Vincenzo Consolo: le mie passioni e i tormenti
Gianni Bonina
I libri di Consolo sono sempre nati da uno spunto di realtà e da un punto di vista. Poi prendono una via che può arrivare fino ad Ariosto. Nella sua officina letteraria convivono personaggi reali e diversissimi. E’ il caso di Pirajno di Mandralisca, concentrato sui realia, e di Fabrizio Clerici, attento ai
surrealia. Come convivono nella officina di Consolo queste due figure che peraltro sono storiche? Fanno a pugni?
“Sono due personaggi – spiega Consolo – non accostabili, di matrice diversa, di esito diverso e anche di funzione diversa. Il barone di Mandralisca era il personaggio storico e romanzato che mi serviva per dimostrare cos’è la responsabilità dell’intellettuale in determinati momenti storici. L’intellettuale non può estranearsi dalla storia altrimenti diventa complice di determinati misfatti. Mandralisca, che era chiuso nella sua erudizione di malacologo e antiquario, è stato costretto ad aprire gli occhi e vedere la realtà tragica e drammatica delle rivolte contadine nel 1860. Quando uscì, il libro fu chiamato ‘l’anti-Gattopardo’. Io non so se ne avevo consapevolezza tracciando questo personaggio, che modificai per quello che mi serviva. Non sapevo cioè di scrivere ‘l’anti-Gattopardo’, ma certo la mia concezione era assolutamente opposta a Lampedusa che vedeva nei cambiamenti storici una sorta di determinismo dove l’intervento dell’uomo sulla storia è, seppure con principi diversi, del tipo di quello di Verga: le classi nascono, si raffinano e tramontano come le stelle in un ciclo di ineluttabilità di cambiamenti epocali. Mentre Lampedusa giustificava anche quelle che chiamava ‘le iene e gli sciacalli’ dando loro una legittimazione deterministica, in me invece agiva una visione opposta della responsabilità dell’intellettuale nei confronti della storia, nel senso che deve dare un giudizio sulla storia e intervenire”.
Clerici allora a che distanza sta dal Mandralisca?
Quanto a Clerici, il gioco letterario è più scoperto. Avere spostato nel Settecento un personaggio contemporaneo mi è servito per rivendicare nei confronti della storia e del romanzo di cronaca il primato della letteratura, rendendole un omaggio nel senso che tra i sentimenti dell’uomo c’è l’amore e c’è la passione. La scelta di questi temi era dovuta alla contingenza di quei tempi. Ho scritto Il sorriso dell’ignoto marinaio in un momento di accensione storica qual è stato quello degli anni Settanta quando tutto era messo in discussione con il dibattito culturale e politico del momento. Negli anni in cui ho scrittoRetablo c’era piuttosto un atteggiamento da parte di certi intellettuali e politici di disprezzo nei confronti della letteratura, vista come concezione borghese, sicché ho scritto quel libro per difendere la letteratura contro la storiografia.
Lei ha frequentato generi disparati passando per esempio da una specie di introibo come fu Un sacco di magnolie, che è anche un bozzetto verghiano insieme con Il fosso, per arrivare a sponde rivali come nel caso dello Spasimo di Palermo. Ciò potrebbe fare pensare all’itinerario lungo e sofferto di una persona insofferente e smaniosa.
Racconti come Un sacco di magnolie rappresentano il tributo che fatalmente deve pagare un esordiente a quelli che sono i padri sacramentali della letteratura siciliana. Sfido chiunque scriva a dire di non avere avuto un minimo di eredità brancatiana e verghiana. Quello era il momento della fascinazione verghiana, dopo la quale è venuta una presa di coscienza, la rivendicazione di una propria identità.
Certo, ma passare da Verga a Eliot è come un “salto mortale”.
Non c’è dubbio. Sono sempre stato affascinato dalla poesia di Eliot che ho scoperto attraverso Montale già al tempo de La ferita dell’aprile. Lo stesso titolo è di tipo eliotiano, perché Eliot dice che “aprile è il più crudele dei mesi”, talché io ho identificato la crudeltà dell’aprile con l’adolescenza che era quella dell’io narrante, ma era anche l’ennesima adolescenza della Sicilia dopo la guerra, e dunque il momento della rinascita. Naturalmente questa ferita può rimarginarsi e diventare una “maturezza” come dice Pirandello oppure una cancrena. Io ho constatato che l’adolescenza in Sicilia è diventata una cancrena e che quella ferita è rimsta ancora aperta. Di Eliot mi affascinano i correlativi oggettivi, il passare da un’immagine a un’altra. E nelloSpasimo di Palermo mi ha accompagnato questa continua cifra eliotiana.
Da un viatico verghiano passa dunque a un libro vittoriniano quale La ferita dell’aprile e chiude una sua prima stagione con Quasimodo e la Sicilia rimpianta. Ma c’è un secondo Consolo che ha ascoltato Dolci, Levi e Sciascia. Il salto è dall’empireo all’impegno.
Io non vedo questo salto. È un processo di maturazione e di ricerca anche dal punto di vista linguistico e stilistico. Quando scrissi La ferita dell’aprile avevo consapevolezza piena di quello che facevo, della scelta di campo che operavo: avevo seguito la stagione del neorealismo, la memorialistica e tutto il meridionalismo, da Gramsci a Danilo Dolci fino poi a Carlo Levi e lo Sciascia delle Parrocchie. Voglio dire che l’esordio, a parte i racconti dei primi passi, è del tutto cosciente del contesto storico, sociale e stilistico perché questo libro è segnato da un forte impatto linguistico. Lo mandai a Sciascia e mi rispose chiedendomi spiegazioni su una particolarità linguistica che in effetti mi ha sempre accompagnato come diversità storica e sociale: cioè il dialetto galloitalico di San Fratello. Nella lettera che gli scrissi mi dissi debitore delle sue Parrocchie.
La ferita dell’aprile sta a lei come Le parrocchie di Regalpetra stanno a Sciascia, con la differenza che Le parrocchie sono una prova di realismo storico mentre La ferita di realismo mitico. Perché allora si sente debitore di Sciascia e non di Vittorini?
Perché i miei temi non erano di tipo esistenziale e psicologico, ma storico-sociale. Ho cercato di raccontare attraverso gli occhi di un adolescente cosa sono stati la fine della guerra, il dopoguerra, la ricomposizione dei partiti, la ripresa della vita sociale, le prime elezioni del ’47, la vittoria del Blocco del popolo, denunciando l’ennesima impostura che si perpetuava attraverso le vocazioni religiose, i “microfoni di Dio”, fino alla vicenda di Portella e la pietra tombale delle elezioni del ’48. Ho voluto rappresentare tutto questo con una cifra assolutamente diversa, prendendo le distanze da quella comunicativa di Sciascia e mettendomi su un piano di espressività.
Perché se la corrente era in senso contrario?
Ho le mie spiegazioni a posteriori di queste scelte. L’ho fatto perché non mi sentivo di praticare lo stile della generazione che mi aveva preceduto, Moravia, Calvino, Sciascia. C’era lo scarto di appena dieci anni con questi scrittori che avevano vissuto il fascismo e la guerra. Nel ’43, quando avevo dieci anni, loro nutrivano la speranza di comunicare con una società più armonica sicché la loro scelta illuminista e razionalista era nel senso della speranza. Quando io sono nato come scrittore questa speranza era caduta e ho cercato di raccontare perché si era restaurato un assetto politico che non era come si sperava, ancora una volta iniquo, che lasciava marginalità, oppressioni e sfruttamento. Ho scelto il registro espressivo e sperimentale non vedendo una società armonica con la quale comunicare. La speranza che avevano nutrito quelli che mi avevano preceduto in me non c’era più.
Detto adesso sembra facile, ma allora lei aveva di fronte le ultime risacche del neorealismo e le prime correnti del Gruppo 63.
Già, ma io avevo consumato questa esperienza. Il prete bello, Libera nos a Malo e la memorialistica di quanti erano reduci dalla guerra. Che non era diventata letteratura ma mera restituzione di un’esperienza.
Ma quella sua prova fu fortemente innotiva e poco sciasciana.
Senza dubbio. Ma è curioso che Sciascia sia stato impressionato dalla particolarità di questo libro. Poi, quando è uscito Il sorriso, a distanza di anni, con più consapevolezza e con la mimesi dell’erudito ottocentesco, Sciascia a Sant’Agata di Militello lo presentò e disse che quel libro era un parricidio. Voleva dire che avevo cercato di uccidere lui, come del resto avviene sempre. Dice Sklovskij che la letteratura è una storia di parricidi e di adozioni di zii. Debiti dunque sì nei confronti di Sciascia, ma la scelta di campo è stata diversa. La ricerca si inquadrava fatalmente sulla linea verghiana, gaddiana, pasoliniana della sperimentazione del linguaggio, della “disperata vitalità”, come la chiamava Pasolini.
C’è un campo che è stato poco investigato circa la sua ricerca ed è quello del reportage. Penso a Il rito sulla morte di Rossi, o a Per un po’ d’erba ai limiti del feudo, “pezzi” giornalistici che l’hanno impegnata per due decenni. Come ha fatto a scrivere reportage mentre scriveva La ferita e poiIl sorriso?
Mi sembravano due scritture diverse, della restituzione di una realtà immediata nel modo più originale la prima, senza però arrivare allo stile sciatto giornalistico, dando significati altri alla cronaca raccontata. Quando Sciascia stava facendo l’antologia sui narratori di Sicilia con Guglielmino pensava di mettere un mio brano della Ferita, ma quando lesse il racconto su Carmine Battaglia lo scelse perché gli sembrò più consono come sigillo di una certa realtà siciliana.
A me piacerebbe davvero fare chiarezza sui suoi debiti perché non si è capito se sia figlio di Sciascia o di Vittorini. È un fatto che, per quanto sia stata importante per lei l’Odissea, a un certo punto dice che ci è arrivato attraverso Vittorini e non Sciascia. E allora mi chiedo chi è il suo padre putativo. Sembra amare di più Sciascia, ignora Vittorini inDi qua dal faro ma in verità ha ben conosciuto Vittorini e lo ha molto osservato.
Dunque. A proposito di parricidi, nella Ferita ho fatto morire all’inizio il padre dell’io narrante e ho adottato uno zio che poi è diventato padre avendo impalato la madre del ragazzo. Poi faccio morire anche questo patrigno. Io sono figlio di tanti padri che poi regolarmente cerco di uccidere. Certo, Vittorini l’ho ignorato nei saggi perché Vittorini mi interessava per certe sollecitazioni di tipo teorico che lui dava circa la concezione letteraria. Sciascia, a una seconda lettura diConversazione in Sicilia, dice di essere rimasto deluso, e lo capisco perché il libro è contrassegnato da una forte implicazione di tipo rondista con innesti di americanismo. Però è vero che per la prima volta appariva nella letteratura siciliana il movimento, l’atteggiamento attivo nei confronti della storia, la fuoriuscita dalla stasi verghiana, insomma una grande lezione per me quella del movimento.
Lei ha fatto la stessa cosa che ha fatto Vittorini e che racconta in un’intervista a Giuseppe Traina: ha disegnato per Il sorriso la carta topografica di Cefalù, vicolo per vicolo, come Vittorini fece con la Sicilia per Le città del mondo.
Già. Un modo per entrambi di essere più siciliani possibile, più precisi e acribitici.
In Un giorno come gli altri lei pone una questione non risolta: quella della scelta tra lo scrivere e il narrare, dove scrivere significa cambiare il mondo e narrare soltanto rappresentarlo, secondo una definizione di Moravia. È importante quel racconto perché segna la sua scesa in campo politico. E lei dice che è meglio scrivere.
Pensavo che la scrittura di tipo comunicativo-razionalistica avesse più incidenza che quella di tipo espressiva che io praticavo e che chiamo “il narrare”, implicata com’è con lo stile e la ricerca lessicale. Lo stile non ha impatto con la società e il movimento è dal lettore verso il libro, mentre in quella comunicativa il movimento è al contrario. I libri di Sciascia hanno fatto capire cos’era la mafia, Moravia ha fatto capire cos’era la noia durante il fascismo. La scrittura espressiva ha un destino diverso, com’è per la poesia. La narrazione non cambia il mondo.
Lei ha fatto una scelta a favore del coté espressivo.
Ho organizzato la mia prosa attorno alla forma poetica, seguendo un procedimento che riporta alle narrazioni arcaiche, orali, dove il racconto prendeva una scansione ritmica e mnemonica.
Vediamo la vicenda sotto un altro aspetto. Lei e Basilio Reale, entrambi messinesi, avete avuto uguali trascorsi: a Milano insieme e nello stesso periodo, però lei va verso la prosa mentre lui verso la poesia. E si chiede come succeda questo fenomeno.
Lo trovo infatti inspiegabile.
Mentre poi dice di essere più votato alla poesia quando Reale ha dato poi prova di essere buon prosatore.
Se parla delle sue Sirene siciliane, siamo di fronte a strumenti psicoanalitici. Io non so perché uno nasce con la tendenza verso la musica e un altro verso la pittura. Con Reale ci siamo incontrati all’università di Milano giovanissimi. A Messina non ci eravamo mai visti. Quando ci siamo conosciuti c’era un altro confrére, Raffaele Crovi che frequentava Vittorini più da vicino. Mi raccontava Ginetta Varisco, che ho frequentato dopo la morte di Vittorini, che Crovi veniva da uno strato sociale povero e quando andava a casa loro Elio le diceva “Cucina molta pasta perché questi ragazzi hanno molta fame”.
I suoi libri sono giocati in forma autobiografica. Il Petro Marano che lascia la Sicilia o il Gioacchino Martinez che viene in Sicilia sono sempre trasposizioni di sé. È sempre stato lei, sin dai reportage; e non ha parlato che di sé.
Sì, ma in maniera molto mascherata. La mia esperienza personale mi serve come chiave di lettura della realtà e del momento storico che vivo. Ma nel Sorriso ci sto poco. Sciascia vi vedeva più Piccolo che me.
Verga e Pirandello, anche loro andati via, sono però riusciti a scrivere di Milano, Roma e di salotti borghesi. Mentre lei, Sciascia, ma anche Vittorini, pur stando fuori non siete riusciti che a scrivere sempre della Sicilia. E c’è un motivo: perché bisogna conoscere il linguaggio e averne memoria, come ha osservato lei stesso.
Di Milano io non so fare metafora mentre della Sicilia sì. Di Milano posso restituire una cronaca, l’ambiente vissuto da studente, mentre la Milano che ho vissuto dopo mi serve per leggere meglio la Sicilia e creare paralleli tra questi due mondi antitetici e opposti. Non sono caduto in crisi come Verga, se mi è permesso: vivendo in questa realtà milanese non mi sono ripiegato verso l’infanzia dorata. Ho scoperto invece un’altra Sicilia, quella più vera e infelice, la continua ingiustizia e perdita e smarrimento dell’identità. I miei libri sono contrassegnati da questa spinta a varcare la soglia della ragione per andare nella terra dello smarrimento. Vittorini dal canto suo ha scritto su temi non siciliani i libri meno riusciti, così come Verga ha scritto Per le vie che sono le novelle meno felici. Io di argomento non siciliano ho scritto solo qualche racconto come Porta Venezia.
E’ dunque d’accordo che si può staccare un siciliano dalla Sicilia ma non si può staccare la Sicilia da un siciliano?
Certo. Nel bene e nel male non si può strappare la Sicilia a un siciliano.
Ma c’è un ultimo Consolo smaniato da intenti umoristici.Nerò metallicò ne è un esempio.
Di più c’è forse Il teatro del sole. E’ il rovescio del tragico. Musco a chi dice “Domani il sole illuminerà il cadavere di uno dei due” domanda “E si chiovi?”. E se piove?
Lei ha riflettuto lo stesso sentimento di Vittorini quando davanti al mondo industriale capiva di poter raccontare solo quello contadino. Le città del mondo nasce da questo stato d’animo.
Vittorini aveva creduto generosamente in un’utopia. Pensava che l’industrializzazione della Sicilia fosse possibile. Aveva avuto l’esempio olivettiano dell’industria a misura d’uomo e riteneva che la scoperta da parte di Mattei del petrolio risvegliasse finalmente i siciliani. Ed ecco nelle Città del mondo i contadini a cavallo che convergono al centro della Sicilia. Ma la realtà ha infranto la sua mitizzazione. Gli esiti li abbiamo visti. Gela, Augusta, Priolo, obbrobriosi e nefasti. Ecco cosa ne è stato dell’industrializzazione della Sicilia. Ci fu una polemica tra Sciascia e un giornalista dell’Avanti: Sciascia, che scriveva su L’Ora, aveva cominciato ad avanzare dubbi sull’industrializzazione e il giornalista gli contestò la mancanza di ottimismo concludendo “Benedetti letterati”. E Sciascia rispose: “Adesso si vede che anche loro, i socialisti, hanno la facoltà di benedire, come i democristiani”. Vittorini avrebbe voluto che la Sicilia uscisse dalla condizione di inferiorità e di soggezione incamminandosi verso un mondo di progresso. Non credeva nei dialetti individuali ma nella commistione delle lingue, ma non sapeva che gli immigrati siciliani a Torino la sera uscivano per imparare il piemontese e mimetizzarsi.
Se lo sguardo di Vittorini è utopico, il suo è nella trilogia certamente molto amaro.
Ero più avveduto e avevo gli strumenti per esserlo. Avevo constatato la realtà qual era. Io mi direi, ricordando Eco, un apocalittico realista, avendo visto la realtà italiana dal dopoguerra ad oggi: una continua deriva verso i valori più bassi di un mondo che non accetto sotto nessun punto di vista.
A proposito ancora di Vittorini e delle sue “due tensioni”: viene prima la politica o la cultura? Una volta lei ha detto che è la politica a dominare la società, non la cultura.
Credo che sia così. Almeno immediatamente, perché nei tempi lunghi forse è la cultura ad avere più forza. In anni precedenti al Sessantotto, all’università di Napoli, durante l’inaugurazione dell’anno accademico, uno studente fece un intervento di tipo politico e Giovanni Leone, che sarebbe diventato presidente della repubblica, disse: “Qui non si fa politica, ma cultura”. Intervenne con un articolo Vittorini scrivendo che la cultura è politica. Voleva dire che la cultura non è mai staccata dalla politica perché riguarda il contesto sociale in cui viviamo, dove cerchiamo di difendere i principi fondamentali della nostra convivenza civile. La politica influenza la società e la società crea a sua volta la cultura. Sta a quella categoria della società formata dagli intellettuali di essere attenti osservatori e di essere critici nei confronti della politica e della società. Sempre. Io dico che anche in una ipotetica società perfetta l’intellettuale deve stare all’opposizione. Ho creato una metafora sulla posizione critica dell’intellettuale: solo il re non può non avere critici perché sarebbe critico di se stesso. Ma appena si tratta di un vicerè si ha il dovere della critica e, come dice Bachtin, bisogna avere una visione utopica della società.
Ma la politica non è specchio della societa, per cui non si può avere una classe politica migliore, o peggiore, della società che la esprime?
E’ vero, ogni società esprime la sua classe politica. Ma la storia ci dice che ci sono state élites che hanno indicato la via alla società. Pensi alla Rivoluzione francese, nata dagli ideali illuministici che hanno guidato i rivoluzionari. La cultura richiede tempi lunghi e lenti. Pensiamo all’influenza che può avere avuto la grande letteratura ottocentesca e settecentesca e ai cambiamenti che nei tempi lunghi ha portato, al di là di quella che Barthes chiama “la scrittura d’intervento”: di uno Zola per esempio che occupandosi dell’affaire Dreyfus smette di fare lo scrittore e interviene sui giornali.
La cultura è migliore della società che interpreta?
Senz’altro sì. Ma non dobbiamo pensare solo a una cultura alta. C’è anche una cultura popolare altrettanto degna. Anzi, dalla convergenza di queste due culture si ha il movimento delle masse. Stiamo insomma a dare ragione a Gramsci.
Lei ha detto che non si deve usare il linguaggio del potere perché significa contaminarsi ed essere complici.
Parliamo in questo caso di linguaggio d’invenzione. Siccome l’intellettuale dev’essere critico, non riesco a immaginare un artista che non sia intellettuale nel mondo attuale. Prima le due funzioni si potevano scindere, oggi non più. L’intellettuale non può usare il codice del potere ma un controcodice che sia diverso anche nella forma e nello stile. Oggi la situazione è talmente allarmante che adottare la lingua del potere, quella mediatica, berlusconiana per capirci, significa essere collusi. Un controcodice è dunque indispensabile, ma non di astrazione come era ipotizzato dalle avanguardie, futurismo o Gruppo 63, ma un controcodice della memoria, perché letteratura è memoria: per cui occorre conservare le radici profonde della memoria linguistica e cercare di immetterla nel codice di espressione perché il potere non fa che cancellare la memoria. E parlo anche di memoria linguistica.
Può rientrare in una logica no global l’adozione della lingua dialettale contro la mondializzazione dell’inglese? Anche il dialetto può essere un controcodice?
Bisogna stare attenti all’accezione della dialettalità che molto spesso è un codice regressivo e ristretto, affidato più che alla articolazione del pensiero alla microgestualità e alla corruzione della parola nazionale. Invece il cammino deve svolgersi al contrario: vedere da dove sorgono le parole dialettali, da dove vengono e perché sono state usate nel passato, per cercare di immetterle nella scrittura espressiva. E chiamo “espressiva” la scrittura non “comunicativa”, che è propria del codice centrale della linea manzoniana, illuministico-razionalistico. Per quanto mi riguarda la lingua comunicativa è impensabile. Si può usare solo un controcodice che conduca nella zona dell’espressione, dove è possibile la riesumazione delle parole, come anche dei suoni, per non farle espellere. Sono gli anglismi imperanti a distruggere il nostro patrimonio linguistico, che ci viene dalla storia, e a determinare una cancellazione di identità.
Nell’uso di questo controcodice possono essere compresi, quanto alla Sicilia, autori che vanno da Meli, Tempio, Buttitta fino a D’Arrigo e a lei stesso?
Lei fa nomi di autori, Meli, Buttitta, che hanno usato il dialetto in un momento in cui esistevano i contesti dialettali. Oggi il contesto dialettale non esiste più mentre ha preso piede una ricerca neodialettale da parte di autori consapevoli dell’assenza di un pubblico dialettale e che usano il dialetto come una lingua altra. In poesia soprattutto, che è espressività massima, usare il codice comunicativo diventa impossibile. Lo chiamiamo neodialettale perché è come se scrivessero in latino. C’è un poeta napoletano, Sovente, che scrive infatti in partenopeo e in latino.
Se il dialetto regredisce, l’italiano è però sempre più fragile, come ha detto una volta lei. Allora il futuro del nostro linguaggio espressivo qual è?
Il destino della nostra lingua nazionale è davvero segnato. Pasolini già nel ‘64 parlava di nascita di una nuova lingua italiana. Oggi in televisione assistiamo a un’invasione di linguaggi altri del potere e della rivoluzione tecnologica. Ceronetti scrisse un articolo tempo fa calcolando che il dieci per cento di parole sono italiane contro il novanta per cento di americanismi. Ma la letteratura è un’altra cosa. E’ di per sé il controcodice del linguaggio espressivo. E non può cancellare se stessa.
Ma questo controcodice è anche un contropotere uguale e contrario?
Sicuramente sì. E ancora una volta, per ripetere Vittorini, lo stile è politica.
Il problema però è di fare corrispondere le parole alle cose. E già Foucault diceva che si è creato un diaframma.
La parola deve sempre corrispondere alla cosa, altrimenti è astrazione, avanguardia. Altro discorso è il linguaggio estetico. Pensi a un Bufalino che diceva di usare il registro alto come lingua di bellezza: ma nel suo caso la forma non coincide con il contenuto e le parole non riflettono le cose ma una concezione elitaria di cultura separata dalla società.
Anche Piccolo fu molto ornato.
Una scrittura anche quella assolutamente alta, è vero, ma in un campo che è quello poetico dove è consentita, al pari della scrittura neodialettale di oggi.
Per avere una stretta corrispondenza tra forma e contenuto, parole e cose, che tipo di linguaggio occorre dunque adottare?
Solido, filologicamente giustificato. Dobbiamo sapere perché adoperiamo certe parole, da dove vengono, e come le riceviamo in un periodo e in una frase, quale realtà riflettono insomma.
A chi pensa?
Penso a tutta la linea sperimentale che parte da Verga, col rovesciamento del codice manzoniano, quello che Pasolini chiamò “l’italiano irradiato di dialettalità”. Poi ci sono tecniche e maniere diverse, sicché abbiamo i Gadda, i Landolfi, i D’Arrigo e via gli altri. Una linea sperimentale parallela a quella illuministica. Lo ripeto fino alla noia: mi sono sempre chiesto perché gli scrittori della passata generazione, con uno scarto di dieci o quindici anni rispetto a me, che hanno vissuto l’esperienza della guerra e del fascismo – Moravia, Calvino, Sciascia – avessero scelto la linea comunicativa; e mi sono detto che il loro codice fosse manzonianamente quello della speranza, perché pensavano che, finita la guerra ed entrati in un contesto democratico, si sarebbe avuta una società nella quale comunicare. Ma questa speranza è poi caduta e oggi non è più possibile usare un codice comunicativo.
Pasolini poneva l’equivalenza tra linguaggio e potere nel senso che il potere cerca sempre di fare proprio il linguaggio. Ma quando parliamo di potere di cosa parliamo?
Parliamo di un potere che non rispetta i principi fondamentali e la dignità dell’uomo, che crea le differenze tra chi ha e chi no, che opprime idee politiche: a questo potere si riferiva Pasolini, che nella sua analisi della lingua italiana riportava una frase di Aldo Moro (che pure era per lui il meno implicato nei guasti del nostro Paese) pronunciata nel discorso per l’inaugurazione dell’autostrada del sole, una frase indicata come esempio di “politichese”. Oggi il nostro linguaggio non è quello di Moro, ma è più doroteo e miserabile, più politichese, più squallido, è il linguaggio dei media, poi trasferito nella politica, lo slogan impositivo, che è una forma di violenza fatta con il bombardamento di messaggi pubblicitari. Lo slogan è la distruzione della lingua, è il linguaggio della menzogna e dell’impostura. Così è nella politica. Guardiamo i dibattiti trelevisivi o ascoltiamo i cosiddetti portavoce: parlano tutti per slogan.
Sono gli effetti ultimi del postmoderno. Però Verga forse fu un antesignano, perché, come ha notato lei in Di qua dal faro, ha smesso di scrivere per continuare con la macchina fotografica a parlare dei “vinti”. Cambiò linguaggio ma non argomento.
Fu una scoperta sconvolgente quella delle sue foto. A Parigi vidi una mostra di foto di Zola, in confronto alle quali le foto di Verga si distinguono per la rappresentazione verista della realtà rurale anziché della borghesia colta persino nei suoi sudori. Ma non mi spingo a dire che sia stato questo il motivo della rinuncia a completare il ciclo dei “vinti”. Come lui stesso disse a Guglielmino, non sapeva parlare il linguaggio della nobiltà. Piccolo mi raccontava che mandò De Roberto a una festa palermitana di aristocratici perché li osservasse e li sentisse parlare. E De Roberto ci andò standosene in un cantuccio tutto ingrugnito tanto che gli ospiti gli passavano davanti e dicevano: “Che vuole questo? Ma chi è?”.
L’esperienza di Verga, non riuscito a usare il linguaggio dell’alta società, non dimostra l’impossibilità di usare un controcodice, se la sua opera si vede nel segno di una proposizione della questione meridionale e dunque di un discorso sul potere?
Quello che non è riuscito a Verga è però riuscito a De Roberto. Con esiti diversi, è vero; ma ha usato un linguaggio borghese preoccupandosi però più del contenuto che della forma. De Roberto non aveva l’assillo stilistico che ossessionava invece Verga. Credo che Verga finisca con la morte di mastro don Gesualdo dileggiato dai camerieri della figlia nel palazzo di Palermo.
Una volta, fino agli anni Settanta, era impossibile fare politica senza la cultura mentre oggi è impossibile fare cultura senza la politica. Mentre una volta la politica doveva tenere conto dei maitres à penser, oggi bisogna rivolgersi al principe per qualsiasi iniziativa culturale.
Oggi la politica può fare a meno della cultura perché non è più ragionamento e persuasione, ma imposizione di messaggi propagandistici, per cui non le servono gli intellettuali. Galli Della Loggia equivoca quando parla di egemonia della sinistra. Il contesto era diverso, la politica era diversa: era naturale che un intellettuale operasse ideologicamente. Nella destra gli esempi di scrittori che hanno teorizzato la supremazia di una classe sulle altre sono stati pochi, mentre gli scrittori di sinistra hanno sostenuto a fondo principi di uguaglianza sociale e solidarietà umana.
Ma si può parlare oggi di etica della politica?
In questo governo di centrodestra si è avuto un caso di divergenza interna quando Buttiglione, un signore di matrice cattolica, ha preso posizione a favore di quelli che chiamiamo “clandestini” perché ha visto che l’atteggiamento xenofobo è anticristiano, disumano e incivile. Ci sono evidentemente dei limiti nella coscienza politica che non possono essere travalicati. Non si possono ignorare questi disgraziati che arrivano da noi. C’è una soglia di decenza e di rispetto dell’umanità che soltanto il fascismo e il nazismo hanno potuto varcare.
Lei oggi interviene perlopiù sulla stampa di sinistra, mentre Pasolini e Sciascia preferivano pronunciarsi su giornali che non fossero organi di partito. Eppure lei è riconosciuto come il loro legittimo successore.
E’ cambiato il contesto. Quando Ottone chiama al Corriere della sera Pasolini è mosso da intenti anche commerciali, ma soprattutto dall’interesse ad allargare l’orizzonte. Oggi i giochi sono più radicali. L’unica testata dove mi pare di potermi esprimere liberamente è l’Unità, anche se poi la critico per certa carenza di gusto e di cultura.
Allora era più facile farsi spazio per un intellettuale?
C’era più tolleranza. In realtà serviva un Pasolini che sul Corriere facesse il processo al Palazzo. Forse agiva anche una intenzione di civiltà nel senso di accogliere anche il dissenso. Oggi si è tutto polarizzato.
Ma non può essere stata un’operazione della borghesia? Accetta nei propri giornali Pasolini e Sciascia, come le grandi manifestazioni studentesche, per farne un fatto di moda, per volgere la protesta in costume. Oggi Pasolini appartiene infatti anche al costume.
Colpa dei cattivi lettori. Solo loro possono ridurre l’incidenza di un Moravia, di un Calvino, a un fatto di costume. Pasolini è rimasto noto per la sua omosessualità e Sciascia, dal canto suo, è stato inchiodato a due slogan male interpretati: “Né con lo Stato né con le Br” e “I professionisti dell’antimafia”. Un’intera articolazione di pensiero svilita dal cattivo lettore, che molto spesso è lo stesso intellettuale.
Lei parla di cattivi lettori, ma non si può pensare anche a una orditura del potere?
Certo. Il capitalismo è cinico. Gli servivano questi intellettuali che facessero il controcoro. Ma io salvo l’assoluta buona fede di uno come Ottone o di un altro direttore quale fu Benedetti a La Stampa. Quando cominciai a scrivere sul suo giornale perché Sciascia mi segnalò, Benedetti lo ringraziò. Era gente di grande onestà intellettuale e poteva dunque aprire a intellettuali come Pasolini.
Ma i giornali fanno parte della sfera della politica o di quella della cultura?
Dipende dalla proprietà. Quando Spadolini lasciò il Corriere della sera, partecipando a un convegno di giornalisti disse: “Mi hanno cacciato come un valletto”. E qualcuno dalla platea gridò: “Ti sta bene”.
Vittorini non credeva nel dialetto. Lo reputava un precipitato della classe contadina.
Lo disse nel commento a I giorni della fera di D’Arrigo. Disse di non avere pazienza per i dialetti meridionali. Aveva le sue mitologie. Mitizzando l’industraiale del nord del tipo di Olivetti, pensava che l’industria settentrionale fosse una cifra di progresso e che nei confronti della storia l’operaio prendesse coscienza del suo lavoro come elemento del ciclo di produzione. Non accettava i dialetti ma vedeva il progresso in quello piemontese. Diceva che sarebbe stato interessante creare un incrocio tra i dialetti e fare nuove koinè. È avvenuto invece che gli operai meridionali che arrivavano a Torino quando la sera uscivano dalla fabbrica andavano a scuola di dialetto piemontese per non apparire terroni e mimetizzarsi. Poi è passato il rullo compressore della lingua televisiva che ha distrutto tutte le koinè che Vittorini aveva immaginato.
Vagheggiava una sicilia lombarda e si mostrava un antiverghiano fino alla bestemmia.
Generosamente pensava a una Sicilia migliore. Aveva lasciato l’immobilismo verghiano e pensava a un risveglio. Mi raccontava Vito Camerano (che con un altro catanese, Pippo Grasso, era andato da Vittorini con un manoscritto per poi essere invece reclutati entrambi come collaboratori) che nel viaggio in Sicilia per l’edizione illustrata diConversazione in Sicilia, arrivati ad Aidone Vittorini, accompagnato anche da giovani amici quali Giovanni Pirelli e Giancarlo De Carlo, disse ispirato: “Adesso vedrete persone alte, bionde, con gli occhi azzurri”. Ed entrati in paese trovarono vecchietti piccoli e curvi. Vittorini pensava di vedere Gran Lombardi dappertutto in Sicilia.
L’idea era di sprovincializzare l’isola. Un tentativo fallito. Oggi si è realizzato il sogno di Vittorini di una Sicilia non più provincia?
La sprovincializzazione non si è avuta dal basso, per maturazione ideologica, ma dall’alto, per imposizione del processo di omologazione che ha azzerato tutte le diversità e le individualità. Guardiamo le nostre coste: la sera si passa da un concerto di musica a un altro, in un misto di chiasso, di macchine, di confusione. La riviera adriatica non è in nulla diversa dalla nostra riviera tirrenica.
Vede tutto ciò in senso negativo?
Se tutto diventa alienazione e carnevalata sì. La Sicilia è entrata finalmente a far parte dell’Italia ma nel senso peggiore.
Quella smania di cui parlava a metà degli anni ’90, quando non sapeva quale fosse l’astratto furore che la portava ogni volta in giro per la Sicilia a cercare i lati più autentici, continua ad agitarla?
Non mi pare che ci siano più aspetti autentici. Gli unici li trovo nella memoria dei luoghi, nelle architetture, ma nel paesaggio umano e ambientale vedo una devastazione sconfortevole. Leggevo del tentativo di saccheggiare addirittura il golfo di Scopello, uno dei luoghi più belli della Sicilia.
Però, rispetto agli Sessanta, gli anni dei sacchi in serie delle città, oggi si registra una maggiore sensibilità verso per esempio i centri storici.
Non è sensibilità, ma furia del rinnovamento, causa della nascita caotica e sconsiderata dell’architettura democristiana come la chiamava Pasolini. C’è anche una maggiore malizia nell’eludere le leggi. Condono edilizio in questo Paese cattolico è sinonimo di assoluzione. Non vale più più l’esigenza della prima casa, come un tempo, quando si trattava di uscire dai tuguri, ma invale il desiderio della seconda o terza casa.
Questo suo atteggiamento non rischia agli occhi dei giovani di risultare passatista?
Le nuove generazioni non hanno consapevolezza. Il loro paesaggio è questo che vedono. Sono nati in questo contesto e vedono come reazionari chi parla loro di altri contesti sociali. Oggi un ragazzo tende a rifiutare, e parlarne in termini di anticaglia, anche ciò che appartiene solo a un anno fa. Pensi ai prodotti commerciali o all’abbigliamento, subito vecchi per colpa della pubblicità che propone continue versioni.
Percorrendo la Sicilia, trova l’isola che ha lasciato un po’ georgica ed elegiaca?
Non esiste più. L’Itaca che cerco è stata cancellata. Ma non voglio essere pessimista: ci sono realtà che ammiro. Anche in Sicilia c’è un’umanità che ignoriamo: quelli che dedicano la loro vita ad aiutare gli altri. Guardi la Caritas di Lampedusa, alcuni preti palermitani di frontiera che ospitano dieseredati, i volontari dell’Unitalsi: un’umanità transnazionale fuori dalla politica e dalla religione.
Sciascia teorizzava l’equipollenza di chiesa e partito e diceva che chiesa cattolica e Pci fossero due chiese altrettanto potenti. Oggi chiesa e partito che forza hanno?
Oggi la chiesa come la intendevamo una volta, quella clericale, non ha più potere. I tempi del cardinale Ruffini sono finiti. Oggi c’è una chiesa nuova, nefasta, la chiesa-mafia, responsabile dei danni di questa nostra isola disgraziata. Il potere di partito è assolutamente mafioso, politico-mafioso. Lo dice la magistratura e lo dicono le inchieste in corso.
E dire che ci sono meno croci per le strade e che il peso della mafia non è quello che si vedeva una volta.
Vuol dire che non la mafia non ha bisogno di ammazzare. Vuol dire che prospera.
Ma non ci sono più neppure i veleni di una volta.
E’ la pax mafiosa. La speranza che ho è la magistratura. Sono persone che lavorano in prima linea e conducono una battaglia di civiltà.
Fino a che punto non le piace questa Italia?
E’ inaccettabile sotto tutti i punti di vista. E’ un’Italia impresentabile nel contesto civile, a volte anche vergognosa. Pensi a tutte le leggi approvate, sia regionali che nazionali. Credevamo che con la fine della Dc e del Psi, caduti per corruzione inetna, potesse cominciare una nuova storia e invece è accaduto ancora di peggio.
Ma questo governo non è stato forse eletto democraticamente, con tutti i crismi che si richiedono a un governo parlamentare?
Non ci sono stati brogli elettorali. Me li sarei augurati, come è successo di fare a Bush. E invece è stato il popolo italiano a volerlo, un popolo immaturo, ignorante e ancora oggi sempre più regredito e imbecille. Io lo chiamo “telestupefatto”. Spero solo che questa situazione sia in scadenza e che si esca presto da questo abbaglio.
Gli abbaglianti non sono quelli accesi anche dagli intellettuali?
La gente, la massa, guarda la televisione e non legge né i giornali né i libri. E la televisione, quale che sia il nome, è tutta in mano a Berlusconi.
Rimpiange forse l’Italia passata, quando la povertà era una condizione di vita?
Ho visto cosa sono state le lotte contadine in Sicilia e so cos’è la povertà. L’arretratezza era tanta, ma si sperava in un progresso e non in uno sviluppo caotico e selvaggio, un progresso di civiltà. Invece ecco questo consumismo folle e terribile. Ci sono Paesi come la Francia e la Spagna che sono diversi. Non c’è l’idiozia che c’è da noi, non ci sono tanti telefonini, non c’è il modo di fare stupido e volgare che abbiamo noi. Da Milano a Catania è dappertutto uguale. Appena metti il naso fuori di casa ti accorgi dell’individualismo sfrenato che ci rende succubi. Sappiamo solo declinare la prima persona singolare. E mitizzando la ricchezza a ogni costo perdiamo l’etica, perdiamo la moralità.
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