” Cosa loro ” Vincenzo Consolo nota del curatore Nicolò Messina

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nota del curatore

I libri di mafia (creazione e saggistica più o meno documentata, accademica o giornalistica) costituiscono ormai un filone nutrito, a volte retro o autoalimentato, anzi sembrano addirittura aver fondato un nuovo genere a sé stante, arricchito di recente anche dalla variante “antimafia”. Insomma, dal negazionismo – è proprio la parola giusta anche se mutuata dall’ambito delle riscritture della storia di un fenomeno non meno ignobile e sanguinoso –, dal negazionismo dei sicilianisti dell’Ottocento o del padano Ernesto Ruffini e oltre, si è passati all’inflazione “mafiologica”. Il dato di fatto è, tuttavia, che le pagine sulla mafia si sono moltiplicate, e continuano a proliferare, ma che la mafia – nonostante il sacrificio di tanti eroici resistenti e a discapito degli schivi combattenti impegnati a produrre fatti – persiste e si declina ormai al plurale.

Questo libro non intende allungare la sfilza di opere di tale “genere” editoriale, accrescere il rumore sul fenomeno delle mafie, un plurale da qualche tempo universalmente accettato. Un plurale, questo, la cui scoperta e consapevolezza – se mi è permessa una pennellata personale – sono legate al ricordo lontano di un seminario sul «sistema clientelare-mafioso»: lo teneva Danilo Dolci ed erano gli anni Settanta.

Queste pagine di Vincenzo Consolo, così poco gridate, non sono scritte da un mafiologo, etichetta che ripugnava a lui tanto quanto all’antesignano Leonardo Sciascia: sono invece l’ennesima dimostrazione del suo acume di osservatore implacabile del reale storico, della sua caratura di giornalista nato, mosso da una “curiosità” che è un “prendersi cura”, un “aver premura” di conoscere, di andare oltre le apparenze, di intervenire; sono, in un vasto arco temporale, un suo doveroso e sofferto fare i conti con una Sicilia-mondo – contro i suoi voti e desolatamente – più olivastro che olivo.

Da un esame dei documenti dell’archivio personale dello scrittore a Milano, i “pezzi” con attinenza alla mafia – sparsi in vari periodici o inediti – sono riconducibili grosso modo al periodo 1970-2010 e risultano un’ottantina. Il regesto completo è inserito in un’apposita Appendice finale.

Questo volume ne accoglie 64. I pezzi sono ordinati cronologicamente e corredati da una nota a piè di pagina con la fonte e la datazione. Ad ognuno di essi corrispondono ulteriori informazioni raccolte nell’appendice principale intitolata: Altre notizie sui testi.

Dei vari testimoni editi è stata seguita la lezione pubblicata. Nei casi in cui risultavano ancora custodite, sono state anche considerate, e in qualche caso preferite, le versioni manoscritte e/o dattiloscritte. Le varianti e i refusi di stampa emendati, certo interessanti dal punto di vista filologico, sono stati raccolti e registrati, ma alla fine non sono rientrati in questa edizione.

Dei 64 pezzi trascelti, alcuni sono motivati dalle impellenze dell’attualità (sia la cronaca legata a fatti di sangue o giudiziari, sia quella – nel formato della recensione – riguardante l’uscita di libri attinenti la mafia); altri sono improntati alla riflessione storico-sociologica generale. Ad una presentazione schematicamente tematica si è però preferita alla fine quella in stretto ordine cronologico di concepimento-gestazione-edizione, che ha il vantaggio di un approccio di lettura più libero e inoltre, non solo consente di seguire da vicino il dispiegarsi dell’interesse di Consolo per l’argomento, nel più vasto contesto della sua ininterrotta riflessione sulla storia italiana moderna e contemporanea, ma dimostra pure quanto le mafie fossero per lui Cosa loro, da cui prendere le distanze e da contrastare indefettibilmente e in ogni modo. Di qui il titolo e il sottotitolo dell’edizione: Cosa loro. Mafie tra cronaca e riflessione. 1970-2010.

Nei casi non infrequenti di riprese e riscritture — è noto e ampiamente studiato il carattere palinsestico della scrittura consoliana – si propone tendenzialmente l’espressione, per così dire, più compiuta (per lo più la recentior) e si rende conto nelle Altre notizie sui testi delle eventuali testimonianze vetustiores e non. Il principio ispiratore dell’edizione è quello del rispetto dei processi elaborativi dell’Autore e del suo ne varietur conclusivo. Il che ha implicato – va da sé – l’omissione di alcuni dei “pezzi”, dei quali resta tuttavia traccia fra le Altre notizie sui testi e nel regesto finali, e – in sparute occasioni – qualche ritocco (espuntivo e non).

València-Marsala, giugno 2017

Nicolò Messina

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Nicolò Messina
Universitat de València
https://uv.academia.edu/Nicol%C3%B2Messina
Di formazione filologico-classica (Laurea Magistrale con lode in Latino medievale, Università di Palermo), è Dottore di Ricerca in Italianistica cum laude (European Label, Universidad Complutense de Madrid).
Dal 2011 è docente di Italianistica alla Universitat de València (Corso di Laurea in Lingue e Letterature Moderne, e in Traduzione, Interpretazione e Mediazione linguistica). In precedenza ha insegnato presso le Università di Santiago de Compostela, Complutense di Madrid, di Santiago del Cile (USACH, Católica de Chile, UMCE) e di Girona.
Ha allestito edizioni critiche di alcuni testi ispano-latini del VII-IX sec., tra cui: Pseudo-Eugenio di Toledo. Speculum per un nobile visigoto (Santiago de Compostela, 1984).
Nell’ambito dell’italianistica gli interessi sono linguistico-letterari ed ecdotici. Ha pubblicato studi sulla lingua di alcuni autori contemporanei (Elsa Morante, Leonardo Sciascia, Vincenzo Consolo, Sebastiano Vassalli, Enrico Brizzi, Stefano Vilardo).
A Vincenzo Consolo ha dedicato buona parte delle sue ricerche. In particolare: Breve viaggio testuale a ritroso: i retablos di Vincenzo Consolo (Madrid, 1997); Plurilinguismo in «Il sorriso dell’ignoto marinaio» di Vincenzo Consolo (Aarau [CH], 1998); Per una storia di «Il sorriso dell’ignoto marinaio» (Barcelona, 2005); Nello scriptorium di Vincenzo Consolo. Il caso di «Morti sacrata» (Lecce, 2006); Tra Mandralisca e Crowley. Su alcuni quaderni dell’Archivio Consolo (Stresa, 2010). Ha anche allestito l’edizione commentata del racconto La grande vacanza orientale-occidentale (Barcelona, 2005) e l’edizione critico-genetica di Il sorriso dell’ignoto marinaio (Madrid, 2009), pubblicata [ISBN: 978-84-692-0074-2] nella collana «E-Prints Complutense» (http://eprints.ucm.es/8090/). Inoltre – prima della curatela della raccolta di scritti giornalistici: Cosa loro. Mafie tra cronaca e riflessione (Milano: Bompiani, 2017) – ha realizzato quella della silloge di racconti: La mia isola è Las Vegas (Milano: Mondadori, 2012). Ha tradotto in castigliano il racconto Le lenticchie di Villalba (Las lentejas de Villalba, Santiago de Chile, 2000).
È membro del Consiglio di redazione della rivista accademica Quaderns d’Italià / Quaderni d’Italiano [Barcelona, Girona].
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Giuseppe Tornatore fotografo Vincenzo Consolo

 

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Bisogna subito dire di Bagheria, paese dove è nato e cresciuto Giuseppe Tornatore, questo regista della seconda generazione dei grandi registi italiani del secondo dopoguerra. Dire di Bagheria e di Giuseppe Tornatore fotografo, della sua fotografia come telemachia, prima educazione artistica, primo passo verso il mondo delle immagini, verso il cinema.
Bagheria, singolare paese, rispetto agli altri paesi di Sicilia per il motivo e per il modo in cui  esso è nato, si è formato. “Bagheria – latino, Bayharia – Siciliano, Baaria (Val di Mazara). Estesissima ed amena campagna, ad oriente del territorio di Palermo, adorna all’ultima eleganza di casine suburbane di signori; lungo sarebbe descriverle, dirò tuttavia delle primarie. E prima occorre l’amplissima villa del principe Butera (…) Sovrastà ad una altura, a mezzogiorno di quella terra, al villa Valguarnera, dove nulla desideri che tenda alla delizia dell’animo; magnifica altresì quella di Aragona né quella di Cattolica, Filingeri, Palagonìa, Lardaria, sottostanno per fabbriche, ornamenti e disegno; sono palazzi degni tutti di grande città”. Così scrive Vito Amico nel suo Lexicon Siculum (1757), tradotto dal latino e postillato da Gioacchino di Marzo (Dizionario Topografico della Sicilia, 1858). E partiamo dunque dal primo che fece costruire la sua villa in quella “estesissima e amena campagna”, il principe Butera. Un emistichio del Tasso, O corte a dio, e una quartina in lingua spagnola faceva incidere sul primo e sul secondo arco di ingresso alla sua villa a Bagheria don Giuseppe Branciforti, conte di Mazzarino e principe di Butera. A capo di una congiura contro il re di Spagna, Filippo IV, e contro i viceré di Sicilia, don Giovanni d’Austria, l’eroe di Lepanto, nel sogno di divenire re di una Sicilia indipendente, tradito e traditore – la sua delazione, insieme a quella del poeta Simone Rao, costò la vita a sei congiurati – il Butera si ritirò in quel sobborgo di Palermo, tra la fenicia Soluto e la greca Imera, si chiuse dentro quella sua dimora che era fortezza, castello, tomba non di libri e di salme come l’Escorial, ma di orgoglio umiliato e di rimorso.

Ya la esperanza es perdita
Y un solo ben me consuela
Que el tempo que pasa y buela
Lleverà presto al vida.

Congiuravano contro il re di Spagna, i nobili di Sicilia, ma frequentavano i poeti spagnoli. Epigrafava la sua villa, il principe di Butera, con versi tratti dalla Galatea di Miguel de Cervantes. Dopo il Butera, come ci dice l’Amico, costruirono  ville nell’amena plaga molti altri nobili, tra di loro in gara di delizia, di sfarzo, fino al rovesciamento nel delirio del barocco, nell’allucinazione pietrificata, nel capriccio goyesco della villa dei Mostri del principe Palagonìa, da cui Goethe, in cerca in Sicilia di una Ellade di luce e d’armonia, si sarebbe allontanato inorridito. Scrive nel suo Viaggio in Italia: “Palermo, lunedì 9 aprile 1787. Abbiamo sciupato tutta la giornata d’oggi dietro le pazzie del principe di Palagonia. (…) Quando il padre del principe attuale costruì la villa, (…) ha concesso libero sfogo al suo capriccio e alla predilezione per il deforme e per il mostruoso”. Certo, per un Goethe che viaggiavo in Sicilia con il metro di Winckelmann in tasca, quella villa Palagonìa non poteva che suscitargli orrore.Le ville di Bagheria. “Di ville, di ville!…di principesche ville” avrebbe esclamato con ironia Gonzalo – Carlo Emilio Gadda, riferendosi a quelle di Lukones, vale a dire della Brianza, ne La cognizione de dolore. Le ville di Bagheria non le hanno certo costruite con le loro mani i nobili, i Gattopardi di Sicilia, il loro progetto villesco, nella loro gara di sfarzo, di lusso, oltre agli architetti, ha attirato là, da Palermo e da altre zone della Sicilia, masse di murifabbri, scalpellini, falegnami, manovali e artigiani, oltre a braccianti, a contadini, per lavorare negli estesi giardini. Gli abitanti di Bagheria,  abitanti al di qua delle ville cinte di gran mura come fortezze, erano, ci dice il Di Marzo, nel 1852 quasi diecimila. E oggi sono più di quarantamila. Al di qua delle alte mura delle ville i cui padroni, i famosi “leoni e i gattopardi” lampedusiani sono per la maggior parte tramontati, finiti per isolamento, dissennatezza o alienazione, al di qua sono nati e cresciuti a Bagheria, tra quello che si chiamava il popolo, gli spiriti più acuti, più intelligenti, gli artisti e gli intellettuali più dotati. Facciamo per tutti tre nomi: il poeta Ignazio Buttitta, il pittore Renato Guttuso e il fotografo-regista Giuseppe Tornatore. E qui vogliamo dire, dell’autore di famosi films, come  Nuovo Cinema Paradiso, Stanno tutti bene, L’uomo delle stelle, La sconosciuta, e altri, e, in fase di produzione, l’ancora inedito Baarìa, di cui qui compaiono immagini delle riprese. La Baaria funestata oggi da quella mala pianta che si chiama mafia, da quelle “iene e sciacalletti” che sono subentrati ai principi e ai baroni delle famose ville. Giuseppe, anzi Peppuccio Tornatore, muove dunque i primi passi per le strade di Bagheria con una macchina fotografica in mano. La Sibilai, le città e i paesi siciliani, per la loro profondità storica, sono stati da sempre interessanti e “urgenti” per i viaggiatori stranieri, per gli incisori prima, incisori come Houel e Saint-Non, e quindi, con l’avvento della fotografia, è divenuta interessante e “urgente” per fotografi stranieri e per gli stessi siciliani. Ai primordi, verso la fine dell’Ottocento, vale a dire, otografano la Sicilia l’inglese Samuel Butler, l’eccentrico autore de L’autrice dell’Odissea, la grande triade quindi dei veristi siciliani, Capuana, Verga, De Roberto, che nella fotografia vedevano confermate le loro tesi letterarie. E ancora i fratelli Alinari, Giacomo Brogi, l’esteta von Gloeden, Giorgio Sommer. Robert Capa, poi, sbarcato nel ’43 con gli Americani in Sicilia, fotografò la Sicilia di quel momento della Liberazione. Vi fu poi la scuola di fotografi palermitani, da Interguglielmi a Giusto e Nicola Scafidi a Enzo Sellerio, a Ferdinando Scianna, a Melo Minnella. A questa scuola e a questa tradizione ha appartenuto il giovane fotografo Peppuccio Tornatore. Scrive Tornatore nel libro Giuseppe Tornatore fotografo in Siberia: “Dopo mesi e mesi vissuti in moviola, al buio, gli occhi eternamente puntati a vedere, rivedere…Ero in questo limbo dell’immaginazione, mentre mi avviavo a concludere il montaggio di La leggenda del pianista sull’oceano, quando un bel giorno, inaspettatamente, la voce nordica e gentile di Alberto Meomartini giunge a insinuarsi come una nota stonata nel quotidiano coro telefonico: “So che da ragazzo lei è stato fotografo. Se la sentirebbe di tornare a fare fotografie?”. Il Meomartini lo invita dunque ad andare in Siberia con la sua Rolleicord. Sono quelle fotografie di una Siberia innevata, quasi desolata, una terra di Dostoevskij o Solzenicyn, ma sono anche foto di bimbi, di donne, di uomini di grande dignità. E poi, in giro per la Russia, Tornatore ha fotografato Mosca, e in giro per il mondo, la Cina, il Giappone, l’America, la Tunisia. Sono foto che in parte compaiono in questa mostra. Ma a chi qui scrive, da siciliano e sicilianista, senza nessuna ombra di regionalismo, interessa molto il fotografo che “da ragazzo” fotografava la Sicilia, fotografava la sua Baaria, Porticello, Palermo, Portella della Ginestra…Sono fotografie degli anni Sessanta-Settanta di una Baaria ancora povera, contadina, ancora non mutata antropologicamente, fuori ancora crediamo dalla contaminazione corleonese: una Baaria priva di ville, ma nobile, ricca di umanità.

Indiscrezioni
Giuseppe Tornatore fotografie
Edizioni Fratelli Alinari 2008

Giuseppe Tornatore e Vincenzo Consolo a Venezia
foto di Giovanni Giovannetti

Giuseppe Tornatore, Vincenzo Consolo world copyright Giovanni Giovannetti/effigie

Pasolini il corpo della città

Presentazione di Vincenzo Consolo
di introduzione al volume “Pasolini. Il corpo della città”
di Gianni Biondillo, ed Unicopli, 2001, pagg. 7-12
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Presentazione
di Vincenzo Consolo
di introduzione al volume “Pasolini. Il corpo della città” di Gianni Biondino. ed Unicopli. 2001. pagg. 7-12

Cesare Garboli, Federico Zeri ed altri hanno voluto giustamente vedere in Pasolini e Caravaggio due personaggi simili: simile la loro tragica vita e ancor più la loro tragica morte; simile il loro scandalo artistico, la loro innovativa, dirompente forza poetica. Scrive Carbon: “E’ difficile scindere tutta l’esperienza eversiva del Pasolini -romano” degli anni Cinquanta dall’immagine del Caravaggio che ci è stata a più riprese offerta dal Longhi fino alla grande mostra caravaggesca da lui organizzata nel ’51. Proprio in quegli anni il Pasolini scendeva dal Nord a Roma, cambiando la giovanile e lirica vena friulana in tragedia, nella direzione del drammatico realismo religioso e plebeo de Le ceneri di Granisci, dei Ragazzi di vita e di Una vita violenta”. E Zeri: “C’è una forte affinità fra la fine di Pasolini e la fine di Caravaggio perché in tutti e due mi sembra che questa fine sia stata inventata, sceneggiata, diretta e interpretata da loro stessi”. Roma dunque, e la -vita violenta” per le sue strade, per le sue borgate; e i litorali squallidi, desertici di Ostia e di Porto Ercole, su cui due corpi esanimi, disfatti rivela la livida luce dell’alba. C’è uno scarto di 365 anni nella conclusione delle due vicende umane. Ma c’è, nel tempo storico del Merisi c in quello di Pasolini. e. se si vuole. nel tempo di Pasolini e la nostra attualità, c’è l’immobilità di questo nostro cattolico Paese, eternamente secentesco, controriformistico, c’è la dura tenebra dell’ignoranza e della protervia del potere. Ancora una privata ferita, un dolore iniziale e sempre vivo affratella il pittore e il poeta. e insieme l’orrore di fronte alla terribilità del mondo, l’infinita loro disperazione. Più chiaramente: calano, i due artisti, da un Nord di lunghi, gelidi inverni, calano rispettivamente dal borgo Caravaggio e da Milano. da Casarsa e da Giunge a Roma, Pasolini, durante il Giubileo del 1950. “Qual falange di Cristo Redentore / la Gioventù cattolica è in cammino …” cantano i “baschi verdi” per le vie di quella che era stata la città fascista e ora divenuta papale. Le elezioni nazionali del 1948 avevano dato la maggioranza assoluta del potere al partito della Democrazia cristiana, il contropotere al Partito comunista. Le due chiese avrebbero disegnato il nuovo assetto o il volto del Paese, lo avrebbero mutato antropologicamente, culturalmente, linguisticamente e. soprattutto. urbanisticamente. Pasolini soffre fin nelle più intime fibre questa mutazione. Soffre per la repentina distruzione, per il crollo, delrarchitettura”, del mondo rurale, dei verdi suoi prati, delle acque delle sue fontane. Fontàne d’àghe del mie pais A no è àghe pi frescie che tal mè pais… aveva cantato. Ora anche le lucciole sono scomparse. Ora non è che inquinamento, degrado urbano. non è che triste, anonima periferia. squallida borgata. uniforme agglomerato dove i ragazzetti del sottoproletariato. ancora dialettale, consumano rapidamente la loro vitalità. innocenza, grazia, la loro tragedia. Biondillo segue con sapienza, capitolo dopo capitolo lo sguardo di Pasolini sul corpo della città, dal Friuli, da Casarsa, alla Roma di Monteverde. Pietralata, Garbatella, Testaccio, Portuense. a Ode, Orvieto, a Napoli, Matera, Sabaudia. a Bombay. a San’a, fino al Marocco, all’Uganda… Segue. Biondillo, lo sguardo sul corpo della città, del mondo, che Pasolini volge dalle poesie, dai romanzi, dai saggi, dai film, dai documentari, da Poesie a Casarsa e La meglio gioventù fino al grande testo, alla grande costruzione, all’opera-cattedrale che è Petrolio, romanzo postumo e incompiuto come la Sagrada Familia di Gaudi. E’ certo che nel Secondo dopoguerra nessun poeta o scrittore, né il Pavese delle colline e della città, né il Vittorini de Le città del mondo, né il Calvino de Le città invisibili è stato cosi “architetto” come Pasolini, vale a dire come lui ha pianto e rimpianto un mondo sepolto un’umanità e un umanesimo violentemente cancellati (lo sono una forza del Passato./ Solo nella tradizione è il mio amore”), nessuno come lui ha dolorato e inveito per la repentina distruzione della grande bellezza italiana, la bellezza di questo Paese eternamente controrifonnistico divenuto una immensa, squallida borgata. un Agrigento di abusivismo, “una Atene di cemento”. Bologna, calano in una Roma solare, in una città in preda al fervore edilizio, nel pullulare del pellegrinaggio giubilare (1600-1950). Caravaggio si porta dentro il ricordo del padre morto di peste. della giovane madre morta pochi anni dopo. Pasolini, il ricordo del fratello Guido, il partigiano azionista Ermes, assassinato da “una banda di garibaldini degeneri”, dai Gap della brigata Garibaldi. E’ segnato anche dall’accusa infamante di corruttore di minorenni, dall’espulsione dal PCI e dall’allontanamento dalla scuola. “… fuggii con mia madre a Roma, come in un romanzo”. Non sappiamo se dallo stesso scandalo fu investito Caravaggio, se la sua fuga a Roma, in compagnia di Francesco Boneri, il “Cesso del Caravaggio”, il modello tante volte effiggiato, fu dovuta a una simile cacciata. Per il Giubileo del 1600, Roma si presenta ai pellegrini nel nuovo, aulico volto urbanistico voluto da Sisto V, e quindi ancora, con Clemente VIII e Urbano VIII. l’Urbe avrà l’imponente e definitiva scenografia barocca. Ma dietro le quinte c i fondali fastosi, dietro i palazzi di principi e cardinali, sono i ruderi antichi, i medioevali borghi e le strade del degrado e del malaffare. dove circolano poveri, prostitute. bari, ragazzi di vita, squadracce di bravi… non sappiamo se Caravaggio, frequentando a Milano la bottega del Peterzano, andando con questi per chiese e abbazie fuori mano, guardando la pittura del Foppa. Bergognone, Lotto, Moretto, Savoldo, abbia steso le sue “Poesie a Casarsa”, dipinto vale a dire, il suo dialettale idillio lombardo. A Roma però, con un incontenibile empito eversivo, a sciabolate di luce squarcia le buie cortine controriforrnistiche. sconvolge la grammatica manieristica, porta in primo piano i “sacri corpi di cortigiane, zingarelle, ragazzotti, castrati. efebi vestiti da Madonne e Maddalene, suonatori, angeli, Narcisi, Bacchi. Giovanni Battisti… Lo spazio, l’ambiente, la cui mancanza lamenta Berenson, compare soltanto negli ultimi e più drammatici suoi quadri: compare l’esterno della prigione nella Decollazione del Battista di Malta e la latomia o catacomba nel Seppellimento di Santa Liscia di Siracusa. Ma lasciamo questo seicentesco fratello di Pasolini, lasciamolo nella grandezza sua luminosa che squarcia le tenebre controriformistiche di ogni secolo, il nostro compreso, e seguiamo il poeta contemporaneo, il Pasolini dell’idillio e della furia, della perorazione e dell’invettiva, dell’amore e del dolore, del rapimento e della disperazione. Seguiamolo in questo originale, puntuale bel saggio di Gianni Biondillo, Pasolint il corpo della città. Uno degli ultimi quadri di Caravaggio, un quadro-messaggio che il pittore invia da Napoli al cardinal Del Monte, fu il tristissimo David-Cecco Boneri che regge la testa di Golia-Caravaggio. Ed è anche questo l’ultimo messaggio di Pasolini, la sua atroce fine per il vagheggiamento, la nostalgia della verità e della bellezza.

Vincenzo Consolo

” Cutusìu ” di Nino De Vita prefazione di Vincenzo Consolo

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PREFAZIONE

Voglio, subito, ricordare, rievocare un tempo, una stagione vicina, ma che appare ormai lontana, quasi remota. Rievocare un tempo in cui in Sicilia, giovani o non più giovani, come raggiun­ti da un messaggio, si muovevano da città o paesi e convenivano in un luogo per incontrarsi, conoscersi o meglio riconoscersi. Di­segnavano o ridisegnavano, quei viaggiatori, nei loro movimenti da un luogo a un altro, in quegli itinerari, in quella convergenza vittoriniana, una nuova mappa della Sicilia, una nuova topografia dello spirito.

Cominciò quel movimento tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Nella frattura che la guerra aveva creato, nel vuoto, nello smarrimento e nel vuoto anche per il biblico esodo in quegli anni del­le masse contadine dall’Isola, quegli uomini volevano ricreare un’altra mappa, memori di quelle che passate generazioni, in stagioni straordinariamente luminose, erano riuscite a disegna­re. Le mappe di Verga, De Roberto, Capuana e le altre di Pirandello, Rosso di San Secondo, Lanza, Savarese e ancora di Borgese, Brancati, Quasimodo, Vittorini…

E fu, il primo e il più attraente punto di convergenza una città nel cuore della Sicilia, Caltanissetta (con Racalmuto e la contra­da Noce – un Cutusìu allora di radi alberi, d’aridume e di vento; un collinare Càusu, una Tebìdi girgentana). Il richiamo era Leonardo Sciascia. Attorno a lui – con lo sfondo della casa editrice del commendatore Sciascia, della rivista «Galleria», dei Quaderni di Galleria e della collana di poesia Un coup de dés – erano poeti come Stefano Vilardo e Alfonso Campanile, pittori, incisori. Let­ti e scelti da Sciascia, pubblicavano nei Quaderni Pasolini, Capro­ni, Bodini, Roversi, La Cava, Fortini, Cesare Vivaldi, Biagio Marin, Marniti, Volpini, Compagnone, Salvatore Comes, Fiore Torrisi, Antonino Uccello…

Da Racalmuto si andava poi in comitiva ad Agrigento, dove s’incontravano altri scrittori, poeti. E luoghi di richiamo, di con­vergenza furono ancora Palermo, Bagheria – all’Aspra dove impe­rava con la sua voce di ferro Ignazio Buttitta –, a Catania, a Sira­cusa, a Capo d’Orlando, in quella contrada Vina dove modulava i suoi versi Lucio Piccolo, a Lentini, a Enna, a Ragusa, a Mineo…

Anno dopo anno, si tessé allora una trama di consonanze, si stese un registro di appartenenza, un libro contabile dove credi­ti e debiti appartenevano a un bilancio non solo delle parole, ma soprattutto dei gesti, s’inscrivevano nella spirituale economia dell’insegnamento e dell’apprendimento. E noi, i catecumeni, gli apprendisti, il maggiore debito l’avevamo contratto con quel maestro, con quel grand’uomo e grande scrittore che è stato Leonardo Sciascia. Quest’Isola dei destini incrociati si trasformò poi nel giardino dei sentieri che si biforcano. Giunse per me, per altri, il tempo dell’andare, dell’abbandono dell’Isola, dell’emigrazione in altro luogo. Ma quella trama certo non cessava, s’infitti­va anzi, s’arricchiva. S’arricchiva con Bufalino. Le crudeli scomparse, le lontananze, gli esìli, sembra che abbiano arrestato la na­vicella che scorreva sul telaio, abbiano tagliato quei fili, relegato la trama in altro tempo. Così non è, se ancora tesse e annoda oggi un poeta come Nino De Vita. Il più giovane di noi, egli ha raccolto il testimone di quella stagione, di quel tempo. Un autentico poeta, vero artefice di quel mistero, di quel miracolo che si chiama poesia. Appartato, pudico, da quel suo ònfalo, da quel luogo profondo che è Cutusìu egli ha saputo liberare suoni, parole, ricreare un mondo.

La prima sua raccolta in lingua, Fosse Chiti (Lunarionuovo – Società di Poesia, 1984 e quindi Amadeus, 1989), attirava l’attenzio­ne di lettori avveduti: Raboni, Onofri, Di Grado, Delìa… «Nutrita di buone letture novecentesche (da Sbarbaro, direi, a Sereni), estranea a qualsiasi inquietante proposito di oltranzismo o palingenesi formale, la sua poesia vive di una sommessa, incantevole, ‘inspiegabile’ precisione. Erbe, fiori, insetti sono osserva­ti e salvati con un’impassibilità che nasconde e protegge il batti­to, il tremore di una sottile febbre amorosa»,1 scriveva Raboni.

Quell’inspiegabile avanzato da Raboni, conoscendo De Vita, il suo teatro, quell’angolo del mondo che si chiama Cutusìu, quella campagna marsalese tra lo Stagnone e il monte, tra Mozia ed Erice, le saline e le crete, e alla luce poi della sua svolta lingui­stica, del suo primo libretto in dialetto Bbinirittèdda, diventa spiegabilissimo. L’asciuttezza, la scabrosità della parola, la perfetta adesione della parola alla cosa, la precisione non potevano che scaturire dalla conoscenza, e dalla conoscenza l’amore. Poesia, quella, del trasalimento di fronte allo spettacolo del mon­do, dello stupore di fronte alla natura, al cosmo. Fra zolle, piante, fiori, insetti, uccelli, cieli e acque, volgere di giorni, di stagioni, l’uomo non compare mai, lo si immagina in quest’universo, nel­la dura fatica dell’esistere. E qui solo l’occhio del poeta che guar­da, nomina e crea. Crea un paesaggio ora edenico ora infernale, rigoglioso e arido, sereno e drammatico. Ci sono echi e temi del­la grande poesia, dall’antica alla moderna, modulazioni piccoliane come questa: «Scirocco piega il giunco/ a ciuffi sulla spiaggia/ – porta gocce/ salate sui germogli…». E c’è ancora, nella cristallina lingua di Fosse Chiti, nella sua scabra sostantivazione montaliana, quel che Montale stesso dice della lingua catalana del poeta Maravall, di scoppiettare di pigna verde sopra il fuoco. «S’aprono per il caldo/ sull’albero le pigne/ che sono ancora ver­di:/ è crepitìo/ come legna che il fuoco/ arde.» La pura lingua di Fosse Chiti sta per aprirsi come la pigna: ha già del resto in sé del­le crepe, dei varchi verso un’altra lingua, verso un più profondo suono: giummo, cianciane, graste sono quei varchi.

Del 1991 è il primo libretto che ho ricordato, Bbinirittèdda, e quindi, uno dopo l’altro, puntuali fino al 1998, fino a L’arànci, altri libretti. Libretti che sono in parte confluiti nella raccolta Cutusìu del 1994. Puntuali m’arrivavano a Milano questi libretti e quindi le raccolte, belli, eleganti, preziosi, pubblicati a proprie spese e quasi sempre stampati nelle stesse tipografie Corrao o Campo, rispettivamente di Trapani e di Alca­mo, m’arrivavano con su sempre la stessa dedica: «A Vincenzo e Caterina, con affetto, Nino». Messaggi d’affetto m’arrivavano, d’amicizia, luminosi doni di poesia che venivano da quel Cutusio lontano, da quella riva moziese di ricordo e nostalgia.

Quel passaggio dalla lingua al dialetto che era stato un bisogno e una scelta, metteva De Vita accanto a confrères, ad altri poeti in dialetto che per rigore, per ripudio d’una lingua dominata, saccheggiata, s’era fatta impraticabile, metteva De Vita accanto a Zanzotto, Loi, Bandini…

Ci sembrano, questi poeti in dialetto, i veri poeti della fine. Ci fanno pensare a quei poeti e scrittori che presentendo la cadu­ta di Bisanzio, la fine di un mondo, di una cultura – Michele Psello, Anna Comnena, Teodoro Prodromo, Eustazio di Tessalonica… – si misero a scrivere in greco classico, in lingua attica.

«Il dialetto non finirà mai di richiamarci, anche in questo momento in cui molti segni sembrano parlarci della sua morte, alla sua forza di presenza, alla sua insospettata capacità di rinno­varsi, alla sua ricchezza e profondità di parola, al suo riportarci al corpo di noi e delle cose»,2 scrive Franco Loi a proposito della lin­gua di De Vita. E Siciliano: «I poeti in dialetto, oggi in Italia, sono di una specie singolare. Sono una setta di rivoltati in lotta silenziosa, e pertinace, contro la lingua oleata, vasellinacea, non più colta, che si parla, su sollecitazione di impulsi che passano via etere, dalla Vetta d’Italia a Capo Pachino (…) Voltata la schiena al parlato consueto (…) questi poeti attingono alla sorgiva naturalez­za delle lingue materne, e non l’accolgono trascrivendone ingenuamente la nativa purezza: ne fanno oggetto di un culto del tutto espressivo, ne potenziano le squisitezze, le possibilità ritmi­che, percussive, come con l’italiano medio a nessuno scrittore riu­scirebbe. I dialetti acquistano così una rara, e nuova, elezione d’arte».3

La scelta del dialetto, da parte degli attuali poeti, come lingua altra, come lingua alta, è dovuta al saccheggio e alla consun­zione dell’italiano. Essi sì, i poeti, hanno potuto farlo, perché la poesia è lo spazio del monologo, è l’assòlo del coreuta. Il narratore invece no, egli è costretto a usare, oltre quello espressivo, anche il registro comunicativo. Da qui, nella schiera degli speri­mentatori espressivi, quella ricerca costante, attraverso commistioni, innesti, digressioni o quant’altro, di una lingua possibile per poter narrare. Un movimento questo dal basso verso l’alto, dai giacimenti di parole altre, che abbiano dignità filologica, plausibilità di significato e di significante, verso la superficie della comunicazione. Impera e imperversa oggi invece una prosa letteraria in quella lingua tecnologico-aziendale o mediatica di cui Pasolini già nel 1961 aveva annunciato la nascita come lingua nazionale. Ancora peggio, si assiste al ritorno di un mistilinguismo di maniera i cui innesti o le cui digressioni apparten­gono a un dialetto corrotto, osceno, che i media hanno ricreato con intenti comico-grotteschi, e infine oltraggiosi, regressivi. Il neo-dialettalismo dei poeti d’oggi, oggi in cui i contesti dialetta­li sono pressoché estinti, non è riproposta sentimentale o revanscistica, non è chiusura nel mito: è sprofondamento necessario nel­la verità seppellita nella lingua originaria, di primo grado, materna, classica, come opposizione alla koiné paterna e sociale, espressione di una società degradata, di violenza e di menzogna. Chiusura, regressione era stata invece in altri tempi la visione pandialettale ed etnomitica di un poeta e scrittore come Alessio Di Giovanni, a cui s’era unito Francesco Lanza. Due scrittori siciliani che poi ingenuamente e fatalmente avevano aderito a quel movimento linguistico-estetico e politico che si chiamò Felibrisme, promosso in Provenza da Federico Mistral. Altra consapevolezza linguistica, e avvertenza dei rischi insiti nei vagheggia­menti dialettali, aveva invece il filologo Pirandello, che a Bonn stendeva quella sua tesi Fonetica e sviluppo fonico del dialetto di Girgenti (ripubblicata ancora nel 1984 dalle Edizioni della Cometa e prefata da Giovanni Nencioni). Per quella consapevolezza, Pirandello poteva mettere tra virgolette le sue opere dialettali, filologicamente perfette, prendere le distanze da quel dialettalismo allora imperante dei Martoglio e dei teatranti catanesi, Angelo Musco in testa, e scrivere poi la sua sterminata opera in quell’italiano controllatissimo, espressivo e insieme fortemente comunicativo.

Noi ci auguriamo che ora uno studente, un filologo di Bonn o di Palermo, si appresti a stendere la sua tesi su Fonetica e sviluppo fonico del dialetto di Cutusìu, della magnifica lingua cutusie­se di Nino De Vita.

E a lui ora torniamo, a quel capolavoro di poesia narrativa che è appunto la seconda raccolta Cutusìu. Il musicale attacco proemiale ci dà subito il clima, il tono del suo mondo reale e poeti­co. «Timpùni assulazzàtu Cutusìu» è il tema musicale che in variazione ritorna, come in Béla Bartók, in altra composizione, nel secondo tempo di Paricchiati.

Inizia, il poema narrativo, con 8 giugno 1950, con il racconto della nascita del poeta. E ricorda certo, questa composizione, Leopar­di. «Nasce l’uomo a fatica/ ed è rischio di morte il nascimento./ Prova pena e tormento/ per prima cosa; e in sul principio stesso/ la madre e il genitore/ il prende a consolar dell’esser nato». Per concludere terribilmente: «Se la vita è sventura,/ perché da noi si dura?». Questi versi, sappiamo, sono tratti dal Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Canto scaturito, apprendiamo dallo Zibaldone, dalla lettura del Voyage d’Orembourg à Boukara del barone Meyendorff, dove si dice di nomadi kirghisi che improvvi­sano tristi canti contemplando la luna. «Ed io che sono?», fa dire Leopardi al pastore smarrito nella contemplazione, immerso in quell’infinito sereno, in quella solitudine immensa. De Vita capovolge l’interrogatorio leopardiano, dice «Io sono». Da qui l’accettazione umile, «cristiana» diremmo, dell’esistere, del mondo in cui si è trovato a vivere, della solidarietà, dell’amore verso uomini, animali e cose. C’è stupore e tenerezza nella contemplazio­ne del paesaggio, del mondo animato e inanimato, delle creature che in questo mondo si muovono, che con il poeta condividono il destino. La tenerezza e insieme la violenza e il dolore che fatal­mente accompagnano la vita, accompagnano le vicende, le avventure, i giochi proibiti degli scagnozzelli di Cutusio. Ricor­da, questo mondo d’innocenza, tenerezza e insieme violenza, quel­lo infantile che Dylan Thomas ha narrato in Ritratto dell’artista da cucciolo. C’è poesia e insieme incosciente crudeltà nei giochi di Rriccardu, Cimuni, Filippeddu. C’è amore e dolore, trage­dia anche in Àngilu, Bbatassanu, Ggiammitrina, Bbicitedda, Mastru ’Nzinu, in Nuô puzzu e soprattutto in Bbnirittedda.

«Bloccate da uno sguardo attento e severo (non impassibile), le scene della contrada Cutusio o dello Stagnone che fronteggia Mozia e le altre isole presso Marsala, diventano le intermittenti rivelazioni e i casuali affioramenti di una storia che appare intemporale, o circolarmente vòlta alla ripetizione di se stessa (pas­sano solo le vite umane, che più non ritornano come le stagio­ni)», scrive Pietro Gibellini nella prefazione a Cutusìu. Certo, di creature fragili, precarie è il mondo di Cutusio, della vita che repentinamente si consuma. Come ne I Malavoglia, consumatasi la tragedia, il tempo lineare e impassibile continua a scorrere. Si riaccendono nel cielo di Acitrezza i Tre re e la Puddara, si apre l’alba del nuovo giorno. Ma il pessimismo e la tristezza verghia­ne qui sono riscattati dai brevi bagliori di gioia e di intensa umanità che quelle vite emettono, legate dal dolore e dalla pietà.

«… ma certo in me s’apriva/ e umile e tremenda/ la voce che da sempre dura/ e che ci lega, ognuno/ di noi, al dolore d’ognu­no anche ignorato», ha scritto Lucio Piccolo.4

Un autentico poeta, Nino De Vita, sul quale in tanti ormai hanno appuntato lo sguardo per la novità e la bellezza dei suoi versi. E salutiamo questa pubblicazione di Cutusìu, in edizione non più privata, «clandestina», ma per felice scelta dell’edizio­ne Mesogea di Ugo Magno.

Dicevo all’inizio di quella trama letteraria o di letterati che nel passato in Sicilia si era tessuta. De Vita ne è oggi il più ammi­revole continuatore. Sciascia, il maestro di tutti, se avesse potuto leggere gli odierni approdi devitiani di Cutusìu avrebbe sorriso in quel suo modo umano di approvazione e di compiacimento.

 

Vincenzo Consolo
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La luce di Cefalù



E’ un sorprendente teatro Cefalù, una scena abbagliante, una scatola magica in cui s’incrociano tutti i raggi del mondo, è una ouverture, un preludio che allude a ogni Palermo, Granada. Toledo o Bagdad. E’ un cervantino retablo de las maravillas con giochi di specchi, riflessi di luci e figure. Nella sua trama serrata, nella sua conclusione murata – di mura possenti d’un tempo remoto – si stende la città dalle falde della gran Rocca paterna, fino al mare materno, la nobile strada d’ogni azzardo, travaglio. L’ha tutta volta la sorte verso Occidente, con quel roccioso, scosceso riparo del Capo che sembra voglia far obliare ogni alba perlacea, aurorali colori <<d’oriental zaffiro>>, immergendola nel fuoco d’un Magreb od Occaso, nello sprazzo perenne di porpora e oro, nel cerimoniale fastoso che prelude alla fine, alla notte. E un rosso corposo, radente la investe, incendia ogni piano, ogni spigolo – case, torri del Duomo, la tonda possanza coronata di mura del Capo – taglia in fulgore e in ombra porte sul mare, bastioni, cortili e terrazze, piazze, tappeti a losanghe di vicoli e strade.
Un pittore allora che in questa Cefalù pontificale stende colori sopra la tela, non può la forza di questo occidente, il corposo, fermo vibrante del suo bagliore. E così sono colori di Giuseppe Forte: accesi, scanditi con nettezza di taglio di lama, corposi, netti e vibranti nel tono loro primario. I neri i rossi gli azzurri i bianchi i verdi i gialli si presentano allora in tutta la loro perentorietà, in una festa squillante di accordi e stridori, di contrappunti e dissonanze. Ma c’è, sopra ogni bassa nota, sopra ogni peccato e squillante colore, un tono che tutto avvolge e compone: quello della dorata luce di Cefalù si vedono ad esempio le Case sotto la rocca, in quella scansione di piani, in quella verticale ascensione o fuga musicale; si vedano le due Natura morta con piastrelle siciliane; o il cielo e le onde schiumose di Cefalù: dietro le mura o altri scorci e <<vedute>> della città. Ma anche figure umane, le allegorie i simboli partecipano allo stesso concerto. Pittore perfettamente adeguato alla sua città, Forte, a Cefalù, alla sua straordinaria luce, alla magia del suo teatro, alla forza della sua natura e alla profondità della sua storia.

Milano, 22 ottobre 1999

Vincenzo Consolo




Prefazione al libro di poesie di Mokhtar Sakhiri

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A Civitavecchia

Mentre la statuetta piangeva le lacrime del miracolo,
Che dal gesso faceva zampillare il sangue,
La speranza perse la fede cantata dagli oracoli
E l’Uomo si vide bandire dalla società e dal suo rango.

La folla in preda ad un paganesimo atavico,
Cerca Dio in sogni e visioni sublimi
Ove Egli si manifesta irreale e apatico,
Simile a quei demoni che abitano gli abissi:

Una volta guida attenta e loquace della sua Creatura,
Al punto di dettare il Corano e i Comandamenti,
Oggi l’abbandona, gettandola in pasto
Ai ciarlatani che non giurano che con i Testamenti.

Declassato, il debole senza più soffio né preghiera,
Trascurato dall’immagine specchio della sua somiglianza
E dai suoi simili dalla vita altera e fiera,
Si libera dalla solitudine e dalla sua sofferenza.

Prefazione

Nell’aprile del 1991 mi trovavo ad Algeri, invitato là per l’inaugurazione della nuova sede dell’Istituto italiano di cultura. Ho potuto cosi assistere, in uno di quei giorni, alla grande greve, allo sciopero generale proclamato dal FIS, il Fronte Islamico di Salvezza, che, vinte le elezioni amministrative dell’anno prima, cercava in questo modo di incalzare il governo per ottenere delle votazioni politiche nel volgere di breve tempo. C’era una terribile tensione in città. Ho visto il grande raduno degli integralisti, tutti con barba e candida palandrana, il Corano in mano,nella grande spianata di Place des Martyres,ai piedi della Casba, Tra il palazzo Jenina e le grandi Moschee. Ho visto, a una cert’ora , quella massa di dimostranti, inginocchiarsi e prostrarsi a terra per la preghiera, marciare poi compatti, agitando in aria il Corano, per le vie della città. Poliziotti, in assetto di guerra, precedevano e seguivano dimostranti,controllavano ogni loro movimento.
Un editore algerino mi faceva da guida nella bellissima Algeri. Mi guidò nei meandri della Casba, nella casa in cui s’erano asserragliati i patrioti durante la rivolta e dove erano stati uccisi il capo, Ali, e Alima, Mahmoud e un bambino innocente. In quella casa divenuta sede del FIS, mi tornava nitida alla memoria, la scena finale del film di Pontecorvo. Vidi ancora ad Algeri e nei dintorni, i luoghi di Camus, la spiaggia del delitto de Lo straniero e la Tipaza delle “nozze”. E mi spinsi pure nella Cabilia, nei poveri villaggi dell’interno. c’era in quei giorni in Algeria un’atmosfera tesa, una cupa sospensione, c’era come un’attesa di qualcosa di tragico che si stava abbattendo sul Paese. Venivano in albergo a trovarmi giovani poeti e scrittori per donarmi i loro libri e come per chiedere anche, a me italiano, tacitamente aiuto. La hall de El Djezair pullulava di poliziotti in borghese, di spie d’ogni sorta. Mi chiedevano ogni volta costoro chi erano e cosa volevano le persone che venivano un trovarmi. Negavo naturalmente loro ogni risposta. Riuscii poi miracolosamente a ripartire da Algeri.Da li a poco cominciarono in quel paese i massacri, le incursioni degli integralisti nelle periferie della città e nei villaggi, le violenze d’ogni sorta, gli orrori, gli obbrobri perpetrati nel nome di Dio, di una religione. L’empietà, la barbarie, il micidiale fanatismo d’Algeria diveniva il  prodromo, il segno primo e terribile d’altri scenari obbrobriosi che si sarebbero dispiegati di qua e di là nel Mediterraneo, in Africa, nei paesi più lontani. Certo alcuni  di quei giovani Intellettuali che incontrai ad Algeri furono poi, a causa della catastrofe algerina, costretti a lasciare la loro terra, e rifugiarsi in Europa. Lo scrittore Mokhtar Sakhri, il poeta di questo bel Viaggio Infinito, aveva anticipato di anni il destino dei suoi più giovani confréres, aveva abbandonato la sua paria nel tempo del regime di Boumedienne. Questo suo viaggio infinito dunque il fatale destino di ognuno che è stato costretto a sradicarsi dalla propria terra, dalla propria cultura, dalla propria lingua, il che è stato condannato, tra “esilio ed asilo” come dice Matvejevic, ad una perenne erranza della memoria e dell’anima.
Nell’ esilio e nell’asilo allora, il poeta articola, nell’imprescindibilità bisogno di comunicare, il primo e sorgivo linguaggio, le parole e la sintassi che precedono la ragione, la storia, la logica della società e della politica, dispiega il linguaggio, sulla traccia dei grandi poeti arabi del passato come Abu Nawass, del sentimento, dell’amore. Come in un ricreato Stil Nuovo, la prima silloge di liriche, da Lettere di Natale fino a Bon a Parigi,è dedicata a nomi di donne: Maurine , Sylvana, Catherine, Monica, Jacqueline, Loredana… Donne tutte “Intorno al core” che danno pretesto al racconto, una tranches de vie, a felicità e inganni, incantamenti e repulsioni.
ll poema a Parigi è la declinazione di quell’assoluta capitale, di quel mondo da ogni distanza fantasticato e agognato,é la scansione, nell’impatto da parte dello “straniero”, di questo cuore della civiltà nostra europea. “Mi parve odiosa” dice il poeta, ” Mi parve crudele e quindi” ignobile “, inquietante”, per apparire Infine “eterna”, “felice”. Conclude, “Non ero più uno straniero/ solo nella notte e nella città./ Dell’amore facendo il suo messaggero,/ e offrendomi una tra le belle/ delle sue ragazze,/ mi aveva adottato/ questa Regina” .
Per sentieri sotterranei e incontrollati, per il linguaggio primigenio  dell’amore il poeta dunque si concilia con quest’altro mondo, approda al linguaggio formale questa civiltà. Nella seconda  parte quindi della silloge dà voce alla memoria del Paese abbandonato e insieme al nuovo paesaggio umano che gli si presenta davanti agli occhi, il paesaggio degli altri immigrati, di quelli che popolano ancora la triste zona dell’emarginazione: I senegalesi, I Ladri Il ladro musulmano. Infine, approdato alla storia,il poeta urla per quanto di atroce avviene nel paese abbandonato, per quanto si ripete in Europa: I profeti dell’odio, Gli sgozzatori, Ballata algerina, Paradiso perduto, Bosnia. Urla il poeta per la sua Itaca imbarbarita, Itaca perduta ormai per ogni Ulisse che lasciata l’isola, condannato all’erranza, al Viaggio infinito.

Vincenzo Consolo Milano, Settembre 1999

 

Il Lunario ritrovato

IL LUNARIO RITROVATO

 di Vincenzo Consolo

 Vi fu un’epoca – iniziata in antico e durata fino a ieri – in cui non esisteva ancora l’industria culturale, non esistevano i best sellers, tirature immediate in migliaia e migliaia di copie di un libro, messaggi pubblicitari e imposizioni mediatiche; vi fu un tempo in cui le voci più nuove e autentiche della letteratura trovavano registrazione e identificazione nelle riviste letterarie: palestre, queste, laboratori di ricerca e anche cattedre di maestri conclamati. Erano numerose e autorevoli, queste riviste, di cui alcune sono chiamate oggi “storiche”, riviste vale a dire che hanno segnato una stagione, hanno aperto nuovi e progressivi sentieri letterari. Lunario siciliano è tra queste. Nato, il mensile letterario, nel dicembre del 1927, finiva la sua pubblicazione nel 1931. Nasceva ad Enna, il periodico, era stampato presso la tipografia di Florindo Arengi ed era diretto da Francesco Lanza: una città e uno scrittore che danno subito il segno e il senso della rivista. Enna, intanto, il luogo più estremo del Paese, il cuore della Sicilia, la città che, al di qua o al di là del grande e primigenio mito della terra, al di qua della sua antica storia, aveva ancora una sua attuale storia politica, sociale, culturale. Ad Enna e intorno ad Enna erano ancora vive le presenze magistrali di intellettuali che si chiamavano Napoleone Colajanni e Giuseppe Lombardo Radice; erano i giovani Nino Savarese, Aurelio Navarria, Arcangelo Blandini, Alfredo Mezio, Telesio Interlandi, Corrado Sofia, Francesco Lanza … In quell’epoca di fascismo appena consolidatosi nel Paese, in cui imperioso era il comando di conformare all’astratta idea nazionalistica alla italianità, ogni diversità storica, culturale, linguistica, di cancellare ogni loro segno (con la scomparsa di Giuseppe Pitrè, di Gioacchino Di Marzo e di Salvatore Salomone-Marino, Giovanni Gentile proclamava il tramonto della cultura Siciliana), questi giovani “frondisti” col loro Lunario siciliano, edito ad Enna, rivendicavano una forte identità siciliana, periferica e rurale, una tradizione letteraria, popolare e colta, con cui non si potevano recidere i legami. Rivendicazione che non significava chiusura e compiacimento nella e della diversità (il che avrebbe portato a un più angusto e nefasto nazionalismo, come quello in cui si impelagò il provenzale Federico Mistral), ma imprescindibile punto di partenza, inizio dalla cultura locale per aprirsi alla più vasta cultura nazionale e internazionale, al più attuale dibattito letterario. A questo foglio stampato in un luogo remoto collaboravano infatti autori fra i più autorevoli dell’epoca, vociani e rondisti, da Cardarelli a Ungaretti, a Cecchi, a Bacchelli, e a Falchi, Bartolini, Biondolillo, De Mattei, Centorbi, fino al giovane Vittorini. Enna dicevamo, e quindi Francesco Lanza. Si laurea a Catania il giovane di Valguarnera, con una tesi su Proudhon, il filosofo socialista romantico. Di questo socialismo Lanza rimane convinto e crede che il fascismo dei primordi lo riproponga nel nostro Paese. Si trasferisce a Roma e in questa città collabora alle più prestigiose riviste e a vari giornali, pubblica le sue prime prove letterarie: Almanacco per il popolo siciliano, Corpus Domini, Fiordispina, Storie di Nino Scardino, che s’intitolerà poi, su suggerimento di Ardengo Soffici, Mimi siciliani: il più straordinario, singolare, originale libro del Novecento italiano (“L’oscenità narrativa rimanda alla festa carnevalesca, al mito del paese della cuccagna, al capovolgimento dei e delle gerarchie e dei linguaggi, al sogno della realizzazione dei desideri, all’utopia” scrive dei Mimi Italo Calvino). Tornato in Sicilia nel ’27, dirige, come sappiamo, il Lunario siciliano. Accanto a lui, nei ruoli di redattori, sono due altri “ennesi”: Nino Savarese e Telesio Interlandi. Cattolico, rondista, ma di “assoluta fedeltà a se stesso”, come ha scritto Falqui, Savarese aveva già esordito nel ’13 con Novelle dell’oro e quindi pubblicato ancora Altipiano, Pensieri e allegorie, Ploto, l’uomo sincero, Gatterìa… Il suo umanesimo e il suo cristianesimo l’avevano tenuto critico e distante dal fascismo aggressivo, impietoso e ignorante che in quegli anni sempre più mostrava il suo vero volto e s’imponeva. Il contrasto, la frattura avvenne a causa di una sceneggiatura, commissionata allo scrittore dal regime, sul mondo contadino siciliano, sceneggiatura cinematografica da cui il fotografo-regista Vittorio Pozzi Bellini avrebbe dovuto trarre un documentario. Savarese (e insieme Pozzi Bellini nei suoi appunti fotografici) diede, del mondo contadino siciliano, la più vera e cruda realtà: di abbandono e di miseria, di sfruttamento e umiliazione. La Commissione romana, presieduta da Cecchi, bocciò naturalmente il progetto. Questa vicenda, questa lezione di coerenza e di dignità, è narrata da uno storico del cinema, dall’ennese Liborio Termine (Un eretico innocente). L’altro redattore di Lunario, il chiaramontano Telesio Interlandi, già da tempo trasferitosi a Roma dove dirigeva II Tevere, era, dei tre, più convinto e acceso fascista, convinzione e accensione che lo porteranno più tardi a dirigere l’infame giornale La difesa della razza. Nell’aprile del ’28 Lunario siciliano interrompe la pubblicazione. Riprende quindi a Roma ed è diretto da Telesio Interlandi. Le ragioni del suo trasferimento da Enna nella capitale, della sua stampa nella tipografia de Il Tevere e della avocazione a sé della direzione da parte di Interlandi, crediamo siano dipese da una caduta di assenso, da parte di Lanza e Savarese, a quelle che erano le richieste del regime, e insieme dalla volontà di un maggior controllo sul periodico da parte di Interlandi. Ritorna poi, Lunario, ad essere ripubblicato in Sicilia, a Messina, ed è diretto da Stefano Bottari. Scrive fiduciosamente, il direttore nel suo primo editoriale: “Il Lunario Siciliano” torna ad essere pubblicato nella sua terra, dopo una peregrinazione nella città capitale dal centro dell’isola dove nacque attento al lavoro dei campi, alle memorie degli antichi miti e ai racconti di cavalleria ancora così vivi nel popolo. Esso non muta i propositi di tre anni fa, al suo primo apparire (…). La vecchia anima del popolo siciliano, così ricca di canti non è vinta ancora da ciò che di soffocante è nella civiltà moderna…”. Pubblicherà solo tre numeri il Lunario messinese di Bottari e quindi si estinguerà: al lavoro dei campi, agli antichi miti, alla cultura contadina, alla tradizione letteraria popolare e no, ai Pitrè, Verga, De Roberto, Capuana, altri miti nefasti, altra cultura o incultura si erano sostituiti. La verità era stata coperta dall’impostura. La ripubblicazione di questo Lunario ritrovato ha un valore di un prezioso documento storico e letterario, significativo di quel che può accadere in un Paese quando viene oppresso dalla dittatura, quando la civiltà viene sopraffatta dalla barbarie.

 S.Agata Militello, settembre 1999

(Prefazione alla ristampa anastatica del “Lunario siciliano”, Enna, 1999)
Originale dattiloscritto indirizzato all’editore Giuseppe Accascina

Palermo, città raccontate da scrittori – Vincenzo Consolo

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Palermo è rossa. Palermo è una bambina. Rossa come  immaginiamo fosse Tiro o Sidone, fosse Cartagine, com’era la porpora dei Fenici. Bambina, perché dormiente e ferma, compiaciuta della sua bellezza, da sempre dominata. Rigogliosa e molle, si stende in una conca difesa a semicerchio da alti colli che a sud la difendono dai venti africani, che verso il mare terminano nei due baluardi del monte Cofano e del monte Pellegrino (il più bel promontorio del mondo, una detta di Goethe). Questa conca così protetta permette alle piante, anche alle più esotiche e rare, di attecchire e crescere, o di degenerare, come succede alle rose Paul Neyron del Giardino del Principe di Salina. Parliamo di questa conca al presente, ma è al passato che dobbiamo riferirci, poiché  ormai un’orrenda colata di cemento ha coperto la famosa Conca d’oro, spegnendo come dice Rosario Assunto, una luce sul mondo. Palermo è stata, oltre che preistorica e sicana, punica o fenicia, greca, latina e bizantina. Ma non rimane nulla di questo suo vario passato (qualche vago nome: Sotto i fenici sembra si chiamasse Ziz, fiore); non rimangono stele di tufo o statue di Astarte, non colonne di marmo per dei dell’Olimpo. Quasi tutti i reperti archeologici chiusi nel suo museo provengono da altri siti: Himera Solunto, Selinunte, Lilibeo… Palermo comincia a essere realtà storicizzabile dal Momento in cui sbarcarono in Sicilia (827 d.C.), tutta invadendola, “come uno sciame d’api “, dice il monaco Erchemperto, i Musulmani. I cui Emiri scelsero Palermo, che chiamarono Balarm, come sede del diwan e come Capitale dei Tre Valli di Sicilia. Sotto i Musulmani, Palermo s’ingrandisce e abbellisce, diviene quella Città di commerci e di agi che contende il primato nel Mediterraneo a Cordoba o a Quairouan.
Palermo, col suo nome greco Panormos, “tutto-porto”, non aveva col mare in verità gran rapporto. Era costruita su un altura, bagnata alla base dai due torrenti Kemonia e Papireto, difesa da mura;. Altura che è ancora ogga la parte più monumentale della città. Da allora, e per tutto il periodo romano e bizantino, la città non subì cambiamenti. Lo straripamento dei brevi confini, dalle anguste mura, avviene col dominio musulmano. Ai siciliani, ai Greci, ai Longobardi, agli Ebrei si uni ora una Nuova, nutrita popolazione di Arabi, Berberi, Persiani, Negri. Questi abitanti così vari, di razza, di costume, di lingua, di religione fa di Palermo la prima grande citta cosmopolita dell’Alto Medioevo. Uscita dalle mura, la citta si espande verso il mare, verso l’antico porto, la Cala, dove ora s’alza la nuova cittadella fortificata, con il palazzo dell’emiro e l’arsenale, e dove intorno sorge il quartiere della Kalsa che, con quello degli Schiavoni, del Borgo Nuovo, degli Ebrei, forma la nuova faccia di Palermo. Sotto i Musulmani, Palermo diviene un importante emporio di scambi; Il suo porto è uno scalo d’obbligo per i pellegrini che dalla Spagna si recano alla Mecca. E la città delle trecento moschee, dei numerosissimi bagni Pubblici, dei brulicanti suk. Un’eco di questi mercati si ha in quelli odierni della Vucciria, di Ballarà (Suk-el-Balhars), del Capo, dei Luttarini (Suk-el-Attarin ). Questa Palermo, divenuta più monumentale sotto i Normanni e Svevi- maestranze bizantine, arabe e normanne crearono insieme capolavori di architettura come la Cappella Palatina, la Cattedrale, S.Giovanni degli Eremiti, Santa Maria dell’Ammiraglio e il Duomo di Monreale; crearono fascinose dimore per i regnanti del Nord, ville suburbane che si chiamavano Zisa, Favara, Cuba-, questa Palermo, con la sua singolare aura normanna e moresca, con le sue chiese-moschee, con i suoi mosaici, i suoi chiostri, i suoi giardini, le sue squillanti cupole rosse, sopravvisse per secoli, trapassò l’epoca angioina e quella aragonese, in cui le potenti famiglie feudali –Ventimiglia, Chiaramonte, Sclafani, Palizzi, Rosso, Alagona, Peralta, Abatellis- costruirono i loro palazzi- fortezze,  le loro regge; sopravvisse ai Vicerè Spagnoli e Borboni, e arrivò quasi intatta fino all’Ottocento. Alla fine del ‘500, viene aperta, a incrocio della più importante via esistente, Càssaro o Toledo, che dall’alto della cittadella scende fino al mare, la via Maqueda. Le due vie tagliano ortogonalmente la città, la dividono in quattro quartieri , in quattro labirinti. E all’incrocio viene costruita la barocca piazza Vigliena o dei Quattro Canti. Questa, assieme alla Cattedrale, al Palazzo Reale, alla piazza dei Bologni, del Pretorio, della Marina, al Foro Borbonico,  fu uno dei teatri che più affascinò i viaggiatori, italiani e stranieri, del Sette e Ottocento. All’epoca dei re e viceré, di Principi e Baroni, successe quella borghese dei Florio, che significa imprenditoria commerciale, industriale, finanziaria. Ma Florio significa anche rinnovato fervore edilizio, significa architettura e ristrutturazione urbanistica dei due Basile, di Giachery, di Damiani Almeyda; e nuovi palazzi, ville, teatri, boulevards, giardini e piazze, in quel neo-barocco che è lo stile liberty. Tramontata l’era dei Florio, non è stato che sonno e abbandono, ma soprattutto cieca, violenta distruzione. Alle bombe americane del ’43, di cui parla Lampedusa che distrussero uno dei centri storici più vasti e interessanti del Mediterraneo, si aggiunse, a partire dagli anni sessanta, il tritolo e il dominio sulla città della mafia. Mafia e potere politico, in trionfale, perfetta simbiosi, che devastarono, cancellarono la vecchia Palermo, ne costruirono un’altra di volgare, offensiva prepotenza, lasciando al centro intatte le macerie della guerra.
Il tritolo poi non servì più ad abbattere ville liberty, palazzi storici, distruggere giardini per costruire casermoni, ma a compiere stragi, a sterminare chi contro la mafia cominciò a lottare. Ma questa è la storia d’appena ieri che conosciamo tutti.

Vincenzo Consolo

Milano, 28 marzo 1997

Zeppelin, città raccontate da scrittori

I libri di diario.

 

 

Una lettura delle incisioni di Togo


Ora il raggio, il riverbero, l’abbaglio, l’orgia del colore – il giallo che t’acceca, il rosso che t’investe, l’azzuro che t’annega, il verde che ti perde – ora il gran pontificale, il fragore, 1o squarcio, il sipario aperto – un lampo, il guizzo d’una lama – sopra il gran teatro, sopra quest’apparenza in festa, ora si smorza, spegne, si mostra nel rovescio, nella trama nuda, nell’ossatura, nell’ intreccio impietoso, nelle tenebre profonde, nel segreto germinare. Staccato il ramo d’oro, compiuti i sacrifici rituali, varchiamo quindi la soglia della notte, entriamo nel mondo scolorato, nella spiaggia delle ombre, nella plaga dei sogni, nel regno tremendo e necessario della nostalgia, della memoria.

In segni incisi, in linee, in fitti tratti o in mancanza d’essi, in neri abissi o in lunari superfici, in bianchi vuoti, allarmanti il mondo ci ritorna. Ritorna instabile, mutante, in perenne metamorfosi. In girasoli declinanti a stendere nastri, foglie serpeggianti; mano di collinose, dure nocche a battere, scandire un tempo immobile, tentare d’infrangere le porte del silenzio; occhi che scrutano, contemplano stupefatti il tuo stupore. In memoria, in evocazione, in sortilegio ritorna il paesaggio di ombre e luci, di deserte piazze, fughe di muri, di alberi, di grigi fondi, di sfondi di caverne d’occhi, di lune divelte dal manto della notte, di buchi neri, di pozzi insondabili, di cerchi del terrore. O in affabili sequenze, in familiari labirinti di scialbate mura, mediterranee architetture, materni antri, l’olivo del conforto, la palma del riposo, la scala che si perde nella penombra lieve. Ritorna in sogno il mondo, risorge come da uno Jonio di brezze e trasparenze, come da un greco mare risorge trasognata la Bellezza, come l’incanto d’una strada chiara, d’una fata morgana tra il cielo e il mare dello Stretto. Ora la luna pietosa risorge, stende chiaro il suo canto, Ia sua eco sul notturno paesaggio, palpita sulle ferme acque, sulle ramaglie, sopra i tetti di dimore spente … Che non s’infranga, frantumi, disperda in un soffio, nella chiaria dell’alba il sogno, il concerto sommesso di ombre e lucori, il disegno inciso nella nostra memoria, la profonda poesia, il fragile volo, la pura nostra avventura.
                                                                                   
                                                                                  Vincenzo Consolo
Milano, 12 dicembre 1994


Aspettando l’ alba, acquaforte e acquatinta, mm.500 x 320.

Enzo Sellerio: Fotografia e/o racconto. Vincenzo Consolo.