UOMO DEL NOSTRO TEMPO

“Come d’arbor cadendo un picciol pomo” distrugge un formicaio, così un vulcano, eruttando, con la colata sua di lava incandescente, copre città e villaggi, così lo “sterminator Vesevo” distrusse Pompei ed Ercolano. Il vulcano è per il Leopardi de La Ginestra metafora della natura matrigna,
violenta, che desertifica, annichilisce il mondo, questo granello di sabbia
rotante nell’infinito spazio. E in cui, consolazione per gli uomini,
è l’“odorata ginestra”, è il sentimento, la ragione, unica salvezza la “social catena”, è “l’onesto e il retto / conversar cittadino, / e giustizia e pietate”.
È da qui dunque, dalla città, dall’urbs, dalla polis che bisogna partire per
percorrere e “leggere” questa mostra di Augusto Sciacca.
Perché l’artista è dall’idea di città che parte, dall’ideale di una civiltà perfezionata, come quella che ritrova Ulisse, dopo le offese e le perdite subite dalla natura, nel regno dei Feaci. “Per te (…) l’idea e il tema della città sono l’idea e il tema stesso dell’arte; lo si vede (…) specialmente nella tela in cui, con simbolismo evidente, evochi Giotto” scrive al pittore Giulio Carlo Argan.
L’alta città da cui Francesco d’Assisi ha scacciato i diavoli dell’irrazionalità, del disordine, della violenza, abita il pittore e là può riflettere sullo spazio e sul tempo, sull’universo, questo leibniziano incessante cataclisma armonico, quest’immensa anarchia equilibrata, e stende le sue magnifiche mappe del vortice degli elementi, delle espansioni materiche, mappe evocative dei luoghi della memoria. Ma in quella turrita, ideale città giottesca giunge il tremendo fragore della storia, e le mura merlate, i soavi colori delle facciate sono investiti e offesi dall’onda di ceneri e detriti d’una storia umana di storture e atrocità.
“Adunque l’arte è filosofia”, questa frase di Leonardo mette Sciacca in
esergo a un suo scritto. È filosofia, sì, afferma il pittore, e anche
responsabilità etica, oltre ad essere continua ricerca linguistica o stilistica,
ad essere infine metafora.


E dunque per ragioni etiche l’artista svolge il nuovo ciclo pittorico per rendere “evidente” – è la parola giusta – la stoltezza umana, la ricorrente
caduta storica nella barbarie, nella violenza che ciecamente e impietosamente oltraggia ogni innocenza.
E ci racconta, Sciacca, dell’inizio, della violenza di un fratello contro
l’altro, di Caino contro Abele, mostrandoci la “pietra” intrisa di sangue,
incrostata di capelli. E dalla pietra della Genesi posiamo lo sguardo sulla
pietra dell’“Uomo del mio tempo” di Quasimodo, il moderno uomo, ma
eternamente primordiale nella violenza, l’uomo della “scienza esatta
persuasa allo sterminio”, l’uomo della bomba atomica. Guerra, violenza e
morte che già il poeta primo, Omero, ci raccontò nel poema e ci
rappresentò nello scudo per Achille foggiato da Efesto. “Lotta e tumulto
era fra loro e la Chera di morte (…) veste vestiva sopra le spalle, rossa di
sangue umano”.

Una scia rossa attraversa la storia umana, da ieri fino ad oggi. Oggi in cui
ancora l’uomo, immemore della violenza già compiuta, ripete la stessa
violenza, la stessa ignominia. E l’artista, come altri nel passato, come
Callot, Goya o Picasso, offeso nella sua coscienza etica, commosso,
rappresenta e denunzia. Sciacca sceglie le icone più emblematiche nel
mare tenebroso delle immagini di questo nostro tempo, di questo antinferno di ombre evanescenti, di questa oscena civiltà dello spettacolo,
delle immagini che si annullano tra loro, che subito precipitano nel nero dell’oblio. Le immagini che trascorrono sotto i nostri occhi, come fossero
normali e quotidiane, a mille a mille di scene di guerra e di disastri, di
morti e di massacri, d’intimità violate, di dolori esposti all’indifferenza e al
ludibrio. L’abitudine, si sa, cancro che divora e che trasforma, ottunde,
spegne la ragione, e l’idiozia è madre della degradazione e della crudeltà.
Sciacca salva e illumina l’immagine emblema. Con tavole come Pugnale,
Innocenza-corona, Orme, Tagliola, ci dice d’una violenza, d’una tragedia
ricorrente. L’innocenza – un angolo di muro non bastò è la ricreazione di
una recente icona, quella del bambino palestinese, stretto al padre, ucciso
da una raffica di mitra; e ancora della bambina vietnamita colpita dal
napalm che corre per la strada, e del giovane armato degli Anni di
piombo, e del terrorista islamico, e del Muro (…ancora muri), alzato dagli
israeliani; e l’immagine della teoria di corpi inanimati dentro sacchi neri di
plastica, e dell’Elettrodi, l’atroce immagine dell’incappucciato e torturato
nel carcere di Abu Ghraib; e delle torri gemelle di New York ridotte in
macerie, e ancora dei fili spinati, e della memoria di Auschwitz, fino
alla desolazione di Neve e cenere. Campeggia quindi la bianca colomba
insanguinata contro il nero della notte, la notte della storia.
Immagini infernali, da inferno dantesco, l’inferno delle brutte Arpie e delle
nere cagne, le feroci bestie aizzate contro prigionieri inermi. “In quel che
s’appiattò miser li denti, / e quel dilaceraro a brano a brano; / poi sen
portar quelle membra dolenti”.
Ma gli artisti, pittori, poeti o musicisti, scuotono la nostra coscienza, ci
strappano dagli occhi il velo della nostra distrazione, della nostra
alienazione, ci rappresentano l’orrore, la Guernica della nostra barbarie,
per ricordare l’essenza nostra umana, che mai dovrebbe essere ridotta
allo stato di natura, all’animalizzazione, alla ferinità primordiale.
Sciacca, come gli antichi amanuensi, ha scritto i libri delle nostre perdite,
gli annali delle nostre sconfitte, la plumbea pagina nostra Della crudeltà.
Ma, in contrappunto, anche il Libro d’oro del sublime umano, la Nike di
Samotracia e la lira del poeta, il tempio d’armonia e il poverello d’Assisi
che parla agli uccelli…
Sui grandi schermi delle tele, sul video della vita ha fissato i fotogrammi
dell’innocenza violata, della violenza e dell’empietà.
Noi rappresenta Augusto Sciacca con grande arte in questa sua mostra.

Vincenzo Consolo

Milano, 23.2.2006

nella foto: Vincenzo Consolo, Caterina Pilenga Consolo, Augusto Sciacca, Angela di Carluccio


Testo scritto da Vincenzo Consolo in occasione della mostra di Augusto Sciacca intitolata “Innocenza e pietas” al Museo della Permanente di Milano nel 2006.