Viaggio in Palestina, con il Parlamento Internazionale degli Scrittori.

Nel marzo 2002, su invito del poeta palestinese Mahmoud Darwish, da mesi assediato a Ramallah dall’esercito israeliano, una delegazione del Parlamento Internazionale degli Scrittori si reca nei territori palestinesi. Sono otto autori provenienti da quattro continenti: il premio Nobel nigeriano Wole Soyinka, il sudafricano Breyten Breutenbach, il poeta cinese dissidente Bei Dao, il romanziere americano Russell Banks, il premio Nobel portoghese José Saramago, l’italiano Vincenzo Consolo, lo spagnolo Juan Goytisolo e lo scrittore francese Christian Salmon, presidente del P.I.S. I testi pubblicati per rompere l’isolamento di scrittori e poeti palestinesi sono il racconto di una realtà che la cronaca ha consumato al punto da impedire una vera presa di coscienza.

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Giorno 24.03.2002

Partenza ore 9.30 – 10 da Charles De Gaulle

Controlli e controlli.
Arrivo con tutti gli altri scrittori e il seguito dei giornalisti a Tel Aviv alle 15 (ora locale).
Controlli a non finire.
In pullman partenza per Ramallah. Segni della guerra. Selvaggio come quello del tavolato degli Iblei. Posti di blocco, soldati armati e con fucili puntati dietro muretti di cemento e sacchi di sabbia. Controlli rigorosi.
Ti salutano sorridendo.
Dopo il secondo controllo veniamo presi in consegna dai palestinesi.
Ci precede una macchina della polizia coi lampeggianti e con un suono lugubre della sirena. Ci conducono, non si capisce perché, dentro il recinto di una caserma.
Chi ci guida è un addetto del consolato francese.
Usciamo dal recinto militare e quindi, attraversate le strade desolate di Ramallah, arriviamo all’Hotel che si chiama Grand Park.
Ci offrono all’arrivo, nella hall succo d’arancia. La camera è confortevole.

…….. è molto gentile con me. Mi spiega tante cose. Egli è stato qui durante la prima intifada, già due volte.
Mi avvertono al telefono dalla portineria che alle 20 incontriamo qui in albergo il poeta Maḥmūd Darwīsh .
Incontro con Maḥmūd Darwīsh a cena in un altro albergo. Molti intellettuali invitati.
Uno mi fa vedere un ….. di coloni da cui hanno sparato.
Risveglio a Ramallah. Paesaggio della mia infanzia, macerie e cose sparse, macchine che vanno su strade sterrate.

Giorno 25.03.2002

Visita al centro culturale. Noi parliamo, parlano in tanti di loro.
Visita al centro di Ramallah con Juan Goytisolo
Visita al campo profughi di al-Am’ari
  Visioni terribili
Centro sportivo sfondato da parte a parte.
Quattro donne, sedute, sono come una casa greca. Tanti, tanti bambini.
Visita all’Università di Bir Zeit. 
Checkpoint Ragazze quasi tutte col foulard in testa.
Acclamazione di Darwish. Incontro al teatro, strapieno, letture di nostri poeti.

Ore 12

Incontro al centro della Stampa – Saramago
Vice di campo di concentramento (Auschwitz)
Una giornalista israeliana che sta in Palestina, dice “dove sono le camere a gas?”

L’indomani incidente nei giornali. Polemiche
Soldati di guardia nel pianerottolo.

Giorno 26.03

Partenza per Gaza (60 km) Paesaggio collinare roccioso e desolato.
Villaggi coloniali. Oppressione agricola.
Arrivo al checkpoint.
Ci attendono le macchine dell’ONU con il rappresentante Bressan (francese)
Dopo tanta attesa scortati partiamo per Gaza. Hotel Beach

Ore 11-14

Visita al campo dei rifugiati a Khan Yunis e Rafah –
Scritte sui muri, foto di uccisi.
C’è una cerimonia funebre (tre giorni) sulla strada improvvisata. Mangiano e fanno musica.
Vado a vedere con Soyirca
Ritorno a Gaza. Checkpoint.
File di macchine, perenni.
Incontro con intellettuali per i diritti umani.

Giorno 27.03

Partenza per Jerusalem –
Ore 10 – Partiti di nuovo con i pullman dell’ONU –
Intanto son partiti, ieri sera, Breitenbach – Bei Dao(Cinese) e…
Sappiamo che Peres s’incontra con Soiynca e Breitenbach
Lunga attesa al checkpoint.
Controlli minuziosi
Sul pullman finalmente, Laila al microfono fa l’imitazione di una guida
turistica israeliana.
Ci fanno vedere lungo la strada, installazioni di colonie israeliane.
Dappertutto venivano rasi al suolo i villaggi palestinesi e la gente massacrata,
seppellita in fosse comuni, su una di queste forse hanno costruito un manicomio.
Il responsabile del massacro, anche, lui alla fine è divenuto pazzo
1948 Jerusalem Begin

Arrivo a Jerusalem alle 12 – American Colony Hotel di lusso

Pranzo – Due israeliani dissidenti con noi.
Visita alla città vecchia.
C’è con noi la moglie del Console francese, Darla, una bella ragazza cubana che ha studiato a
Firenze e parla italiano.
Un professore iraniano dell’Università di Bir Zeit ci fa da guida.
Visita al Santo Sepolcro, ai quartieri palestinesi e israeliani.
Visita al Muro del Pianto. Gli ortodossi, nelle loro fogge nere, coi cappelloni di pelo in testa,
corrono per l’ora della preghiera.
Ritorno in albergo
Sera: ricevimento al Consolato francese
C’è anche il Console italiano.
(Incrociamo la processione dei francescani)

Giorno 28.03

Telefono a Caterina e mi dice terrorizzata dell’attentato a Netanya.
Siamo nella hall dell’albergo molto tristi. Arriva, con passo svelto, David Grossman.
Si appresta a parlare con Russel. Dovremmo ora tutti insieme riunirci con Grossman.
Ma non si sa.
Telefono alla corrispondente dell’Ansa, Barbara Alighiero, che è qui in albergo, e mi dice
che sono arrivati a Tel Aviv 100 pacifisti italiani, con tre parlamentari Verdi, e sono stati bloccati.
Adesso loro stanno facendo un sit-in all’aeroporto.
Incontro alle 10.30 con Grossman

Ore 11.30

Laila ci lascia (teme per la vita)
Ora Saramago, Cecità Goya, Il sonno della ragione

(loro chiamano Hitler Arafat) la Direttrice della Cinematheque dice a Saramago di ritirare la parola
Auschwitz. Replica Direttrice Van Leer – Soyinka.  Teologia della morte.

Ore 12

Partenza in pullman per Jaffa. Incontro il giornalista …
Elias Sabar dice che Sharon ha ordinato a tutte le autorità non governative di evacuare Ramallah
(significa che ha intenzione di bombardare)
Conferenza stampa a Jaffa.
Mangiato a un ristorante palestinese sulla spiaggia che poteva essere povero e di cattivo gusto
(ma in cui si mangiava bene), di una qualche spiaggia siciliana, napoletana o laziale (come quella di Ostia). E in più è grigio e piove.

Ore 16.30 (italiane)

Mi telefona da Ramallah Piera Redaelli, mi dice che sono chiusi in casa da 2 giorni, senza luce, che hanno ucciso 5 palestinesi, che sono circondati dai carri cingolati.

Le 9 liriche del grande Piccolo Vincenzo Consolo

ITALY,Sicily, Capo d'Orlando: The italian Poet Lucio PICCOLO. (c) Ferdinando Scianna/Magnum Photos

In fotografia, Lucio Piccolo e Vincenzo Consolo immortalati da Ferdinando Scianna. Riproduzione riservata © Ferdinando Scianna/Magnum Photos.

 


Le 9 liriche del grande Piccolo

  Successe che scesero dai monti sulla costa, dove già  vi erano i castelli, al rumore di ferro del convoglio che affumava gallerie d’aranci, scuoteva torri in disuso ardite sugli scogli, crepavano i muri, cadevano le mensole e gridando cercava altro riparo il gabbiano.
Qui costruirono case intricate su vicoli segreti, inchiodarono agli angoli di spalliere sui terrazzi teste mozze di mori che la sera avevano il fiato agre di cedronella; nei pozzoluce murarono i tarì.

D’ Alcara solo due, e uno era sciancato. Il resto era rimasto sotto terra al castel Turio (pietà , cristiani!), le gole aperte con le cesoie per la lana dai pastori il giorno della vendetta amara, da sempre covata, nello spiazzo d’ Adelasia Regina (e questo fu il sessanta).
Poi si seppe -ma loro non lo ammisero- ch’erano i campieri di Gallego, d’Aragona e Branciforti.
I più erano scemi, altri si incattivirono o impazzirono a covare le primavere le zagare con gli occhi (ah! le risate dei potatori di Gioiosa, così liberi, beffardi, ingiuriosi).

E ogni giorno crebbero con noi, e fu uno sforzo staccarseli di dosso, così ingombranti, prepotenti, fastidiosi. Talchè, in un attacco di acuta giovinezza, meditammo -estrema soluzione- la deflagrazione del Casino. Di don Stapìno si diceva ch’era figlio di sgarro della marchesa Fi.
Girava, don Stapìno, per i paesi, Capo d’ Orlando, Olivieri, Montalbano, con la cassetta orizzontale sulla pancia (ch’aveva incavata) a vendere aghi, cordelle, stringhe, bottoni di madreperla; affittava il canocchiale -un tanto la guardata- che portava allungato sotto l’ascella.

Nei giorni di luglio, quando Lipari e Salina scivolano sull’acqua e tornano alla costa (gli aprono la strada schiere di pomice e meduse), passava sulla spiaggia, sotto il faro del Capo (luceva al sole la sua giacchetta d’alpagà ) e poneva sopra l’occhio velato d’una lacrima quel tubo nero che conteneva solo la notte, parlando nell’orecchio : scorgi se vuoi, ad ovest, caicchi levantini, il brigantino svevo, la danza dei delfini; ad est, nel nero delle terre, cisterne senza acqua, colonne di calce reggenti il pergolato, infino il fiore di cappero e l’uva vizza della malvasia.
A casa (viveva nelle segrete, al castello dove la notte, tra l’edere, dai fiori del becco soffiava il gufo mai veduto), leggeva la ventura della gente. e apparire faceva facce di morti nell’acqua del bacile, marciare a tempo i trespoli del letto, parlare turco un gatto con voce di bambina.
Col tempo (avevo avuto la ventura di capire ciò che mio padre non aveva saputo fare), mi rimase solo nel cuore don Stapìno. I campieri -ed i padroni d’essi- erano già  passati nella testa, dove l’amore e l’odio hanno la porta chiusa.
Don Stapìno morì (trovarono quaderni che gli spazzini gettarono nel crine che bruciava del suo letto) e ritornò a vivere.

Era del Capo, ma veniva sempre al mio paese, prima in landò, dal tempo screpolato, e poi in motoretta. Correva sempre, correva, il volto chiuso in una gioia incomprensibile. M’accadeva di incontrarlo spesso, e allora mi fermavo e lo seguivo con gli occhi finchè spariva.
Mi trovavo un giorno nella bottega del tipografo con sette dita (tre gliele aveva mangiate la rotativa) quando entrò il barone : anche così fermo, davanti a un banco a un passo da me, fuggiva. Parlò, e parlò di poesie, che Settedita gli doveva stampare con i suoi caratteri “frusti e poco leggibili”, legare i fogli in una copertina marrone marmorizzata, a fingere un bloc-notes, in sessanta copie e non di più. E nei silenzi continuava a parlare, gli affiorava alle labbra un respiro intriso di parole smozzicate, sillabe, suoni, bolle d’un suo discorso interno irrefrenabile.
Uscì il barone, ed io, incantato, non rispondevo a Settedita che mi chiedeva i soldi per l’Ariosto rilegato e che ora aveva dodici dita e il tredicesimo già  gli fioriva, storto, sopra il dorso della terza mano.
Questo fu verso la fine del ’53 : era morto Stalin, i Rosemberg erano stati assassinati, le acque avevano sommerso la Calabria, in Sicilia la Madonna piangeva al capezzale dell’ operaio e per un soffio, alle elezioni, la legge del Poliziotto non scattò.
Capii che la nobiltà  diversa del barone era la poesia, in lui doppiamente magica. E fastosa sognante maliosa, di preziosa favola, di canto mai sentito.
Tutti sappiamo quale sorte ebbe poi quel bloc-notes intitolato 9 liriche, ce lo racconta Montale in appendice al volume dello ‘Specchio’ Gioco a nascondere – Canti barocchi.
(Le sessanta copie di quel libretto originario, 9 liriche, si dispersero al vento come spore, non si sa in quali bui e sordi recessi andarono a finire. Dopo anni -una vita- ho avuto in dono dal figlio dello stampatore Zuccarello una copia di quel raro, prezioso libretto).

Lucio Piccolo di Calanovella è nato a Palermo nel 1903 e ha vissuto nella sua villa -bianca e gialla, su un’ altura, dove si arriva per una stradina a spirale dentro fitti alberi, che domina la piana di limoni; le Eolie, Milazzo e Cefalù nel cerchio dell’orizzonte; nelle sale tra quadri e busti di antenati, drappi, tondi, casse, bacheche dove brillano, all’incerta luce, piatti e brocche arabe, ceramiche Daruta e di Faenza, panciuti vasi Ming su tavoli e credenze – alla Piana di Capo d’Orlando.
Troviamo dapprima questi Piccolo (allora Pizzoli) a Messina, dove vi erano venuti con gli Aragonesi. Verso il Quattrocento s’ imparentarono più volte coi Lancia di Brolo e così si diramarono nei territori di Naso e Ficarra.
Nell’ Ottocento di trasferirono a Palermo, dove abitarono in un villino in via Libertà , presso piazza Croci.
Il nonno del poeta sposò Agata Notarbartolo Moncada, mentre la madre era una Tasca Filangeri di Cutò (una cui sorella andava sposa al pricipe Tomasi di Lampedusa). Nel 1930 ritornarono definitivamente a Capo d’Orlando.

Così, nel poeta, convivono due anime, quella palermitana, spagnola, barocca, delle vecchie chiese, dei conventi, degli oratori, tutta scenografia interna che fa da sfondo alla sua infanzia-adolescenza; e quella messinese, greca, della campagna, della natura, scenografia esterna che fa da sfondo alla sua giovinezza-maturità , ma che egli riduce -è bene dirlo- sempre alla cifra barocca.
“I campi siciliani sono metropoli vegetali” dice Brancati, e bisogna aver visto questi del territorio di Capo d’Orlando (in novembre, quando l’ odore d’ olivo pigiato impregna l’ aria) per capire quale brulichio, quale sfrenatezza, quali intrichi e contorcimenti può avere la vita vegetale (e si legga al riguardo, Veneris venefica agrestis o Anna perenna).
Dopo Gioco a nascondere – Canti barocchi, il poeta ha pubblicato un’ altra raccolta di liriche, Plumelia. E, infine, un balletto, Le esequie della luna. Diciamo balletto per convenzione, ma potrebbe bene esso creare una nuova categoria letteraria. Pomposo, Fantastico, Pastorale ne formano i tre tempi. La luna, fanciulla che si ammala, cade sfaldandosi (il simbolo è palese) : ne vediamo gli effetti alla corte di un vicerè, in un convento di trepide suore e in una campagna, dove infine la luna, fanciulla ricomposta, in un’ urna viene sepolta presso le acque.
La prosa è limpida, quasi modesta, da relazione, ma che, a tratti, ha momenti di accensione lirica, di presa suggestiva sul lettore. E l’ ironia è la sua forza, l’ ironia che incide, ad esempio, tre figurette amabili, la suor Crocefissa, la speziale e, ultima, donna Pasqua, “fimmina di badia”, che ci lascia incantati e perplessi con la visione della sua tonda faccia di luna, stupita per interne dolci commozioni, dietro la grata, tra la malvetta e il garofano.

Questo scritto, ampliato da Vincenzo Consolo, era apparso in Delle cose di Sicilia, Palermo, Sellerio, 1986.

Vincenzo Consolo