La luna e lo squallore della nostra politica

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La luna e lo squallore della nostra politica

Solo la voce della poesia ci salverà dalla volgaritàdei talk show

Raramente lo sproloquio della politica è arrivato a tanto, coinvolgendo argomenti che dovrebbero rimanere al riparo dalla bassa propaganda e dal battutismo diffuso che fa tanto squallore quotidiano. Grillo ha riscritto la poesia di Primo Levi sulla Shoah («Considerate se questo è un uomo?») in chiave elettorale-burlesca. Tornato in scena, Berlusconi ha accusato i tedeschi di negare i Lager. Archiviare con un’alzata di spalle queste insensatezze nel catalogo delle gaffe o delle solite goliardate da guitti sarebbe sbagliato e persino pericoloso. Il livello (grammaticale, sintattico, argomentativo, espressivo) del discorso pubblico non è solo un segnale o un sintomo dello stato della politica: è l’essenza stessa della politica. La politica è (anche) linguaggio e il linguaggio sciatto significa necessariamente politica sciatta, priva di equilibrio nella visione ideale e nella gestione pratica. Non è un caso se la deriva della politica si accompagna da tempo con la sguaiataggine, la volgarità e la mancanza di controllo verbale di molti leader (ancora ieri, con finissima allusione, Grillo ha qualificato Renzi un «figlio di troika»). Mi veniva in mente tutto questo martedì scorso, mentre guardavo e ascoltavo, al teatro Pier Lombardo di Milano, lo spettacolo musicale «Lunaria», protagonista la straordinaria musicista e cantante catanese Etta Scollo, più nota in Germania (abita da anni a Berlino) che in Italia: escursione vocale impensabile, tra il folk e il blues. Riflettevo sul regalo di verità e di emozione che può fare la letteratura pur attraverso la finzione, diversamente dalla politica che finisce per occultare la verità fingendo di mostrarla con presunte parole forti, gettate in faccia alla gente come sabbia negli occhi. Riflettevo insomma sulla resistenza della letteratura, sulla inesausta fiducia nella parola, che si oppone alla approssimazione e alla cialtroneria ormai insopportabile della politica. «Lunaria» è una favola teatrale di Vincenzo Consolo, uscita nel 1985: racconta la storia di un Viceré malinconico e lunatico, disilluso dal degrado che percepisce intorno a sé. Una mattina si sveglia sudato e tremante: ha sognato che la luna è precipitata, spegnendosi sulla terra e lasciando in cielo un buco nero. È un presentimento, perché in una Contrada Senza Nome davvero alcuni villani si accorgono che la luna si sta crepando e che le sue falde luminose piovono dal cielo. Contro la volontà di un Caporale ubriaco, i contadini seppelliscono i frammenti lunari dentro una fontana. Solo ora, con l’intervento finale del Viceré malinconico, la luna ritroverà il suo posto in cielo: «Questa mite, visibile sembianza, questa vicina apparenza consolante, questo schermo pietoso. Lei ci salvò e ci diede la parola». La luna è la poesia, che non troveremo in nessuna sillaba di nessun talk show con grilli-renzi-berlusconi. Quando si arriva allo sfinimento delle parole usurate, cambiare decisamente registro, codice, voce può far bene. Anzi, è l’unico modo, vero choc, per dire basta e magari ritrovare un senso.

Di Stefano Paolo

Pagina 37
(29 aprile 2014) – Corriere della Sera

I contadini di Vincenzo Consolo

Vincenzo Consolo

Il prossimo 20 aprile ricorre il 67° anniversario della vittoria del Blocco del Popolo alle elezioni regionali siciliane del 20 aprile 1947, quando comunisti e socialisti, assieme ad altre forze laiche e cattoliche raggiunsero la maggioranza relativa nelle prime elezioni regionali svoltesi in Sicilia. Fu la prima e l’unica volta che la sinistra nel suo insieme si candidò a dirigere la politica regionale, ottenendo il successo desiderato. Ma allora il pane si chiamava pane e le parole non avevano perduto il loro significato. I fatti sono ormai noti. La strage di Portella della Ginestra e quelle che seguirono ci hanno consegnato un’Italia che è sotto gli occhi di tutti. Ci piace ricordare con Vincenzo Consolo una delle pagine più gloriose di quell’epoca: quella dell’occupazione delle terre.

Nuvole nere vagavano nel cielo, dense come sbuffi di comignolo, da levante correvano a ponente, e nel loro squarciarsi e dilatarsi, rivelavano occhi azzurri e cristallini, lunghi raggi del sole che sorgeva, stecche incandescenti d’un ventaglio, giù dal fondo del Corso, dal quartiere Màzzaro, dal Borgo, d’in sul triangolo del timpano della chièsa gialla di Santa Lucia.
Il largo del mercato era affollato, d’asini muli giumente leardi, luccicanti di specchietti, sgargianti di fettucce nappe piume, scroscianti di campanelle e di cianciane. E cristiani erano a cavallo, a terra, aste di bandiere nelle mani, trùsce e colini pieni di mangiare, ridenti nelle facce azzurre rasate quel mattino. Aspettavano, gli occhi puntati sulla porta della Casa, l’uscita dei capi dirigenti.
Dai balconi dei palazzi prospicienti lo spiazzo, detto in altro modo l’Arenazzo (luogo di sosta de’ carrettieri venuti da Butèra, Riesi o Terranova, sfregatoio di bestie a zampe in aria, riposo dentro il fondaco, tanfo di corno arso per la ferratura nella forgia, cardi bolliti e bicchier dì vino dentro la potìa), dai balconi del palazzo Àccardi e del palazzo Alberti, dalla farmacia Colajanni, financo dalla canonica di San Rocco, guardavano a questo assembramento di villani, a questo cominciamento di processione, a questa festa nuova, fuori d’ogni usanza e d’ogni calendario.
E nel vocìo sommésso, nel mormorio di saluti e di discorsi, nello stridere del ferro di zoccoli e di chiodi, nel tintinnìo di campanelle, nel fumo di trinciati e toscanelli, trillarono i banjo, i mandolini infiocchettati de’ barbieri che, lustri più di tutti nelle facce, nelle lune e nei capelli, con le loro dita magre dall’unghie coltivate attaccarono a suonare l’Internazionale. E subito Bandiera rossa, l’Inno di Garibaldi e di Mameli. Staccarono dalle corde le stecche a cuore di celluloide quando s’aprì la porta della Casa del Popolo uscirono La Marca, Cardamòne, Siciliano, Pirrone e altri ancora, che traversarono tutto lo spiazzo, si portarono in testa, verso l’imbocco della via Bivona, e salirono in groppa alle bestie. Guardinghi, ché non tutti avevan confidenza con gli animali, questi giovani mazzarinesi usciti dalla guerra, ch’avevan studiato, ma studiato, contro i libri di carta e di parole della scuola, sopr’altri libri, e di più con passione sopra il libro del paese, in cui avevan letto chiaramente la lunga offesa, la storica angheria, la prepotenza dei baroni. Eredi ma diversi d’altri precedenti. Come don Oreste Paraninfo che nudo, di notte, suonava al violino sul balcone Mozart e Beethoven. O come don Rocco Colajanni, il farmacista, ateo inveterato, che sul letto di morte, la figlia terziària e le monache assistenti esulcerate, volle da leggere il suo Decamerone. O come il medico Giunta, ché andando sul Corso per le visite, alzando gli occhi ai balconi dei palazzi, sputava e imprecava; «Ah porci, ah baroni!».
Questi giovani ch’avevan determinato il successo del Blocco del Popolo alle elezioni, e che ostentatamente, dopo la vittoria, uno accanto all’altro, ostruendo la strada, andavano avanti e indietro lungo il Corso per dispetto agli avversari. «Una sventagliata di mitra, ecco quel che ci vorrebbe! Guardateli!… Proprio ora che sono a tiro tutti quanti… Ta-ta-tatà e, in un attimo, ci si potrebbe liberare di questi scalzacani» vociava don Turiddu Bàrtoli da sopra il suo balcone coi campieri schierati alle sue spalle. In testa, angelo custode, mignatta e protettore, don Peppino, Falzone di cognome, capo mafia di nome e d’azione, compare dello Scebba, altro capo di Butèra.
Quando tutti furono assettati sopra le cavalcature, il trombettiere della cooperativa “L’Agricoltore” suonò il motivo della sveglia, come da soldato. Il La Marca, da sopra il suo cavallo, si girò verso la folla, alzò il braccio e urlò:
“Avanti!”

(brano del racconto Ratumemi, in Le pietre di Pantalica)

Vincenzo Consolo