La rovina di Siracusa
Dal làstrico sul giardino verso il mare – il noce, l’arancio
vaniglia, il melograno, il fico bìfero e il fico messinese, la
palma e il banano, il mandarino e il cedro, il portogallo, il
ficodindia e l’agave, l’edera e la vite sul muro della stalla,
il gelsomino attorno all’arco, le siepi d’asparago, di
mirto, la sènia sferragliante, l’asino cieco che gira all’infinito
– dal làstrico si vedevano le isole. Ora remote, lievi,
diafane come carta o lino, ferme o vaganti in mare, sospese
in cielo, ora invisibili per cortine di nuvole o vapori, ora
avanzanti, prossime alla costa, scabre e nitide, allarmanti
– malo tempo, malo tempo! –. Ed era sempre un mondo
separato, remoto e ignoto. Talvolta vedeva alla marina pescatori
liparoti, spinti sin là, costretti a tirar le barche sui
parati, scalmi e stroppi rovinati, sostare per il mare grosso,
scirocco o maestrale. Laceri, spossati, dormivano sulle
reti, al riparo delle vele. Balzavano e correvano alla strada,
al binario sotto la roccia del castello, all’udir lo scampanìo
delle barre che calavano. Là, uno accanto all’altro,
attendevano con ansia. Avvolto nel fischio stridulo e tremendo,
nel fumo dell’inferno, lento e possente trapassava
il treno, lesta passava la meraviglia che a casa avrebbero
narrato alle mogli stupefatte, ai fàntoli sognanti.
Ma dove vai, dove, figlia mia? Quella è un’isola di
confino, un paese di coatti…
– È un giovane serio, di famiglia onesta. Fra qualche
giorno verrà col padre a chiedere la mano.
Cominciò così a conoscere le isole, andando a Lipari
a trovare la sorella, nella casetta rosa di contrada Diana,
dov’eran sotto terra, sotto la stradella, sotto vigne, orti,
case, attorno alle cisterne, urne cinerarie, giaroni coi corpi
rannicchiati, sarcofagi di pietra, arredi: crateri olle scifi
anfore idrie ariballi àrule maschere unguentari…
Pompava l’acqua dalla cisterna con l’anguilla, coglieva
grappoli d’uva passa, razzolava coi due bambini nel frutteto,
nell’orto di lattughe, pomodori, sopra una terra risonante,
una necropoli di millenni, accompagnava il padre
loro, notaio temporaneo e ambulante, in altre isole per
stendere contratti, procure, testamenti. Andava a Renella,
a Leni, a Malfa di Salina, in albe di cristallo, per sentieri
di silenzi. Vendevano i contadini, i pescatori, la casa
a cubo di pietra e malta, la cisterna secca, la pergola malata
sui pilieri, il campo di pomice e ossidiana, vendevano
barche sconnesse e aratri consumati, emigravano lontano,
in un’Australia nuda d’ogni storia, d’ogni memoria.
Tuttavia per chi era rimasto, aveva avuto in dono dagli
assenti come dai morti maggior spazio, scorreva ancora
il tempo, aveva il dolore voci, le poche gioie, umane.
Narrò ai nipoti di Eolo, degli otri e dei venti, dell’organo
sonoro sopra il colle, mangiò i mostaccioli del Natale, i
babagigi, bevve la malvasìa di Varesana, entrò nella calotta
di zolfo, nelle terme ribollenti degli antichi, scalò i vulcani
fino ai crateri, pescò di notte i tòtani nel mezzo del canale,
entrò nelle caverne della pomice, parlò coi cavatori
silicotici. Ad ogni spirar di vento, s’alza la polvere dalle
cave di Campobianco, mulina per l’aria, precipita, entra
nelle case di gesso e di salnitro d’Acquacalda e di Canneto.
Erano secchi e grigi i cavatori, avevano denti corrosi
dalla polvere, prendevano analettici, cardiotonici: cresceva
dentro loro poco a poco una corazza in pietra, il cuore
s’ingrossava, si smorzava il fiato, si spegneva.
Correva sopra la Cìvita, dentro il Castello ch’era stato
di tortura e pena. Si stendeva sopra la lastra di lava d’un
sarcofago nel parco e contemplava l’azzurro denso, la tenue
nuvolaglia, pensava al profondo tempo, alla natura
primordiale di quel luogo, ascoltava i fischi, il rombo dei
navigli che approdavano e salpavano da Pignataro, Marina
Corta, Sotto il Monastero. E tra il bosso e il cerchio
dei sarcofagi, gli apparve, nel caldo del meriggio, sola, capelli
di serpi, fiamme, fosca come una Medea, una Didone,
lei, la tragica, l’Anna perenne ch’era stata abbandonata
dall’amato.
– Che fai là, pischello, il morto? Aspetta, che ce n’hai di
tempo!… – brusca, con la sua voce nera.
Un tempo di pomice, d’ossidiana, fermo come la morte,
la notte senza fine.
È come uno sconquasso, lo scoppio d’un vulcano, il marasma
naturale: fissa e per sempre a un istante la sciagura,
aliena il tempo, annienta nella pena.
Stese la regina il drappo rosso al re che ritornava, allo
sposo, al padre senza amore. Ifigenìa, lontana, ignara
del segno, del presagio, ignara d’ogni evento, è ferma a
quell’oltraggio, crede che Oreste sia ancora quel fanciullo
che teneva sulle braccia.
– Torna subito, ti cercano i gendarmi. Rischi d’essere dichiarato
renitente alla leva, venire incarcerato – fu il messaggio
ch’ebbe da suo padre.
S’imbarcò senza aragoste e capperi sopra il Luigi Rizzo
un giorno di tempesta, di tremendo mare. Rischiò la nave,
lasciato il porto, il riparo, il faro di Vulcano, nel mare aperto,
di naufragare. Veniva trascinata sulle creste, scagliata
negli abissi, girava su se stessa, rollava e beccheggiava in
balìa della furia del vento, delle onde. Una, violenta contro
il ponte, spazzò con gran fragore scialuppe, gòmene,
catene, fracassò ogni cosa.
– Ci siamo! – disse il marinaio, e scappò via.
Le donne urlarono, invocarono san Bartolo, il Cristo e
la Madonna, gli uomini, bianchi, vomitarono.
Infine, pietà d’un dio, la nave giunse al capo di Milazzo,
costeggiò lenta il promontorio, entrò nel porto.
Altre tempeste, altre eruzioni, piogge di ceneri e scorrere
di lave, altre incursioni di corsari investirono e distrussero
le sue Eolie, le Planctai, le isole lievi e trasparenti, sospese
in cielo, ferme nel ricordo.
La rovina di Siracusa di Vincenzo Consolo è da L’olivo e l’olivastro
di Vincenzo Consolo pubblicato da Arnaldo Mondadori Editore.