, la cui struttura “a chiocciola” riflette, come è stato sottolineato da Cesare Segre, la tensione irrisolta dei rapporti sociali sulla quale è incentrata la riscrittura di questo episodio della storia siciliana da parte di Consolo, vorrei focalizzare l’attenzione sul Leitmotiv dell’ignoto marinaio da cui questa è attraversata 33. Intanto, l’identificazione dell’uomo del Ritratto di Antonello da Messina – realmente acquistato dal barone Enrico Pirajno di Mandralisca di Cefalù da uno speziale dell’isola di Lipari e a tutt’oggi conservato nel Museo Mandralisca della località siciliana – con un marinaio, non è affatto senza importanza per lo scrittore, come emerge da un suo recente scritto 34.Come commento alle vicende storiche da lui riscritte con un intricato patchwork di testi stilisticamente e linguisticamente molto eterogenei, Consolo sceglie quindi un elemento extratestuale, un’opera figurativa realmente esistente e in quanto tale rimando alla valenza sovra- e metastorica dell’arte. La scelta di ritrarre con le sue parole il famoso dipinto, piegandone il significato verso un’interpretazione che non può più prescindere dall’idea che l’uomo raffigurato sia un marinaio, è quindi di fondamentale importanza per la comprensione del testo nel suo insieme. L’immagine del marinaio consoliano viene così ad occupare, come direbbe Lea Ritter Santini, «lo spazio intermedio fra valore iconico e valore verbale», perdendo così la sua «innocenza e la sua univocità visiva» a favore di una accrescimento semantico e la trasformazione in una nuova “figura dell’immaginario”35.Ma vediamo come lo scrittore siciliano descrive il dipinto di Antonello, nel momento in cui il barone toglie il panno che lo copre, per mostrare il suo nuovo acquisto agli invitati:Apparve la figura d’un uomo a mezzo busto. Da un fondo verde cupo, notturno, di lunga notte di paura e incomprensione, balzava avanti il viso luminoso. Un indumento scuro staccava il chiaro del forte collo dal busto e un copricapo a calotta, del colore del vestito, tagliava a mezzo la fronte. L’uomo era in quella giusta età in cui la ragione, uscita salva dal naufragio della giovinezza, s’è fatta lama d’acciaio, che diverrà sempre più lucida e tagliente nell’uso ininterrotto. L’ombra sul volto di una barba di due giorni faceva risaltare gli zigomi larghi, la perfetta, snella linea del naso terminante a punta, le labbra, lo sguardo. Le piccole, nere pupille scrutavano dagli angoli degli occhi e le labbra appena si stendevano in un sorriso. Tutta l’espressione di quel volto era fissata, per sempre, nell’increspatura sottile, mobile, fuggevole dell’ironia, velo sublime d’aspro pudore con cui gli esseri intelligenti coprono la pietà. Al di qua del lieve sorriso, quel volto sarebbe caduto nella distensione pesante della serietà e della cupezza, sull’orlo dell’astratta assenza per dolore, al di là, si sarebbe scomposto, deformato nella risata aperta, sarcastica, impietosa o nella meccanica liberatrice risata comune a tutti gli uomini.Il personaggio fissava tutti negli occhi, in qualsiasi parte essi si trovavano, con i suoi occhi piccoli e puntuti, sorrideva a ognuno di loro, ironicamente, e ognuno si sentì come a disagio 36.Fin dalle prime battute della descrizione ekphrastica, il volto dell’uomo raffigurato viene “letto” all’insegna di una vivida e luminosa intelligenza; è una luce che si staglia da un fondo cupo, associato alla “notte di paura e incomprensione” che gli fa da contesto e contrasto. La metafora del naufragio in relazione alla giovinezza, dalla quale l’uomo è ormai uscito, costituisce l’unico collegamento allusivo con la sua (presunta) professione, che passa invece in secondo piano rispetto alla interpretazione della espressione del suo sorriso. Un sorriso ironico, appena accennato, che mette in comunicazione occhi e labbra, è il principale tratto distintivo di quel volto, un tratto del quale si sottolinea però la sfuggevolezza,la precarietà, ma anche la singolarità e il disagio che suscita nell’ osservatore.Tra dolore e pietà, tra sarcasmo e risata aperta e folle, l’ironia del marinaio è come una freccia lanciata fuori dal dipinto, e fa di lui l’osservatore di chi osserva, trasforma l’oggetto del quadro in soggetto, in “personaggio”, come lo stesso narratore sottolinea. Del resto, tutti gli astanti percepiscono la presenza del marinaio come presenza materiale di un personaggio che li segue con lo sguardo; il marinaio diventa così protagonista della scena “da salotto”, tant’è vero che essa, e insieme il primo capitolo, si conclude con le seguenti attute:«Barone, a chi sorride quello là» […]. «Ai pazzi allegri come voi e come me, agli imbecilli!» rispose il Mandralisca»37.La presenza del marinaio del dipinto, venuto anch’esso dal mare, «nel suo presumibile percorso da una Messina, già di forte connessione storica, cancellata dai terremoti, a Lipari, isola-regno d’esistenza, di mito, a Cefalù approdo nella storia e nella cultura»38, è rafforzata da quella di un personaggio che nella fabula del romanzo consoliano ricopre un ruolo di primo piano. Si tratta dell’avvocato Interdonato, il quale nel primo capitolo appare nei panni di un (presunto) marinaio, che il barone Mandralisca incontra sulla nave che lo riporta a Cefalù.Mentre gli spiega la natura e l’origine della malattia di un cavatore di pietra pomice, che viaggia insieme a loro, il misterioso marinaio mostra al barone il suo volto dal sorriso ambiguo, un volto che questi ricollega subito a un’immagine vista già altrove, e che nello svelamento del quadro, successivo all’ episodio di questo incontro, gli sarebbe nuovamente apparso:Il Mandralisca si trovò di fronte un uomo con uno strano sorriso sulle labbra. Un sorriso ironico, pungente e nello stesso tempo amaro, di uno che molto sa e molto ha visto, sa del presente e intuisce del futuro; di uno che si difende dal dolore della conoscenza e da un moto continuo di pietà. E gli occhi aveva piccoli e puntuti, sotto l’arco nero delle sopracciglia. Due pieghe gli solcarono il viso duro, agli angoli della bocca, come a chiudere e ancora accentuare quel sorriso. L’uomo era vestito da marinaio, con la milza di panno in testa, la casacca e i pantaloni a sacco, ma in guardandolo, colui mostra vasi uno strano marinaio: non aveva il sonnolento distacco, né la sorda stranianza dell’uomo vivente sopra il mare, ma la vivace attenzione di uno vissuto sempre sulla terra, in mezzo agli uomini e a le vicende loro. E,avvertitasi in colui, la grande dignità di un signore 39.Sono più che evidenti le corrispondenze lessicali tra la descrizione del dipinto e quella del personaggio “in carne e ossa”, le quali si concentrano nella natura,ironica, del sorriso, nella forma degli occhi (“piccoli e puntuti”), e nel vestiario,che nel ritratto dell’uomo a mezzobusto non è pienamente visibile, mentre viene associato esplicitamente all’abbigliamento tradizionale di un marinaio nel caso del personaggio incontrato sulla nave. Ma anche in questo caso, la caratterizzazione di questi è carica di un’ambiguità che va ben oltre quella del sorriso: benché vestito da marinaio, il personaggio non possiede la «stranianza dell’uomo vivente sopra il mare», ovvero quel distacco psicologico (caratteristico in chi vive quasi sempre lontano dal consorzio umano) dalle vicende della terra,dalle dolorose complicanze della storia, di cui egli sembra invece ben cosciente,osservatore interno e partecipe. La somiglianza tra l’Interdonato – rivoluzionario e uomo di contatto tra altri cospiratori fuggiti all’estero, che si era dovuto travestire da marinaio per ritornare in Sicilia, nonché fidanzato della figlia dello speziale di Lipari che aveva venduto il quadro al barone Mandralisca – e il marinaio antonelliano, è del resto sostenuta da una “teoria”, da un “gioco” delle somiglianze, tratto costitutivo, secondo Leonardo Sciascia della “sicilitudine”,come emerge dall’epigrafe (tratta dall’Ordine delle somiglianze) posta da Consolo in apertura del romanzo: «Il giuoco delle somiglianze è in Sicilia uno scandaglio delicato e sensibilissimo, uno strumento di conoscenza. […] I ritratti di Antonello “somigliano”; sono l’idea stessa, l’arché, della somiglianza […] A chi somiglia l’ignoto del Museo Mandralisca?».Sostenuta da tale “teoria”, il volto dell’ignoto e quello del presunto marinaio,richiamandosi a vicenda, divengono un ben visibile filo rosso che attraversa tutto il romanzo. Dopo aver constatato addirittura l’identicità dei due volti («Quelle due facce, la viva e la dipinta, erano identiche: la stessa coloritura oliva della pelle, gli stessi occhi acuti e scrutatori, lo stesso naso terminante a punta e soprattutto, lo stesso sorriso, ironico e pungente», p. 44), e dopo aver ricevuto delle delucidazioni intorno alle idee e azioni rivoluzionarie dell’ Interdonato, il barone Mandralisca continua ad associare entrambi i personaggi durante i momenti chiave dell’evolversi delle vicende politiche e rivoluzionarie, di cui egli sarebbe stato osservatore esterno. Un “gioco”, il suo, che di fatto è uno strumento di conoscenza, in quanto egli sposa con convinzione crescente gli ideali dello stesso Interdonato, provando man mano disgusto per le proprie occupazioni di collezionista e studioso di lumache e di antiquaria. Come se avesse ricevuto un importante stimolo da quel sorriso ironico, nel barone avviene un’evoluzione interiore che lo porta verso delle riflessioni sugli eventi storici contemporanei, nonché sulla stessa natura della storia in quanto racconto di singole vicende selezionate e a noi tramandate. Difatti, egli giunge a giudicare la scrittura storica l’opera di illuminati e di privilegiati e in quanto tale una vera e propria “impostura” su coloro che invece partecipano attivamente a quelle vicende, senza avere le possibilità materiali ed intellettuali di narrare la propria storia, preservandola da ogni distorsione successiva 40. Non solo, all’interno di tale riflessione (auto)critica intorno alla propria “casta” di intellettuali, nobili in questo caso ed illuminati, la quale sfocia nell’unica possibile azione fattiva del barone, ossia in quella di destinare i suoi beni ad una scuola e ad un museo, egli arriva anche a rileggere lo sguardo e il sorriso ironico del misterioso personaggio del quadro, dando maggiore rilievo al suo «distacco, lontananza […], d’aristocrazia, dovuta a nascita, a ricchezza, a cultura o al potere che viene da una carica…» (p. 117); e ancora: di fronte alla trascrizione, da parte del barone, dei graffiti carcerari degli autori della violenta sommossa di Alcalà de li Fusi, quel sorriso sembra volgersi addirittura in «greve, sardonico, maligno» (p. 120).Perciò, proprio per via della natura sempre più sociale ed etica di tale interpretazione,agli occhi del barone l’ignoto marinaio sembra riassumere nel suo volto quelli di numerosi esponenti delle classi elevate e degli intellettuali ed artisti del luogo: dal pittore al vescovo al ministro al direttore della polizia, fin allo stesso Mandralisca, colpevoli, anche nel caso di una concordia ideologica con la povera gente, di un senso di superiorità e di distacco.Il volto dell’Ignoto, da immagine figurativa, e passando per quella verbale,diventa quindi un importante Leitmotiv del romanzo, nonché metafora del distacco ironico ed illuminato, preso in prestito dall’eterna distanza del marinaio,caratteristico dei ceti superiori e degli intellettuali, destinati a rimanere separati dal popolo e da chi si oppone alla stessa divisione in classi, nonché al concetto di proprietà («La proprietà, Interdonato, la più grossa, mostruosa, divoratrice lumaca che sempre s’è aggirata strisciando per il mondo», p. 118). Un Leitmotiv marino che, nella sua valenza di “forma dell’esperienza”, di un’esperienza direi spiccatamente etica e sociale, è affiancato da uno prettamente terrestre,collegato fin dapprincipio alla figura del barone, più che a quella dell’ Interdonato,che con la sua capacità di fare comunque da ponte tra i rivoltosi e il nuovo establishment politico, nonché con quella di agire concretamente in loro favore (salvando loro la vita con il decreto sull’amnistia), conserva la sua qualità marinaresca dell’ambiguità sociale, ma anche dell’azione concreta. Si tratta del Leitmotiv metaforico della chiocciola, che dapprima viene collegata all’occupazione privilegiata del barone, ossia allo studio e alla schedatura delle lumache terrestri e fluviali di quella regione siciliana. Da metafora della mente illuminata dello studioso nobile, e sotto influenza di figure affini quali la spirale e il labirinto (nella loro lettura calviniana ed antropologica) 41, la chiocciola rivela poi, nel corso della narrazione, la sua natura sia centrifuga che centripeta, e viene via via associata a forze contrapposte come la vita e la morte, la libertà e le costrizioni/prigioni, la creatività e l’ossessione infertile. Infatti, di fronte agli eventi di Alcalà de li Fusi, il barone decide di abbandonare i suoi studi, schiacciato dall’idea che le sue lumache possano simboleggiare tutto ciò a cui egli,ormai, cerca di opporsi razionalmente, scegliendo la strada (centrifuga) della vita e della libertà, malgrado egli non riesca a volgere quella maturazione interiore in vera azione:E son peggiori de’ corvi e de’ sciacalli, le lumache, le creature belle, ermafrodite: temono il sole, distruggono i vivai e le colture, si nutrono financo di liquami, decomposizioni, umori cadaverici, s’insinuano in carcasse, ne spolpano le ossa, ricercano ne’ teschi le cervella, il bulbo acquoso nell’orbita dell’occhio… e non per caso i Romani le mangiavan ne’ pasti funerarî Al di là del fascino barocco esercitato da passi come questo – veri e propri risultati della natura strutturalmente e linguisticamente “formante” attribuibile non solo al tema ma anche al Leitmotiv – va quindi sottolineato che la narrazione da parte di Consolo della Sicilia e con essa del suo Mediterraneo è fortemente improntato sulla dialettica tra metafore marine, e marinare, e quelle terrestri, le quali si sviluppano come veri e propri Leitmotive che attraversano tutto il romanzo.Espressione del contrasto tra la cancellazione della storia nel “breve mare”43 che bagna l’isola, e l’ingiustizia sociale, costante storica, connessa all’impossibilità di intaccare radicalmente i poteri secolari che vi sono radicati, tali forme formanti dell’esperienza chiamano in causa i nessi tra storia e attualità, tra il passato e il presente, permettendo altresì delle riflessioni sul ruolo dell’intellettuale nel passato e su quello che egli occupa oggi, sulle sue capacità di osservare e di giudicare gli eventi politici e sociali, con lieve sorriso ironico, e sulla sua incapacità di intervenire, di agire, di prendere radicalmente posizione. Una dialettica irrisolta e produttrice di ambiguità, quella consoliana, che si trasferisce sul piano stilistico e narrativo nella rappresentazione ekphrastica di luminosi quadri di mare e di porti,concentrati nella prima parte del romanzo, alla quale si oppone nel cap. VIII la lunga descrizione della buia prigione sotterranea a forma di chiocciola, o spirale,dove i rivoltosi di Alcalà erano stati a lungo detenuti. Un’ambiguità che sembra tradursi definitivamente in sconfitta, nella rassegnata sovrapposizione delle due metafore, quando il barone esclama infine: «Ho capito: lumaca, lumaca è anche quel sorriso» (p. 118). Ambiguità mai risolta, però, visto che dal centro del quadro di Antonello da Messina, il sorriso del marinaio, rivolto per un attimo verso se stesso e avviluppatosi in un mortale movimento centripeto, può nuovamente riprendere la sua forza centripeta, ironica ma vitale, liberatoria.Arriviamo alla terza intrecciatura della nostra treccia marinaresca e mediterranea mediante la narrazione da parte di Consolo (amante di antefatti e di appendici) di un episodio che, a sua insaputa, costituisce l’antefatto del romanzo di Waciny Larej:E lui [Cervantes], il pellegrino d’Italia, il soldato di Lepanto, lo schiavo di Algeri, aveva frequentato la Sicilia. S’era imbarcato a Messina con l’Invincibile Armada, nella città dello Stretto aveva curato le sue ferite, aveva soggiornato a Palermo, a Trapani (nella novella El amante liberal è evocata questa città); nei bagni d’Algeri diveniva compagno di pena ell’avventuroso poeta siciliano Antonio Veneziano. Nella spianata delle moschee, dov’erano i bagni, i due udivano attraverso le grate la filastrocca che i bambini della casbah crudelmente cantavano nella franca lingua dei porti mediterranei: Non rescatar, non fugir
Don Juan no venir
Acá morir 44.
Nell’affacciarsi sulla grande agorà del mare di mezzo, echeggiante della lingua franca dei marinai e degli abitanti dei porti, gli scrittori provenienti dai diversi angoli di questo mare ascoltano e ri-narrano storie come questa, una storia vera che appartiene al comune patrimonio culturale e letterario di questa regione, e che, nel diventare parte dell’immaginario personale di un autore,viene rinnovata e re-immessa in quello di una comunità più ampia, sopranazionale ed interculturale. Nella sua triangolazione spagnolo-italo-algerina, l’avventurosa vita dello scrittore Miguel de Cervantes, è qui ripresa molto sinteticamente dal punto di vista siciliano, mentre, a partire dal suo versante algerino,essa viene rielaborata in modo diverso da Waciny Larej, in Don Chisciotte ad Algeri 45. Il romanzo, una attualizzazione delle mitiche vicende intorno allo scrittore spagnolo, è incentrato sul viaggio ad Algeri che Vásquez de Cervantes de Almería, lontano discendente di Miguel de Cervantes, intraprende con l’obiettivo di ripercorrere le tracce del suo famoso avo. In tutto somigliante a Don Chisciotte, la famosa creatura letteraria di Cervantes, Vásquez de Cervantes si presenta al signor Hsissen, funzionario del Ministero della Cultura, dove si occupa delle relazioni (pressoché inesistenti) ispano-algerine. Al termine di un “folle viaggio” che lo ha portato da Valladolid e Madrid a Napoli, Palermo e Genova e poi a Marsiglia, per poi imbarcarsi su una vecchia nave da commercio carica di zucchero da canna per giungere ad Algeri, lo spagnolo chiede a Hsissen di condurlo ai luoghi in cui il suo avo era vissuto per cinque anni come prigioniero. L’obiettivo del moderno Don Chisciotte, di professione giornalista,è quella di ripetere l’avventuroso viaggio di Cervantes «senza passare per le solite vie, […] in modo da riuscire a comprendere le sue sensazioni, le sue paure, e scrivere qualcosa sulle città che aveva amato e in cui aveva vissuto»46.Fondamentale in ciò è da lui considerato l’arrivo dal mare, la registrazione delle sensazioni che il “capitano” Cervantes, il quale aveva partecipato come soldato di marina alla battaglia di Lepanto, aveva provate durante la misteriosa cattura della sua nave da parte dei corsari:Per tornare al viaggio, mi interessava vedere il punto in cui Miguel e il fratello Rodrigo furono catturati. Quando il capitano me lo indicò provai strane sensazioni. Mi parve persino di sentire le urla, subito inghiottite dal mare, dei passeggeri della sfortunata imbarcazione. Mi rendevo conto che il mare è in grado di conservare misteriose ombre, mentre la terra cancella tutto 47.Difatti, la perlustrazione di Algeri, e in particolare dei luoghi in cui si era trovato Cervantes secoli prima, intrapresa dai due uomini, è una conferma dell’idea che “la terra cancelli tutto”. Algeri, la città un tempo tanto amata da Hsissen, assomiglia ormai ad un labirinto dalle mille paure e vie senza uscita,costellato da ombre minacciose che controllano ogni loro movimento, nell’impresa rischiosa e “folle”, anch’essa, di percorrerla per motivi di turismo, per di più culturale. La grotta di Cervantes, un tempo luogo di culto e di attrazione per i visitatori della città, è ora decaduta a mondezzaio, la targa commemorativa dello scrittore è conservata in una discarica, dove Hsissen e Don Chisciotte scoprono dei traffici illeciti e mafiosi intorno ai beni culturali del paese, da anni misteriosamente scomparsi.Condotta in prima persona dal punto di vista di Hsissen, la narrazione delle sue giornate trascorse con Don Chisciotte alla scoperta dei tesori “spagnoli” di Algeri è fin dapprincipio offuscata dalle violenti rappresaglie che egli dovette subire a causa della sua amicizia con il misterioso erede di Cervantes. Nel primo capitolo del romanzo (corredato come tutti gli altri con un breve riassunto del suo contenuto, ad imitazione del romanzo cervantino), Hsissen si presenta come caduto in una profonda solitudine, dopo essere stato licenziato e poi crudelmente mutilato (i misteriosi terroristi da lui denominati “figli di cane” gli hanno amputato la lingua e il pene); una solitudine alleviata solo dalla scrittura,che tuttavia non può impedirgli di formulare il desiderio di suicidarsi:Con la lingua mozzata e il pene reciso, credo di non aver altra scelta che accogliere l’invito delle onde, di quest’azzurra immensità, che tutte le sere mi ricordano l’isolamento e la solitudine in cui mi trovo e la paura, profonda e palese, in cui vivo. Non mi rimane altro che gettarmi in questo mare che guarda il mio silenzio 48.Nelle pagine che seguono, e in cui si inizia il racconto retrospettivo delle vicende che lo hanno condotto verso tale terribile destino, Hsissen attribuisce molta importanza alla sua profonda passione per la Spagna, che ne fa un personaggio speculare rispetto a Don Chisciotte, l’alter ego algerino del discendente di Cervantes. Difatti, Hsissen, è discendente di un morisco di Granada, un bibliotecario che nei tempi “bui” della reconquista era stato cacciato dalla sua Spagna. Da sempre, egli “sogna” l’altra sponda mediterranea, un sogno alimentato dalla nonna che abita con lui e che si è ricostruita in casa una piccola Granada, circondandosi di fiori di Cassia (fiore-simbolo di Carmen) importati secoli prima quando il loro avo ne portò con sé i semi. L’affinità tra l’algerino Hsissen e lo spagnolo Don Chisciotte, entrambi profondamente segnati dalla discendenza da un avo mitizzato, la quale porta i tratti distintivi di un’alterità da loro introiettata a tal punto da divenire delle personalità di “irregolari” che per tutta la loro vita hanno guardato altrove, è sostenuta da una sorta di “teoria della parentela”, che trova il suo corrispettivo nella teoria consoliana della “somiglianza”. Laddove, in Consolo, la somiglianza con il marinaio ritrattato portava alla circoscrizione di un tipo umano, quello dell’intellettuale distaccato, del nobile illuminato, osservatore ironico degli eventi storici, in Larej la parentela con degli avi famosi e mitizzati conduce, oltre a creare una “somiglianza”, consoliana,tra i due personaggi principali, alla sovrapposizione del destino del personaggio contemporaneo con quello dell’avo, ad una ripetizione costrittiva della storia e delle vicende singolari che ne sono stati tramandati, in famiglia (nel caso dell’avo di Hsissen) o nei racconti autobiografici e biografici (nel caso di Miguel de Cervantes).Intanto, e prima ancora di “compiere” il destino del proprio avo, inseguito da Hsissen con la passione per la lingua spagnola e da Don Chisciotte con il viaggio intrapreso per seguire le orme di Cervantes, e nell’incrociarsi dei loro sguardi tra Spagna ed Algeria, i due tracciano una “riscrittura” della stessa città di Algeri: dal suo interno, il degrado della «magnifica città senza senso, uccello libero; meretrice amata» (p. 14) è registrato dal disilluso Hsissen, mentre Don Chisciotte ne esalta e riscopre le bellezze nascoste, ritrovandovi – nonostante i tanti paradossi con cui egli si scontra durante la sua ricerca dei luoghi cervantini – il suo luogo ideale («Il sole di questa città è insopportabile. Il mare era agitato oggi. Il porto quasi deserto. Mi sento leggero come una piuma di pavone variopinta. Assaporo la gioia di vivere. Godo l’irripetibile occasione della vita. Ci è data una volta sola», p. 135). Una idealizzazione, la sua, che nasce dal continuo confronto con il passato, dalla speranza di farlo rinascere insieme alla sua personale ripetizione delle vicende che avevano visto Cervantes prigioniero ad Algeri. Quando, contemporaneamente al licenziamento e al crescendo di minacce di cui è interessato Hsissen, Don Chisciotte viene infine arrestato e incarcerato,egli si ritrova in una situazione da lui, forse inconsciamente, prevista e ricercata.Diversamente che nel caso del suo alter ego algerino, il compiersi del suo destino “parentelare” lo conduce non verso la disperazione suicida, bensì verso la piena realizzazione del suo progetto di vita, ossia una vicinanza inaspettata e suggestiva con il mitico avo.Cambia, infatti, il punto di vista della narrazione nel momento in cui Don Chisciotte viene arrestato, e tutto il cap. V è costruito in forma di taccuino, nel quale egli trascrive le sue esperienze fatte fin dalla partenza da Almería, in Spagna, rifacendosi volutamente alla commedia El trato de Argel (del 1580), in cui Cervantes tradusse i suoi anni algerini nella messa in scena barocca delle vicende di diversi cristiani catturati dai “mori”. Nelle pagine del taccuino del moderno Don Chisciotte emerge quindi con insistenza il motivo della nave,mezzo con cui sia lui che il suo avo sono giunti ad Algeri, entrambi in circostanze misteriose, entrambi condotti o traviati da marinai e corsari, che qui si profilano come i responsabili “materiali” delle vicende ispano-algerine dei due personaggi,custodi di segreti difficilmente comprensibili dagli uomini di terra.Apparso già precedentemente nel romanzo, la figura del marinaio/corsaro, “traduttore”di personaggi di varia provenienza verso esperienze inattese e luoghi sconosciuti, si configura quindi come un importante motivo che rafforza il legame parentelare e di somiglianza non solo con Cervantes, ma anche con altri scrittori ed avventurieri che subirono la stessa sua sorte 49. I marinai in Larej,autori della secolare translatio mediterranea non solo di beni ma anche di personaggi di varia provenienza, “tradotti” da una riva all’altra, deviati dai luoghi di destinazione, catturati e trattenuti in porti sconosciuti che echeggiano di lingue diverse, sono del resto descritti come i protettori dei misteri del mare, come i custodi dei segreti che esso cela ai naviganti “per caso”, e che loro possono rivelare quando decidono. Così, alla vista del luogo in cui fu catturato Cervantes il 26 settembre 1575, il moderno Don Chisciotte, durante il tragitto che lo porta verso Algeri, è posto dallo stesso capitano della nave davanti ad un segreto indecifrabile, mai rivelato in letteratura o in storia, ma custodito ancora dal mare che bagna gli scogli coperti, come da secoli, dai gabbiani:– Il punto è questo. Vedi i gabbiani, Sono sempre qui, d’estate e d’inverno. È qui che i corsari hanno assalito la nave El Sol e catturato Cervantes.[…]– Sai capitano? Ho avuto una visione, ho visto la cattura di Cervantes e dei suoi compagni! Avverto la sua presenza, avverto il silenzio e il tremore causato dalla paura.Guardo le onde e vedo il fascino dell’avventura e dello smarrimento e sento, oltre il loro infrangersi sulle rocce, le urla delle donne cadute preda dei giannizzeri del mare! Il capitano aveva guardato i flutti che lambivano lo scafo, poi si era fregato le mani e come uno che la sa lunga aveva detto:– Amico mio, io sono un marinaio e i marinai conoscono il mare. Cervantes doveva sapere i rischi che correva. Mi chiedo piuttosto come sia stato possibile farsi sorprendere in un tratto ben conosciuto. C’è qualcosa di misterioso in tutto questo. Qualcosa di non detto, forse per paura, forse per amore. – È l’estro dello scrittore geniale infatuato del mare!– Questo non spiega il mistero. Mah! La questione è troppo complicata! Entriamo, fa molto freddo 50. Del resto, il marinaio come figura di scambio, di custode e di traduttore esperto dei segreti del mare e con essi delle dimensioni più profonde della vita 49 Durante la visita della discarica da parte di Hsissen e Don Chisciotte, il suo direttore, interrogato sulle vicende algerine di Cervantes, narra il caso parallelo del poéta francese Jean-François Régnard, catturato anch’egli dai corsari e imprigionato ad Algeri nel 1679,circa un secolo dopo lo scrittore spagnolo, nonché di altri avventurieri che subirono la stessa sorte (vedi ivi., pp. 65-69). 50 Ivi, pp. 138-139. dell’uomo (come la paura e l’amore, a cui allude il capitano), nell’ambito del Mediterraneo è allo stesso tempo figura di traduttore tra le diverse culture che si affacciano su questo mare “interno”, e fin dal secolo in cui visse Cervantes, il XVI, inventore e propagatore di una lingua transculturale che unisce in sé le lingue parlate in tutti i suoi porti: la lingua franca. Fortemente improntata sullo spagnolo (come risulta anche dal testo che poco avanti abbiamo visto citato in Consolo), sull’arabo e sul turco in una prima fase – ossia in quella di poco successiva all’insediamento, nel 1510, di corsari turchi guidati dal pirata Khair Ed-Din Barbarossa ad Algeri che per diversi decenni divenne il più temuto covo di pirati del Mediterraneo – la lingua franca riflesse nel suo lessico il contatto e lo scontro continui tra i corsari musulmani e gli spagnoli che nello stesso secolo avevano occupato molte parti della costa maghrebina. Mescolatosi, ancora nel corso del sec. XVI, in misura crescente con l’italiano (nella sua variante veneta e genovese,soprattutto), e con il francese, la lingua franca (da vero e proprio pidgin dai tratti linguistici autonomi e stabili) divenne durante i secoli seguenti il dialetto parlato,fino ad oggi, ad Algeri e a Malta, noto a partire dalla fine del secolo XIX (insieme alla colonizzazione francese del Maghreb) come “sabir”, e sempre di più assimilato alle singole varianti arabe nazionali nonché alle lingue coloniali 51.Per tornare al romanzo di Larej, la soluzione dell’arcano cervantino custodito dal mare, non appare molto lontana dalla ipotesi del capitano della nave sulla quale viaggia il moderno Don Chisciotte: una delle cause della cattura e della lunga permanenza ad Algeri potrebbe essere stato l’amore per una donna, la Zoraide di cui Cervantes parla in diversi luoghi, una giovane “mora”, prigioniera degli stessi corsari che avevano catturato lo scrittore spagnolo. Un’esperienza,quella amorosa, che si riavvera nuovamente nel discendente di Cervantes,quando egli conosce durante gli interrogatori da parte dei suoi carcerieri una traduttrice algerina che gli viene affiancata, una donna che gli rievoca la Zoraide cervantina e che è da lui amata come il suo avo aveva forse amato la giovane mora: da lontano, nell’ammirazione estasiata della diversità, della bellezza esotica e irraggiungibile, e nella sua associazione con il mito algerino della “Guardiana delle ombre”, un mito appreso da Hsissen e da entrambi ripensato e ri-sognato nei termini della speranza per un futuro migliore della città.Ripartendo da Algeri, ancora una volta per mare («chi entra in Algeria per mare viene espulso per mare», p. 179), Don Chisciotte porterà con sé questo suo segreto insieme a quello di Cervantes, concludendo: Ormai questa narrazione non riguarda più Cervantes ma me stesso e la storia degli abitanti di questa città che è come un’isola, per alcuni versi grande come una stella, per altri piccola come la cruna di un ago 52. Nel suo passaggio da tema a Leitmotiv e a motivo, la figura del marinaio nei tre autori mediterranei presi in esame riceve delle modulazioni diverse, rivolte nel caso di Izzo maggiormente verso i suoi aspetti esistenziali e mitici, di derivazione omerica, in Consolo verso quelli metaforici, a cui lo scrittore giunge tramite lo sfruttamento della tecnica ekphrastica e l’applicazione della teoria “siciliana” della somiglianza, e in Larej verso l’incarnazione dell’idea di uno scambio tra le culture, e di quella di una sovrapposizione metonimica tra il marinaio e il mare. In tutti e tre gli autori, un importante fattore che incide sulle diverse modulazioni della stessa figura letteraria è rappresentato dall’incrocio tra il tempo presente con quello storico, un incrocio sul quale incidono in varia misura le narrazioni mitologiche e letterarie del Mediterraneo e che in tutti i casi è caratterizzato da aperture utopistiche e visioni del futuro che si nutrono di una rivisitazione meditata del passato: in Consolo il passato “illustra” il presente (tramite una vera e propria illustrazione figurativa), mentre in Izzo e Larej il presente è memoria attiva, vivida del passato, di cui esso offre una interpretazione nuova. Oltre ad essere quindi crocevia delle diverse dimensioni temporali, il marinaio diviene la chiave di lettura non solo dello spazio e della cultura del Mediterraneo, ma anche stimolo verso l’interpretazione originale del proprio senso di appartenenza a tale spazio e a tale cultura, la quale nel caso di Izzo e di Larej si manifesta principalmente nella riscrittura dello spazio urbano della città portuale in cui gli stessi autori vivono, mentre in Consolo è volta maggiormente verso la rielaborazione di problematiche storico-identitarie che caratterizzano la sua Heimat insulare, la Sicilia. Attraverso la ripresa variamente modulata della figura del marinaio, la narrazione della cultura e della storia mediterranea vede quindi negli autori provenienti da diverse aree della grande regione mediterranea,l’introduzione di una pluralità di aspetti nuovi che, a partire dall’elaborazione di problematiche connesse alla patria più ristretta, interessano un comune e più vasto discorso identitario ed interculturale. Un intreccio – ancora una volta marino e condotto nel grande spazio della letteratura – tra la coscienza di appartenere ad un microcosmo che non può non aprirsi al macrocosmo della pluralità di mari, di oceani e di continenti con cui è in relazione, come potremmo dire parafrasando Vincenzo Consolo:Lo spazio nella letteratura è vasto quanto il mondo, varca a volte i confini stessi del mondo. Diventa infinito. Dobbiamo allora giocoforza navigare per il breve mare, il Mediterraneo, muoverci per una esigua terra, l’Italia, dei quali abbiamo maggiore cognizione,con la consapevolezza tuttavia che questo mare e questa terra non sono separati da oceani e continenti, che con essi hanno relazioni, ad essi e da essi danno e ricevono esperienza e conoscenza 53.E allora, a partire dall’idea del Mediterraneo come complesso incrocio di mondi e come ponte verso mondi remoti ma ad esso collegati, viene voglia di partire con moto odissaico, dantesco, verso l’oceano e la vastità di altri mari. Per interrogarsi, magari, sui marinai di Fernando Pessoa e di José Saramago,che a sorpresa aprono lo spazio letterario non tanto verso geografie reali quanto verso quelle puramente immaginarie, introducendo delle note esistenziali nel trattamento di tale figura, che stupiscono per la loro delicatezza e per l’aspirazione alla scoperta di verità profondamente umane: l’esperienza dell’esilio come cifra della vita umana e l’amore come il suo estremo ideale e utopia 54. Ma conviene, per questa volta, calare le vele e non superare le Colonne di Ercole.



1 «Il dolce e classico Mediterraneo privo di mestieri, fatto apposta per sciabordare / contro terrazze guardate da statue bianche in giardini contingui!» (da “Ode marittima”, tr. it. di A. Tabucchi).2 Tale espressione è stata usata da A. GNISCI in “La rete interletteraria mediterranea”,saggio compreso in D. DURIS ˇIN, A. GNISCI (a cura di), Il Mediterraneo. Una rete interletteraria,Roma, Bulzoni, 2000, pp. 29-40.3 Dello scrittore martinicano E. GLISSANT si veda in particolare Introduction à une poétiquedu divers, Paris, Gallimard, 1996; tr. it. (a cura di F. Neri), Poetica del diverso, Roma,Meltemi, 1998.4 È d’obbligo citare a questo proposito P. MATVEJEVIC ´, Il Mediterraneo. Un nuovo breviario,Milano, Garzanti, 1993, e in particolare il cap. II, “Carte”, pp. 139-198, dedicato ai peripli marini e alle cartine nautiche.5 Recenti tentativi pseudoscientifici di trasferire l’ambientazione di una ipotetica “reale”odissea nel Mar Baltico, portano il segno di una doppia assurdità: l’attaccamento ad un presunto statuto di realtà del poema, e la negazione dell’evidenza della sua location greco-mediterranea:faccio soprattutto riferimento al libro di F. VINCI, Omero nel Baltico, Roma, Fratelli Palombi Ed., 19982. La mediterraneità del poema omerico è stata, peraltro, ben riconosciutada chi lo ha riattualizzato a partire da contesti culturali distanti come quello caraibico: vedi ad esempio il poema di D. WALCOTT, Omeros (tr. it. di A. Molesini, Omeros, Milano, Adelphi,2003), e il romanzo Los pasos perdidos di A. CARPENTIER (tr. it. di A. Morino, I passi perduti,Palermo, Sellerio 1995).6 A proposito di questo concetto mi permetto di rinviare al mio libro Ulisse tra due mari.Le riscritture novecentesche dell’Odissea nel Mediterraneo e nei Caraibi, Isernia, Cosmo Iannone 2006, e nello specifico alle pp 14-19; foundational fiction è un’espressione usata daHOMI K. BHABA in Nation and Narration, London/NewYork, Routledge, 1993, p. 5; tr. it.Nazione e Narrazione, Roma, Meltemi, 1997.7 Vedi la testimonianza diretta di uno dei riscrittori italiani dell’Odissea, lo scrittore,recentemente scomparso, Luigi Malerba: nel breve Post Scriptum al suo romanzo Itaca per sempre, egli fa infatti riferimento alla performance di un cantastorie greco incontrato sull’Isola di Corfú, un incontro che fece da importante stimolo alla composizione del suo romanzo. Cfr. L. MALERBA, Itaca per sempre, Milano, Mondadori, 1997, p. 183-185.8 Mi riferisco ovviamente all’omonima pièce saviniana, del 1925, ripubblicata da Adelphi nel 1989.9 Vedi a questo proposito la voce “Marinaio” di C. SPILA, per il Dizionario dei temi letterari,a cura di R. CESERANI, M. DOMINICHELLI, P. FASANO, Milano, UTET, 2007, pp. 1422-1429. Una originale sovrapposizione tra il mito di Ulisse e quello di Sindbad è stata attuata da Stefano Benni e Paolo Fresu in Sagrademari. La storia di Odisseo Sinbad perduto in mare (il testo di questo lavoro letterario-musicale in lingua sarda è consultabile all’indirizzo www.stefanobenni.it/inediti/sagrademari.html). 10 Come è stato giustamente osservato da Cristiano Spila con riferimento a Walter Benjamin, il marinaio è uno dei principali “maestri del racconto” (cfr. C. SPILA, “Marinaio”,cit., p. 1423).11 Cfr. E. LEED, La mente del viaggiatore: dall’Odissea al turismo di massa, Bologna, Il Mulino, 1992, p. 14. Difatti, o meglio paradossalmente, mentre Spila, nella sua voce del DTL sopra citata,non usa mai la dizione “tema” in riferimento ai “suoi” marinai, essa risulta pur sempre come uno dei temi schedati dai curatori del Dizionario. Non credo infatti che nel caso di Moby Dick di Melville né in quello della Ballata del vecchio Marinaio di Coleridge, per indicare solo due testi esemplari, si possa ragionevolmente sostenere che si tratti di opere in cui venga sviluppato il tema del marinaio. Piuttosto, i temi in essi trattati sono quelli della ribellione metafisica (Melville) e della vita come perpetua erranza, vista come redenzione (Coleridge), come lo stesso Spila sostiene. Né, credo, un attento studioso di tematologia come Mario Domenichelli sarebbe del resto d’accordo nel creare una tale, facile, equazione.13 Vedi M. DOMENICHELLI, “I temi e la letteratura europea”, in M. DOMENICHELLI, P. FASANO,M. LAVAGETTO, N. MERLA (a cura di), Letture e riflessioni critiche, vol. I degli Studi di Letterature Comparate in onore di Remo Ceserani, Roma, Vecchiarelli editore, 2003, pp. 125-143.14 Cfr. ivi, p. 131. La citazione da Segre è tratta dal suo Avviamento all’analisi del testo letterario, Torino, Einaudi 1985, p. 348. Per una presentazione critica della storia della tema-18,tologia a partire dalla Stoffgeschichte di stampo positivista e della discussione delle principali correnti internazionali emerse più recentemente vedi il fondamentale contributo di A.TROCCHI, “Temi e miti letterari”, in A. GNISCI (a cura di), Letteratura comparata, Milano,Bruno Mondadori, 2001, pp. 63-86.15 Cfr. M. DOMENICHELLI, art. cit., p. 132.16 Ivi, p. 133.17 «La géocritique est ensemble une théorie et une méthodologie innovante qui permet l’étude des représentations esthétiques des espaces humains. Elle sonde en particulier le lien entre le référent et ses représentations. La géocritique repose sur trois prémisses théoriques distinctes mais complémentaires: la spatio-temporalité, la transgressivité et la référentialité»,cfr. B. WESTPHAL, “Géocritique”, in La Recherche en Littérature générale et comparée en France en 2007. Bilan et perspectives, études réunies par A. TOMICHE et K. ZIEGER, Valenciennes,Presses Universitaires de Valenciennes, 2007, pp. 325-345. Per approfondimenti teorico-metodologici vedi inoltre B. WESTPHAL, “Pour une approche géocritique des textes:esquissse”, in La Géocritique mode d’emploi, éd. B. WESTPHAL, Limoges, Presses Universitaires de Limoges, 2000, éd. 9-39; lo stesso articolo è stato ripreso nella Bibliothèque comparatiste,www.vox-poetica.org Per l’area mediterranea, si veda inoltre Le Lieu et son mythe. Une géocriqtique méditerranéenne,éd. B. WESTPHAL, Limoges, Presses Universitaires de Limoges, 2002.18 Tr. it. Letteratura europea e Medio Evo Latino, Firenze, La Nuova Italia, 1992.19 Per l’analisi critica e l’esemplificazione antologica di tale concetto si veda il fondamentale contributo di F. SINOPOLI, Il mito della letteratura europea, Roma, Meltemi, 1999.20 Faccio riferimento al libro di M. BERNAL, Atena nera, Milano, Pratiche, 1997.Notevole anche il libro di S. MARCONI, Reti mediterrane. Le censurate matrici afro-mediorientalidella nostra civiltà, Roma, Gamberetti, 2003.21 Intorno alla necessità etica di superare l’eurocentrismo, non solo sul piano degli studi letterari, sono state indicate diverse vie da A. GNISCI in Via della Decolonizzazione europea,Isernia, Cosmo Iannone, 2004, in Mondializzare la mente. Via della Decolonizzazione europea n. 3, Isernia, Cosmo Iannone, 2006 e in Decolonizzare l’Italia, Roma, Bulzoni, 2007.22 Per Flammarion, Paris. La traduzione italiana (della quale purtroppo non si segnala l’autore) è apparsa nel 2001 per e/o, Roma, sotto il titolo Marinai perduti.23 L’opera di Izzo è disponibile in traduzione presso la stessa casa editrice romana.24 Per la comprensione della poetica dell’autore marsigliese, fortemente influenzata dall’opera del poeta-marinaio marsigliese L. Brauquier, rimando soprattutto alla raccolta di tredici brevi scritti (ai quali si aggiunge un testo tratto dalla raccolta di racconti Vivere stanca,Roma, e/o, 2007) intitolata Aglio, menta e basilico. Marsiglia, il noir e il Mediterraneo,Roma, e/o, 2006. Da segnalare anche il ben informato articolo di L. SULIS, “Jean-Claude Izzo”, in «Pulp libri», n. 65, gennaio/febbraio 2007, pp. 61-65.25 Cfr, J.-C. Izzo, Marinai perduti, cit., p. 11.26 Ivi, p. 9.97 27 Ivi, p. 238.28 Ivi, p. 116. Il corrispettivo testuale si trova in P. MATVEJEVIC ´, Il Mediterraneo. Nuovo Breviario, cit., p. 18. Altri riferimenti più o meno diretti ad idee ricorrenti negli scritti di Matvejevic´ sono alle pp. 122 («L’Atlantico o il Pacifico sono dei mari di distanza. Il Mediterraneo è un mare di prossimità. L’Adriatico d’intimità») e alle pp. 214 (in cui si dà l’elenco delle parole greche per definire il mare).29 Ivi, p. 238.30 Marinai perduti è ricchissimo di riferimenti musicali, tra cui le canzoni del cantautore italiano Gianmaria Testa. Le musiche di Testa accompagnano anche la pièce teatrale intitolata Rien à signaler (una finestra sul Mediterraneo), libero adattamento dello stesso romanzo di Izzo da parte di S. Gandolfo e F. Beccacini, il cui debutto sotto la regia di S. Gandolfo ha avuto luogo dal 24 al 26 luglio 2008 a Borgio Verezzi.Marinai ignoti, perduti (e nascosti)31 «L’ebbrezza stessa della luce non fa che esaltare lo spirito di contemplazione. L’ho scoperto a casa mia, a Marsiglia. Vicino alla baia des Singes, ben oltre il porticciolo di Les Goude, all’estremità orientale della città. Ore e ore a guardar passare nello stretto di Les Croisettes le barche di ritorno dalla pesca. È qui, e in nessun altro posto, che queste mi sembrano,mi sembreranno sempre, la più belle. Ore e ore ad attendere quel momento, più magico di qualsiasi altro, in cui un cargo entrerà nella luce del sole al tramonto sul mare e vi scomparirà per una frazione di secondo. Il tempo di credere che tutto è possibile»; cfr. J.-C. IZZO, “Il Mediterraneo e le sue felicità possibili”, in Id., Aglio, menta e basilico…, cit.,pp. 17-18.32 L’ultima edizione di questo romanzo è del 2004, per Milano, Oscar Mondadori. A questa edizione si rimanda sia per le citazioni che seguono, sia per la bibliografia critica alle pp.XIV-XVII, a cui si aggiunga un rimando al ricco volume collettaneo di I. ROMERO PINTOR (ed.), Vincenzo Consolo: punto de unión entre Sicilia y Espanˇa. Los treinta anˇos de Il sorriso dell’ignoto marinaio, Valencia, Universidad de Valencia, 2007.33 Vedi il fondamentale saggio di C. SEGRE, intitolato appunto “La costruzione a chiocciola nel Sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo”, già prefazione all’edizione einaudiana dello stesso romanzo del 1987, e ora raccolto in ID., La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino, Einaudi, 1991, pp. 71-86.34 Mi riferisco al contributo di V. CONSOLO a I. ROMERO PINTOR (ed.), op. cit., dal titolo “Antonello da Messina”, pp. 51-61. Riprendendo una sua polemica con Roberto Longhi intorno alla questione dell’identità del personaggio ritrattato da Antonello da Messina,Consolo sposa l’ipotesi che si tratti di Giovanni Rizo di Lipari, un notabile dell’isola «di cui non si escludono interessi marinari» (p. 57).35 Cfr. L. RITTER SANTINI, Ritratti con le parole, Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 9-10.36 Cfr. V. Consolo, Il Sorriso dell’ignoto marinaio, cit., p. 25.37 Ivi, p. 23.38 Cfr. la postfazione dello stesso Consolo alla riedizione del suo romanzo, “Nota dell’autorevent’anni dopo”, ivi, pp. 169-170.39 Ivi, p. 8.104 40 Vedi a questo proposito: ivi, pp. 112-113.42.41 «Questa planimetria metaforica verticalizzavo poi con un simbolo offertomi dal malacologo Mandralisca, quello della conchiglia, del suo movimento a spirale (archetipo biologico e origine di percezione, conoscenza e costruzione, com’è nella Spirale delle calviniane Cosmicomiche; arcaico segno centrifugo e centripeto di monocentrico labirinto, com’è in Kerényi e in Eliade)», cfr. “Nota dell’autore vent’anni dopo”, ivi, p. 170.42 Ivi, p. 115.106 Marinai ignoti, perduti (e nascosti)43 Cfr. ID., “Lo spazio in letteratura”, in ID., Di qua dal faro, Milano, Mondadori, 2001,p. 263.44 Cfr. ID., “La retta e la spirale”, in ID., Di qua dal faro, cit., p. 259.45 Il romanzo, dal titolo originale Harisata al zhilal. Don Kishot fi l-jazai’r, è stato tradotto nel 1999 da W. Dahmash, per la piccola e meritevole casa editrice Mesogea di Messina.Non sono segnalati la data e il luogo dell’edizione originale.46 Ivi, p. 29.47 Ivi, p. 31.48 Ivi, p. 15.51 Per la storia e le caratteristiche della lingua franca e del sabir, vedi G. V. ERNST, M-D.GLEBGEN, CH. SCHMIDT, W. SCHWEICKARD (Hrsg.), Romanische Sprachgeschichte. Ein internationales Handbuch zur Geschichte der romanischen Sprachen / Histoire linguistique de la Romania. Manuel international d’histoire linguistique de la Romania, Berlin/New York,Mouton/de Gruyer Verl., 2003, pp. 1100-1105.52 Cfr. W. LAREJ, op. cit., p. 179.53 Cfr. V. CONSOLO, “Lo spazio in letteratura”, cit., p, 263.54 Faccio riferimento alla pièce di F. PESSOA, Il marinaio. Dramma statico in un atto, tr.it. di A. Tabucchi, Torino, Einaudi, 1996, alla famosa “Ode marittima” (in Poesie di Álvaro de Campos, tr. it. di A. Tabucchi, Milano, Adelphi, 1993) al racconto lungo di J. SARAMAGO,Il racconto dell’isola sconosciuta, tr. it. di P. Colle e R. Desti, Torino, Einaudi, 2003.

Citazioni pittoriche e strategie ecfrastiche nell’opera di Vincenzo Consolo

foto Andersen Salone del libro Parigi marzo 2002

 di Dario Stazzone

L’articolo indaga l’intenso dialogo tra i romanzi consoliani e le arti figurative, in particolare la pittura. Un dialogo che si avvale di strategie molteplici, le icone autoriali annunciate spesso dai titoli tematici dei romanzi, il ricorso all’ekphrasis nascosta, gli inserti critici riferiti alle opere d’arte. Con particolare riferimento a Il sorriso dell’ignoto marinaio ed a Retablo prende in esame, per altro, l’uso che lo scrittore fa dell’ekphrasis, il suo valore metanarrativo e metadiegetico.

L’opera di Consolo riserva ampio spazio alle citazioni figurative.[1] Lo scrittore, intervistato da Giuseppe Traina, ha dato una spiegazione della ricchezza dei riferimenti pittorici riscontrabili nei suoi romanzi ricorrendo ad un assunto semiologico, affermando la volontà di superare la contrapposizione tra lo svolgimento temporale del linguaggio verbale e lo svolgimento spaziale dell’opera figurativa. Per Consolo la continua evocazione dell’immagine riscontrabile nella sua scrittura risponde all’esigenza di equilibrio tra temporalità e spazialità:

Credo ci sia bisogno di equilibrio tra suono e immagine, come una sorta di compenso, perché il suono vive nel tempo, invece la visualità vive nello spazio. Cerco di riequilibrare il tempo con lo spazio, il suono con l’immagine. Poi sono stati motivi d’ispirazione, di guida, le citazioni iconografiche di Antonello da Messina o di Raffaello. In Retablo c’è l’esplicitazione dell’esigenza della citazione iconografica: il “retablo” appartiene alla pittura ma è anche “teatro”, come nell’intermezzo di Cervantes.[2]

La stessa perigrafia dei romanzi consoliani rinvia spesso a suggestioni figurative o a palesi citazioni pittoriche, evidenti fin dai titoli: com’è noto Il sorriso dell’ignoto marinaio fa riferimento al dipinto di Antonello da Messina, il ritratto virile d’ignoto custodito nel Museo Mandralisca di Cefalù. Anche Retablo, romanzo pubblicato nel 1987 per i tipi Sellerio, evoca la pittura fin dal titolo. Il termine catalano retablo indica infatti una pala d’altare inquadrata architettonicamente: essa può articolarsi in diversi scomparti formando un dittico, un trittico o un polittico costituito da tavole dipinte, talvolta da sculture o dall’alternanza di dipinti e bassorilievi, tenendo insieme, in quest’ultimo caso, imagines pictae fictae. Il titolo scelto da Consolo, facendo riferimento ai polittici iberici, denunzia in primo luogo la vocazione pittorica del libro. Ma retablo è inteso dall’autore come un significante polisemico, come un lessema evocativo di rara e remota sonorità che contiene, ad un tempo, riferimenti figurativi, teatrali e letterari: «La parola retablo (parola oscura e sonora, che forse ci viene dal latino retrotàbulum: il senso, per me, dietro o oltre le parole, vale a dire metafora) l’ho assunta nelle varie accezioni: pittorica, shahrazadiana, cervantesiana».[3] Tra l’altro il lemma spagnolo rinvia alla memoria del Retablo de las meravillas di Miguel de Cervantes. L’evocazione cervantesiana può essere intesa anche come un riferimento al tratto illusorio dell’arte, motivo a cui il romanzo dedica più di una riflessione. Attraverso la scelta di un titolo di carattere tematico[4] l’autore allude, infine, all’organizzazione narrativa del libro, articolato per scene e quadri successivi che potrebbero essere considerati come delle tavole sovrapposte, pur mantenendo la loro autonomia narrativa. Il testo consoliano si configura dunque come un polittico, come una successione di quadri narrativi al centro dei quali sta il motivo odeporico, ovvero il viaggio del cavaliere Fabrizio Clerici nella Sicilia del XVIII secolo, e una tarsia di citazioni che ne fanno uno dei romanzi più complessi e levigati della letteratura italiana del secondo Novecento.

Ritratto fotografico di Vincenzo Consolo, di Giuseppe Leone (1985 ca.)
foto Giuseppe Leone

Per dare un titolo all’ampia intervista concessa all’IMES nel 1993, lo scrittore, ancora una volta, ha usato un riferimento pittorico evocando Fuga dall’Etna di Guttuso.[5] Consolo ha riproposto il nome che il pittore siciliano ha dato ad una tela di vaste dimensioni realizzata tra il 1938 e il 1939, la sua prima composizione corale, lungamente meditata e preparata attraverso studi, ritratti e paesaggi realizzati tra la Sicilia e la Sila.[6] Nel dipinto un’eruzione etnea assume un più ampio significato sociale e diventa l’occasione per rappresentare masse di contadini in fuga concitata, arditi scorci di cavalli che negli stilemi e nell’esemplificazione formale rivelano la memoria di Guernica di Picasso: un’allusione alla sofferenza del mondo contadino e al dramma della migrazione, anch’esso un vulnus iscritto nella storia del Novecento. Non è un caso che Consolo si sia ricordato del telero guttusiano: nell’intervista, infatti, l’autore ripercorre il suo itinerario biografico e intellettuale, parla dell’allontanamento dall’isola natale, della condizione di erranza, della metafora odissiaca che attraversa i suoi romanzi, del nostos impossibile e del trasferimento giovanile a Milano. La citazione di Fuga dall’Etna testimonia, tra l’altro, dell’amicizia tra lo scrittore e Guttuso che si traduce nelle argute allusioni presenti in diversi romanzi. Si veda, ad esempio, il cenno, incastonato nelle pagine di Retablo, al «pittore celebrato […] della Bagarìa», anacronisticamente collocato in un elenco di artisti siciliani d’epoca manierista o barocca: «Siete meglio del Monrealese, meglio dello Zoppo di Ganci, del Monocolo di Racalmuto, meglio di quel pittore celebrato (non ricordo il nome) della Bagarìa».[7] L’allusione consoliana, che qui assume le connotazioni di un ammiccante gioco a nascondere, non è dissimile dalla scelta di fare dell’amico Clerici, pittore lombardo inquieto e surreale, il protagonista del libro.

Renato Guttuso, Fuga dall’Etna, olio su tela, 1940
Fuga dall’Etna di Renato Guttuso

Anche l’ultimo romanzo di Consolo, Lo Spasimo di Palermo, fa riferimento a un’opera pittorica, il dipinto di Raffaello un tempo custodito nella chiesa palermitana di Santa Maria dello Spasimo e oggi esposto nelle sale del Museo del Prado. Secondo la narrazione del Vasari la tavola dell’Urbinate sarebbe giunta in Sicilia per mare, attraverso fortunosi accadimenti.[8] La citazione dello Spasimo (ovvero della raffaellesca Andata al Calvario di Cristo) è usata per conferire una connotazione martirologica alla narrazione. Il romanzo, infatti, si confronta col tema dell’impotentia scribendi, con lo smarrimento del protagonista e, nelle pagine conclusive, allude alla strage di via D’Amelio, all’attentato che determinò la morte di Paolo Borsellino. Il simbolismo sotteso dal riferimento pittorico è intensificato dalla riproduzione di una pagina dello spartito del Dies irae del compositore augustese Manuele d’Astorga.[9] La citazione pittorica, il ricercato recupero di un testo musicale d’epoca barocca, i riferimenti cinematografici portano al massimo grado l’orchestrazione plurima dei codici, facendo culminare la narrazione in una successione di suggestioni sinestetiche che conferiscono forza al tragico explicit.

Oltre alla perigrafia, alle tarsie intertestuali ed alle note icone autoriali di Consolo, ovvero alle esplicite costruzioni ecfrastiche dedicate al ritratto virile di Antonello da Messina nel Sorriso dell’ignoto marinaio, all’oratorio serpottiano di San Lorenzo in Retablo, al caravaggesco Seppellimento di Santa Lucia ne L’olivo e l’olivastro ed alla tavola raffaellesca nello Spasimo, Miguel Ángel Cuevas ha messo in evidenza il ricorso, da parte dello scrittore, alla strategia dell’«ekphrasis nascosta».[10] Cuevas, attraverso lo studio variantistico delle opere consoliane, ha sottolineato come l’autore tenda all’occultamento dell’originario costrutto ecfrastico, restituendo al lettore non la descrizione di un’immagine, ma la sua immediatezza:

L’occultamento della dimensione ecfrastica del testo finisce per far diventare l’immagine un’alterità senza equivalenze, senza punto di riferimento: un’alterità assoluta; le figure si palesano in una loro ambiguità atopica, all’interno della quale la persistenza di segni elocutivi descrittivi potrebbe essere interpretata – non solo, ma almeno anche – come indizio del flusso di coscienza, come l’apparire, in ogni caso, di una diversa voce narrante: che paradossalmente provoca effetti di denarrativizzazione.[11]

Se l’ekphrasis, figura di pensiero per aggiunzione che la retorica ha considerato da sempre il mediumtra la letteratura e le arti, è la descrizione verbale di una rappresentazione visuale, se, come ha affermato Mengaldo, la «descrizione verbale non mima l’opera, ma lo sguardo che percorre l’opera»,[12] la strategia di opacizzazione referenziale adottata da Consolo rende ancora più complessi i rapporti intercorrenti tra testo e immagine. Il ricercato equilibrio tra temporalità e spazialità, di cui lo scrittore ha parlato nell’intervista concessa a Traina, rivela risvolti assai complessi considerando che spesso, nelle narrazioni consoliane, la visività verbale si pone come controfigura di un’immagine non dichiarata: «rapporti, in definitiva, basati su convergenze o parallelismi che incrinano, mostrandone l’obsolescenza, le tradizionali ed escludenti collocazioni delle immagini su un asse spaziale in rapporto al logos che si svolge sulla temporalità».[13]

In sintesi il rapporto tra i romanzi di Consolo e la pittura si avvale di strategie molteplici: la retorica della citazione e le icone autoriali che spesso sono preannunciate dal titolo tematico dell’opera; le ekphrasis nascoste, incastonate in una scrittura sempre caratterizzata da forte pittorialità; inserti critici e metadiegetici riferiti alle opere d’arte che testimoniano la raffinata formazione dell’autore e contribuiscono ad accentuare l’antinarratività delle sue opere dalla densa struttura ‘palinsestica’.[14] Un’ulteriore riflessione, sulla scorta degli studi di Michele Cometa dedicati alla retorica visuale, si impone in rapporto alle diverse forme di integrazione dell’ekphrasis nelle opere consoliane.

1. Il sorriso dell’ignoto marinaio: la funzione metapoetica e metanarrativa dell’ekphrasis

Si è già notato che Il sorriso dell’ignoto marinaio fa riferimento, fin dal titolo, ad un dipinto antonelliano, il ritratto virile custodito al Museo Mandralisca di Cefalù. La tavola quattrocentesca, che una tradizione suggestiva ma infondata indicava come il ritratto di un marinaio, è alla base dell’ordine delle somiglianze che attraversa il romanzo. Fin dall’incipit il protagonista, barone Enrico Pirajno di Mandralisca, tiene la tavola dipinta sotto braccio, riportandola da Lipari, dove l’ha fortunosamente scoperta, al suo palazzo cefaludese. L’antefatto del primo capitolo fa da sintesi del viaggio dell’aristocratico collezionista e vi dà un’esatta collocazione cronotopica, datandolo 12 settembre 1852: «Viaggio in mare di Enrico Pirajno barone di Mandralisca da Lipari a Cefalù con la tavoletta del ritratto d’ignoto di Antonello recuperata da un riquadro dello stipo della bottega dello speziale Carnevale».[15]

Leggendo il romanzo si scopre che il volto effigiato nel dipinto è somigliante a quello del patriota Giovanni Interdonato, l’uomo che il barone ha scorto, travestito da marinaio per sfuggire alle rappresaglie borboniche, nell’imbarcazione che lo riportava alla sua dimora. L’Interdonato avrà un ruolo essenziale nel determinare la presa di coscienza politica del Mandralisca. Otto anni dopo il viaggio alle Eolie, infatti, nel crinale storico del 1860, il Pirajno abbandonerà i suoi studi eruditi, la passione per la malacologia, il suo interesse per il collezionismo di mirabilia naturalia et antiquaria perseguito secondo l’habitus aristocratico e, essendosi rispecchiato nel volto dell’amico, muoverà da un generico liberalismo ad una più profonda comprensione della questione sociale.

Incastonata nel primo capitolo del Sorriso è la celebre ekphrasis del quadro di Antonello, ospitato tra le collezioni del Mandralisca:

Apparve la figura d’un uomo a mezzo busto. Da un fondo verde cupo, notturno, di lunga notte di paura e incomprensione, balzava avanti il viso luminoso. […] L’uomo era in quella giusta età in cui la ragione, uscita salva dal naufragio della giovinezza, s’è fatta lama d’acciaio, che diventerà sempre più lucida e tagliente nell’uso ininterrotto. L’ombra sul volto di una barba di due giorni faceva risaltare gli zigomi larghi, la perfetta, snella linea del naso terminante a punta, le labbra, lo sguardo. Le piccole, nere pupille scrutavano dagli angoli degli occhi e le labbra appena si stendevano in un sorriso. Tutta l’espressione di quel volto era fissata, per sempre, nell’increspatura sottile, mobile, fuggevole dell’ironia, velo sublime d’aspro pudore con cui gli esseri intelligenti coprono la pietà. Al di qua del lieve sorriso, quel volto sarebbe caduto nella distensione pesante della serietà e della cupezza, sull’orlo dell’astratta assenza per dolore, al di là, si sarebbe scomposto, deformato nella risata aperta, sarcastica, impietosa o nella meccanica liberatrice risata comune a tutti gli uomini.[16]

La descrizione del ritratto è anche una sua interpretazione oscillante tra etopea e prosopografia, ricca di connotazioni fisiognomiche che verranno riproposte per stabilire il complesso gioco di rifrazioni e proiezioni identificative tra i personaggi del romanzo.

Antonello da Messina, Ritratto d’ignoto, olio su tavola, 1465-1476
Ritratto – Antonello Da Messina

La giusta età della ragione, l’ironia che si pone come tertium tra l’eccesso di severità e il riso aperto, sarcastico o spietato, anticipa il percorso di maturazione politica ed esistenziale del protagonista. Consolo piega così a particolare partitura quella vocazione fisiognomica presente nei romanzi di molti scrittori siciliani, da De Roberto a Tomasi di Lampedusa, da Sciascia ad Addamo. Del resto a indirizzare il lettore verso un’attenta interpretazione del testo è la citazione in esergo, tratta dall’Ordine delle somiglianze di Sciascia: «Il giuoco delle somiglianze è in Sicilia uno scandaglio delicato e sensibilissimo, uno strumento di conoscenza […]. I ritratti di Antonello “somigliano”; sono l’idea stessa, l’arché della somiglianza […]. A chi somiglia l’ignoto del Museo Mandralisca?».[17] Nell’economia narrativa del Sorriso sono diverse le ipostasi del riconoscimento e del rispecchiamento che stabiliscono la tensione speculare tra i personaggi principali. Significativamente il momento in cui l’aristocratico individua nell’Interdonato il marinaio già scorto nel viaggio del 1852 è anche il momento in cui egli si accorge della straordinaria somiglianza tra il patriota e l’uomo effigiato nella tavola antonelliana.[18]

Il ritratto di Antonello, nella Memoria che il Mandralisca invia all’Interdonato sui fatti di Alcàra Li Fusi, vero e proprio nucleo ideologico del romanzo, diventa anche l’emblema di una ragione distaccata, condizionata dalla nascita, dalla posizione di casta o dalle necessità di carriera. Rispecchiandosi nel ritratto antonelliano, in altre parole, il Mandralisca pone una spietata critica a se stesso, alla sua classe sociale, alle sue «imposture»,[19] alla stessa intellettualità progressista che concepisce comodi ideologemi e interessate teleologie, a partire dalla stessa retorica risorgimentale.

Cuore di molteplici tensioni narrative, simboliche e proiettive, la tavola di Antonello assolve dunque ad un ruolo capitale nel romanzo, ben lontana dall’essere una semplice citazione iconica. Usando il linguaggio di Cometa è utile indagare, in quest’opera consoliana, l’«integrazione per trasposizione»[20] dell’ekphrasis.La riflessione dello studioso, sulla scorta della rilettura di un testo classico come le Immagini di Filostrato, categorizza diverse forme di integrazione ecfrastica, da intendersi come integrazione da parte del lettore nel suo repertorio.[21] Scrive Cometa: «Il lettore è dunque invitato non solo a penetrare con lo sguardo nell’immagine ma anche a integrarla con le proprie preconoscenze e con la propria esperienza pregressa».[22] Naturalmente nel Sorriso si possono riconoscere forme molteplici di integrazione dell’ekphrasis, e tra esse l’«integrazione ermeneutica»,[23] forse il procedimento più ricercato alla base del patto ecfrastico: nel Sorriso la descrizione dell’opera d’arte si avvale delle consapevolezze critiche, iconografiche e iconologiche di Consolo, in dialogo con quel lettore colto che le possieda e le sappia intendere. Come vedremo in seguito gli inserti critici e metadiscorsivi hanno una parte significativa nel Sorriso. Ma il romanzo del 1976 rimane un caso esemplare in cui l’opera d’arte assume un vero e proprio ruolo genetico, al punto che l’intero plot è stato concepito attraverso costanti rinvii ad essa. È parimenti evidente che la descrizione del ritratto antonelliano assolve alle funzioni metapoetica e metanarrativa, nel senso postulato da Cometa che ha recuperato motivi propri della poetologia schlegeliana e romantica, secondo cui l’ekphrasis permette di prefigurare ed anticipare il senso di un romanzo, costituendo un dispositivo in cui l’opera letteraria si «rispecchia», una lente in cui si scorge un’«immagine unitaria della narrazione».[24]

Oltre al caso dell’icona antonelliana, si possono individuare nel Sorriso molteplici esempi di ekphrasis nascosta; per tutti la descrizione, incastonata nel primo capitolo, di un cavatore di pomice liparitano sofferente, osservato dal Mandralisca durante il viaggio da Lipari a Cefalù. Come ha messo in evidenza Cuevas, nella descrizione dell’uomo si riconosce un dettaglio della Crocefissione di Anversa, una tavola antonelliana in cui il ladrone di sinistra si attorce in un ultimo spasimo che precede la morte.[25] Vi è nel Sorriso un’essenziale e ben nota triangolazione di riferimenti figurativi: il ritratto antonelliano, la Crocefissione di Anversa e Los desastres de la Guerra di Goya, i cui titoli scandiscono la narrazione del settimo capitolo, dedicato alla sanguinosa rivolta contadina di Alcàra Li Fusi ed alla sua repressione.[26] Come ha sottolineato Rosalba Galvagno alcune ekphrasis del Sorriso possono essere ricondotte alle incisioni de Los desastres.[27] Ma il novero dei rinvii meno evidenti alle arti plastiche e figurative è molto ampio. Non manca chi ha individuato nella rappresentazione dello studiolo del Mandralisca un probabile riferimento al San Gerolamo di Vittore Carpaccio, alle opere di Filippino Lippi o a quelle del ceroplasta siracusano Matteo Durante.[28]

Tra i tanti riferimenti espliciti alle arti sono riscontrabili cenni alla statuaria ed alla produzione ceramica greca, all’icona marmorea del Giovane con la tunica del Museo Whitaker di Mozia ed al cratere del Pittore di Lipari rappresentante la vendita del tonno. Altri riferimenti evocano il Trionfo della morte di Palermo (l’affresco tardogotico di Palazzo Sclafani che ha ispirato Guernica di Picasso, citato spesso anche da Sciascia e Bufalino), le sculture rinascimentali di Francesco Laurana ed Antonello Gagini, le tele del secentista Pietro Novelli. La descrizione delle collezioni messe insieme dal Mandralisca restituisce una fitta successione di citazioni pittoriche:

Venne il momento della visita al museo. Guidati dal barone Mandralisca, fecero il giro della quadreria disposta in doppia fila alle pareti. Sentirono distratti elogiare la luce dell’Alba a Cefalù del Bevelacqua, l’espressione intensa della Sant’Anna del Novelli, la sapienza prospettica dell’Ultima Cena della scuola del Ruzzolone, dove le figure erano così tonde e grosse, così sazie, che sembrava quella sì un’ultima cena, ma il cui inizio non si conosceva, con portate continue di maccheroni al sugo. E così avanti, per le tavole bizantine, per ignoti siciliani, per i napoletani e gli spagnoli, fino a quello della giovane formosa che offre alle labbra di un vecchio rinsecchito il capezzolo rosa d’una mammella bianca che sbuca dallo scuro in piena luce.[29]

Nella rappresentazione dei dipinti non mancano increspature ironiche, come nel rapporto che viene stabilito, con un improvviso abbassamento del tono della narrazione, tra il motivo iconografico dell’Ultima cena e le «portate continue di maccheroni al sugo»: un’allusione al succulento banchetto che è probabilmente l’unico motivo per cui gli ospiti hanno accettato l’invito del barone a recarsi nella sua dimora e «godere la visione di una nuova opera unitasi alla loro collezione».[30] La stessa capacità rovesciante è rivelata nella descrizione di un dipinto che fa riferimento alla lactatio, tradizionale emblema di una delle Virtù Teologali, la Carità. Lo statuto iconografico che, nella tradizione figurativa barocca era l’occasione per rappresentare la nudità e la procacità femminili, esplicita qui il suo sottointeso erotico e diventa un’allusione alla ben poco edificante brama di un «vecchio rinsecchito»,[31] con un evidente riferimento alle Sette opere di Misericordia di Caravaggio.

Consolo, nel Sorriso, recupera un motivo letterario e parodico, quello dell’antiquario, della sua greve erudizione, della sua mania collezionistica che ha un archetipo nella goldoniana Famiglia dell’antiquario e conosce significative riprese anche nei romanzi di Capuana e De Roberto.[32] Non è un caso che, scorgendo una statua classica tra i marmi accatastati in un’imbarcazione, immaginando di accaparrarsela, il Pirajno si ponga in fantasiosa competizione con altri aristocratici dediti alla raccolta di nobilia opera del passato. Rappresentando la brama del Mandralisca, lo scrittore incastona nella narrazione un elenco dei maggiori collezionisti siciliani realmente esistiti ed attivi tra il XVIII e il XIX secolo:

Uh, ah, cazzo, le bellezze! Ma dove si dirigeva quella ladra speronara, alla volta di Siracusa, bianca, euriala e petrosa, o di Palermo, rossa, ràisa e palmosa? Pirata, pirata avrebbe voluto essere il barone, e assaltare con ciurma grifagna quella barca, tirarsela fino all’amato porto sotto alla rocca […]. Avrebbe fottuto il Bìscari, l’Asmundo Zappalà, l’Alessi canonico, magari il cardinale, il Pèpoli, il Bellomo e forse il Landolina.[33]

L’ironia consoliana raggiunge il culmine nella descrizione dei crateri attici radunati nella collezione Mandralisca, con le loro scene erotiche ed altre raffigurazioni ispirate ai baccanalia, certamente non confacenti alla morale del XIX secolo:

Oltre al Venditore di tonno, oltre a matrone languide, sdraiate, con ancelle attorno che le aiutavano a fare toilette, i vasi neri e rossi mostravano fauni impudichi e sporcaccioni, con tutta l’evidenza dritta della infoiatura, che abbrancavano per la vita, per le reni ninfe sgambettanti per portarsele, poverette, chissà dove; altre scene di fughe e rapimenti, altre di ragazze estatiche davanti a giovanotti inghirlandati e con bordoni in mano di cui non si capivano le intenzioni. Gli uomini si davano gomitate, facevano ammiccamenti, azzardavano sottovoce interpretazioni, mentre il barone li informava sull’epoca e sul luogo della provenienza di quelle antichità.[34]

Concependo il suo romanzo come un «antiromanzo storico»,[35] sullo sfondo di un Risorgimento gramscianamente inteso come mancata rivoluzione, Consolo ha usato la sua conoscenza della storia dell’arte per fare il verso al barone collezionista, per rappresentare la vacuità della sua classe sociale. L’integrazione ermeneutica dei costrutti ecfrastici vuole il concorso esegetico del lettore, la sua comprensione dei passaggi ironici. La «plurivocità» del Sorriso,[36] oltre che nei processi parodici, è ravvisabile nella stessa contraddittorietà e complessità di un personaggio come il Mandralisca che, in ultimo, riuscirà ad allontanarsi dalla concezione erudita ed esornativa della cultura propria della sua classe sociale, destinata ad un ineluttabile declino, acquisendo un’acuta e demistificante consapevolezza politica.

2. Retablo, o delle rifrazioni ad infinitum

Consolo ha fatto del pittore milanese Clerici il protagonista di Retablo. Le allusioni a Clerici e Guttuso non sono casuali. Ad ispirare il romanzo, infatti, è stato un viaggio in compagnia dei due artisti nella Sicilia orientale, un’occasione in cui lo scrittore ha rivisto i templi dorici di Segesta, Selinunte e Agrigento percorrendo alcune delle tappe canoniche del Grand Tour d’Italie.[37] Consolo, dunque, ispirandosi ad un fatto realmente accaduto, ha dato un doppio letterario al suo amico. A complicare il gioco di allusioni vi è la perigrafia, la scelta di illustrare la prima di copertina della prima edizione del libro con un dettaglio di un dipinto di Clerici,[38] ed ancora la scelta di incastonare nel testo diverse ekphrasis ispirate all’opera dello stesso artista. Non sembra un caso che il pittore milanese sia stato anche il protagonista di un romanzo di Savinio, Ascolto il tuo cuore, città, ed abbia fatto conoscere a Sciascia La tentazione di Sant’Antonio, la tela del manierista Rutilio Manetti in cui è effigiato il diavolo con gli occhiali, investito di forti valori simbolici nel romanzo Todo modo.[39]Le vertiginose rifrazioni del libro consoliano sono degne della teoria di rispecchiamenti de Las Meninas di Velázquez, dipinto emblematico della temperie barocca.

La rappresentazione di un viaggio in Sicilia nel XVIII secolo, la ricchezza di riferimenti figurativi e la diffusa retorica dello sguardo fanno di Retablo l’opera consoliana in cui il rapporto tra letteratura e pittura si fa più intenso e insistito.[40] I rimandi figurativi, per altro, agiscono in profondità, fino a dare forma alla stessa architettura ed alla focalizzazione del racconto. Il romanzo, infatti, è ripartito in tre capitoli o tavole: OratorioPeregrinazione Veritas. A ciascuna di queste parti corrisponde una diversa voce narrante, quella di Isidoro in Oratorio, quella di Clerici in Peregrinazione e quella di Rosalia in Veritas. Un intreccio di voci che restituisce al lettore gli stessi accadimenti osservati da angolazioni diverse, moltiplicando prismaticamente le visioni e le possibili interpretazioni della realtà.

Ad incipitdi Oratorio è posto il celebre inno che Isidoro innalza a Rosalia: una petitio amorosa, una laica preghiera, una litania o un delirio in cui la scomposizione del nome dell’amata in Rosa e Lia, il moltiplicarsi delle figure fonetiche ed etimologiche, l’intertestualità non priva di echi danteschi e petrarcheschi, l’investimento ambiguo ed ambivalente della donna si spingono ad un parossistico virtuosismo. Subito dopo Isidoro, dedito alla questua e alla vendita delle bolle, narra in prima persona l’amore concepito per la giovane che, quotidianamente, gli appariva alla finestra insieme alla madre. Le due donne hanno ordito il raggiro dell’inesperto questuante facendogli credere di poter sposare la ragazza e, fattesi consegnare il denaro delle bolle, sono scomparse nel nulla. Cacciato dunque dal convento, il fraticello è ridotto alla condizione di facchino alla Cala di PalermoQui, finalmente, gli appare il cavaliere Clerici, sceso da una nave che ha il nome simbolico di Aurora.[41] L’aristocratico viaggiatore prende con sé Isidoro, lo allontana dalla vita dura ed ambigua del porto e ne fa il suo accompagnatore nel viaggio in Sicilia volto all’osservazione e alla riproduzione dei monumenti antichi. Quando Clerici fa conoscere al fraticello il cavaliere Serpotta e gli mostra l’oratorio palermitano di San Lorenzo, questi scorge nella statua della Veritas il sembiante dell’amata Rosalia, va in escandescenze e sviene.

Come si vede da questa veloce sintesi il primo capitolo di Retablo consegna subito al lettore una pluralità di toni: l’incipitlirico, la seduzione e il raggiro di Isidoro che rinvia all’archetipo novellistico di Boccaccio, la rappresentazione della baraonda della Cala, non priva di dettagli bassi, spuri e scatologici, la descrizione dettagliata dell’oratorio serpottiano. Il primo apparire di Rosalia tra i vicoli di Palermo è una delle tante ekphrasis nascoste che costellano la narrazione, annunciata da un preciso riferimento al «riquadro», ovvero alla finestra da cui si sporge la ragazza in compagnia della madre:

Alzai gli occhi e vidi nel riquadro, ah, la mia sventura!, la donna che teneva la funicella del panaro e accanto una fanciulla di quindici o sedici anni, la mantellina a lutto sulla testa che lei fermava con graziosa mano sotto il mento. E gli occhi tenea bassi per vergogna, ma da sotto il velario delle ciglia fuggivan lampi d’un fuoco di smeraldo. Mai m’ero immaginato, mai avevo visto in vita mia, in carne o pittato, un angelo, un serafino come lei.[42]

La scena, più che un generico riferimento all’Annunciata antonelliana di palazzo Abatellis, rinvia ad un’opera di Bartolomé Esteban Murillo, Las Gallegas, ovvero Due donne galiziane alla finestra, custodita alla National Gallery di Londra: un riferimento fino ad oggi non evidenziato dalla letteratura critica, tuttavia ricco di impliciti che contribuiscono a connotare la figura di Rosalia. Nel dipinto appaiono due donne, una giovane e una matura, che affacciandosi alla finestra ammiccano al passante-spettatore: un espediente che, attraverso lo sguardo muliebre, tende ad oltrepassare lo spazio della tela, come spesso accade nelle opere del secentista spagnolo. Si tratta di un dipinto di genere popolaresco, una scena di seduzione in cui è forse raffigurata una giovane prostituta con la sua mezzana. Il dettaglio della mantellina fermata con la mano sotto il mento è puntualmente riscontrabile nella descrizione di Retablo e si fa indice dell’esatta referenzialità del testo consoliano. L’ekphrasis delinea dunque l’immagine ambivalente della giovane, il cui atteggiamento, in apparenza pudico, dissimula una capacità seduttiva rivelata dallo sguardo che, «sotto il velario delle ciglia», emana, secondo una significativa sinestesia, «lampi d’un fuoco di smeraldo».[43]

Bartolomé Esteban Murillo, Las Gallegas, olio su tela, 1670

Fin dalla prima apparizione, dunque, Rosalia è rappresentata secondo le valenze ambigue della donna levatrice e sprofondatrice, una duplicità iscritta nel suo stesso nome composto che rinvia alla patrona palermitana, quella Santa Rosalia nella cui iconografia, inventata nei primi decenni del Seicento, confluiscono non pochi statuti rappresentativi della Maddalena.[44] Un percorso iconografico certo non ignoto a Consolo che, nell’inno di Isidoro, si avvale dell’oscillazione tra la figura laica e quella profana di Rosalia, facendo riferimento alla statua marmorea della santa venerata nel santuario di Monte Pellegrino.[45]

Già in Oratorio, dunque, la giovane donna appare ad una finestra, tecnema della visione non dissimile dalla cornice di un dipinto,[46] viene ricordata attraverso il simulacro marmoreo della santa, la si immagina rappresentata in una delle figure in stucco dell’oratorio serpottiano, è evocata ripetutamente nelle catene paronomastiche e nella dimensione ecoica dell’inno incipitario che scompone e richiama ripetutamente il suo nome: tutti simulacra del sentimento amoroso concepito da Isidoro, espressione dell’ossessione del fraticello e dell’intangibilità di uno sfuggente oggetto del desiderio.[47] Per altro, nella rappresentazione laico-profana di Rosalia e nelle reduplicazioni della sua immagine, è facile scorgere la suggestione de Gli elisir del diavolo di Hoffmann.

Tra le statue che ritraggono Rosalia vi è l’allegoria serpottiana della Verità che, secondo lo statuto iconografico, è rappresentata come Nuda Veritas. La descrizione del teatro plastico settecentesco è una delle più note icone autoriali incastonate nel libro che nasconde, nella stessa rappresentazione degli stucchi rischiarati da un raggio di sole, l’ekphrasis di un dipinto di Clerici. Il raggio che penetra nell’aula, che colpisce una ninfa di cristallo e, rifrangendosi, illumina le statue, è lo stesso che si può scorgere in una tela del pittore milanese, La grande confessione palermitana: il chiarore diffuso dal raggio solare, consustanziale al «bianco puro»[48] dell’oratorio, rivela nel dipinto una natura luttuosa che lega le candide statue all’immagine funerea dei corpi imbalsamati delle catacombe dei Cappuccini di Palermo. Ecco che il testo consoliano, in una vertiginosa sovrapposizione, include in una descriptio un’altra ekphrasis. Come ha rilevato Maria Rizzarelli: «L’ordine delle somiglianze che nel Sorriso costituiva il principio gnoseologico della conversione ideologico-sociale del Mandralisca, diviene qui ordine delle apparenze, da fondamento conoscitivo si trasforma, attraverso l’esasperante trionfo della figura del doppio, in ordine dell’illusione con cui s’identifica l’arte».[49]

La rappresentazione dell’oratorio è il punto culminante del capitolo iniziale di Retablo. Se in questa prima parte del romanzo si incontrano alcuni grandi pittori e artisti (un rapido cenno è dedicato anche al dipinto palermitano di Caravaggio, la Natività), il secondo capitolo, Peregrinazione, è totalmente incentrato sulla figura di Clerici che, accompagnato da Isidoro, intraprende il suo viaggio e la sua esplorazione della Sicilia.

Palermo, Oratorio di San Lorenzo

Anche Clerici viaggia per l’isola con l’intento di dimenticare la donna amata, Teresa Blasco, futura sposa di Cesare Beccaria e dunque futura nonna di Alessandro Manzoni.[50] Alla nobildonna milanese, il cui padre ha origine spagnola e la madre siciliana, il cavaliere dedica il suo diario di viaggio. Fin dalla Dedicatoria, indirizzata a Teresa, Clerici si dice intenzionato a illustrare e a narrare la patria materna della donna, rivelando così l’intenzione di avvalersi sia della parola che dell’immagine, di usare entrambi i codici per rappresentare la Sicilia.[51] Del resto, già in Oratorio, l’aristocratico viaggiatore è stato presentato da Isidoro in virtù della sua abilità di disegnatore: «Quel don Fabrizio che sbarcò in Palermo, con la fortuna mia, per viaggiare l’Isola, scoprire l’anticaglie e disegnar su pergamene con chine e acque tinte templi e colonne e statue di cittate ultrapassate».[52] Lo stesso cavaliere, ben presto, sente l’esigenza di porre sotto gli occhi di donna Teresa non solo le immagini del mondo classico, i monumenti antichi, ma anche le brutture della società contemporanea. Clerici si rivela, dunque, un viaggiatore assai lontano da compiacimenti arcadici e vagheggiamenti idilliaci, dall’eterno archetipo della pastorale teocritea e dalle sue riprese settecentesche. Le sue intenzioni e il suo sguardo disilluso preannunciano un motivo che diventerà dominante nei successivi romanzi consoliani, il contrasto tra la memoria del passato e un presente di rovina, immemore e degradato.

Il percorso di Clerici ricalca parzialmente quello del Grand Tour nella Sicilia occidentale: Palermo, la vicina Monreale, Alcamo, Segesta, Selinunte, Mozia e Trapani. Retablo rimodula dunque, attraverso una complessa trama intertestuale, temi e motivi propri dell’odeporica settecentesca, configurandosi come un Voyage pittoresque, un Conte philosophique e un romanzo picaresco. Lo sguardo di Clerici è quello straniante del pittore, aduso a scrutare le fisionomie, a indovinare l’animo di chi gli sta di fronte. La sua visione è arguta e disincantata, in altre parole è quella di uno smaliziato e inquieto viaggiatore novecentesco, anche se le illusioni, gli apparati effimeri, le rifrazioni, le quinte teatrali e i retabli ingannevoli appaiono ad ogni passo del suo viaggio, adatte a rappresentare le oltranze immaginative di pittori, scultori e architetti della Sicilia barocca o tardobarocca. Il trionfo della teatralità e la voglia di destare meraviglia trovano il culmine nella descrizione di Alcamo, la patria del Soldano Lodovico, il luogo dove si riunisce l’Accademia de’ Ciulli Ardenti che, con la sua poesia edulcorata e pretenziosa, non rende onore all’autore del Contrasto. È qui che, in occasione della festa del paese, appare il Retablo de las meravillas, un apparato aniconico e illusorio in cui ogni spettatore può proiettare e scorgere i suoi fantasmi.

Nell’ultimo capitolo di RetabloVeritas, Rosalia racconta finalmente la sua verità: realmente innamorata di Isidoro, è divenuta una cantante che si appresta a debuttare in una rappresentazione della Vergine del Sole di Cimarosa. Ospite nel palazzo di un munifico marchese, è stata educata al bel canto da don Gennaro Affronti, un artista castrato che le ha fatto da «padre» e da «madre».[53] Rosalia si è dunque mantenuta fedele ad Isidoro, convinta che per preservare un amore sia necessaria la sua cristallizzazione. Per questo esorta l’amato a ritornare alla vita passata ed alla sicurezza claustrale.

Ogni aspetto della vita e dell’arte, in Retablo, si rivela illusorio: l’amore di Isidoro e Rosalia verrà preservato solo a costo di una monacazione spirituale; l’amore concepito da Clerici per donna Teresa Blasco non è ricambiato. Frequenti sono i dubbi, espressi dallo stesso Clerici, sulla possibilità di rappresentare quant’egli ha osservato nel suo viaggio: l’impotenza dell’arte è metaforizzata dalla condizione del castrato don Gennaro, ovvero dalla sua impotentia generandi. L’uso sapiente dei costrutti ecfrastici e delle rifrazioni che sembrano riproporsi ad infinitum allude all’intangibilità della realtà. Motivi che percorrono in modo insistito l’opera di Consolo e, dopo essersi affacciati in Retablo, passando per un testo capitale come Catarsi, giungono alle pagine intensamente patemiche dello Spasimo. Ma anche per viam negationis l’autore, col vertiginoso spessore palinsestico della sua opera, ha riaffermato la necessità dell’arte e della scrittura, del nesso intimo tra parola e immagine, del loro irrinunciabile valore tetico.


1 Cfr. M. Á. Cuevas, ‘Ut Pictura: El imaginario iconográfico en la obra de Vincenzo Consolo’, Quaderns d’Italià, 10, 2005, pp. 63-77.

2 G. Traina, Vincenzo Consolo, Fiesole (FI), Cadmo, 2001, p. 130.

3 La citazione è tratta da S. Puglisi, Soli andavamo per la rovina. Saggio sulla scrittura di Vincenzo Consolo, Acireale-Roma, Bonanno, 2008, p. 207.

4 Cfr. G. Genette, I titoli, in Id., Soglie. I dintorni del testo, Torino, Einaudi, 1989, pp. 55-101.

5 V. Consolo, Fuga dall’Etna, Roma, Donzelli, 1993.

6 Per le immagini di Fuga dall’Etna e dei suoi bozzetti cfr. F. Carapezza Guttuso (a cura di), Guttuso. Capolavori dai musei, Milano, Mondadori Electa, 2005, pp. 60-61.

7 V. Consolo, Retablo, Palermo, Sellerio, 1987, ora in Id., L’opera completa, a cura di G. Turchetta, Milano, Mondadori (I Meridiani), 2015, p. 417. Tutte le successive citazioni saranno tratte da questa edizione.

8 Cfr. G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue, insino a’ tempi nostri, Torino, Einaudi, 1991, pp. 630-631.

9 Per uno studio della fitta intertestualità de Lo Spasimo di Palermo mi permetto di rinviare a D. Stazzone, ‘Testi e intertesti in Vincenzo Consolo: Lo Spasimo di Palermo’, in F. Cattani, D. Meneghelli (a cura di), La rappresentazione allo specchio. Testo letterario e testo pittorico, premessa di S. Albertazzi, M. Cometa, M. Fusillo, Roma, Meltemi, 2008, pp. 185-201.

10 Adotto qui le definizioni di «icona autoriale» ed «ekphrasis nascosta» proposte in M. Á. Cuevas, ‘L’arte a parole. Intertesti figurativi nella scrittura di Vincenzo Consolo’, in R. Galvagno (a cura di), «Diverso è lo scrivere». Scrittura poetica dell’impegno in Vincenzo Consolo, introduzione di A. Di Grado, Avellino, Biblioteca di Sinestesie, 2015, pp. 17-37. Di notevole valore teorico è l’introduzione alla raccolta degli scritti per artisti di Consolo: M. Á. Cuevas, ‘L’arte a parole’, in V. Consolo, L’ora sospesa ed altri scritti per artisti, Valverde (CT), Le Farfalle, 2018, pp. 9-16.

11 M. Á. Cuevas, L’arte a parole, p. 29.

12 P. V. Mengaldo, Tra due linguaggiArti figurative e critica, Torino, Bollati Boringhieri, 2005, p. 38.

13 M. Á. Cuevas, L’arte a parole, p. 30.

14 Quanto al palinsesto consoliano cfr. D. O’ Connell, ‘Consolo narratore e scrittore palincestuoso’, Quaderns d’Italià, 13, 2008, pp. 161-185; D. O’ Connell, ‘Furor melancholicus: poetica pittorica nella narrativa di Vincenzo Consolo’, in D. Perrone, N. Tedesco (a cura di), Letteratura, musica e arti figurative tra Settecento e Novecento, Firenze, Franco Cesati, 2014, pp. 147-160.

15 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano, Mondadori, 1976, ora in Id., L’opera completa, p. 127. Tutte le successive citazioni saranno tratte da questa edizione. Per una storia critico-genetica ed alcune valutazioni filologiche sul Sorriso cfr. N. Messina, ‘«Il sorriso dell’ignoto marinaio» di Vincenzo Consolo. Un approccio a III Morti sacrata’, in J. Eynaud (a cura di), Interferenze di sistemi linguistici e culturali nell’italiano, Atti del X Congresso AIPI (Università di Malta, La Valletta, 3-6 settembre 1992), Zabbar (Malta), Gutemberg Press, 1993, pp. 141-163; N. Messina, Per un’edizione critico-genetica dell’opera narrativa di Vincenzo Consolo «Il sorriso dell’ignoto marinaio», tesi di Dottorato, Universitad Complutense, Madrid, 2007, [accessed 17 February 2020]; D. O’ Connell, ‘“And he a face still forming”: Genesis Gestation and Variation in Vincenzo Consolo’s Il sorriso dell’ignoto marinaio’, Italian Studies, 1, 2008, pp. 119-140.

16 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, p. 143-144.

17 Sul rapporto tra Consolo e Sciascia cfr. C. Madrignani, Dopo Sciascia’, La rivista dei libri, novembre 2001, pp. 26-29; M. Á. Cuevas, ‘Parole incrociate: Sciascia e Consolo’, in L. Trapassi, Leonardo Sciascia, un testimone del secolo XIX, Acireale-Roma, Bonnanno, 2012, pp. 195-206. Quanto alla funzione delle epigrafi nell’opera consoliana mi permetto di citare D. Stazzone, ‘Tra palinsesto e paratesto: le epigrafi di Consolo’, Quaderns d’Italià, 21, 2016, pp. 183-192.

18 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, p. 161.

19 Ivi, p. 219.

20 M. Cometa, La scrittura delle immagini. Letteratura e cultura visuale, Milano, Raffaello Cortina, 2012, p. 135.

21 Si fa cenno alla nozione di «repertorio» elaborata da W. Iser, L’atto di lettura. Una teoria della risposta estetica, Bologna, il Mulino, 1987.

22 M. Cometa, La scrittura delle immagini,p. 116.

23 Ivi, p. 121. 24 Ivi, p. 140.

25 La Crocefissione, custodita al Koninklijk Museum voor Schone Kunstern di Anversa, è un olio su tavola realizzato da Antonello nel 1475, durante la sua permanenza a Venezia. Cfr. M. Lucco (a cura di), Antonello da Messina. L’opera completa, Cinisiello Balsamo (MI), Silvana Editoriale, 2006, pp. 216-221.

26 Cfr. M. Á. Cuevas, ‘Ancora su Antonello’, Testo, 59, 2010, pp. 117-124.

27 Cfr. R. Galvagno, ‘«Bella la verità». Figure della verità in alcuni testi di Vincenzo Consolo’, in Ead. (a cura di), «Diverso è lo scrivere»,pp. 39-64.

28 Cfr. S. Grassia, La ricreazione della mente. Una lettura del «Sorriso dell’ignoto marinaio», Palermo, Sellerio, 2011, p. 44. Per l’iconografia di San Gerolamo cfr. H. Friedmann, A Bestiary for Saint Jerome. Animal Symbolism in European Religious Art, Washington D.C., Smithsonian Institution Press, 1980, pp. 291-293. Per l’iconografia di San Gerolamo nelle opere consoliane cfr. S. S. Nigro, ‘Gerolamo e Agrippino’, La Sicilia, 15 novembre 1988.

29 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, pp. 141-142.

30 Ivi, p. 135. 31 Ivi, p. 142.

32 Si pensi al don Eugenio Uzeda dei Vicerè di De Roberto o al don Tindaro del Marchese di Roccaverdina di Capuana.

33 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, pp. 134-135.

34 Ivi, p. 142. 35 V. Consolo, Fuga dall’Etna, p. 45.

36 C. Segre, ‘La costruzione a chiocciola nel Sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo’, in Id., Intrecci di vociLa polifonia nella letteratura del Novecento, Torino, Einaudi,1991, p. 83.

37 Cfr. V. Consolo, Conversazione a Siviglia, a cura di M. Á. Cuevas, Caltagirone (CT), Lettera da Qalat, 2016, pp. 45-46.

38 Si tratta di un dettaglio de La grande confessione palermitana, riprodotto nella prima copertina di V. Consolo, Retablo, Torino, Sellerio, 1987.

39 Il racconto della scoperta sciasciana del dipinto di Manetti è in F. Clerici, ‘L’eremo, l’abate e il diavolo’, in Id., Di profilo, a cura di M. Carapezza, Milano, Novecento, 1989, pp. 267-271.

40 Per alcune valutazioni complessive su Retablo cfr. N. Zago, ‘C’era una volta la Sicilia. Su «Retablo» e altre cose di Consolo…’, in Id., L’ombra del moderno, da Leopardi a Sciascia, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1992; G. Turchetta, ‘Il luogo della vita: una lettura di «Retablo»’, in M. Lanzillotta, G. Lo Castro, E. Porciani, C. Verbaro (a cura di), Visitare la letteratura. Studi per Nicola Merola, Pisa, 2014, ETS, pp. 647-656.

41 È evidente il simbolismo onomastico adottato da Consolo: il cavaliere Clerici, infatti, approdando a Palermo, salva Isidoro, lo trae dall’abisso in cui era sprofondato e gli permette di rinascere a nuova vita. Ma il nome del «pacchetto Aurora», nel continuo gioco di allusioni che caratterizza la scrittura consoliana, rinvia anche all’incrociatore russo che, nel dicembre 1908, portò soccorso alla popolazione di Messina dopo il terremoto che aveva raso al suolo la città siciliana e Reggio Calabria. L’Aurora, per altro, ebbe un ruolo di primo piano nella rivoluzione d’Ottobre, sparando il primo colpo d’arma da fuoco dal castello di prua, segnale dell’inizio della rivoluzione.

42 V. Consolo, Retablo, p. 371. 43 Ibidem.

44 Per l’iconografia della patrona palermitana Santa Rosalia cfr. M. Cometa, Descrizione e desiderio. I quadri viventi di E. T. A. Hoffmann, Roma, Meltemi, 2005.

45 V. Consolo, Retablo, p. 369.

46 Quanto alla finestra, alla sua funzione di tecnema della visione e al suo ruolo nelle descrizioni letterarie cfr. P. Hamon, Imagerie. Littérature et imageau XIX e siècle, Paris, Édition José Corti, 2001.

47 Cfr. il saggio di R. Galvagno, «Bella la verità», pp. 39-64.

48Ibidem.

49 M. Rizzarelli, ‘Un Retablo come uno specchio. Le voyage pittoresque del cavaliere Fabrizio Clerici’, in A. Ottieri (a cura di), Ai margini della letteratura. Le “scritture contaminate”, Sinestesie, IV, 2006, p. 92.

50 Per i rapporti tra Retablo e l’Illuminismo lombardo cfr. G. Albertocchi, ‘Dietro il Retablo. «Addio Teresa Blasco, addio marchesina Beccaria». Leggere Vincenzo Consolo’, Quaderns d’Italià, 10, 2005, pp. 95-111, ora in G. Albertocchi, «Non vedo l’ora di vederti». Legami, affetti, ritrosie nei carteggi di Porta, Grossi e Manzoni, Firenze, Clinamen, 2011, pp. 141-159.

51 Cfr. V. Consolo, Retablo, p. 379. 52 Ivi, p. 370. 53 Ivi, p. 473.

da Arabeschi n. 15

La Sicilia tra mito e storia. Da Sant’Agata a Cefalù. La Gnoseologia dei luoghi nell’opera di Vincenzo Consolo

La metrica della memoria


foto: Giovanna Borgese Palermo 1975

La metrica della memoria

Un velo d’illusione, di pietà,

come ogni  sipario di teatro,

come ogni schermo; ogni sudario

copre la realtà, il dolore,

copre la volontà.

La tragedia é la meno convenzionale,

la meno compromessa delle arti,

la parola poetica e teatrale,

la parola in gloria raddoppiata,

la parola scritta e pronunciata. (1)

Al di là é la musica. E al di là é il silenzio.

Il silenzio tra uno strepito e l’altro

del vento, tra un boato e l’altro

del vulcano. Al di là é il gesto.

O il grigio scoramento,

il crepuscolo, il brivido del freddo,

l’ala del pipistrello; é il dolore nero,

senza scampo, l’abisso smisurato;

é l’arresto oppositivo, l’impietrimento.

Così agli estremi si congiungono

gli estremi: le forze naturali

e il volere umano,

il deserto di ceneri, di lave

e la parola che squarcia ogni velame,

valica la siepe, risuona

oltre la storia, oltre l’orizzonte.

In questo viaggio estremo d’un Empedocle

vorremmo ci accompagnasse l’Empedoklès

malinconico e ribelle d’Agrigento,

ci accompagnasse Hölderlin, Leopardi.

Per la nostra inanità, impotenza,

per la dura sordità del mondo,

la sua ottusa indifferenza,

come alle nove figlie di Giove

e di Memoria, alle Muse trapassate,

chiediamo aiuto a tanti, a molti,

poiché crediamo che nonostante

noi, voi, il rito sia necessario,

necessaria più che mai la catarsi.

(Catarsi, p.13-14, […])

 

Questi versi, strofe o frasi, sono tratte dal  Prologo della mia opera teatrale intitolata Catarsi, in cui  é messo in scena il suicidio sull’ Etna di un moderno Empedocle.

Ho voluto iniziare con questi versi perché la tragedia, in forma teatrale o narrativa, in versi o in prosa, rappresenta l’esito ultimo di quella che posso chiamare la mia ideologia letteraria, l’espressione estrema della mia ricerca stilistica. Espressione, in Catarsi, in forma teatrale o poetica, in cui si ipotizza che la scrittura, la parola, tramite il gesto estremo del personaggio, si ponga al limite della pronunciabilità, tenda al suono, al silenzio.

 

[…] Empedocle:

La tragedia comincia nel fuoco più alto (2)

                    In questa nuda e pura, terrifica natura,

in questa scena mirabile e smarrente,

ogni parola, accento é misera convenzione,

rito, finzione, rappresentazione teatrale.

 

Un testo, questo, dal linguaggio di voluta comunicabilità,privo di innesti dialettali,  lontano dal pastiche espressionistico praticato nelle mie opere narrative, intenzionalmente alto,  in qualche modo declamatorio, puntellato da rimandi impliciti e da esplicite citazioni di testi classici: da Hölderlin, naturalmente, ai frammenti di Perì Phùseos e di Katharmoì di Empedocle.

Per spiegare questo esito, devo partire dall’ esordio, dalla mia scelta di campo letterario, dalla prima impostazione stilistica. E il discorso cade fatalmente sulla scrittura, sulla lingua.

La lingua  italiana, sin dalla sua nascita, sappiamo, é stata, come dice Roland Barthes, “molto parlata”, nel senso che molto si é scritto su di essa. A partire dal suo grande  creatore, da Dante, con il De vulgari eloquentia. Il quale, oltre ad essere un saggio di poetica personale, é il primo trattato di linguistica italiana. “Chiamiamo lingua volgare” dice “quella lingua che i bambini imparano ad usare da chi li circonda quando cominciano ad articolare i suoni […] Abbiamo poi un’altra lingua di secondo grado, che i Romani chiamarono ‘grammatica’ (lingua letteraria regolata)”. E afferma, con un bell’ossimoro: “Harum quoque duarum nobilior est vulgaris” (Di queste due lingue la più nobile é la volgare). Da Dante dunque a Lodovico Castelvetro, ad Annibal Caro, e giù fino a Leopardi, a Manzoni, a De Amicis, fino a Pasolini. Molti  scrittori insomma hanno parlato di questo strumento, della lingua che erano costretti ad usare.

Mi voglio soffermare su Leopardi, sulle riflessioni che il poeta fa sulla società, sulla letteratura e sulla lingua italiana in quel gran mare che é lo Zibaldone. Leopardi confronta la lingua italiana con la lingua francese, stabilisce un continuo parallelo fra le due lingue, così apparentemente prossime e insieme così lontane. Lontane al punto, afferma tra gli altri Luca Serianni (3),  che per un adolescente italiano la lingua di Dante o del Novellino è ancora in gran parte comprensibile, mentre per il suo coetaneo francese La Chanson de Roland é un testo straniero, da affrontare con tanto di vocabolario.

Ma torniamo al nostro Leopardi. Il francese, egli dice, tende all’ unicità, mentre l’italiano é un complesso di lingue piuttosto che una lingua sola, potendo essa variare secondo i vari soggetti e stili e caratteri degli scrittori, per cui diversi stili sembrano quasi diverse lingue; il francese invece, sin dall’epoca di Luigi XIV, si é geometrizzato, é diventato lingua unica. E cita, Leopardi, Fénelon, il quale definisce la lingua francese una “processione di collegiali”.Diciamo qui tra parentesi che alla frase di Fénelon deve aver pensato Ernest Renan nell’affermare: “Il francese non sarà mai una lingua  dell’assurdo: e neanche sarà mai una lingua  reazionaria. Non si riesce a immaginare una vera e propria reazione che abbia per strumento il francese”. Ma a Renan ribatte Roland Barthes: “L’errore di Renan  non era errore strutturale ma storico; egli credeva che il francese, plasmato dalla ragione, conducesse necessariamente all’espressione di una ragione politica la quale nel suo spirito non poteva che essere democratica”. E concludeva: “La lingua non é né reazionaria né progressista: essa é semplicemente fascista; il fascismo infatti, non é impedire di dire, ma obbligare a dire”. Non capisco questo radicalismo linguistico di Barthes, espresso nella lezione inaugurale al Collège de France, ma  chiudendo la lunga parentesi, ritorno ancora a Leopardi, alla sua idea del francese geometrizzato. E non posso non esclamare:”Beati i francesi con la loro lingua unica, geometrica e cartesiana! Che é segno, quella lingua, dell’esistenza e della compiutezza di una società civile (“Oggi so che alla Francia mi lega soltanto l’amore per la lingua francese” scriveva Jean Genet durante il suo vagabondare per l’Europa) (4). Il complesso di lingue che é (o che é stato, fino agli anni Sessanta, fino all’analisi della trasformazione di questa lingua che ne fa Pasolini), l’italiano é di segno opposto: segno vale a dire dell’assenza o incompiutezza di una società civile italiana.

Lo Zibaldone, dicevo. Leopardi afferma che la lingua italiana, il toscano vale a dire, raggiunge la sua massima eleganza  nel Cinquecento. Finisce questa eleganza, questa centralità toscana, con la Controriforma, con l’esplosione di quel leibniziano cataclisma armonico, di quell’ anarchia equilibrata che va sotto il nome di Barocco. Per Croce però il Barocco non nasce dalla Controriforma, ma da una concomitante decadenza, dall’ affievolirsi di quell’ entusiasmo morale, di quello spirito del Rinascimento che aveva illuminato l’Europa. Era stata Firenze dunque centro di quella lingua attica, di quell’italiano platonico, di quella scrittura borghese, laica, elegante dei poeti, dei filosofi, degli scienziati a cui ogni scrittore, da ogni corte o convento, da ogni accademia o piazza, da ogni centro o periferia aspirava. Ma questa lingua dell’Ariosto e del Tasso, del Machiavelli e del Guicciardini, nel tempo si irrigidisce, si fa aulica, perde contatto col suo fondo popolare, si geometrizza, perde in estensione. Leopardi ammira la perfezione stilistica raggiunta dagli scrittori del nostro Secolo d’Oro, ma predilige l’immensità, la varietà, la vertiginosa libertà espressiva di uno scrittore secentesco, barocco, del gesuita Daniello Bartoli, l’autore della Istoria della Compagnia di Gesù. Dice: “Il padre Daniello Bartoli é il Dante della prosa italiana. Il suo stile, in ciò che spetta alla lingua, é tutto risalti e rilievi”. Risalti e rilievi come quelli del Resegone, che Manzoni ironizza ironizzando il Seicento, il tempo della disgregazione, del marasma sociale. Ironizza prima esplicitamente trascrivendo nell’introduzione  del suo grande romanzo il “dilavato e graffiato autografo” dell’anonimo secentista, inzeppato “d’idiotismi lombardi”, di “declamazioni ampollose”, di “solecismi pedestri” e seminato qua e là da qualche eleganza spagnola. (L’espediente del documento dell’anonimo secentesco pensiamo derivi al Manzoni da Cervantes, dal Don Chisciotte, dal sedicente manoscritto dell’arabo Cide Hamete Berengeli). E ironizza ancora nascostamente parodiando nell’incipit, in “Quel ramo del lago di Como”, un brano del Bartoli riguardante l’India, la regione del Gange, riportando così il disordine lombardo all’ordine, alla geometria fiorentina. Che era per Manzoni l’aspirazione all’ordine, all’armonia sociale, a un illuministico, cristiano Paese, di cui la lingua, comune e comunicativa, doveva essere espressione. Utopia mai realizzatasi, si sa. E dunque la moderna storia letteraria italiana, con le rivoluzioni linguistiche degli Scapigliati, di Verga e dei Veristi, con il preziosismo decadente di D’Annunzio, con la esplosione polifonica del “barocco” Gadda e degli altri sperimentalisti, da una parte, con lo sviluppo della “complessa” semplicità leopardiana dei rondisti e degli ermetici, con l’asciutta, scabra lingua di Montale, dall’altra, é la storia del convivere e dell’alternarsi della lingua rinascimentale e illuministica e della linea barocca e sperimentale. É la storia di speranza e di fiducia degli scrittori in una società civile; la storia di sfiducia nella società, di distacco da essa, di malinconia, di disperazione.

Da tali altezze scendendo al mio caso, a quel  che ho potuto o saputo fare, posso dire questo. Ho mosso i miei primi passi in campo letterario (e questo risale al 1963) nel momento in cui si concludeva in Italia la stagione del Neorealismo e stava per affacciarsi all’ orizzonte quel movimento avanguardistico che va sotto il nome di Gruppo ‘63. Il quale, come tutte le avanguardie, opponendosi alle linee letterarie che erano in quel momento praticate, dalla neo-realistica, alla illuministica e razionalistica, alla sperimentalistica, programmava l’azzeramento d’ogni linguaggio che proveniva dalla tradizione e proponeva un nuovo, artificiale linguaggio di difficile praticabilità. L’operazione non era nuova, naturalmente, era già stata fatta dal Futurismo, dal suo fondatore Marinetti, il quale aveva dettato il decalogo della nuova scrittura.

1) Bisogna distruggere la sintassi, disponendo i sostantivi a caso, come nascono.

2) Si deve usare il verbo all’ infinito.

3) Si deve abolire l’aggettivo.

4) Si deve abolire l’avverbio…Etc…Etc…

Questa ideologia linguistica o stilistica marinettiana riproponeva uno dei teorici del  Gruppo ’63, affermando che bisognava praticare il “disordine sintattico e semantico come rispecchiamento del disordine della società”. Credo che si fosse nel campo della indecifrabilità, della pseudo-afasia, speculare alla indecifrabilità linguistica e alla pseudo-afasia del potere.

Dicevo che ho mosso i primi passi in quel clima letterario e insieme in quel clima politico in cui un partito di maggioranza, la Democrazia Cristiana, dal ’48 ininterrottamente al potere, aveva cambiato profondamente l’assetto sociale e culturale del nostro Paese, aveva cambiato la nostra lingua.

Pasolini (sulla rivista Rinascita – dicembre ’64 – quindi in Empirismo eretico)  aveva pubblicato il saggio dal titolo Nuove questioni linguistiche in cui sosteneva che, con il neo-capitalismo, l’asse linguistico italiano s’era spostato dal centro meridione, da una realtà burocratica e contadino-dialettale, al centro settentrione, a una realtà piccolo-borghese aziendale e tecnologica. E analizzava un brano del discorso di un uomo politico emblematico, Aldo Moro (ucciso a Roma nel ’78, come sappiamo, da quei piccolo-borghesi criminali, mascherati da rivoluzionari, che sono stati i componenti delle Brigate Rosse), discorso pronunciato nel momento significativo dell’inaugurazione dell’Autostrada del Sole, autostrada che univa per la prima volta l’Italia dal Piemonte alla Sicilia. Diceva Moro: “ La produttività degli investimenti del piano autostradale dipende dunque dal loro coordinamento in una programmazione delle infrastrutture  di trasporto, che tenda a risolvere gli squilibri, ad eliminare le strozzature, a ridurre gli sperperi della concorrenza fra diversi mezzi di trasporto, a dare vita insomma ad un sistema integrato su scala nazionale”. E Pasolini concludeva dunque nel suo saggio: “Perciò in qualche modo, con qualche titubanza, e non senza emozione, mi sento autorizzato ad annunciare che è nato l’italiano come lingua nazionale” (si noti in questa frase l’amara ironia pasoliniana). Non era certo, questo italiano per la prima volta nazionale, uguale al francese unico e geometrizzato di cui parlava Leopardi, ma una sorta di sotto o extra-lingua, una astorica, rigida, incolore koinè.Sono passati più di quarant’anni dal 1964 e lascio immaginare la situazione linguistica italiana di oggi, dell’italiano strumentale e di quello letterario.

Esordivo in quel tempo, insieme a Luigi Meneghello, Lucio Mastronardi, Stefano D’Arrigo con La ferita dell’aprile, titolo di eco eliotiana. Un racconto in una prima persona mai più ripresa, una sorta di Telemachia o romanzo di formazione. Mi ponevo con esso subito, un po’ istintivamente e un po’ consapevolmente, sul crinale della sperimentazione, mettendo in campo una scrittura fortemente segnata dall’ impasto linguistico, dal recupero non solo degli stilemi e del glossario popolari e dialettali, ma anche, dato l’argomento, di un gergo adolescenziale. Gergo quanto mai parodistico, sarcastico, quanto mai oppositivo a un ipotetico codice linguistico nazionale, a una lingua paterna, comunicabile. E organizzavo insieme la scrittura su una scansione metrica, su un ritmo, con il gioco delle rime e delle assonanze. Prendeva così il racconto, nella sua ritrazione linguistica, nella sua inarticolazione sintattica, nella sua cadenza, la forma in qualche modo di un poemetto narrativo. C’era certo, dietro il libro, la lezione di Gadda e di Pasolini, c’era l’ineludibile matrice verghiana, ma c’era l’evidente polemica sociale, la diffidenza nei confronti del contesto storico, della sua lingua.

Tredici anni sono trascorsi tra il primo e il secondo libro. Un tempo lungo che poteva anche significare dimissione dalla pratica letteraria. Un tempo che ha coinciso – mi si permetta di dirlo – con la mia vicenda personale, con il mio trasferimento, nel ’68, dalla Sicilia a Milano. In questa città provai spaesamento per la nuova realtà, urbana e industriale, in cui mi trovai immerso, realtà di cui mi mancava memoria e linguaggio; per l’acceso clima politico, per i duri conflitti sociali di quegli anni. Fu un tempo quello di studio e di riflessione su quella realtà e sul dibattito politico e culturale che allora si svolgeva. Frutto di tutto questo fu la pubblicazione, nel 1976, del romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio.

Un romanzo storico-metaforico, ambientato in Sicilia intorno al 1860, che voleva chiaramente rappresentare il grande rinnovamento, l’utopia politica e sociale che nel  Sessantotto si vagheggiava in Italia e altrove, che nel nostro Paese doveva frantumarsi a causa dei suoi esiti tragici, disastrosi. L’ambientazione storica e il ripartire dal luogo della mia memoria mi permetteva di raggiungere maggiore consapevolezza della mia scelta di campo letterario, scelta contenutistica e stilistica. La sperimentazione linguistica, per l’adozione della terza persona, si svolgeva ora sul piano dell’ironia e del discorso indiretto libero. L’esito era quindi la “plurivocità” ben individuata da Cesare Segre. In cui era incluso il linguaggio alto del protagonista, un erudito dell’800, e la lingua dei contadini, la cui estremità era rappresentata da un antico dialetto, il gallo-italico o mediolatino, che si parlava in Sicilia in isole linguistiche dell’azione del romanzo. La sperimentazione, nel romanzo, era anche sul piano della struttura. I cui jati, le cui fratture erano riempite da inserti storiografici, da documenti, la cui funzione era quella di connettere i vari lacerti narrativi. Mi veniva questo dalle sollecitazioni del Gruppo ’47 di Enzerberger, per le sue teorie  di Letteratura come storiografia.  Anche qui c’é la messa in crisi del genere romanzo, c’é ancora la polemica della scrittura narrativa nei confronti della società. Società di cui fa parte la cosiddetta industria culturale che mercifica e distrugge il romanzo.

 

Nei miei successivi romanzi perseguo e approfondisco sempre di più la sperimentazione linguistica. In essi c’é la messa in crisi del genere romanzo, e c’é ancora, come dicevo sopra, la polemica nei confronti della società. Società in cui, con la rivoluzione tecnologica, con l’invasione dei mezzi di comunicazione di massa, l’autore non riesce più a individuare il lettore. Italo Calvino, scrittore quanto mai razionalista o illuminista, estremamente comunicativo, al pari di Moravia, di Bassani, di Primo Levi, di Sciascia, e di altri di quella generazione, Calvino, nel contesto di una inchiesta, alla domanda, a quale tipo di lettore egli pensasse scrivendo, rispondeva: “A un lettore che la sa più lunga di me”. Non credo che Calvino, in questo nostro presente, potrebbe ancora rispondere in quel modo, oggi in cui non è immaginabile un lettore più o meno letterariamente avveduto, più o meno

colto dell’autore.

Viene quindi la pubblicazione di

Lunaria (1985), un  racconto, una favola dialogata, che fatalmente prende forma

teatrale.La favola, ambientata in un vago Settecento, alla corte di un viceré spagnolo di Sicilia, si ispirava a un frammento lirico di Leopardi, Lo spavento notturno,e ad una prosa di Lucio Piccolo, L’esequie della luna.  La metafora della caduta della luna significava la caduta della poesia, della cultura nel nostro contesto.   L’epoca e il tema favolistico,  mi facevano  approdare a soluzioni di apparente puro significante, come questa:

Lena lennicula

Lemma lavicula,

làmula,

lèmura,

màmula.

Létula,

màlia,

Mah.

Della stessa epoca e dello stesso clima quai favolistico è anche Retablo. E’ un viaggio nella Sicilia classica, una metafora della ricerca al di là della ideologia, della completa dimensione umana, della perduta eredità umanistica. Per i rimandi, le citazioni eplicite e no, per la struttura, il risultato del racconto è di un ipertesto letterario o di un palinsesto.

Nottetempo, casa per casa è ancora una narrazione scandita come un poema. Dico narrazione nel modo in cui è stata definita da Walter Benjamin. Il quale in Angelus Novus, nel saggio su Nicola Leskov, fa una netta distinzione tra romanzo e narrazione.

La storia di Nottetempo, casa per casa é ambientata negli anni Venti, nel momento del fascismo in Italia. Vi si parla della follia privata, individuale, dolorosa, innocente, e della follia pubblica, la follia della società, della storia. Personaggio simbolico é il satanista Aleister Crowley, che incarna il decadentismo estremo della cultura europea di quegli anni, di nuove metafisiche, di misticismi di segno nero o bianco. Il protagonista del racconto, Petro Marano, è un piccolo intellettuale socialista, é costretto all’esilio, a rifugiarsi in Tunisia. Il racconto termina con questa frase: “Pensò che ritrovata calma, trovate le parole, il tono, la cadenza, avrebbe raccontato, sciolto il grumo dentro. Avrebbe dato ragione, nome a tutto quel dolore.”

 

Il libro successivo L’olivo e l’olivastro, inizia con questa frase: “Ora non può narrare. Quanto preme e travaglia arresta il tempo, il labbro, spinge contro il muro alto, nel cerchio breve, scioglie il lamento, il pianto”. Qui è negata la finzione letteraria, l’invenzione del racconto. Il libro è un viaggio nella realtà contingente e nella memoria. E’ il ritorno di un Ulisse a Itaca, dove non trova che distruzione, violenza, barbarie.

Ma devo ora tornare all’inizio di questa conversazione. Tornare alla tragedia Catarsi, in cui , l’antagonista di Empedocle, Pausania,  così recita:

–              Io sono il messaggero, l’anghelos, sono

il vostro medium, colui  a cui è affidato

il dovere del racconto, colui che conosce

i nessi, la sintassi, le ambiguità,

le astuzie della prosa, del linguaggio….

Cambia tono, diviene recitativo, enfatico.

PAUSANIA – E un mattino d’agosto lasciammo la dimora alta e luminosa, lasciammo i templi, le piazze, le arnie e le vigne, abbandonammo la patria nostra, la superba Agrigento che s’alza sopra il fiume…Spogli ed esposti, solitari, per boschi e per deserti giungemmo all’oriente, all’altro mare di quest’isola vasta, alla montagna immensa, presso la scaturigine del fuoco, del fragore, della minaccia…

Empedocle lo interrompe con un ghigno sarcastico.

EMPEDOCLE – Che menzogna, che recita, che insopportabile linguaggio! E’ proprio il degno figlio di questo orrendo tempo, di questo abominevole contesto, di questo falso teatro compromesso, di quest’era soddisfatta, di questa società compatta, priva di tradimento, d’eresia, priva di poesia. Figlio di questo mondo degli avvisi, del messaggio tondo, dei segni fitti del vuoto…Dietro il velo grasso delle sue parole di melassa, io potrei scoprire l’oscena ricchezza della mia città, la sua violenza, la sua volgarità, gli intrighi, gli abusi, i misfatti, le stragi d’innocenza, d’onore, di memoria, la morte quotidiana imbellettata come le parole morte di questo misero ragazzo, di questo triste opportunista…

Ecco, ne L’olivo e l’olivastro l’ánghelos, il narratore, non appare più sulla scena poiché ormai la cavea è vuota, deserta. Sulla scena è rimasto solo il coro che in tono lirico, in una lingua non più comunicabile, commenta e lamenta la tragedia senza soluzione, la colpa, il dolore senza catarsi. Avviene qui la ritrazione invece che l’irruzione dello spirito socratico, quello che Nietzsche, ne La nascita della tragedia vede nel passaggio dall’antica tragedia di Eschilo e di Sofocle alla moderna tragedia di Euripide. Lo spirito socratico è il ragionamento, la filosofia, è la riflessione che l’autore del romanzo fa sulla vicenda che sta narrando: è quindi, come quello dell’ánghelos o messaggero con lo spettatore, il dialogo con il lettore. La ritrazione, la scomparsa dello spirito socratico é l’interruzione del dialogo con il lettore; é lo spostamento della scrittura dalla comunicazione all’espressione.

Nelle mie narrazioni c’é sempre l’interruzione del racconto e il cambio della scrittura, il suo alzarsi di tono, svolgersi in forma ritmica, lirico-poetica. Sono questi per me le parti corali o i cantica latini.

Eric Auerbach, nel suo saggio sul Don Chisciotte, contenuto in Mimesis, scrive: “Cervantes (…) é (anche) un continuatore della grande tradizione epico-retorica, per la quale anche la prosa é un’arte, retta da proprie leggi. Non appena si tratti di grandi sentimenti e di passioni o anche di grandi avvenimenti, compare questo alto stile con tutti i suoi artifici”.

I grandi avvenimenti di cui parla Auerbach (e i sentimenti che essi provocano) con sistono per me, in questo nostro tempo, in questo nostro contesto occidentale,  nella cancellazione della memoria,e quindi della continua minaccia della cancellzione della letteratura, soprattutto di quella forma letteraria dialogante che é il romanzo. Il quale credo che oggi possa trovare una sua salvezza o plausibilità in una forma monologante, in una forma poetica.

Poesia che é memoria, e soprattutto memoria letteraria.

Questo ho cercato di fare nello Spasimo di Palermo, terzo tempo, con il Sorriso dell’ignoto marinaio e Nottetempo,casa per casa, di una trilogia. “Ostinata narrazione poetica, in cui il raccontare é in ogni momento ricerca di senso, un interrogazione sul valore della realtà e dell’esistenza…” (Giulio Ferroni)

Nello Spasimo  vi si narra ancora di un viaggio di ritorno, di un nòstos in un’Itaca dove non é che smarrimento, violenza e dolore, “..una landa ingrata, / dove si trovano strage e livore” dice Empedocle nel Poema lustrale.

Questa é la nostra Itaca d’oggi, la matrigna terra della giustizia negata, della memoria cancellata, dell’intelligenza offuscata, della bellezza e della poesia oltraggiate,  delle passioni incenerite.

 

Vincenzo Consolo

 

 

  • Pasolini P.P. Affabulazione – 1966 – prefazione di G.D. Bonino TO Einaudi 1992
  • Hölderlin F. Sul tragico –1795-1804 – prefazione R.Bodei Mi Feltrinelli 1994

3)  Serianni L.  Viaggiatori, musicisti, poeti,  MI Garzanti 2002

4)   Genet J., Diario del ladro, Il Saggiatore 2002

versione definitiva al 18.2.2009

I fili ininterrotti di Vincenzo Consolo Memoria, memoria, tanta memoria.

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Paolo Di Stefano

Se c’è uno scrittore che ha passato tutta la sua vita a combattere sul fronte dell’impegno etico-civile e su quello della sperimentazione linguistica, questo è Vincenzo Consolo. «Il maggiore scrittore italiano della sua generazione» l’ha definito Cesare Segre, tenendo presente che la sua generazione è quella che viene dopo Sciascia, Pasolini, Volponi e Calvino, e cioè quella degli anni Trenta (Consolo è nato a Sant’Agata di Militello nel 1933 ed è morto a Milano nel 2012) che ha attraversato le turbolenze della neoavanguardia con totale simpatia o con totale disgusto. Consolo non si è allineato né con gli uni né con gli altri: grazie a un suo speciale e inesausto sperimentalismo, sempre in lotta contro la lingua del suo tempo e contro la lingua vittoriosa della storia; insofferente e pessimista rispetto alle magnifiche sorti agognate dalle ideologie progressiste. Arrivato a Milano negli anni 50 per studiare, attratto dalle sirene vittoriniane, Consolo abita fino alla fine nella metropoli lombarda (con crescente irritazione che culmina negli anni 90) ma non smette di tormentarsi sul destino della sua Sicilia. E anzi la sua narrativa rappresenta quasi programmaticamente (e ostinatamente) le varie fasi della storia sicula, dall’antichità greca (Le pietre di Pantalica) alla dominazione spagnola (Lunaria), al Settecento illuminista (Retablo), alla pessima realizzazione unitaria (Il sorriso dell’ignoto marinaio), all’irrazionalismo prefascista (Nottetempo, casa per casa), al secondo dopoguerra, fino alla contemporaneità della cronaca mafiosa (L’olivo e l’olivastro), comprese le «memorie degli innocenti sopraffatti dai delinquenti» (Lo spasimo di Palermo).

La scrittura di Consolo vive di molteplici paradossi, come non cessa di sottolineare Gianni Turchetta, curatore dello splendido Meridiano, coordinatore del convegno milanese e autore del saggio introduttivo delle «Carte raccontate», il fascicolo appena pubblicato dalla Fondazione Mondadori: «Per Consolo la “letteratura” è il luogo dove il linguaggio viene sospinto fino alle sue estreme possibilità, sottoposto a una pressione senza compromessi, con una tensione che è al tempo stesso formale e morale (…). D’altro canto, Consolo non smette di ricordare quanto le parole siano mancanti rispetto alla realtà». In questa contraddizione irresoluta è il tragico della narrativa di Consolo, che si rispecchia nel rigore tormentoso del lavoro materiale sul testo, dove ogni parola e ogni giro sintattico sono il risultato di scavi filologici e, si direbbe, archeologici, sprofondamenti negli strati della memoria storica, con le sue cicatrici, e della memoria linguistica. In un burrascoso incontro al Teatro Studio di Milano (un entusiasmante tutti contro tutti), organizzato nel marzo 2002 dalla Fondazione del Corriere, con Emilio Tadini, Tiziano Scarpa e Laura Pariani, Consolo disse: «Se stabiliamo che la letteratura è memoria – e la letteratura è memoria altrimenti sarebbe soltanto comunicazione cronistica, giornalismo – allora diventa anche memoria linguistica. Io credo che l’impegno di chi scrive sia quello di far emergere continuamente la memoria». Memoria è anche memoria linguistica: il che significa affidare alla letteratura il compito di resistere al linguaggio «fascistissimo» dell’omologazione. Una visione pasoliniana. Anche per questo è affascinante (e non di rado perturbante) seguire da vicino lo scrittore lungo le vie accidentate che conducono alla pubblicazione delle sue opere: attraverso cui si intuisce come «dato fondativo» della scrittura di Consolo quella che lo stesso Turchetta definisce «la ridiscussione e perfino l’aperta negazione della forma romanzo, in quanto portatrice di un’illusoria continuità narrativa, che mistifica la complessità del reale». E già a partire da La ferita dell’aprile (1963) – il sorprendente libro d’esordio che restituisce le lotte politiche del secondo dopoguerra narrate in prima persona dall’allievo di un istituto religioso di paese – si intravede uno sviluppo che porta dalle soluzioni più piane delle prime redazioni verso una crescente deformazione espressionistica e un arricchimento stilistico. Un processo che troverà una vera maturazione ne Il sorriso dell’ignoto marinaio, ambientato ai tempi della spedizione dei Mille e articolato su più livelli: il capolavoro del 1976 il cui titolo si deve a un misterioso ritratto d’uomo di Antonello da Messina (che per una felice coincidenza è in mostra in questi giorni nella rassegna di Palazzo Reale), un dipinto ricevuto in dono a Lipari dal protagonista, il barone di Mandralisca. Una gestazione sofferta (e fondata su una lunga preparazione documentaria) che procede per faticose fasi di scrittura e riscrittura, ripensamenti e blocchi che in quegli anni vennero superati grazie al sostegno della moglie Caterina Pilenga e alle sollecitazioni di amici fedeli come Corrado Stajano. E nel segno dell’amicizia è anche il lungo rapporto – di totale ammirazione – con il «maestro» Sciascia: ora testimoniato dalla corrispondenza (1963-1988), edita da Archinto a cura di Rosalba Galvagno. La preziosa biblioteca consoliana e l’archivio – con le varie redazioni dei romanzi e i rispettivi materiali di ricerca – sono stati affidati alla Fondazione Mondadori che negli ultimi due anni ha completato la catalogazione e la descrizione. Con un rigore e una passione che Consolo, principe di rigore e di passione, avrebbe certamente approvato.

Paolo Di Stefano
4 marzo 2019 (Corriere della Sera)

Un volume della Fondazione Mondadori curato da Gianni Turchetta e un epistolario
edito da Archinto. E a Milano il 6 e 7 marzo un convegno sullo scrittore

Il volume «E questa storia che m’intestardo a scrivere. Vincenzo Consolo e il dovere della scrittura», a cura di Gianni Turchetta, nella collana «Carte raccontate» (Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, pp. 52, euro 12, disponibile dal 6 marzo)


Il volume «Essere o no scrittore. Lettere 1963-1988», di Vincenzo Consolo e Leonardo Sciascia (Archinto, pp. 84, euro 14)

La scrittura come fuga dal carcere della Storia Il sorriso dell’ignoto marinaio

Giulia Falistocco

Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio Consolo riprende la lezione di Manzoni, ma decostruisce la forma romanzesca attraverso una struttura complessa e una forte sperimentazione linguistica. Il romanzo storico rimane per Consolo un modo per rappresentare metaforicamente il presente, sebbene non più in maniera innocente, ma per mezzo di forme parodiche, atte a superare un’arte ironica-borghese. L’articolo quindi analizza le strategie rappresentative e allegoriche con cui Consolo dà nuovo spessore al romanzo storico, riuscendo a conservare un vigore etico e politico.

                                                  Dopo tredici anni di silenzio, a seguito de La ferita dell’aprile, nel 1976 Vincenzo Consolo pubblica Il sorriso dell’ignoto marinaio. Il suo secondo romanzo è un’opera necessaria, «nata da esperienze private e da eventi pubblici» (Consolo 2015: 1255), con la quale l’autore affronta metaforicamente il passato e il presente siciliano. Per Consolo lo scrittore, infatti, da Zola in poi, non può sottrarsi alla Storia, «se non a rischio dell’accusa di complicità e di collaborazione col potere che perpetra ingiustizie e delitti» (Consolo 2015: 1173). Il romanzo propone una metafora politica e sociale, dunque, che tenta di superare il “silenzio artistico”, per dirla con parole dello stesso Consolo, e di sperimentare le potenzialità rappresentative del romanzo.

2La planimetria metaforica del romanzo è strutturata attraverso l’immagine della chiocciola, come ha mostrato Cesare Segre nel suo illuminante saggio (Segre 1991), archetipo ancestrale, «origine della percezione, conoscenza e costruzione» (Consolo 2015: 1254). Attraverso quest’immagine, Consolo dà forma alla materia narrata, con l’intento di allargare nel tempo, «verticalizzare» (Consolo 2015: 1255), il suo messaggio. L’obiettivo ultimo dell’autore, però, è quello di mostrarne il superamento: solo l’evasione dal carcere-chiocciola può ridurre lo spazio comunicativo fra testo linguistico e contesto situazionale. Nel pensiero di Consolo, quindi, la sfida alla chiocciola si coniuga con la sperimentazione del romanzo storico. Il punto focale, o, come direbbe Consolo, «l’angolo acuto» (Consolo 2015: 1255) di questo triangolo, è il quadro di Antonello da Messina: L’ignoto marinaio. Con il suo sorriso ironico, il ritratto è espressione dell’élite intellettuale, di cui l’autore mostra le mancanze, i limiti e le storture. Il raziocino culturale, in particolare di stampo illuminista, viene smascherato, con lo scopo di mostrare in ultimo la fragilità della parola: la letteratura deve quindi prendere coscienza della sua “impostura”, della sua soggettività e temporalità.

  • 2 Come scrive Spinazzola: «I ViceréI vecchi e i giovaniIl Gattopardo costruiscono una sorta di (…)

3In questo articolo si intende analizzare gli elementi di questo triangolo (chiocciola, ritratto e romanzo) attraverso i quali Consolo sperimenta e supera il romanzo storico, genere ricorrente nella più recente letteratura siciliana2.

4I capitoli chiave che ci consentono di entrare nel cuore del romanzo sono gli ultimi quattro, composti dalle lettere che Mandralisca invia a Giovanni Interdonato (compreso l’ultimo capitolo costituito dalla trascrizione delle epigrafi). Queste nascono dalla necessità di narrare i moti di Alcàra Li Fusi; ma l’impossibilità di trovare le parole della memoria dà origine a una requisitoria rivolta al suo alter ego, che si trasforma con lo scorrere delle pagine in una confessione. Le aporie della Storia diventano, quindi, il vero oggetto della lettera: la loro risoluzione passa attraverso l’immagine della chiocciola, simbolo della memoria personale e collettiva.

  • 3 Dietro questa dichiarazione possiamo intravedere i modelli letterari dell’autore: se da un lato S (…)

5Nell’ottavo capitolo, intitolato Il carcere, l’ambientazione è nel castello di Maniforti, che nasconde nelle sue fondamenta la prigione, in cui vengono portati i condannati di Alcàra Li Fusi. Il carcere ha la forma di «un’immensa chiocciola con la bocca in alto e l’apice in fondo, nel bujo e putridume» (Consolo 2015: 235). È uno schema elicoidale che appunto, seguendo il suggerimento dello stesso Consolo, serve a «conoscere com’è la storia che vorticando dal profondo viene; immaginare anche quella che si farà nell’avvenire» (Consolo 2015: 238). La forma della conchiglia, essendo tridimensionale, unisce spazio e tempo, ed è proprio quest’ultimo che «verticalizza» la struttura. Come ha individuato Turchetta, «la progressione lineare del racconto si sovrappone costantemente al ripetersi di strutture analoghe» (Turchetta 2015: XLIX) che appunto mimano la chiocciola. Il romanzo infatti è composto da una serie di piani temporali apparentemente disgiunti, ma che nascondono molteplici connessioni. Capire l’iter vorticoso della Storia è compito del lettore quanto del protagonista Mandralisca. Attraverso l’immagine della chiocciola, quindi, l’autore organizza la narrazione: la sua forma semi-labirintica serve a dare un’orditura agli eventi storici, creando una spirale, di «estremi» e di «intermedi» (Segre 1991: 81) che, parafrasando le parole di Segre, si alternano o si mescolano. Attraverso i suoi vari significati, inoltre, la chiocciola rappresenta il corso degli eventi, tanto quanto le modalità con cui vengono rappresentati. Con il suo intreccio di voci e di echi il carcere-conchiglia, infatti, assume un valore meta-letterario, dando forma alla lingua che per Consolo deve racchiudere l’ordine illuminista e il disordine barocco: «una lingua che resta molteplice volge dal basso all’alto, dal mondo popolare e dal mondo classico» (Consolo 2015: 1237)3.

  • 4 La citazione, presa da L’ordine delle somiglianze di Leonardo Sciascia insieme a Cronaca rimata d (…)

6La rappresentazione della chiocciola si realizza attraverso il gioco delle somiglianze, «scandaglio delicato e sensibilissimo» (Sciascia 1998: 35)4. È sempre Consolo, attraverso le parole del Mandralisca che ci fornisce la chiave di lettura delle procedure narrative. L’arco di ingresso al carcere, infatti, ha nove pietre portanti per lato «con figure a bassi rilievi, diverse, ma ognuna che somiglia o corrisponde all’altra allato della pila opposta, e unica la chiave, che divide o congiunge, tiene le due spinte, l’ordine contrapposto delle somiglianze» (Consolo 2015: 235). Per entrare nella chiocciola bisogna passare quindi tra immagini simili, ma in contrasto; tra queste solo la chiave non ha un corrispettivo: è l’inizio, il centro della chiocciola «che divide o congiunge» (Consolo 2015: 235). Non a caso «sull’ordine delle somiglianze è strutturato il sistema conoscitivo del barone di Mandralisca» (Traina 2011: 59): a lui infatti Consolo affida il compito di interpretare lo schema della chiocciola. Il romanzo perciò dovrà rifarsi a questo impianto gnoseologico, perché, come scrive sempre Traina, la sfida al labirinto passa per l’assunzione della sua forma. Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio, perciò, sono presenti una serie di elementi simmetrici, ma allo stesso tempo in contrasto: tre in particolare sono importanti nell’andamento dell’opera: i moti di Cefalù e Alcàra Li Fusi, Giovanni Interdonato e il Ritratto dell’ignoto.

7I moti di Cefalù del 1856 sono sedati dall’esercito borbonico, portando alla condanna degli organizzatori. Si tratta di una rivolta che vede la partecipazione dell’alta borghesia liberale, presentata con elementi tra il tragico e il melodrammatico (Spinuzza ad esempio è descritto con tono di pietas dal narratore). La rivolta di Alcàra Li Fusi, che occupa il romanzo dal terzo capitolo fino alla fine, è invece ad opera dei contadini. Anche questa viene sedata nella violenza, ma dai rappresentanti della borghesia liberale. Apparentemente speculari i due moti sono in realtà “contrapposti”: sono i due modi di dare corpo alla parola “Libertà”, come si chiarirà più avanti. Anche la figura di Giovanni Interdonato subisce un capovolgimento: nella seconda parte del romanzo infatti Mandralisca incontra l’omonimo cugino del rivoluzionario, «somigliante a me nel nome e cognome solamente, ché per il resto discordiamo» (Consolo 2015: 229), colui che attraverso l’inganno riesce a sedare il moto di Alcàra Li Fusi. In ultimo abbiamo il Ritratto di Antonello, il cui sorriso ironico da simbolo della ragione illuministica passa ad essere luciferino e malefico alla fine del romanzo.

8L’aporia della Storia-chiocciola perciò si realizza nell’aporia delle somiglianze: «somiglia, ecco tutto» scrive Sciascia ne Il gioco delle somiglianze (Sciascia 1998: 35). La lumaca, metafora della Storia “vorticosa”, perciò, diventa una figura claustrofobica, negazione di vita, come il carcere di Maniforti, luogo di dolori e affanni dal quale bisogna uscire. È sempre Mandralisca, nella lettera a Interdonato, che ne dà una lucida spiegazione:

Vidi una volta una lumaca fare strisciando il suo cammino in forma di spirale, dall’esterno al punto terminale senza uscita, come a ripeter sul terreno, più ingrandita, la traccia segnata sopra la sua corazza, il cunicolo curvo della sua conchiglia. E sedendo e mirando mi sovvenni allor con raccapriccio di tutti i punti morti, i vizi, l’ossessioni, le manie, le coartazioni, i destini, le putrefazioni, le tombe, le prigioni… Delle negazioni insomma d’ogni vita, fuga, libertà e fantasia, d’ogni creazion perenne, senza fine… (Consolo 2015: 217).

9La chiocciola è, quindi, riprendendo le parole di Segre, «metafora plurima», allegoria delle «ingiustizie del potere», dei «privilegi della cultura», «della proprietà come usurpazione» (Segre 1991: 80).

10La visione della Storia si associa alla riflessione sul linguaggio. «Cos’è stata la storia sin qui», scrive Consolo attraverso Mandralisca, se non «una scrittura continua di privilegiati» (Consolo 2015: 215). La Storia è una narrazione soggettiva, ad appannaggio di una determinata classe sociale, definita dall’autore come «coloro che possedevano i mezzi del narrare» (Consolo 2015: 215), e tra questi anche il romanziere-scrittore non ne è avulso. La giustapposizione tra documento e fiction dovrà, perciò, essere letta come la messa in discussione del racconto storico, non più fonte di veridicità. Come scrive Turchetta, «per tutta la vita Consolo ha messo in discussione lo statuto della parola, denunciandone gli invalicabili limiti, la falsità o quanto meno la tendenziosità e la dubbia legittimità, la sua inevitabile determinatezza, storica e soggettiva» (Turchetta 2015: XXV). Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio il maggiore esempio della polisemia linguistica è rappresentato dalla parola “Libertà”. Continuando a citare dalla lettera del Mandralisca:

e dunque noi diciamo Rivoluzione, diciamo Libertà, Egualità […] e gli altri, che mai hanno raggiunto i dritti più sacri e elementari, la terra e il pane, la salute e l’amore, la pace, la gioja e l’istruzione, questi dico, e sono la più parte, perché devono intender quelle parole a modo nostro? (Consolo 2015: 216).

11Infatti se per la borghesia liberale “libertà” indentifica una serie di diritti astratti e immateriali, per i contadini, per coloro che non hanno il mezzo del narrare, libertà è la terra. La polisemia della parola è un chiaro riferimento alla novella di Verga, intitolata appunto Libertà. Questa si conclude con le amare riflessioni di uno dei rivoltosi di Bronte condannati a morte: «Il carbonaio mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: – Dove mi conducete? – In galera? – O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà…» (Verga 2013: 325).

12La messa in discussione dell’istituto storia si lega, inoltre, a un progetto politico che deve mettere in scacco i soprusi di «coloro che hanno il mezzo del narrare». L’ambientazione scelta da Consolo è il Risorgimento: momento di contraddizioni e conflitti che deve essere liberato dalla sua patina oleografica e retorica. Consolo infatti scrive:

durante la campagna siciliana esplodono subito le contraddizioni, il conflitto tra i due modi di intendere il Risorgimento: quello popolare, come rivoluzione e riscatto sociale; e quello borghese intellettuale, come liberazione dalle dominazioni straniere del paese, come unità politica sotto forma di repubblica o di monarchia. (Consolo 2003)

  • 5 La chiocciola, infatti, tra i suoi molteplici significati può assumere anche una valenza salvific (…)

13L’autore denuncia il crimine della proprietà, «la più grossa, mostruosa, divoratrice lumaca» (Consolo 2015: 220), che può essere proprietà della terra, quanto proprietà della parola. Simbolo della “proprietà” intellettuale è proprio il sorriso dell’ignoto, immagine dell’equilibrio tra «cupezza» e «riso» e della ragione «una lama d’acciao», «lucida» e «tagliente» (Consolo 2015: 144), come la definisce il narratore. Mandralisca, unicum nella società erudita siciliana, sente il bisogno di sottrarsi alle imposture della storia: deve perciò compiere una catabasi nelle profondità della chiocciola-carcere per riemergerne un uomo cambiato5. È lo stesso Interdonato a riconoscere le particolarità del barone:

voi invece, barone, mi dovete permettere, perché non siete un pazzo allegro, un imbecille o calacàusi come la maggior parte degli eruditi e dei nobili siciliani… Voi siete un uomo che ha le capacità di mente e di cuore per poter capire (Consolo 2015: 160)

14L’inganno della lumaca viene, dunque, smascherato da Mandralisca: dopo una vita passata a cercare e catalogare questi piccoli molluschi, non rimane altro che schiacciare quei gusci vuoti, bearsi del rumore delle chiocciole frantumate.

15L’impossibilità di conoscere la Storia attraverso la parola è una frattura epistemologica, sentita con forza da Consolo, che causa la crisi dell’intellettuale-scrittore. Questo deve, perciò, rinunciare al suo ruolo demiurgico, distaccato e ironico, e diventare l’opposto del ritratto che invece sembra fissare tutti negli occhi. La sua «impostura», un tempo origine di conoscenza, ora si rivela una chimera da affrontare. Così quel sorriso, un tempo «fiore d’intelligenza e sapienza, di ragione», diventa «pungente», «fiore di distacco e eleganza, d’aristocrazia, dovuta a nascita, a ricchezza, a cultura o potere che viene da una carica» (Consolo 2015: 219). Il rimedio potrebbe essere quello di scrivere la Storia dal punto di vista di coloro che non possiedono il mezzo del narrare; tuttavia lo scarto «di voce e di persona» (Consolo 2015: 215) non può essere eliminato, poiché la nascita e la formazione dello scrittore generano un vizio di forma insuperabile. Consolo, infatti, non mette sotto scacco solo la narrazione storica, ma anche qualsiasi forma di riproduzione del reale: «quando un immaginario meccanico istrumento tornerebbe al caso, che fermasse que’ discorsi al naturale, siccome il dagherrotipo fissa di noi le sembianze. Se pure, siffatta operazione sarebbe ancora ingiusta» (Consolo 2015: 216). Anche la forma d’arte più immediata, in presa diretta, come potrebbe essere il cinema o il documentario, alluse in queste parole, non sono sufficienti a superare l’impostura.

16«Che più, che fare?» (Consolo 2015: 218) si chiede il Mandralisca. La soluzione arriva da un altro personaggio. L’antagonista per eccellenza del sorriso, infatti, è Catena, colei che per prima riconosce l’aspetto «greve, sardonico, maligno» (Consolo 2015: 221) del ritratto e lo sfregia nel punto finale del labbro. Un gesto che Mandralisca comprende solo alla fine del romanzo e lo porta ad esclamare: «Ho capito: lumaca, lumaca è anche quel sorriso!» (Consolo 2015: 219). Catena, per quanto non compaia come personaggio attivo, ha quindi un ruolo chiave per la comprensione dell’opera. Bouchard analizza la rielaborazione parodica di Catena rispetto alla tradizione risorgimentale. La ragazza, infatti, prima presentata come una semplice tessitrice, quasi «topos dell’isterismo femminile» (Bouchard 2013: 45), si rivela in seguito paladina della causa risorgimentale.Catena è quindi un personaggio complesso, allegoria dell’inventio e detentrice del genio creatore: la tovaglia con l’albero delle quattro arance ne è la manifestazione. La descrizione del ricamo è affidata allo sguardo distante della baronessa Parisi: «sembrava quella tovaglia – pensò la baronessa – ricamata da una invasa dalla furia, che con intenzione ha trascurato regole numeri misure e armonia, fino a sembrare forse che la ragione le fosse andata a spasso» (Consolo 2015: 167-168). In questa «mescolanza dei punti più disparati» (Consolo 2015: 168), perciò, va rintracciato il progetto poetico di Consolo: il romanzo si origina dalla libera creatività, dando vita all’alternanza delle voci, rinascita della società. Bisogna notare che il «furore» (Consolo 2003) è la qualità attribuita dall’autore ai più alti poeti della tradizione letteraria: Virgilio, Dante, Petrarca e Leopardi.

17Le scritte, l’ultima testimonianza lasciata dal Mandralisca nel capitolo conclusivo, sono appunto frutto dell’immaginazione e della libertà creativa: evadono dal carcere-chiocciola portando il messaggio di «libertà» dei contadini di Alcàra Li Fusi. È qui, però, che interviene Consolo in persona, dando in ultimo al lettore il senso della sua poetica: le scritte infatti sono un artificio dall’autore stesso. In questo dialetto sanfratellano, siciliano e letterario si mescolano in un pastiche polivocalico, «sintesi linguistica», come scrive Segre, «della Sicilia medievale e barocca, feudale e popolare, cittadina e contadina» (Segre 1991: 86). La scrittura in questo modo diventa nemica della lumaca-labirinto, permettendone appunto la fuga.

18Lo scrittore, perciò, per poter evadere dal carcere-chiocciola, non può rinunciare all’impostura, ma aggirarla con l’immaginazione. Un percorso che egli compie in solitudine «per combattere il potere e il conformismo imposto dal potere» (Consolo 2015: 1173), scrive Consolo, solo così si potrà realizzare la libertà di linguaggio che è appropriazione di verità ed emotività. Lo stesso processo è indicato dal Mandralisca per i contadini di Alcàra: «tempo verrà in cui da soli conquisteranno que’ valori, ed essi allora li chiameranno con parole nuove, vere per loro, e giocoforza anche per noi, vere perché i nomi saranno intieramente riempiti dalle cose» (Consolo 2015: 217).

  • 6 In precedenza questo saggio-racconto, Un giorno come gli altri, fu inserito da Enzo Siciliano in (…)

19Il modello che Consolo deve superare è quello razionale e ironico di Sciascia e Manzoni, così da approdare a una letteratura terrigna, perché «a guardar sotto, sotto la lumaca intendo, c’è la terra, vera, materiale, eterna» (Consolo 2015: 219). Nella poetica di Consolo questo non significa mai accostarsi alla realtà con ingenuità e spontaneità, ma è piuttosto un procedere di labor lime, di complessa sperimentazione, in grado di accogliere tutte le forme espressive. «Il narrare», scrive Consolo, è un’«operazione che attinge quasi sempre dalla memoria», questa però, a differenza dello scrivere, «mera operazione di scrittura impoetica», non può cambiare il mondo, «perché il narrare è rappresentare il mondo, cioè ricrearne un altro sulla carta» (Consolo 2012: 92)6. Eppure, prosegue l’autore, «il narratore dalla testa stravolta e procedente a ritroso, da quel mago che è, può fare dei salti mortali, volare e cadere più avanti dello scrittore, anticiparlo… questo salto mortale si chiama metafora» (Consolo 2012: 92). Il sorriso dell’ignoto marinaio, infatti, evita un approccio mimetico, ma è intarsiato di analogie, simmetrie tra i personaggi e tra le parti dell’opera (operazione che verrà ripresa anche in Retablo, con i tre capitoli che mimano la pala d’altare). Il romanzo è composto per blocchi, così da disorientare il lettore, non lasciandosi mai all’affabulazione: si pensi al passaggio dall’appendice del capitolo due, in cui vengono presentati i moti di Cefalù, a Morti Sacrata. Autocosciente della sua finzionalità, Il sorriso dell’ignoto marinaio non permette al lettore di adagiarsi in una lettura empatica e melodrammatica.

20In conclusione, l’analisi fin qui condotta permette di delineare cosa sia il romanzo storico per Vincenzo Consolo, attraverso il confronto con altre opere. Il primo paragone deve essere fatto con un altro romanzo composto nello stesso periodo e uscito a soli due anni di distanza, nel 1974: La Storia. Nel romanzo di Elsa Morante, come in Consolo, storia e romanzo non dialogano, ma vengono giustapposti. Morante, anche lei interessata a creare un linguaggio per le vittime del potere, predilige una lingua limpida e comunicativa, riformulando il rapporto tra epos e romanzo. Per l’autrice la letteratura gioca ancora un ruolo prioritario, in grado di illuminare le verità del reale. Consolo, invece, manifesta una crisi più profonda che coinvolge romanzo e linguaggio integralmente: questi condividono le stesse aporie, le stesse storture. Storia e invenzione, perciò, non si amalgamano, ma messi difronte l’uno all’altro condividono la stessa parità gnoseologica. Il campo d’indagine del romanzo storico, perciò, come sostiene Giovanna Rosa, va ricercato «nell’effetto di storia» (Rosa 2010: 50): tesi ancora più vera nel Novecento, visto che la Storia ha perso il suo carattere monolitico. Consolo, potremmo parafrasare, porta all’estremo la decostruzione del linguaggio creando “l’effetto di romanzo”. La riflessione dell’autore inizia proprio dal mettere in discussione l’istituto del genere, dando vita ad un romanzo che fa deflagrare il conflitto, prima di tutto linguistico. Il sorriso dell’ignoto marinaio, in maniera anti-affabulatoria, è «un romanzo storico che è la negazione del romanzo, come narrazione filata di una storia, e della Storia, come esplicazione degli avvenimenti» (Segre 1991: 77).

21L’afasia, possibile conseguenza dell’arbitrarietà della memoria, viene eclissata in favore di una parola che ritrova forza nello sperimentalismo di Gadda e Pasolini, ma soprattutto nel confronto con la grande tradizione del romanzo storico siciliano. «Il romanzo storico, e in specie in tema risorgimentale», scrive Consolo, è «passo obbligatorio, come abbiamo visto, di tutti gli scrittori siciliani, [ed] era per me l’unica forma possibile per rappresentare metaforicamente il presente, le sue istanze, le sue problematiche culturali» (Consolo 2003). Verga, Pirandello, ma soprattutto Tomasi di Lampedusa, sono i modelli di riferimento. Consolo però sceglie una via diversa rispetto agli autori siciliani: non un anti-romanzo, o contro-romanzo storico, ma una scrittura che manifesti il superamento:

per me il suo linguaggio e la sua struttura volevano il superamento in senso etico, estetico, attraverso mimesi, parodia, fratture, sprezzature, oltranze immaginative dei romanzi d’intreccio dispiegati e dominati dall’autore, di tutti i linguaggi logici, illuministici, che, nella loro limpida serena geometrizzazione, escludevano le “voci” dei margini (Consolo 2015 1258)

22Il Gattopardo in particolare, non a caso chiamato dall’autore romanzo della fine, segna un momento di frattura nel romanzo risorgimentale. Con la sua intelligenza razionale, la propensione per le idee astratte, il principe di Salina è il coronamento dell’atemporalità, del distacco armonico dell’intellighenzia siciliana. Passato il turbolento dibattito, infatti, Il Gattopardo è stato riconosciuto per quello che era, «un classico» (Consolo 2015: 1150). Consolo, invece, interessato a sperimentare le potenzialità del romanzo in un’epoca «senza speranza», ritiene che questo possa sopravvivere, ma solo sotto forma parodica e metaforica. Polivocalità e decostruzione del romanzo sono gli elementi per poter realizzare il processo di mediazione metaforica, ultimo orizzonte percorribile per rapportarsi con la realtà. Quindi il romanzo per Vincenzo Consolo può vivere solo sotto forma parodica, perché esso stesso è una parodia della realtà, un’impostura.


BIBLIOGRAFIA

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Gli utenti abbonati ad uno dei programmi OpenEdition Freemium possono scaricare i riferimenti per i quali Bilbo a trovato un DOI nei formati standard. Bouchard N., 2013, «Oltre la tradizione del romanzo storico ad argomento risorgimentale: la riscrittura di donna e nazione ne Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo», Forum Italicum, vol. 47, Issue 1, p. 38-53. DOI : 10.1177/0014585813479869 Consolo V., 1993, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Roma, Donzelli. Consolo V., 2003, Risorgimento e letteratura. Il romanzo post-risorgimentale siciliano, in: http://vincenzoconsolo.it. Consolo V., 2012, La mia isola è Las Vegas, a cura di Nicolò Messina, Milano, Mondadori. Consolo V., 2015, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, Milano, Mondadori, «I Meridiani». Rosa G., 2010, Dal romanzo storico alla Storia. Romanzo. Romanzo storico, antistorico e neostorico, in: Simona Costa e Monica Venturini, Le forme del romanzo italiano e le letterature occidentali dal Sette al Novecento, Firenze, ETS, p. 45-70. Sciascia L.1998, Cruciverba, Milano, Adelphi. Segre C., 1991, «La costruzione a chiocciola nel «Sorriso dell’ignoto marinaio» di Consolo», Intrecci di voci: la polifonia nella letteratura del Novecento, Torino, Einaudi, p. 71-86. Spinazzola V., 1990, Il romanzo antistorico, Roma, Editori Riuniti. Traina G., 2011, Vincenzo Consolo, Fiesole, Cadmo. Turchetta G., 2015, «Cronologia», in: Consolo Vincenzo, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, Milano, Mondadori, «I Meridiani». Verga G., 2013, Libertà, in: Novelle I, Milano, Mondadori.
NOTE

2 Come scrive Spinazzola: «I ViceréI vecchi e i giovaniIl Gattopardo costruiscono una sorta di caso letterario plurimo, fascinoso e sconcertante. Di solito, un’opera viene presa a modello da altri scrittori, della stessa età o di epoche successive, in quanto ha ottenuto successo. Qui invece ci troviamo di fronte a una serie di romanzi palesemente imparentati fra loro, ma senza che il primo e nemmeno il secondo abbiano incontrato fortuna, tutt’altro» (Spinazzola 1990: 7). Anche Il sorriso dell’ignoto marinaio può essere aggiunto alla triade di romanzi proposti da Spinazzola: benché se ne distanzi per stile e intento, il riferimento a queste opere è costante.

3 Dietro questa dichiarazione possiamo intravedere i modelli letterari dell’autore: se da un lato Sciascia infatti rappresenta la purezza linguistica, dall’altro Piccolo raffigura il caos barocco, una lingua classica e al tempo stesso ancestrale. Rispetto a Sciascia il rapporto è particolarmente importante, ma allo stesso tempo ambiguo; è Consolo stesso infatti ad alludere al distacco avvenuto da Sciascia attraverso Il sorriso dell’ignoto marinaio: «ha un altro significato ancora quel ritratto, che molto bene ha colto Sciascia. “Questo libro è la storia di un parricidio” ha detto riferendosi allo sfregio che il ritratto ha sulle labbra» (Consolo 1993: 43).

4 La citazione, presa da L’ordine delle somiglianze di Leonardo Sciascia insieme a Cronaca rimata di Giovanni Santi, è inserita da Consolo nell’incipit del romanzo.

5 La chiocciola, infatti, tra i suoi molteplici significati può assumere anche una valenza salvifica. Traina fa riferimento al significato archetipico della conchiglia «simbolo prettamente femminile associato ai poteri magici della matrice – passa dalla simbologia mitica alla simbologia cristiana, come segno di perpetuo rinnovamento, dunque di resurrezione: forse, per Consolo, di rivoluzione» (Traina 2011: 62).

6 In precedenza questo saggio-racconto, Un giorno come gli altri, fu inserito da Enzo Siciliano in Racconti italiani del Novecento, edito per Mondadori nel 1983.

Notizia bibliografica

Giulia Falistocco, «La scrittura come fuga dal carcere della Storia Il sorriso dell’ignoto marinaio», reCHERches, 21 | 2018, 77-85.

Notizia bibliografica digitale

Giulia Falistocco, «La scrittura come fuga dal carcere della Storia Il sorriso dell’ignoto marinaio», reCHERches [Online], 21 | 2018, online dal 05 octobre 2021, consultato il 07 décembre 2022. URL: http://journals.openedition.org/cher/1189; DOI: https://doi.org/10.4000/cher.1189

Giulia Falistocco
reCHERches, 21 | 2018, 77-85.

Nello scriptorium barocco di Vincenzo Consolo: riprese e ribaltamenti letterari in Retablo

Nicola Izzo

Negli anni Ottanta, la produzione di Consolo è contraddistinta dalla stilizzazione barocca, che raggiunge il suo culmine con Retablo (1987), opera-laboratorio e straordinario compendio letterario. Tale studio si concentra sulla pratica di riscrittura espletata dall’autore siciliano, che, quale il Pierre Menard autore del Chisciotte borgesiano, ricrea e rivisita testi importanti della letteratura italiana (Leopardi, Ariosto) ed europea (Goethe, Jaufré Rudel, Eliot).

Parole chiave:Consolo , Retablo , Leopardi , Ariosto , Genette , intertestualità , palinsesto , parodia , ribaltamento

1 Retablo è un che si contraddistingue per la sua fitta stratificazione linguistica e letteraria, che va a termine – declinandosi attraverso un’abile e ricercata commistione di prosa e lirismo, raffinato pastiche espressionistico di toni e stili un vero e proprio palinsesto, che richiama quanto teorizzato da Gerard Genette a proposito della letteratura della seconda metà del Novecento (Genette 1982). L’intento di tale studio è pertanto di penetrare tra i vari livelli dell’opera, alla ricerca dei numerosi riferimenti intertestuali presenti, estrinsecandone in modo speciale i giochi di parodie e ribaltamenti operati da Consolo.
A ciò va premio che la struttura di Retablo ricalca quella dell’omonimo polittico e che la comp (…)

2 Il primo obiettivo è quello di analizzare il modo in cui i personaggi dell’opera interagiscono all’interno del microcosmo consolano. La passione che lega frate Isidoro a Rosalia e il sentimento di Fabrizio Clerici sono manifestazioni di due opposte concezioni amorose, che rimandano a topoi medievali attestati repertorio della letteratura.
3 Per quanto riguarda Isidoro: «Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, ro (…)
Alle prime intense parole d’ordine di utilizzatore», non notare quanto esse presentino le medesime caratteristiche li forma che Guiette identificava nel modello utilizzato, riconoscevi «la supremazia dell’ordine estetico utilizzato per il suo valore incantatorio» e sublimato « ove «il linguaggio verrà utilizzato per suo valore incantatorio» e sublimato « dalla sua collocazione, dal suo volume, dall’uso che ne viene fatto» (Guiette 1990: 140).
4 La vexata quaestio sul nome del giullare autore dell’opera è tuttavia risolta più avanti da Conso (…)
Il racconto di Isidoro e Rosalia è affiancabile al contrasto di Cielo o Ciullo d’Alcamo, Rosa fresca aulentissima , breve composizione che il De Sanctis identificava come il primo testo della letteratura italiana (De Sanctis 1981: 59) e che rielaborava il modello della pastorella (sottogenere della lirica medievale che Bec inserimento nel registro popolareggiante) (Formisano 1990: 123) attraverso la «rottura del contrasto un po’ meccanico fra il portatore delle convenzioni cortesi e la detentrice dell’istintiva diffidenza e riottosità dell’ambiente plebeo» ( Pasquini 1987: 119).
5 Alcune concordanze possono anche il gioco evidenziabili e confermerebbero letterario operato dallo scrittore siciliano:
Ahi, non abènto , e majormente ora ch’uscii di Vicarìa (Consolo 1987: 19).
Per te non ajo abènto notte e dia (Rosa fresca aulentissima, str. I, v. 4).

O ancora:
[…] la quale m’illudeva che, giunti a un numero bastevole di onze , smesso il saio, avrei impalmato la figlia sua adorata Rosaliuzza (Consolo 1987: 23).
Intendi bene ciò che bol[io] dire?
men’este di mill’ onze lo tuo abere (Rosa fresca aulentissima, str. XVIII, vv. 4-5).
Il rivolgersi in prima persona al proprio amato scandendone il nome in funzione vocativa richiamerebbe una certa teatralità, non estranea all’ambito giullaresco e popolaresco (Apollonio 1981: 107-109); tuttavia, alle prime intense evocazioni dei due incipit di Oratorio e Veritas , vi sono due cesure orientate ad includere le due opposte della versione vicenda che deve l’ini afflato lirico-sentimentale a una struttura dal respiro diegetico più ampio, la cui vivacità e concretezza ricondurrebbero alla tradizione dei fabliaux .

6 Un modesto chierico e un’umile popolana si configurano come due protagonisti ideali di un ipotetico fabliau , dacché, come afferma Charmaine Lee «i frequentatori di questi luoghi ci vengono descritti con abbondanza di dettagli, e quasi con una sorta di compiacimento nel ritrarre gli aspetti più bassi della realtà» ( Lee 1976: 27) . E racconto senso di concretezza si declina nell’accezione tutta erotica dell’amore che congiunge i due protagonisti.
5 Cfr. «[…] la narrativa dei fabliaux , sbrigativa e salace, imperniata su personaggi della borghesi (…)

7 Considerata la coscienza tabuizzata medievale, l’oscenità andava infatti a costituire un serbatoio rilevante di temi per i fabliaux ; seppure tale licenziosità non fosse affatto l’esito di menti pretestuosamente lubriche, bensì espressione di un carnevalesco e faceto senso del contrario che si risolveva nella parodia del modello di riferimento, ovvero quel fin’amor cortese che plasmava il modello curiale e che in Retablo è riconoscibile nel racconto di Fabrizio intorno al quale ruota il secondo capitolo dell’opera, Peregrinazione 5 .

8 Questo senso del contrario è rilevabile anche attraverso la maniera in cui Isidoro e Rosalia utilizza l’immaginario religioso. Le fattezze di Rosalia nella mente d’Isidoro si ricollegano alla statua dell’omonima Santa (Consolo 1987: 19), così come l’aspetto del fraticello viene da lei giudicato «torvo, nero come un san Calogero» (Consolo 1987: 194) paragonato al giovane «biondo e rizzuto come un San Giovanni» (Consolo 1987: 194) di cui ella s’infatua all’inizio del racconto. Tale operazione di sniženie bachtiniano, di iconoclastico abbassamento sul piano materiale e corporeo di figure spirituali (invero giocato al limite della blasfemia), porta con sé una non trascurabile carica di irriverenza; e al devotamente suscettibile uditorio medievale non poteva che destare il riso (o quantomeno suscitarne lo scandalo) (Bachtin 1979: 25).

9 L’amore che lega Rosalia ed Isidoro è un sentimento denso di passione e di sensualità, che, come canta Ariosto, «guarda e involva e stempre/ogni nostro disegno razionale» (Ariosto 1976: XIII, 20) e che alla fine conduce all ‘insania il protagonista. Tale immagine di follia amorosa – «questo furore che riduce l’uomo, come quel paladin famoso, a nuda e pura bestia, privato vale a dire del cervello» (Consolo 1987: 58) – non può che rievocare le mirabolanti vicende dell’Orlando Furioso, verso cui lo scioglimento di alcuni nodi intertestuali riconduce il lettore di Retablo.
10 Già lo stesso elegiaco lamento di Isidoro, che occupa le pagine iniziali di Oratorio , rende assimilabile la percezione del proprio sentimento a quell’effetto insieme inebriante e stuporoso cantato dall’Ariosto:

[…] libame oppioso, licore affatturato, letale pozione (Consolo 1987: 17).

«e questo hanno causato due fontane
che di effetto liquore
ambe in Ardenna, e non sono lontane:
d’amoroso disio l’una empie core;
che bee de l’altra, senza amor rimane» (Ariosto 1976: I, 78).

6 Ma anche Ariosto 1976: X, 46: «il suo amore ha dagli altri differenza:/speme o timor negli altri (…)Passione che logora e consuma, provocando quel «duol che sempre il rode e lima» (Ariosto 1976: I, 41) 6 , ea cui Consolo in Retablo conferisce maggiore carnalità rispetto all’accezione intellettuale ariostesca:
lima che sordamente mi corrose l’ossa (Consolo 1987: 18).
che ‘l poco ingegno ad o ad o mi lima (Ariosto 1976: I, 2).
Tale poche erotismo viene riassunto nelle righe che narrano della ben celata dote del fraticello,
[…] e t’appressasti a me che già dormivo, ah Isidoro, Dio benedica, io subito m’accorsi che la bellezza tua stava nascosta. Bella, la verità (Consolo 1987: 194). E che rievocano parodisticamente uno dei più salaci episodi ariosteschi, quello di Bradamante, Ricciardetto e Fiordispina.

E se non fosse che senza dimora

Vi potete chiarir, non credereste:

e qual nell’altro sesso, in questo ancora

ho le mie voglie ad ubbidirvi preste.

Commandate lor pur, che fieno o ora

e sempre mai per voi vigile e deste.

Così le dissi; e feci ch’ella istessa

Trovò con man la veritade espressa (Ariosto 1976: XXV, 65)

11 La voluttuosa follia di Isidoro, in cui convivono illusione e eros, è al centro anche di Peregrinazione , secondo capitolo di Retablo in cui – invertendo lo schema diegetico ariostesco in cui un chierico, Turpino, narrava la furia del cavaliere Orlando – il cavaliere Fabrizio narra le penose conseguenze della passione del fraticello «che per amor venne in furore e matto» (Ariosto 1976: I, 2)
[…] divenne matto: crollato in terra, si contorse, schiumò, lacerossi gli abiti, la faccia, quindi nel vico si diede a piangere, a urlare come un forsennato (Consolo 1987: 186).

E poi si squarciò i panni, e mostrò ignudo

l’ispido ventre e tutto ‘l petto e ‘l tergo;

e cominciò la gran follia, sì orrenda,

che de la più non sarà mai ch’intenda. (Ariosto 1976: XXIII, 133)
D’altronde al lettore colto di Retablo non sarà sfuggito che il racconto di Fabrizio Clerici si avvicina per rutilante vitalismo, visività e inventiva all’opera ariostesca, ovvero a quell’ideale di rappresentazione della vita «nella sua più reale consistenza e nelle sue fughe fantastiche e irreali» (Consolo 1987: 63).

12 Il viaggio di Fabrizio in Sicilia presenta, attraverso efficaci immagini e ironici capovolgimenti, una realtà in cui il confine con la menzogna risulta labile, ove ci si imbatte in «venditori d’incanti e illusioni» (Consolo 1987: 63), in retablos de las maravillas che trasportano in lontani castelli d’Atlante in cui «a tutti par che quella cosa sia,/ che più ciascun brama e desia» (Ariosto 1976: XII, 20), attraverso una lunga e immaginifica sequela di visioni in cui sfilano anche io potenziale:
Ecco che in mezzo a voi passa, sul suo destrier bianco e lo stendardo in mano del Redentore nostro Gesù Cristo, seguito da’ chiari e baldi, dai più arditi cavalèr normanni, il Conte magno, Roggiero d’Altavilla, il grande condottiero che l ‘isola liberò dal giogo saracino […] (Consolo 1987: 65).
A tal proposito, è d’uopo rimarcare che Consolo, richiamando il poema ariostesco, ne dissolve il proposito encomiastico in un ironico rovesciamento di prospettiva, in linea con i suoi propositi critici ed estetico-ideologici. L’autore di Retablo è stato uno scrittore permanentemente protetto alla ricerca della verità, in lotta contro le falsificazioni imposte dai poteri costituiti, rappresentati un tempo proprio da quella cavalleria cantata da Ludovico Ariosto, e di cui con sarcasmo egli mette in dubbio i valori, come è evidenziabile in questo passaggio: «voglia il cielo che in fatto d’armi, di violenze e guerre, valga comunque e sempre la finzione» (Consolo 1987: 112).
13 Valori dissolti in una dimensione etica che appare infatti contraddittoria, ambigua, manipolata. Sa lo scrittore siciliano che l’asservimento è costume troppo frequent, come deplorava già San Giovanni ad Astolfo riconoscendo «la giù ruffiani, adulatori, / buffon, cinedi, accusatori, e quelli/che viveno alle corti e che vi sono/più grati assai che ‘il virtuoso e ‘l buono» (Ariosto 1976: XXXV, 20) e come Fabrizio stigmatizza nella sua invettiva a mo’ di serventese, scagliandosi contro «l’impostore, il bauscia, ciarlatan» (Consolo 1987: 128).
14 In Retablo , Consolo si confronta soprattutto con il tema metaletterario della mistificazione artistica ad uso del potere, rappresentato da «il falso artista, el teatrant vacant e pien de vanitaa» e dal «poeta dalla putrida grascia brianzola» (Consolo 1987: 128), domanda che già Ariosto aveva posto cinque secoli o sono:

Non fu sì santo né benigno Augusto

Come la tuba di Virgilio suona.

L’aver avuto in poesia buon gusto

La proscrizion iniqua gli perdona (Ariosto 1976: XXXV, 26)
Chiedendosi se in «questo che tutti chiamano il teatro del gran mondo, vale sovente la rappresentazione, la maschera, il romore vuoto che la sostanza vera della realtate» (Consolo 1987: 112).

15 Come accennato in precedenza, al sentimento segnato dalla carnalità e dalla sensualità di Isidoro si contrappone l’aureo amore ideale di Fabrizio, narratoci da lui stesso in Peregrinazione.
7 Albertocchi (2005: 95-111) dedica un esauriente articolo alla reale figura storica di Teresa Blas (…)

16 Già in epigrafe Consolo consegna al lettore attento e meticoloso la chiave per aprire il portello centrale di Retablo, dove ci viene narrato il sentimento di Fabrizio Clerici per la contessina Teresa Blasco 7:

Avendo gran disio,

dipinsi una figura

bella, a voi somigliante.

Come in questa canzonetta Jacopo da Lentini rielabora e adatta al proprio substrato culturale stilemi e temi della lirica trobadorica provenzale, l’autore di Retablo svolge in questo capitolo – riprendendolo e proponendone un’ironica lettura in prospettiva postmoderna – il leitmotiv del fin’amor , l’amore inteso come suprema forma di affinamento spirituale. Fin’amor che contrapponendosi al fals’amor , l’amore nel senso carnale che lega Isidoro a Rosalia, va a formare una struttura a chiasmo in cui le due coppie – Isidoro e Rosalia, Fabrizio e Teresa – si pongono l’una al polo contrario dell’altra.

17 In Retablo sono presenti quei già largamente attestati nella retorica mediolatina che tutti i simboli devono riconoscersi subito quali importanti punti di riferimento per l’interpretazione artistica e il cui ricorso implicava, per i poeti, collocarsi nell’alveo di una tradizione consolidata e insieme approfondirla (Di Girolamo 1989: 36).
8 Per il lessico specifico trobadorico, oltre ai già citati testi di Formisano e Di Girolamo, si ri (…)
9 È Fabrizia Ramondino, estimatrice e critica della prima ora di Retablo , a suggerire, nella sua re (…)
10 Questi versi e quelli successivi sono ripresi da Roncaglia 1961: 304-307.

18 Sin dalla dedicatoria il cavaliere Fabrizio pone in risalto la sottomissione alla sua domna 8 , doña Teresa, raffigurata come sublime figura («donna bella e sagace, amica mia, che un padre di Spagna e una madre di Sicilia ornaro di virtù speciali», Ret .:33) attorniata da una turba di savai , uomini vili («sciocchi e muffi e mercantili», Ret .: 33). E, mentre procede egli nella sua quête 9 cavalleresca, il pittore milanese vagheggia della propria amata, la cui dimensione platonica viene caricata da Consolo nei suoi tratti d’irraggiung. irraggiungibilità che si collega al tema della distanza (e quan me sui partitz de lai/remembram, d’un amor de lonh ) 10 che nel fitto repertorio della letteratura provenzale è trattato da Jaufré Rudel.
11 Si rimanda per un rapido sunto ancora a Di Girolamo 1989: 63, e approfonditi da Picone 1979. Si c (…)12 Ibidem.

19 Quelle che rimangono ad oggi alcune delle più interessanti interpretazioni date all’ amor del lonh rudeliano 11 sono sovrapponibili al sentimento di Fabrizio ea «quel volontario vallo», «gelida distanza» (Consolo 1987: 76) che pone egli tra sé e la sua dama. L ‘amor de lonh di Fabrizio Clerici traduce in concreto quel sottile senso di angoscia compendiato nel paradosso cristiano di un «reale irreale» (il mondo invisibile esiste mentre quello visibile non ha nessuna esistenza) 12, come del resto conferme le sue inquietudini metafisiche («cos’è mai questa terribile, meravigliosa e oscura vita, questo duro enigma che l’uomo sempre ha declinato in mito, in racconto favoloso, […]?», (Consolo 1987: 134)). Da qui laperegrinazione come forma di affinamento spirituale.

20 Tuttavia, questo esemplare riconducibile al filone dell’amor cortese viene anch’esso capovolto in Retablo . Come è narrato nella sua vida , Jaufré Rudel dirigeva il suo amore verso la Contessa di Tripoli, donna che non aveva mai visto, ma di cui aveva ascoltato la descrizione, procedendo dunque dall’ideale al concreto. Al contrario, Fabrizio vagola alla ricerca di un’astrazione da ricondurre al concreto modello di partenza, di un «frammentario brano di poesia o d’un eccelso modello di beltà» (Consolo 1987: 77). Questo di Fabrizio è un amore dunque perfettamente intellettualistico, totalmente contemplativo, e che nulla concede al desiderio de «le carni ascose immaginate» (Consolo 1987: 172).

21 Tale eccesso di mezura – per usare un efficace ossimoro – non porta ad alcuno forma di elevazione e perfezione spirituale quale prevista dal fin’amor . Il nostro protagonista, alla fine della sua peregrinazione, si ritroverà più smarrito di prima e l’unico cambiamento inferto alla sua condizione di partenza sarà la notizia del matrimonio tra la sua amata Teresa Blasco e il Marchese Cesare Beccaria.

22 In Retablo, nel finale, si verifica anche questo estremo ribaltamento dello schema di riferimento: il protagonista non accetterà il «compromesso» che è posto alla base del fin’amor : all’ amor del lonh preferirà un’errabonda solitudine e alla servitium amoris un prematuro comiat : «Ora addio, donna bella e sagace, che foste amica mia. Addio Teresa Blasco, addio marchesina Beccaria» (Consolo 1987: 189).
13 Dietro i personaggi del Cavaliere Fabrizio e del suo servo Isidoro che compiono il loro Grand Tou (…)

23 Siamo giunti in questo modo alla fine del percorso compiuto dai protagonisti, percorso che presenta molti tratti assimilabili alla tradizione della narrativa picaresca 13. Tuttavia, poiché poiché Consolo rovescia anche la struttura del Bildungsroman , Fabrizio, alla fine del suo cammino, non avrà raggiunto né una crescita interiore, né tantomeno una calma accettazione del presente, ma vivrà per sempre con quello che definisce un «dolore senza nome» (Consolo 1987: 140).

24 Questo senso di ineluttabilità non è soltanto un’angoscia individuale, ma in Retablo si collega alla concezione postmoderna della Storia, («[…] noi naufraghi di una storia infranta», (Consolo 1987: 146)), di cui è andata persa l ‘idea di causalità. Ed è in questa atmosfera rarefatta di disincanto che riecheggiano i versi del Leopardi, la cui memoria letteraria è importante anche per l’analisi dell’altra grande opera barocca di Consolo, Lunaria (Consolo 1985 e 1996) , pubblicata due anni prima di Retablo . Il dialogo col poeta di Recanati non è solo poetico, ma anche filosofico, in quanto il pessimismo di Fabrizio Clerici è assimilabile a quello che pervade i Canti leopardiani.

25 Inequivocabili sono le concordanze con L’infinito :
sedendo e mirando , e ascoltando… (Consolo 1987 : 101)
14 Si veda Leopardi 2007 (qui e di seguito, per tutte le citazioni leopardiane).
Ma sedendo e mirando … (L’Infinito , v. 4) 14

26 E con La Ginestra :
O secol nostro superbo di conquiste e di scienza, secolo illuso, sciocco e involuto!» (Consolo 1987: 128)
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco (La Ginestra, vv. 52-53)
15 È doveroso qui richiamare Alejo Carpentier e il suo El Siglo de Las Luces, romanzo storico pubbli (…)

Il pessimismo storico di Leopardi viene da Consolo tradotto nello scetticismo antilluministico di Fabrizio Clerici («peggiori di quanto noi pensiamo sono i tempi che viviamo!»; Consolo 1987: 42) che porta questi ad allontanarsi dalla Milano illustri dove intellettuali come i fratelli Verri e Cesare Beccaria, l’autore del saggio Dei delitti e delle pene, che diffondendo le nuove idee del Secolo dei Lumi 15.

27 La critica antistoricistica postmoderna si esprime in Retablo attraverso la caduta del mito del progresso. E, riflesso nella finzione romanzesca settecentesca, è riconoscibile il giudizio che dà l’autore agli anni Ottanta del Novecento, anni in cui alla composizione letteraria egli affianca la pratica giornalistica. La Milano tanto odiata da Fabrizio Clerici è la stessa città contro cui l’autore scaglia la propria invettiva. Erano quelli gli anni del governo socialista di Bettino Craxi (che darà vita dieci anni dopo allo scandalo di Tangentopoli) e in cui in Italia c’era una diffusa idea di benessere. Consolo, da grande intellettuale, individua proprio in quel periodo la nascita del degrado sociale e culturale italiano, e non esita a condannarlo dalle pagine del suo romanzo:
Arrasso, arrasso, mia nobile signora, arrasso dalla Milano attiva, mercatora, dalla stupida e volgare mia città che ha fede solo nel danee, ove impera e trionfa l’impostore, il bauscia, il ciarlatan, il falso artista, el teatrant vacant e pien de vanitaa, il governante ladro, il prete trafficone, il gazzettier potente, il fanatico credente e il poeta della putrica grascia brianzola. Arrasso dalla mia terra e dal mio tempo, via, via, lontan! (Consolo 1987: 128)
Al tema storico di Retablo si coniuga anche il tema metafisico del Tempo. Uno dei temi più ricorrenti nell’opera di Consolo è proprio il «male di vivere», la profonda consapevolezza della caducità delle cose. Le rovine di antiche civiltà presenti durante la Peregrinazione dei nostri protagonisti ci vengono come destino «simboli indecifrati ed allarmanti» (Consolo 1987: 42), manifestazioni della contingenza che domina il destino dell’Uomo.

28 Fabrizio si reca tra gli antichi templi siciliani per abbandonare il concetto di Tempo escatologico e tornare al Tempo classico e circolare del mito e finalmente ritrovare ristoro dalle proprie angosce nella «stasi metafisica» (Consolo 1987: 40).
16 Il viaggio del grande autore di tedesco si svolge tuttavia nel 1787, circa un ventennio dopo quel (…)

29 Il tour siciliano di Fabrizio avviene nella stessa epoca in cui si colloca un altro importante resoconto di viaggio, quasi parallelo al tour del nostro protagonista, quello di Goethe in Sicilia 16 , parte centrale del suo tour italico alla ricerca delle radici culturali e civili dell’ Occidente. Il grande poeta – che all’epoca aveva trentasette anni, nel pieno del suo fulgore artistico – arriva in Sicilia dopo averto le raffinate suggestioni di Venezia, l’eleganza colorata rinascimentale di Ferrara, la maestosità di Roma, la confusa e vivacità di Napoli , ed aver goduto sia dei diversi paesaggi culturali sia dei vasti campionari minerali, vegetali e paesaggistici offerti dalla penisola.

30 Alle tre pomeridiane del 2 aprile, allo sguardo estasiato del poeta tedesco, si offrì «il più ridente dei panorami», Palermo:
La città, situata ai piedi d’alte montagne, guarda verso nord; su di essa, conforme all’ora del giorno, splendeva il sole, al cui riverbero tutte le facciate in ombra delle case ci apparivano chiare. A destra il Monte Pellegrino con la sua elegante linea in piena luce, a sinistra la lunga distesa della costa, rotta da baie, penisolette, promontori. Nuovo fascino aggiungevano al quadro certi slanciati alberi dal delicato color verde, le cui cime, illuminate di luce riflessa, ondeggiavano come grandi sciami di lucciole vegetali davanti alle case buie. (Goethe 1983: 255-257)
Il medesimo spettacolo si offre a Fabrizio, assalito sul ponte nave dalle prime impressioni antelucane di una Palermo immersa nell’incantevole aria mattutina e inondata di luce:
[…] in oscillìo lieve di cime, arbori, guglie e campanili, in sfavillìo di smalti, cornici e fastigi valenciani, matronali cupole, terrazze con giare e vasi, in latteggiar purissimo de’ marmi nelle porte, colonne e monumenti, in rosseggiar d ‘antemurali, lanterne, forti e di castell’a mare, in barbaglìo di vetri de’ palagi, e d’oro e specchi di carrozze che lontano correvano le strade. (Consolo 1987: 35)
17 Cfr. Capponi P., «Della luce e della visibilità, considerazioni in margine all’opera di Vincenzo (…)
Gli effetti di luce e di riverbero su cui indugiano le consoliane fanno parte di quella «retorica della luce» 17 descritto da Paola Capponi, e in cui pagine va considerata la stessa esperienza biografica dello scrittore. La polarizzazione su cui è incentrata tale riflessione si basa ancora su due coppie disposte a chiasmo: una che si muove sul piano orizzontale e diatopico – la Milano di Fabrizio Clerici e dell’ emigréVincenzo Consolo contrapposta ai luoghi natii dello scrittore siciliano – e l’altra di ordine verticale e diacronico – che si muove tra il grigio presente lombardo e le atmosfere mediterranee del suo passato: «Di luce in luce, donna Teresita, di oro in oro. » (Consolo 1987: 34). E la memoria influenza così la percezione dei fenomeni esterni, come viene espresso in queste righe:
«E sognare è viepiù lo scrivere, lo scriver memorando del passato come sospensione del presente, del viver quotidiano. E un sognare infine, in suprema forma, è lo scriver d’un viaggio, e d’un viaggio nella terra del passato» (Consolo 1987: 95).

31 Ma ciò si verifica soltanto in quella metaforica camera oscura ove acquistano forma le reminiscenze dell’autore. Infatti nella dimensione reale e presente, come ha modo di testimoniare il milanese Fabrizio ad Alcamo, ove vige un iniquo sistema di poteri, lo splendore isolano si effonde anche sulla miseria ed ha forza abbacinante, dissimulatoria:
Ma fu quello come il segnale d’un assalto nella guerra, la guerra intendo, antica e vana, contra il nemico della fama. Che non si scorge qui, di primo acchitto, come da noi ne’ nebbiosi e gelati inverni nella campagna bassa o su per le valli sopra i laghi o sotto le gran montagne delle Alpi, ovvero meglio in alcuni quartieri popolosi e infetti di Milano, per la chiarità del cielo e pei colori, per la natura benevola e accogliente […] (Consolo 1987: 69).
Anche Goethe, perso nelle sue ricognizioni artistiche e scientifiche, ha modo di assistere, proprio ad Alcamo, al penoso spettacolo di questa «guerra tra poveri»:
Qualche cane ingoiava avido le pelli di salame che noi gettavamo; un piccolo mendicante cacciò via i cani, divorò di buon appetito le bucce delle nostre mele e venne a sua volta messo in fuga dal vecchio accattone. La gelosia di mestiere è di casa ovunque. (Goethe 1983: 297)
e di misurare la propria indignazione sulle problematiche sociali dell’isola, di biasimarne l’ambiguo e corrotto sistema di poteri che fa perno sulla religiosità cristiana,
[…] l’intera cristianità, che da milleottocento anni asside il suo dominio, la sua pompa ei suoi solenni tripudi sulla miseria dei propri fondatori e dei più zelanti seguaci (Goethe 1983: 264)
e di cui siamo efficaci ragguaglio anche in Retablo.
E il Soldano in pompa magna, quale sindaco della civitate, in uno con i decurioni, e con gli amici, seguito da cavalieri e da pedoni, in quella festa della patrona santa, fece la visita e l’omaggio a tutti i conventi, ritiri , orfanotrofi, spedali, chiese, collegi, monasteri e compagnie. E in ognuno, in sale, refettori o sacrestie, era ogni volta un ricevimento con dolciumi e creme, rosoli, caffè e cioccolata (Consolo 1987: 60).
La Sicilia si offre quale realtà composita, come egli ha modo di notare appena sbarcatovi in ​​quel di Palermo «assai facile da osservarsi superficialmente ma difficile da conoscere» (Goethe 1983: 255); un metaforico vasto retablo, meraviglioso e vivace, che può rivelare una miserrima realtà.

32 Tuttavia è da notare che l’animo, seppur sensibile, del grande autore del Werther, non sembra turbarsi intimamente, come accade invece a Fabrizio Clerici. Ciò è giustificabile con la semplice constatazione che, mentre il viaggio di Goethe in Sicilia in uno dei tanti tour che uomini di alta cultura compivano in quel tempo per gustare gli splendori naturali dell’isola e immergersi nelle sue anticheggianti suggestioni, dietro
Il viaggio letterario del lombardo Fabrizio Clerici si cela il nóstos di Vincenzo Consolo e il lamento per la sua terra ferita intride di sé le pagine dell’opera:
Dietro la croce e la Compagnia, venia la gente più miserevole, la più lacera, malata e infelice. Ed era, così ammassata, così livida, come la teoria d’un oltretomba, una processione d’ombre, d’umanità priva di vita e di colore (Consolo 1987: 184).
L’autore siciliano sa che dietro alle mirabolanti facciate come quelle architettoniche di Trapani, dietro alle bellezze fastose, si cela una realtà di brutture, su cui si spande un mirabolante, quanto ingannevole, velo:
Mai vid’io insieme tanto orrore, tanto strazio. L’altra faccia, il rovescio o forse la verità più chiara e netta di questa nostra vita. Che nascondiamo ognora con l’illusione, i velami, gli oblii, le facciate come quelle teatrali de’ palazzi della rua Nuova e della Grande, ch’io avea visto e ammirato la sera avanti, della gente lussuosa, spensierata che là vi dimorava (Consolo 1987: 184).
La prosa consolaana rivela, attraverso la sua efficace espressività, una tensione maggiore, un più acuto sguardo, laddove Goethe sembra solo intento a gratificare la propria algida curiosità di visitatore, come accade tra le rovine della terremotata Messina. Nell’autore tedesco sembra che l’itinerario siciliano produca nulla più di un vacuo corroboramento del suo gusto estetizzante e razionale. Laddove Fabrizio sembra inquietarsi, sconfortarsi sempre più per il desengaño che ad ogni piè sospinto sembra squarciare il velo di maraviglia che ammanta l’isola, il poeta tedesco sembra esaltarsi:
l’esaltazione poetica che provavo su questo suolo supremamente classico faceva sì che di tutto quanto apprendevo, vedevo, osservavo, incontravo, m’impossessassi per custodirlo in una riserva di felicità (Goethe 1983: 333).
Eppure sia Clerici che Goethe giungono in Sicilia con un bagaglio estetico e culturale similitudine. Goethiana infatti è l’intenzione di risalita alle origini, storiche e culturali in prima istanza, ma anche naturali, a cui Fabrizio aggiunge un ulteriore fattore sentimentale:
[…] mi pare di viaggiare alla ricerca degli stampi o matrici del vostro meraviglioso sembiante, della grazia che dagli avoli del corno di Sicilia ereditaste, in tanto che viaggio in cerca delle tracce d’ogni più antica civiltate. (Consolo 1987: 77).
Mentre la ricerca del poeta tedesco sembra focalizzarsi su una più asettica analisi biologica, ovvero uno studio sull’ Urpflanze , la pianta originaria che egli stesso aveva teorizzato:
Di fronte a tante forme nuove o rinnovate si ridestò in me la vecchia idea fissa se non sia possibile scoprire fra quell’abbondanza la pianta originaria (Goethe 1983: 295).
Ma soprattutto il poeta dell’ Italienische Reise e il pittore di Retablo – dalla predilezione artistica tuttavia analoga a quella del compagno di viaggio di Goethe, il pittore Christoph Heinrich Kniep – sono accomunati dal medesimo punto di riferimento artistico: quel canone neoclassico ed ellenizzante, winkelmanniano , ravvisabile nell’opera di Consolo nell’episodio della statua moziese:
Più che un umano atleta trionfante, un dio mi parve, un Apolline, dalle forme classiche, ideali, di quelle tanto amate dal Winkelmano.(Consolo 1987: 159)
e rintracciabile più volte nelle proprie di Goethe. Tuttavia equilibrio il poeta tedesco vi dimostra un più legame, rivelando una maggior aderenza a quell’ sintesi d’armonia, compostezza e razionalità mediato dal von Riedesel: «[…] alludo all’eccellente von Riedesel, il cuicino custodisco in seno come breviario o talismano.» (Goethe 1983: 307). Mentre, per quanto riguarda il protagonista dell’opera di Consolo, nel gusto della descrizione-elencazione sono ravvisabili influssi barocchi.

33 Efficace, a tal proposito, è il raffronto che può essere operato attraverso le opposte rappresentazioni del tempio di Segesta, al centro di una delle scene più suggestive di Retablo, ove si palesa la differenza sostanziale di atteggiamento dei due viaggiatori:
Le colonne sono tutte ritte; due, ch’erano cadute, sono state risollevate di recente. Se rivela o no uno zoccolo è difficile definire, e non esiste un disegno che c’illumini al riguardo […]. Un architetto potrebbe risolvere la questione (Goethe 1983: 306).

Il diametro di tutte le colonne è di 6 piedi, quattro pollici, sei linee; l’altezza di 28 piedi, e sei pollici… E potrei viepiù continuare se non temessi di tediarvi con altezze e larghezze e volumi, con piedi e pollici e linee (Consolo 1987: 97)
Laddove Goethe rivolge la sua attenzione alla semplice ricognizione tecnico-strutturale, il pittore milanese si lascia rapire dalla fascinazione «del tempio che vorrei ritrarre in modo distanziato, come fosse una realtà che poggia sopra un altro pianoforte, in un’aura irreale o trasognata» (Consolo 1987: 109); e alle speculazioni estetico-architettoniche goethiane si contrappongono le riflessioni di carattere metafisico del protagonista consolano:
[…] Come porta o passaggio concepire verso l’ignoto, verso l’eternitate e l’infinito. (Consolo 1987: 99)
Goethe, come ci suggerisce lo stesso Consolo, giunge in Sicilia, questa realtà eterogenea e prismatica, cercando non di raccontarla, bensì di «misurarla», con la capziosa – o piuttosto presuntuosa – crede di decifrare il mistero siciliano:
Sono, ripetiamo, queste certezze riposte nella bellezza, nell’ordine, nell’armonia, nella cognizione e classificazione della natura, gli argini, le barriere contro l’indistinto, il caos, l’imprevedibile, il disordine. Contro l’infinito (Consolo 2001: 246).
A differenza di Goethe, Fabrizio riesce a spogliarsi dei suoi oberanti metri illuministici e riesce ad abbandonare gli stereotipi estetizzanti e classicheggianti legati al mito siciliano. Le antiche vestigia così alimentano le sue inquietudini in quanto tracce degli orrori alla storia dell’Uomo che «vive sopravvivendo sordo, cieco e indifferente su una distesa di struttura e di dolore, calpesta inconsciamente chi soccombe» (Consolo 1987: 151). Nel viaggio storico del poeta tedesco invece non vi è traccia di tali riflessioni, da cui, anzi, sembra rifuggire:
Non bastava, osservai, che di tempo in tempo le sementi venivaro, se non da elefanti, calpestate da cavalli e uomini? Che bisogno c’era di ridestare bruscamente dal suo sogno di pace la fantasia risuscitando tali frastuoni? (Goethe 1983: 259)
Clerici si arrenderà al mistero siciliano, alla sua ricchezza ed al suo fascino, contrariamente al poeta tedesco che schiavo della sua razionale riluttanza di non varcare, nel viaggio a ritroso verso l’antichità della storia, verso l’origine della civiltà, la soglia dell’ignoto, di non inoltrarsi nell’oscura e indecifrabile eternità; di non smarrirsi, immerso in una natura troppo evidente e prorompente, nell’indistinto, nel caos infinito. (Consolo 2001: 244)
18 «Misera. La seule ha scelto qui nous console de nos misères est le divertissement, et cependant c’est (…)

34 Come è stato scritto da Genette «une dialettique perplexe de la veille et du rêve, du réel et de l’imaginaire, de la sagesse et de la folie, traverse toute la pensée baroque» (Genette 1996: 18). Opera barocca per eccellenza, Retablo gioca sull’oscillazione tra i temi della maravilla ed il desengaño , della verità e della mistificazione, tra le percezioni sensibili della superficie dei fenomeni e l’abisso dell’esistenza, tra le visioni che il mondo propone ei riflessi capovolti di esse. I protagonisti consoliani si trovano quindi «a passare dal sogno e dall’incanto al risveglio più lucido», e ciò lungo il corso di un divertissement letterario, che – collegandosi e capovolgendo un celebre pensiero di Blaise Pascal 18– non spinge alla distrazione dalle domande dell’interiorità, ma ne esprime attraverso un’intensa sensibilità stilistica, dacché come affermare ancora Genette «l’univers baroque est ce sophisme pathétique où le tourment de la vision se résout – et s ‘achève – en bonheur d’expression».
O mia Medusa, mia Sfinge, mia Europa, mia Persefone, mio ​​sogno e mio pensiero, cos’è mai questa terribile, meravigliosa e oscura vita, questo duro enigma che l’uomo sempre ha declinato in mito, in racconto favoloso, leggendario, per cercar di rispecchiarla, di decifrarla per allusione, per metafora? (Consolo 1987:135)

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APPUNTI

2 A ciò va premesso che la struttura di Retablo ricalca quella dell’omonimo polittico e che la comprensione e decodifica del racconto di Isidoro e Rosalia – senza dimenticare la predella situata nell’esatta metà dell’opera – presuppone una lettura unitaria laddove essa si presenta scissa in due capitoli: Oratorio e Veritas, e presentanti ciascuno il relativo punto di vista narrativo.
3 Per quanto riguarda Isidoro: «Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha róso, il mio cervello s’è mangiato.» (Consolo 1987: 17-18). A queste parole nella risposta quelle di Rosalia, su parte finale dell’opera: «Isidoro, dono dell’alma e gioia delle carni, spirito di miele, verdello della state, suggello d’oro, candela della Pasqua, battaglio d’ogni festa […]» (Consolo 1987: 193).
4 La vexata quaestio sul nome del giullare autore dell’opera è tuttavia risolta più avanti da Consolo a favore della seconda ipotesi quando introdurrà, ammantata da una notevole ironia, la sedicente Accademia poetica de Ciulli Ardenti. A tal proposito, è interessante notare che anche Dario Fo si è soffermato su Rosa fresca aulentissima, identificando il nome esatto dell’autore in Ciullo e scartando l’invalso Cielo, risultato questo di una mistificazione culturale a scopo censorio (ciulloindica anche membro il maschile). È quanto meno ipotizzabile che Consolo conosca l’altro e più scurrile significato della parola, tant’è che sembra giocarci col lettore in queste righe: «di Ciullo intenno, chiaro al monno intero, e surtutto per nui de l’Accademia ardente che al nome suo s’appenne» (Consolo 1987: 54).
5 Cfr. «[…] la narrativa dei fabliaux , sbrigativa e salace, imperniata su personaggi della borghesia, del clero, del contado, o anche dell’aristocrazia, ma in una chiave beffarda che sembra antitetica a quella del romanzo o del lai » (Rutebeuf 2007 : 13).
6 Ma anche Ariosto 1976 : X, 46: «il suo amore ha dagli altri differenza:/speme o timor negli altri il cor ti lima».
7 Albertocchi (2005: 95-111) dedica un esauriente articolo alla reale figura storica di Teresa Blasco, rivelandone, attraverso i documenti dell’epoca, le vicende – invero scabrose – che la videro protagonista nella Milano dei Lumi, e che la allontanano notevolmente dalla figura di donna vereconda tratteggiata nel diario di viaggio di Fabrizio.
8 Per il lessico specifico trobadorico, oltre ai già citati testi di Formisano e Di Girolamo, si rimanda al più agevole glossario posto a margine di Cataldi 2006: 226-229.
9 È Fabri Ramondino, estimatrice e critica della prima ora di Retablo, a suggerire, nella sua recensione all’opera inclusa nel numero del 3 novembre 1987 de «Il Mattino», che il romanzo è costruito secondo lo schema della quête dei cavalieri erranti: l’orazione, la peregrinazione e la verità ritrovata.
10 Questi versi e quelli successivi sono ripresi da Roncaglia 1961: 304-307.
11 Si rimanda per un rapido sunto ancora a Di Girolamo 1989: 63, e approfonditi da Picone 1979. Si consiglia inoltre la lettura dell’introduzione dell’edizione curata da Chiarini 2003.
12 Ibidem.
13 Dietro i personaggi del Cavaliere Fabrizio e del suo servo Isidoro che compiono il loro Grand Tour siciliano sono intravedibili le sagome dei personaggi di Jacques le fataliste.
14 Si veda Leopardi 2007 (qui e di seguito, per tutte le citazioni leopardiane).
15 È doveroso qui richiamare Alejo Carpentier e il suo El Siglo de Las Luces, romanzo storico pubblicato nel 1962, e che ha sviluppato, per temi e atmosfere, Vincenzo Consolo.
16 Il viaggio del grande autore di tedesco si svolge tuttavia nel 1787, circa un ventennio dopo quello del protagonista di Retablo.
17 Cfr. Capponi P., «Della luce e della visibilità, considerazioni in margine all’opera di Vincenzo Consolo», in: AA.VV. 2005.
18 «Misera. La seule ha scelto qui nous console de nos misères est le divertissement, et cependant c’est la plus grande de nos misères. Car c’est cela qui nous empêche principalement de songer à nous, et qui nous fait perdre insensiblement. Sans cela, nous serions dans l’ennui, et cet ennui nous pousserait à chercher un moyen plus solide d’en sortir. Mais le divertissement nous amuse, et nous fait arriver insensiblement à la mort .» (Pascal 1971: I, 268).
Nicola Izzo , “Nello scriptorium barocco di Vincenzo Consolo: riprese e ribaltamenti letterari in Retablo ” ,  reCHERches , 21 | 2018, 113-128.

Nicola Izzo

Université Jean Monnet, Saint-Étienne

La Metafora del Sorriso. Vincenzo Consolo e l’Antonello del Mandralisca

Alessandro Dell’Aira
Editor, iberista

Incontrai Consolo per la prima volta a Madrid, nell’autunno del ’95.
Allora dirigevo la rivista “Quaderni” del Liceo Italiano Enrico Fermi,
di cui ero preside. L’Istituto Italiano di Cultura seguiva con interesse
il nostro lavoro e ci autorizzava a pubblicare i testi delle conferenze
che organizzava nella sua sede o patrocinava in Spagna. Certo di
fargli piacere, gli donai una copia della prima edizione italiana della
commedia di Lope sul Santo negro Rosambuco de la ciudad de Palermo,
da me curata, edita qualche mese prima a Palermo.
Consolo, in quell’autunno, lasciò Madrid per Barcelona e Salamanca,
dove tenne una lezione accademica, La retta e la spirale, su temi siciliani
intrecciati con la storia spagnola tra Rinascimento e Barocco. Cedette
generosamente ai “Quaderni” copia del testo che avrebbe poi inserito
in Di qua dal faro,1 che accennava anche alla commedia di Rosambuco
come esempio di legame interculturale nel Siglo de Oro, e si concludeva
con una riflessione amara e attualissima sul “dolore senza catarsi”.
Prima di inviare il dattiloscritto in tipografia mi venne il dubbio che
vi fosse un evidente refuso, perdita anziché perdida, nella trascrizione di
una quartina dalla Galatea di Cervantes incisa sull’arco d’ingresso di una
villa di Bagheria:

Ya la esperanza es perdida
Y un solo bien me consuela

1 “La Retta e la Spirale”, «Quaderni del Liceo Italiano di Madrid», 4 (giugno 1996),pp. 83-84. IL testo è preceduto da parte di un’intervista con Valeria Cioffi. Di qua dal Faro (d’ora in avanti DQF), in L’opera completa (d’ora in avanti OC), a cura di Gianni Turchetta, prefazione di Cesare Segre, Milano, Mondadori, 2015 (I Meridiani), pp.1234-1238.

Que el tiempo que pasa y buela
Llevará presto la vida.2

Chiamai Consolo a Barcelona: mi disse che avrebbe controllato. E infatti mi chiamò la mattina dopo, molto divertito. Mi aveva cercato a scuola qualche ora dopo, e in mia assenza gli aveva risposto Juanita, la custode. Consolo le disse: «Per favore, avvisi il preside che la esperanza es perdida». Juanita si allarmò: «No signore, questa brutta notizia al preside gliela dia lei. Richiami domani». Tutto avrei immaginato, tranne che sarei tornato su questo divertente equivoco ventitré anni dopo, per presentare a Valencia Sfidando L’Ignoto, diario narrato della ricerca condotta da Sandro e Salvatore Varzi e da me sul capolavoro di Antonello oggi nel Museo Mandralisca di Cefalù, celebrato da Consolo ne Il Sorriso dell’Ignoto marinaio. Corredato di note finali rigorose, Sfidando L’Ignoto è un saggio di ‘filologia leggera’, nel senso che non cede di una sillaba all’invenzione e agevola la condivisione di un percorso in cui non mancano fasi di incertezza e di suspense. Consolo, messo sulla pista del marinaio da Lucio Piccolo,3 precisò poi che non aveva mai creduto a quella diceria. Lo rivelò rievocando l’incontro con Roberto Longhi a Milano nel ’69, quando chiese notizie al noto critico d’arte sul primo capitolo del Sorriso che gli aveva inviato qualche tempo prima. Longhi gli rispose bruscamente: «Sì sì, ho letto

2 La villa-fortezza apparteneva a don Giuseppe Branciforti, conte di Mazzarino, capo di una congiura contro Filippo IV di Spagna, scoperta e sventata per tempo. L’iscrizione è del 1658. La quartina è abbinata a un emistichio di Torquato Tasso, O corte a dio. 3 Il sorriso dell’ignoto marinaio, d’ora in avanti SIM, Note e notizie sui testi, in OC, p. 1300. Secondo Consolo, il primo fotografo a riprodurre il quadro fu Domenico Anderson intorno al 1915 (OC, p. 1309). In realtà di trattò del fotografo palermitano Giovanni Fiorenza, autorizzato dalla Soprintendenza di Palermo il 22 giugno 1914, in vista della dichiarazione di rilevante interesse artistico e storico del ritratto, notificata l’11 febbraio 1916. Poiché non vi è traccia della riproduzione presso gli archivi della Fondazione Mandralisca, si suppone che la lastra venne acquistata nel 1930 da Domenico Anderson. Cfr. Sfidando l’Ignoto, Palermo, Ed. Torri del Vento, 2017
(d’ora in avanti SI), pp. 87-88, n. 28.

le sue pagine, ma questa storia del marinaio deve finire».4 Abbiamo inserito questa frase in quarta di copertina, consapevoli che la diceria sarà dura a morire. Il fatto nuovo è che ne abbiamo dimostrato l’infondatezza, partendo da un sigillo mai notato prima, apposto nel Settecento sul retro della tavoletta da un prozio del barone Mandralisca, l’arcidiacono Giuseppe Pirajno, all’epoca vescovo vicario di Cefalù. A
nostro parere, anche in assenza di fonti scritte, questo sigillo e varie altre evidenze iconografiche bastano a identificare il personaggio raffigurato nella tavoletta, misterioso come tutti gli ‘Ignoti’ di Antonello. Tuttavia, è bene che il gap tra Mistero e Ignoto persista: lo svelamento toutcourt toglierebbe al ritratto parte del fascino di cui lo stesso Consolo partecipa.5 Cesare Segre ha osservato che l’Antonello del Mandralisca è divenuto «una specie di doppio di Vincenzo Consolo».6 In ogni caso,
non c’è ricerca in grado di andare oltre quel sorriso-lumaca, «fiore
di ragione»,7 insondabile, condiviso dagli artisti in azione –pittore e
narratore– e dal modello in posa. A nostro parere si tratta di Francesco Vitale da Noja presso Bari, oggi Noicattaro. Dottore alla Sorbona in Teologia e Arti, precettore, segretario e ambasciatore di Ferdinando il Cattolico, valoroso umanista e profondo esperto di Duns Scoto, fu designato vescovo di Cefalù nel 1484, quando tra i diplomatici di Ferdinando e Isabella gli ‘aragonesi’ furono rimpiazzati dai ‘castigliani’. Si fece ritrarre su xilografie e medaglie. In Sicilia sostenne gli interessi della casa d’Aragona. Colto da ictus a Valencia nel 1491, dopo un soggiorno a Siviglia, rientrò a Cefalù

4 SI, p. 7, n. 1 con rinvii a Fuga dall’Etna e a MESSINA, N., “Per una storia di «Il sorriso dell’ignoto marinaio» di Vincenzo Consolo”, «Quaderns d’Italià», 10 (2005), pp. 113-126. 5 SI, pp. 75-76. Consolo non dubitò mai della provenienza ‘precaria’ del ritratto, da lui associato al cratere siceliota con la scena della vendita del tonno, acquistato dal barone a Lipari (La Pesca del Tonno, in DQF, OC, p. 1007). 6 SEGRE, C., “Un profilo di Vincenzo Consolo”, in OC, p. XVI. 7 Così in L’Olivo e l’olivastro (in OC, p. 853) Consolo definisce il sorriso dell’Ignoto, rivolto alla «grande storia di Palermo».

e vi mori in data incerta, comunque anteriore al 14 febbraio 1494.8 Quando il prozio del Mandralisca la fece propria, la tavoletta era molto malridotta. Forse non si sapeva più chi raffigurasse. Consolo si dimostra certo della provenienza liparitana del ritratto. Imposta la narrazione sulla «planimetria metaforica» Lipari-Cefalù- Messina,9 ma sa di non avere a che fare con un marinaio. Lo confermano due sue descrizioni, stilisticamente lontane ma convergenti. Nella prima si accenna alla reazione del barone, che stringe sotto un’ascella la tavoletta avvolta in una tela cerata, a bordo di un veliero stipato di gente e di mercanzie. Consolo descrive il ritratto con gli occhi del barone che scruta il misterioso Giovanni Interdonato, dopo i colpi di tosse che scuotono un vecchio cavatore di pomice:
[…] Il Mandralisca si trovò di fronte un uomo con uno strano sorriso sulle labbra. Un sorriso ironico, pungente e nello stesso tempo amaro, di uno che molto sa e molto ha visto, sa del presente e intuisce del futuro; di uno che si difende dal dolore della conoscenza e da un moto continuo di pietà. E gli occhi aveva piccoli e puntuti, sotto l’arco nero delle sopracciglia. Due pieghe gli solcavano il viso duro, agli angoli della bocca, come a chiudere e ancora accentuare quel sorriso. L’uomo era vestito da marinaio, con la milza di panno in testa, la casacca e i pantaloni a sacco, ma, in guardandolo, colui mostravasi uno strano marinaio: non aveva il sonnolento distacco, né la sorda stranianza

8 Vitale, semiparalizzato, il 10 marzo 1492 fece apporre una chiosa da altri sull’ultimo foglio di un incunabolo stampato a Venezia nel 1481, aggiungendo a margine un tremolante manu propria (SI, pp. 50-53). Il 12 febbraio 1494 Ferdinando il Cattolico scrisse di avere appena appreso della morte di Vitale (SI, p. 53, n. 53). Il documento è trascritto da Óscar Perea Rodríguez nella sua tesi di dottorato: «[…] en esta hora es venida aquí nueua que es fallecido maestre Francisco de Noya, obispo de Cefalú; y comoquier que no se sabe muy certificadamente si ello es assí, cordamos de vos preuenir de nuestra voluntat sobre la prouisión del dicho obispado […]» [Las cortes literarias hispánicas delsiglo XV: el entorno histórico del Cancionero general de Hernando del Castillo (1511). Universidad Complutense de Madrid, a.a. 2003-2004, p. 194 n. 587]. Da un documento della Curia cefaludense risulta che la sede di Cefalù fu dichiarata vacante nel febbraio del 1495. 9 Cefalù e l’Ignoto di Antonello sono uno dei vertici del triangolo metaforico. I cavatori di pomice liparitani e i rivoltosi di Alcàra Li Fusi occupano gli altri due. e vi mori in data incerta, comunque anteriore al 14 febbraio 1494.8 Quando il prozio del Mandralisca la fece propria, la tavoletta era molto malridotta. Forse non si sapeva più chi raffigurasse. Consolo si dimostra certo della provenienza liparitana del ritratto. Imposta la narrazione sulla «planimetria metaforica» Lipari-Cefalù- Messina,9 ma sa di non avere a che fare con un marinaio. Lo confermano due sue descrizioni, stilisticamente lontane ma convergenti.
Nella prima si accenna alla reazione del barone, che stringe sotto un’ascella la tavoletta avvolta in una tela cerata, a bordo di un veliero stipato di gente e di mercanzie. Consolo descrive il ritratto con gli occhi del barone che scruta il misterioso Giovanni Interdonato, dopo i colpi di tosse che scuotono un vecchio cavatore di pomice:
[…] Il Mandralisca si trovò di fronte un uomo con uno strano sorriso sulle labbra. Un sorriso ironico, pungente e nello stesso tempo amaro, di uno che molto sa e molto ha visto, sa del presente e intuisce del futuro; di uno che si difende dal dolore della conoscenza e da un moto continuo di pietà. E gli occhi aveva piccoli e puntuti, sotto l’arco nero delle sopracciglia. Due pieghe gli solcavano il viso duro, agli angoli della bocca, come a chiudere e ancora accentuare quel sorriso. L’uomo era vestito da marinaio, con la milza di panno in testa, la casacca e i pantaloni a sacco, ma, in guardandolo, colui mostravasi uno strano marinaio: non aveva il sonnolento distacco, né la sorda stranianza

8Vitale, semiparalizzato, il 10 marzo 1492 fece apporre una chiosa da altri sull’ultimo
foglio di un incunabolo stampato a Venezia nel 1481, aggiungendo a margine un tremolante manu propria (SI, pp. 50-53). Il 12 febbraio 1494 Ferdinando il Cattolico
scrisse di avere appena appreso della morte di Vitale (SI, p. 53, n. 53). Il documento
è trascritto da Óscar Perea Rodríguez nella sua tesi di dottorato: «[…] en esta hora
es venida aquí nueua que es fallecido maestre Francisco de Noya, obispo de Cefalú;
y comoquier que no se sabe muy certificadamente si ello es assí, acordamos de vos
preuenir de nuestra voluntat sobre la prouisión del dicho obispado […]» [Las cortes
literarias hispánicas delsiglo XV: el entorno histórico del Cancionero general de Hernando del Castillo (1511). Universidad Complutense de Madrid, a.a. 2003-2004, p. 194 n.587]. Da un documento della Curia cefaludense risulta che la sede di Cefalù fu
dichiarata vacante nel febbraio del 1495. 9 Cefalù e l’Ignoto di Antonello sono uno dei vertici del triangolo metaforico. I cavatori di pomice liparitani e i rivoltosi di Alcàra Li Fusi occupano gli altri due. dell’uomo vivente sopra il mare, ma la vivace attenzione di uno vivuto sempre sulla terra, in mezzo agli uomini e alle vicende loro. E, avvertivasi in colui, la grande dignità di un signore […].10


In questa oscillazione tra conoscenza e pietà, Consolo coglie da rabdomante il profilo di un conciliatore di storia e spiritualità, umanesimo e missioni diplomatico-ecclesiastiche. Vitale visse in mezzo agli uomini e alle vicende loro, ancor più di Interdonato, riconosciuto da Mandralisca nell’Ignoto del ritratto, mentre di notte, nel suo studio, si concentra sulla tavoletta appesa a una parete tra gli scaffali. Un’agnizione-insight degna di un romanzo di Dumas. Per quanto ci risulta, tuttavia, il barone non era certo, o ignorava di possedere un Antonello prima che nel gennaio del 1860 Giovan Battista Cavalcaselle, in casa sua, ne ricavasse un geniale bozzetto. Cavalcaselle, garibaldino mazziniano esule a Londra dopo il 1849, critico d’arte e pittore, giunto in Sicilia per ragioni di studio qualche mese prima di Garibaldi, forse con una missione coperta, è una specie di doppio attenuato del democratico Interdonato. Nella seconda descrizione, a tratti impressionistica, risuonano il lessico e i luoghi comuni dei frequentatori di pinacoteche. Ha per sfondo una festa organizzata dal barone in casa sua per presentare il ritratto ad amici e conoscenti. Quando Enrico sfila il panno dal leggìo su cui ha collocato la tavoletta, l’Ignoto si svela e il Mistero, volendo rubare il titolo a un romanzo di Marco Malvaldi, si accentua «negli occhi di chi guarda»:

[…] Apparve la figura d’un uomo a mezzo busto. Da un fondo verde cupo notturno, di lunga notte di paura e incomprensione, balzava avanti il viso luminoso. Un indumento scuro staccava il chiaro del forte collo dal busto e un copricapo a calotta, del colore del vestito, tagliava a mezzo la fronte. L’uomo era in quella giusta età in cui la ragione, uscita salva dal naufragio della giovinezza, s’è fatta lama d’acciaio, che diverrà sempre più lucida e tagliente nell’uso ininterrotto. L’ombra sul volto di una barba di due giorni faceva risaltare gli zigomi larghi, la perfetta, snella linea del naso terminante a punta,
10 SIM, in OC, pp. 129-130.

le labbra, lo sguardo. Le piccole, nere pupille scrutavano dagli angoli degli occhi e le labbra appena si stendevano in un sorriso. Tutta l’espressione di quel volto era fissata, per sempre, nell’increspatura sottile, mobile dell’ironia, velo sublime d’aspro pudore con cui gli esseri intelligenti coprono la pietà. Al di qua del lieve sorriso, quel volto sarebbe caduto nella distensione pesante della serietà e della cupezza, sull’orlo dell’astratta assenza per dolore, al di là, si sarebbe scomposto, deformato nella risata aperta, sarcastica, impietosa o nella meccanica liberatrice risata comune a tutti gli uomini. Il personaggio fissava tutti negli occhi, in qualsiasi parte essi si trovavano, con
i suoi occhi piccoli e puntuti, sorrideva a ognuno di loro, ironicamente, e ognuno si sentì come a disagio […].11


Come nel cambio di scena di un’opera lirica, questa seconda
descrizione è interrotta da colpi di schioppo e abbaiar di cani in
lontananza, equivalenti ai colpi di tosse del cavatore a bordo del veliero.
Dal suo leggìo, l’Ignoto sembra allargare il sorriso in un ghigno. In un
angolo del salone, il cefalutano Salvatore Spinuzza, pressoché ignorato
dagli altri invitati perché ‘facinoroso’ come Giovanni Interdonato,
rabbrividisce.
Di qua dal faro, pubblicato nel ’99, contiene il testo della conferenza
salmantina del ’95, affidato quattro anni prima ai «Quaderni del Liceo
Italiano». Tra gli altri ‘pezzi’, contiene anche un bilancio d’autore sul
Sorriso vent’anni dopo, definito come metafora del superamento dei
«romanzi d’intreccio dispiegati e dominati dall’autore», come approdo
alla pari dignità dialettica dei linguaggi, «compresi quelli marginali».12
Consolo è entrato da anni in una fase nuova. Coglie nel segno Joseph
Francese quando afferma che gli attentati mafiosi dei giudici Falcone e
Borsellino, mesi in atto nel ’92 per conto di raffinati mandanti, segnano
il passaggio definitivo di Consolo dall’aventino sciasciano all’impegno
politico scoperto.13 E quanto al «parricidio» da lui perpetrato, ingrato
e miope è il giudizio di chi lo ha definito «un infelice che voleva essere

11 Ivi, pp. 143-144.
12 CONSOLO, V., “Il «Sorriso» vent’anni dopo”, in DQF, OC, p. 1254.
13 FRANCESE, J., Vincenzo Consolo. Gli anni de «L’Unità» (1992-2012), ovvero la
poetica della colpa-espiazione, Firenze, University Press, 2015.

Sciascia».14 Se Sciascia fu un superbo autore di romanzi e saggista, Consolo fu un artista, un linguista, un «orafo della parola». A tanta distanza da quell’equivoco sulla esperanza perdida, che allarmò la simpatica custode del Liceo Italiano, verrebbe da dire che nulla accade per caso. C’è ancora speranza. Il dibattito in ambito letterario e non solo, che in quei giorni Consolo giudicava «quasi spento»,15 è in agonia, ma il decesso del romanzo non è sopravvenuto. A rantolare, semmai, sono i lettori. Da rappresentazione del reale e dell’esistenziale, da intreccio di storie più o meno rilevanti o defilate, la letteratura di oggi si apre allo svelamento di crimini sommersi (per esempio, in Resto qui, di Marco Balzano, che nel 2015 ha vinto il Campiello con la storia di un giovane del Sud immigrato a Milano). In Italia, in Spagna, in Europa,
la narrativa si è aperta all’epica delle culture migranti e alle voci critiche dai paesi ‘banditi’, quelli che il presidente USA in carica ha definito latrine. Scrittori-migranti e migranti-scrittori,16 protagonisti dell’epica dell’andare e venire viaggiando, narrano storie di emarginazione nelle lingue dell’Unione. Sicché la partita non è persa del tutto. Tra guerre e violenze endemiche, speculazione spietata, politici e amministratori corrotti, vincere l’impotenza si può, sorridere da lumache si può, con
o senza il supporto dell’ideologia, ma senza rinunciare alla speranza e senza bandire l’immaginazione creativa. La speranza, se cade, trova sempre il modo di rialzarsi. Diversamente dal sorriso, non è mai stata quel che si dice una metafora, neppure in letteratura.

14 CARUSO, C., “Vincenzo Consolo: «Un infelice che voleva essere Sciascia». Il ricordo del fotografo Fernando Scianna amico di Vincenzo Consolo, che Mondadori pubblica nella Collana «I Meridiani»”, «Panorama», 9 febbraio 2015. 15 In I ritorni (in DQF, OC, p. 1121) Consolo scrive: «Crediamo che oggi, per la caduta di relazione tra la scrittura letteraria e la relazione sociale, non si possono che adottare, per esorcizzare il silenzio, i moduli stilistici della poesia; ridurre, per rimanere nello spazio letterario, lo spazio comunicativo, logico e dialogico proprio del romanzo». 16 La distinzione è del brasiliano Julio Monteiro Martins, scomparso a Lucca nel 2014.