Il miracolo Vincenzo Consolo
Padre mio, fratello, guida e appiglio, direttore spirituale, sostegno sul crinale d’ogni precipizio, no, non è confessione questa che vi faccio, a voce ferma e alta, alta su questo palco, non è accusa di peccato, espressione di pentimento, contrizione, reclamo di perdono, penitenza, preghiera d’assoluzione, riconciliazione e ritorno nella grazia, no, padre, è questa mia, la segreta rivelazione del dono d’un prodigio, grazia celestiale che su me dall’alto, dalle superne sfere è calata quale raggio o spada incandescente, che nel cuore penetrando tutta m’ha inondata d’un ardore, d’una brama transumana, tutta trasportandomi in un dolce rapimento, in beata estasi. E dico a voi, padre, e mostro, qui, il mistero del seme inopinato che schiudendosi nell’arido terriccio del ventre mio di vergine indurita, nutre, gonfia il germoglio d’un fiore che presto alla luce mostrerà tutta la bellezza, lo splendore, il profumo del suo corpo. Vi dico dall’inizio. Vivo, lo sapete, da sempre sigillata nella corazza della fede, chiusa nel rifiuto d’ogni lusinga, inganno, sola e vigile in questa mia povera casetta nel vico dell’Assunta, vivo in preghiera e astinenza come in reclusorio, eremitaggio, lontana dal traffico e dal chiasso, dai pericoli di quest’antico quartiere di Palermo. Sola distrazione, nelle ore vespertine, quando, chiuso il mercato, cala la quiete sulla strada, solo divagamento assestarmi dietro i vetri della porta e recitare le cinque poste del rosario. Lo sguardo affisso sull’altarino infiorato e luminoso del muro della casa qua di fronte, sul sembiante di San Benedetto il Moro, il fraticello schiavo, nero di faccia e candido di anima, di cuore ardente che tiene in braccio il Bambinello latteo, che sempre ha elargito a tutte le zitelle, le vedove e le vecchie del quartiere miracoli e sollievi d’ogni sorta. Sto lì, dietro la porta, a pregare questo santo prodigioso, e vedo passare, a una cert’ora, frotte di gente estranea, uomini e donne d’ogni colore, poveri giunti qui chissà da dove che vanno a rifugiarsi all’Abadia, dove il prete Baldassarre dà ristoro e accoglienza. Una sera tremenda in cui fra lampi e tuoni la pioggia furiosa s’abbatteva sulla terra, sosta davanti alla mia porta, a riparo del balcone, un nero giovi- 130 Quaderns d’Italià 10, 2005 Vincenzo Consolo netto, bello di sette bellezze, aureolato torno alla testa crespa d’una luce radiosa. Volge subito i suoi occhi scintillanti verso il vetro, mi fissa sorridendo con tutto il biancore dei suoi denti e sussurra parole ch’io non sento. Fa cenno quindi d’aprire la porta, significa d’accoglierlo nell’umile mia stanza. Era quel negro il Santo Benedetto che sprovare voleva la mia carità, devozione amore mio verso di Lui. Entrò, e fu all’istante come un rapimento, una perdita di me, una vertigine. Caddi in ginocchio, l’abbracciai alle gambe gemendo e lacrimando. Mi sentii sollevare, trasportare e stendere sul letto. Ah, padre mio, padre, non so dire con parola umana la gioia immensa, l’estasi in cui quel Santo giovane man mano mi spingeva, non so dire del mio abbandono estremo, dello smarrimento, del deliquio. Ero tutta immersa in una soavità infinita, in un profondo e alto paradiso. Bona, bona, bona… — mi sussurrava il Santo nell’abbraccio. E io, muta, non facevo che sospirare beata e senza posa. Svanì poi quel Santo e io rimasi nel giaciglio stupefatta, inerme, morta, rapita in altro regno. Il giorno dopo, non c’era segno o traccia dell’apparizione in casa mia di quel Santo. Sola traccia e unico segno ora, padre mio, questo rigonfio qui nel mio corpo, questo frutto del miracolo che matura sull’umile terreno, nel ventre mio di vergine.
Milano, 7 aprile 2000