di Ada Bellanova
Fornire una definizione del Mediterraneo non è un compito semplice. Mare – e contesto – in perenne trasformazione, come dimostra la sua storia ecologica, esso resiste ad ogni generalizzazione1 . Si può certamente tentare la strada della determinazione strettamente geografica ma si deve riconoscere che a poco serve dire che si tratta di un mare semichiuso su cui si affacciano vari popoli, diversi tra loro eppure simili per la loro posizione e per la condivisione di problemi e risorse. Si deve poi ammettere che il cosiddetto ecosistema mediterraneo ha subito trasformazioni profonde nel corso dei millenni: eliminazione di boschi e foreste, aumento della popolazione, sfruttamento delle risorse, mutamenti climatici, cambiamenti di fauna e flora2 . Le trasformazioni, tra l’altro, contraddistinguono anche la storia della rappresentazione. L’idealizzazione del passato classico che ha sedotto innumerevoli viaggiatori non esiste più e il Mediterraneo si rivela contesto dalle molte facce, non facilmente assimilabile al solo mondo europeo o occidentale3 . Perciò, come tentare una definizione? Cos’è veramente mediterraneo? Se la politica europea contemporanea ha ridotto la questione al problema della frontiera, al rischio di nuove invasioni barbariche4 , ragion per cui il mare è diventato spazio delle indesiderate migra-
1 La complessità del Mediterraneo è centrale nei recenti studi di Mediterranean ecocriticism. Si veda a proposito S. Iovino, Introduction: Mediterranean ecocriticism, or a Blueprint for Cultural Amphibians, in “Ecozon@”, 4.2, 2013, pp. 1-14, in particolare a p. 4. 2 Ibidem. La Iovino propone il caso dell’importazione di tutta una serie di piante e prodotti nel regno della vitis vinifera e dell’olea europaea, con conseguente profondissime sulla cosiddetta dieta mediterranea (si pensi a pomodoro, riso, caffè ecc.). 3 Ivi, p. 5. 4 Si veda a proposito il saggio di C. Resta, Geofilosofia del Mediterraneo, Mesogea, Messina 2012. Sul Mediterraneo come confine, frontiera anche A. Le-
zioni di masse di disperati, tra cui possono nascondersi pericolosi attentatori, e luogo di inevitabile sepoltura, un vero cimitero, di quanti non arrivano a compiere la traversata a bordo di gommoni e imbarcazioni di fortuna, gli intellettuali hanno mantenuto il Mediterraneo al centro di un vivace dibattito culturale. Dibattito che prova a mettere in discussione gli stereotipi. Rischiose sono infatti le immagini rassicuranti dell’idillio naturalistico e della civiltà dell’accoglienza da una parte oppure, all’estremo opposto, quelle fosche della violenza e della sopraffazione. Da una parte il paradiso turistico a buon mercato, le spiagge seducenti, l’esotismo della porta accanto, dall’altra quello della mafia, dell’estorsione, della corruzione delle classi dirigenti, della mancanza di sicurezza, dell’estremismo. L’una e l’altra immagine non sono che la faccia legale e quella illegale dell’inserimento subalterno del Sud nel mondo dello sviluppo, ai suoi margini, “laddove i modelli seducenti proposti dalle capitali del Nord-ovest si decompongono fino a diventare deformi”5 . Tali riduttive determinazioni trascurano la reale complessità del Mediterraneo, che, non a caso, Braudel tenta di definire nel segno della molteplicità e con l’espressione “crocevia eteroclito”6 . Questo spazio, quindi, non consiste soltanto in una teoria di paesaggi, addirittura non lo si può dire neppure mare unico, perché esso è piuttosto un insieme di mari. Nemmeno si esaurisce nell’elenco di tanti popoli diversi perché essi sono entrati spesso in relazione, avvicendandosi su uno stesso spazio o su spazi confinanti, si sono mescolati, hanno plasmato il territorio, anche come spazio dell’immaginazione, e continuano a farlo, rendendo impossibile una reductio ad unum. Ragion per cui Matvejevic può affermare che non esiste una sola cultura mediterranea, ma ce ne sono invece molte, caratterizzate da tratti simili e da differenze, mai assoluti o costanti7 .
ogrande, La frontiera, Feltrinelli, Milano 2017, che indaga sulla condizione dei migranti. 5 F. Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, Bari 1996, pp. 3-4. 6 F. Braudel, Mediterraneo, in Id. (a cura di), Il Mediterraneo. Lo spazio la storia gli uomini le tradizioni, trad. it. di E. De Angeli, Bompiani, Milano 1987, pp. 7-8. 7 P. Matvejevic, Il Mediterraneo e l’Europa, Garzanti, Milano 1998, p. 31. Si veda anche Id., Quale Mediterraneo, quale Europa?, in F. Cassano, D. Zolo (a cura di), L’alternativa mediterranea, Feltrinelli Milano, 2007, p. 436:
L’incontro ha sempre comportato delle criticità, in primis una diffusa e pressoché costante conflittualità8 : come scrive Braudel, “in tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato”9 . Ma il contesto mediterraneo non si configura solo come spazio di guerra: nei secoli le civiltà dominanti non hanno potuto cancellare del tutto quelle sottomesse; si sono sempre attivati meccanismi di contaminazione, dialogo, stratificazione. Allora forse la sua “essenza profonda”10 sta nell’esempio che esso può offrire della convivenza tra culture differenti. Solo tale approccio all’alterità può permettere al Mediterraneo, “mare tra le terre”, di essere non confine, limite, ma luogo di relazione e di incontro11. Il problema è anche di politica europea, o dovrebbe esserlo, non solo per il timore della violazione da parte dei migranti. Il legame tra Europa e Mediterraneo infatti esiste, sebbene venga sistematicamente messo in ombra dalla prevalente prospettiva mitteleuropea, ritenuta vincente dal punto di vista economico12. Considerare la “via” mediterranea significa, secondo Franco Cassano, valorizzare le differenze, la varietà che l’ossessione di uno sviluppo a tutti i costi nega. Significa porsi il problema della gestione degli spazi, laddove gli spazi ospitano un patrimonio “verticale”, incredibilmente stratificato, e quello della cura dell’ambiente e del paesaggio, impedendo che questi siano solo preda dell’abusivismo selvaggio. Significa affrontare la questione dello scambio e della convivenza tra vecchi e nuovi abitanti. Ciò va fatto, ed è un’opportunità, non solo per “custodire forme d’esistenza diverse da quella dominante” ma anche per “tutelare la stessa modernità dal suo avvolgimento in una spirale senza ritorno”
13. “l’insieme mediterraneo è composto da molti sottoinsiemi che sfidano o rifiutano le idee unificatrici”. 8 P. Matvejevic, Mediterraneo. Un nuovo breviario, trad. it.di S. Ferrari, Garzanti, Milano 1993, p. 19. 9 F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, trad. it. di C. Pischedda, Einaudi, Torino 1976, pp. 921-922. 10 Id., Mediterraneo, cit., p. 9. 11 Ancora Braudel a proposito della definizione del Mediterraneo come grande strada per trasportare uomini e merci (Id., Storia, misura del mondo, cit. p. 105). 12 F. Cassano, Tre modi di vedere il Sud, Il Mulino, Bologna 2009, pp. 20-24. 13 Id., Il pensiero meridiano, cit., p. 7. Ma si veda anche Id., Paeninsula: l’Italia da ritrovare, Laterza, Roma 1998, pp. 10-11.
1. Lo spazio mediterraneo per Consolo
La scelta di Norma Bouchard e Massimo Lollini di seguire il criterio della mediterraneità nell’antologia del 200614 riflette la centralità dell’interesse di Consolo per la “lettura e la scrittura” dello spazio mediterraneo15. Andando oltre gli stereotipi, la linea interpretativa e rappresentativa dell’autore evidenzia tormento e ricchezza di un contesto complesso, che rifugge qualunque generalizzazione. Parlare della questione e dello spazio mediterraneo significa per Consolo parlare del Sud e, in particolare, della Sicilia. La riflessione sulla complessità del Mediterraneo si innesta dunque sulle considerazioni a proposito della varietà e della molteplicità che caratterizzano la storia, l’ambiente, il patrimonio siciliani. Estremamente significativo appare nell’isola il flusso incessante di energie umane e culturali16, che hanno condizionato e condizionano il paesaggio, accostando e sovrapponendo più identità17. Allo stesso modo l’intero Mediterraneo è amalgama, crocevia di popoli differenti, non solo territorio della conflittualità ma anche patrimonio ricchissimo, possibilità della relazione e dello scambio18: sì scenario di devastazione, dove la tecnologia ha perso la sua funzione antropologica e ha generato mostri che distruggono le antiche città, trasformandole in
14 V. Consolo, Reading and Writing the Mediterranean, a cura di N. Bouchard e M. Lollini, University of Toronto Press, Toronto-Buffalo-London 2006). Si veda il chiarimento nel saggio introduttivo: N. Bouchard, M. Lollini, Introduction: Vincenzo Consolo and His Mediterranean Paradigm, pp. 3-48, a p. 14. Sull’interesse di Consolo per il Mediterraneo si veda anche N. Bouchard, Vincenzo Consolo’s Mediterranean Journeys: From Sicily to the Global South(s), cit. 15 Sul tema anche l’antologia postuma, V. Consolo, Mediterraneo. Viaggiatori e migranti, Edizioni dell’Asino, Roma 2016. 16 C. Gallo, Cultural crossovers in the Sicily of Vincenzo Consolo, in “US-China Foreign Language”, gennaio 2016, vol. 14, n.1, pp. 49-56. 17 Emblematico Uomini e paesi dello zolfo, in Di qua dal faro, pp. 981-982: “Ora qui, per inciso, vogliamo notare che la storia, la storia siciliana, abbia come voluto imitare la natura: un’infinità, un campionario di razze, di civiltà, sono passate per l’isola senza mai trovare tra loro amalgama, fusione, composizione, ma lasciando ognuna i suoi segni”. 18 Tale visione è centrale anche nella riflessione di F. Cassano (i già citati Paeninsula, Il pensiero meridiano, Tre modi di vedere il Sud). Non a caso la scrittura di Consolo e quella di Cassano affiancate espongono il punto di vista italiano per “Rappresentare il Mediterraneo”, collana Mesogea (V. Consolo, F. Cassano, Rappresentare il Mediterraneo, cit.).
moderne metropoli, luoghi di intolleranza politica, religiosa e razziale, ma allo stesso tempo archivio di eredità preziose19. Dunque olivastro e olivo insieme. Ed è per tutelare ‘l’olivo’ che Consolo procede in direzione di un ripensamento dei consolidati effetti della globalizzazione20. L’imposizione dell’economia ritenuta vincente e l’emarginazione dei vari sistemi tradizionali producono inevitabilmente l’aberrante negazione della molteplicità che caratterizza l’identità mediterranea e la rottura degli utili equilibri preesistenti. L’autore dunque riflette sulla gestione degli spazi e della cultura e legge il fenomeno migratorio non come superamento di un limite ma come occasione di scambio che trasforma e vivifica. Nell’ottica di un recupero delle tradizioni e della molteplicità a rischio vanno guardate le scelte linguistiche che recuperano frammenti della Sicilia greca, bizantina, araba, normanna, ovvero le impronte delle lingue parlate un tempo nel Mediterraneo. L’imperativo della salvezza di linguaggi e dialetti dall’oblio si traduce in un plurilinguismo in cui non ci sono parole inventate ma parole scoperte e riscoperte, in un’operazione di riscatto della memoria e, quindi, di ricerca delle radici, dell’identità21. Se la rappresentazione del Mediterraneo risulta ambivalente, anche Ulisse, l’eroe mediterraneo per eccellenza, ha una natura duplice. Il personaggio omerico, associato da Consolo all’uomo contemporaneo, non è l’eroe del ritorno, è piuttosto il migrante: il nóstos gli è costantemente negato, perché nell’approdo all’isola egli scopre il sovvertimento, incontra le macerie di Troia anziché il palazzo di Itaca, ed è condannato perciò ad un esilio senza fine. La sua peregrinazione lo porta a contatto con le varie forme di violenza della modernità nei confronti di piccoli e grandi luoghi, in Sicilia e fuori dalla Sicilia. In ciò il viaggio diventa meditazione sulle proprie responsabilità: insieme all’ansia di scoperta e conoscenza,
è 19 N. Bouchard, M. Lollini, Introduction: Vincenzo Consolo and His Mediterranean Paradigm, cit., pp. 3-48, a p. 18. 20 Si veda l’intervista con A. Prete (Il Mediterraneo oggi: un’intervista, in “Gallo Silvestre”, 1996, p. 63). 21 G. Traina, Vincenzo Consolo, cit., p. 130. F. Cassano in Rappresentare il Mediterraneo parla di recupero da parte di Consolo di un’antica dimensione sacra della lingua, mediante lo scavo nel passato del Mediterraneo (V. Consolo, F. Cassano, Rappresentare il Mediterraneo, cit., p. 57).
evidenziato il senso di colpa e il rimorso per l’abuso della tecnologia che distrugge patrimoni e vite umane22. Le tappe del viaggio cantato da Omero, a loro volta, come già evidenziato, diventano tessere per comporre l’immagine del mondo contemporaneo. Il mito ha avuto un suo innegabile ruolo nella costruzione dell’identità mediterranea23 perché, sorto da una radice geografica, ha a sua volta modificato e condizionato la percezione collettiva dello spazio, confluendo nel patrimonio di tutti, come è accaduto nei casi esemplari di Scilla e Cariddi o dell’Etna. Ma racconti e leggende antichi legati al territorio possono dire qualcosa di nuovo, possono mettere in luce la stortura: questa è l’operazione a cui si dedica Consolo, ribadendo il legame tra la piana delle vacche del Sole e la Milazzo dell’esplosione o evidenziando l’associazione tra regno dei Lestrigoni e area industriale siracusana. Proprio proponendo il mito originale, allora, enfatizzandone alcuni aspetti, l’autore è capace di trasmettere una denuncia che lamenta la profonda metamorfosi subita dai luoghi: riesce cioè a produrre un’immagine critica dello spazio contemporaneo.
1.1 Nel segno della varietà del mare
Consolo si sente figlio della varietà, dei passaggi, degli incroci di popoli che si sono avvicendati sulla sua terra. Perciò, nella straniante Milano, cerca il conforto dell’umanità colorata, varia, di corso Buenos Aires. A Nord egli cerca il suo Mediterraneo e lo trova negli arabi, nei tunisini, negli egiziani, nei marocchini, negli altri africani, lo trova nel “bruno meridionale”: in questa “ondata di mediterraneità” si immerge e si riconcilia, ci si distende come in una spiaggia di sole del Sud24.
22 Sulla figura di Ulisse e il suo rapporto con il Mediterraneo nell’opera di Consolo si vedano alcune riflessioni di M. Lollini (M. Lollini, Intrecci mediterranei. La testimonianza di Vincenzo Consolo moderno Odisseo, cit, pp. 24-43 o anche l’introduzione, scritta con N. Bouchard, all’antologia Reading and Writing the Mediterranean, N. Bouchard, M. Lollini, Introduction: Vincenzo Consolo and His Mediterranean Paradigm, cit., pp. 19-21). Ma si vedano anche le affermazioni dello stesso Consolo in Fuga dall’Etna, cit., pp. 50-52. 23 B. Westphal (a cura di), Le rivage des mythes. Une géocritique méditerranéenne. Le lieu et son muthe, Pulim, Limoges 2001. 24 “Io che sono di tante razze e che non appartengo a nessuna razza, frutto dell’estenuazione bizantina, del dissolvimento ebraico, della ritrazione ara-
La similitudine esalta la presenza della varietà umana con tutta la sua gamma di neri e bruni qualificandola come occasione, in una Milano grigia al di là dello stereotipo, di sperimentare la mediterraneità. L’accostamento è significativo perché l’esperienza della “spiaggia al primo tiepido sole” è molto mediterranea, tanto più per Consolo, nato e cresciuto in una località di mare. La vita a Sant’Agata di Militello, “paese marino”, “borgo in antico di pescatori”25 gli ha permesso di avere una precoce familiarità con la spiaggia26. “La visione costante del mare” ha scandito l’infanzia, di giochi, bagni e gite sui gozzi. Sulla riva di una contrada poco nota sono approdati guerra e cadaveri della grande Storia27. Perciò lo spazio mediterraneo non può che configurarsi, sulla base dell’esperienza personale, come “mare”. Il tempo del mito che contraddistingue la percezione del mare delle Eolie viene poi superato nella frequentazione di altre coste, altri porti, altri arcipelaghi: il Mediterraneo non è più quello della giovinezza, non solo perché sono mutati i toponimi, le coordinate, ma anche perché a guardarlo ora è un adulto, con una prospettiva nuova, di cronista e narratore, e perché sempre più ristretto è lo spazio della bellezza, e delusione e amarezza nascono dalla coscienza di un patrimonio a rischio di estinzione, vampirizzato dall’indu,
del seppellimento etiope, io, da una svariata commistione nato per caso bianco con dentro mutilazioni e nostalgie. Mi crogiolavo e distendevo dentro questa umanità come sulla spiaggia al primo, tiepido sole del mattino”, Porta Venezia, in La mia isola è Las Vegas, pp. 112-113. Nello stesso testo (p. 114) gli eritrei che, ai tavoli di un ristorante, mangiano tutti con le mani da uno stesso grande piatto centrale il tipico zichinì gli ricordano l’uso delle famiglie contadine siciliane di una volta. Anche nell’osservazione di questo gesto c’è il conforto del recupero di un’identità, specialmente nel confronto con un Nord tanto diverso. Poco più avanti anche la musica, in un bar egiziano, suggerisce legami, suscita l’evocazione dell’identità mediterranea (Ivi, p. 115). 25 Il mare, in La mia isola è Las Vegas, p. 220. 26 La grande vacanza orientale-occidentale, in La mia isola è Las Vegas, pp. 163-169, a p. 165. Molte le dichiarazioni a proposito di una vita “anfibia”, vissuta cioè a stretto contatto con l’acqua. “Sono stato un bambino anfibio, vissuto più nell’acqua che nella terraferma” (La Musa inquieta, in “L’Espresso”, 15 aprile 1991). 27 Il mare, in La mia isola è Las Vegas, pp. 220-221; La grande vacanza orientale-occidentale, in La mia isola è Las Vegas, pp. 164-165. Nella caratterizzazione del Mediterraneo, a partire dal paese natale, si intrecciano memorie personali e dati della storia ufficiale: lo scorrere del tempo plasma i luoghi, oggettivamente e nella ricezione personale dell’autore.
-strializzazione selvaggia, o dello scenario di nuove guerre, nuove violenze, nuova morte. È negato l’idillio della vita libera e bella con la vista costante delle isole del dio, e risulta stravolto orrendamente anche il lavoro dell’uomo: i pescatori non tirano più nelle reti il pesce azzurro, bensì cadaveri di clandestini28.
1.2 Tra olivo e olivastro: il patrimonio e la violenza
Pur consapevole della varietà e della complessità che lo caratterizzano, Consolo percepisce lo spazio mediterraneo come un mondo unico e vi rintraccia caratteri ricorrenti, corrispondenze e somiglianze. Memoria di paesaggi noti, conoscenze geografiche, storia della rappresentazione si intrecciano nel proporre associazioni relative al patrimonio naturalistico, considerazioni sulle fragilità degli spazi urbani e sui problemi ecologici. A permettere, in Arancio sogno e nostalgia, la definizione del Mediterraneo come regno solare degli aranci, è l’esperienza della pervasività di una coltivazione, che caratterizza fortemente il paesaggio, dalla Sicilia alla Grecia, dal Maghreb alla Spagna. Riconosciuto come traccia artistica, segno di civiltà, ma anche come straordinario catalizzatore di gratificanti percezioni sensoriali – il colore vibrante dei frutti e delle foglie, l’odore e il sapore –, l’arancio è per Consolo, al di là del facile e consolidato stereotipo di un Sud di agrumi e sole capace di attirare i viaggiatori stranieri, sogno di un Eden perduto, simbolo cioè, nel confronto con coordinate geografiche stravolte dall’industrializzazione, come nel caso della Conca d’oro palermitana, di un’integrità ecologica e culturale, di uno spazio sano in cui piante odorose possono ancora fare mostra di sé accanto alle rovine del passato29.
Della tipica vegetazione mediterranea conserva notazioni il diario del viaggio in Jugoslavia: i pini piegati fino al mare, gli ulivi, i fichi, le vigne non segnano solo il paesaggio balcanico, ma anche quello greco, siciliano, turco, e si può inferire che anche il gesto
28 Il mare, in La mia isola è Las Vegas, pp. 221-222. 29 Arancio, sogno e nostalgia, in “Sicilia Magazine”, dicembre 1988, pp. 35-46, ora in La mia isola è Las Vegas, pp. 128-133. La citazione è alle pp. 128-129.
della donna che stende i frutti ad essiccare richiami ricordi di altre geografie più familiari30.
Nel resoconto della visita in Palestina nel 2002 poi Consolo scrive di “un paesaggio […] di colline rocciose e desertiche, che somiglia all’altopiano degli Iblei in Sicilia”31. Ma oltre al profilo fisico del territorio, a suggerire accostamenti sono gestualità e dolore delle donne per i combattenti morti: nei movimenti e nel lamento si colgono i tratti della tragedia greca, la cerimonia funebre di tutto il Mediterraneo32.
Città, anche distanti, sono accomunate dalla difficoltà di reggersi sul proprio passato, dalla fatica nella gestione della verticalità, della stratificazione, dal segno della decadenza a contatto con la modernità. Il paesaggio urbanistico mediterraneo risulta perciò inserito nella riflessione ecologica sullo spazio siciliano. Le case semicrollate nel reticolo delle viuzze della Casbah di Algeri evocano l’immagine del centro storico di Palermo33 e quasi topos diventano la crescita disordinata e veloce, l’invasione dei nuovi palazzi, il traffico, nel paesaggio urbano siracusano o in quello di Salonicco34. In L’olivo e l’olivastro dalla meditazione sulla decadenza della città di Siracusa, già accostata ad altre città del Mediterraneo, Atene, Argo, Costantinopoli, Alessandria35, scaturisce il racconto di
30 Ma questa è Sarajevo o Assisi?, in “L’Espresso”, 30 ottobre 1997. Si tratta del racconto del viaggio fatto a Sarajevo con altri intellettuali italiani per restituire la visita di un anno prima da parte di otto membri del Circolo 99 (di Sarajevo). 31 Madre Coraggio, in La mia isola è Las Vegas, p. 196. Il testo, uscito per la prima volta in italiano in V. Consolo et al., Viaggio in Palestina, Nottetempo, Roma 2003, ma già apparso precedentemente online, anche in francese, è il resoconto del viaggio in Palestina in qualità di membro del Parlamento internazionale degli scrittori. 32 Madre Coraggio, in La mia isola è Las Vegas, p. 197. Consolo si riferisce alla cerimonia funebre mediterranea così com’è codificata in Morte e pianto rituale di E. De Martino che infatti ricorda. Ivi, p. 199. 33 Orgogliosa Algeri tra mitra e coltello, in “Il Messaggero”, 20 settembre 1993. 34 Ne abbiamo già parlato per Siracusa. Si veda invece quello che Consolo scrive di Salonicco in Neró metallicó: “città moderna, piena di luci, di insegne, di manifesti pubblicitari, di quartieri appena costruiti come d’una città che è stata invasa da immigrati, che in poco tempo ha moltiplicato i suoi abitanti. E piena di traffico” (Neró metallicó, in Il corteo di Dioniso, La Lepre edizioni, Roma 2009, p. 9). 35 L’olivo e l’olivastro, p. 820.
una visita lungo la costa africana, a Ustica36. Il ricordo si sofferma in particolare sulle rovine e, a sorpresa, sul basilico profumato che cresce in abbondanza tra le pietre e i mosaici. Quello che è apparentemente un particolare senza importanza serve però a definire un patrimonio di piccole cose, comune a tutto il Mediterraneo37. L’Ustica di Consolo è rovine e basilico. Ma tutto il Mediterraneo in qualche modo è Ustica. Tutto il Mediterraneo è fatto di “piccoli luoghi antichi e obliati” come Ustica, in cui la natura si intreccia con la memoria del passato38. Ma il rischio della dimenticanza è in agguato, l’incuria è già realtà, e il ricordo diventa occasione di meditazione amara: nell’enumerazione di antiche città, nell’anafora del verbo “ricordare”, Consolo si trasforma in un “presbite di mente” tutto rivolto verso il passato, si trasforma in “infimo Casella” tutto proteso verso qualcosa che non c’è più39. Se l’anima del musico appena giunta sulla spiaggia del Purgatorio mostra ancora un grande attaccamento alla vita terrena, tanto da slanciarsi verso Dante, memore dell’antico affetto, e la stessa canzone dantesca da lui intonata è all’insegna della nostalgia, il riferimento evidenzia proprio il legame che Consolo sente con il passato, con ciò che non esiste più, come la vita terrena per le anime purganti. Ma la sovrapposizione non è perfetta: il richiamo alla canzone Amor che ne la mente mi ragiona è immediatamente contraddetto dal “Non più, odia ora” e il canto non ha nulla della dolcezza del regno del Purgatorio, ma piut36 Ivi, p. 836. 37 Ibidem. 38 I mosaici e il basilico di Utica sono già ricordati in un passo di Malophoros, in un elenco di caratteristici e rapidi ritratti di piccoli luoghi carichi di passato, dalla Sicilia alla Grecia al Nord Africa: Malophoros, in Le pietre di Pantalica, pp. 574-575. Dello stesso tono la precedente osservazione sulle “stazioncine solitarie remote, di luoghi antichi, sacri, come quella di Segesta, di Cartaghe-Hannibal, di Pompei o di Olimpia” che sanno essere “commoventi, hanno ormai anche loro qualcosa di antico, di sacro” (p. 574). Omaggio ai “piccoli luoghi antichi e obliati” sono per lo più gli interventi apparsi su “L’Espresso” tra il 1981 e il 1982, dedicati a centri poco noti, come Miraglia, Valverde, Galati o Filosofiana. Il tono di questi articoli è però di solito quasi giocoso, un invito al godimento delle bellezze e delle ricchezze sconosciute, anche gastronomiche. Luogo antico e fuori dai soliti canali turistici (non segnalata sulla “Guide Bleu”) è anche Dion, stesa nella pianura ai piedi del Monte Olimpo a cui sono dedicate alcune pagine in Neró Metallicó (Il corteo di Dioniso, cit., pp. 19-20). 39 L’olivo e l’olivastro, p. 837.
tosto una rabbia infernale, un tono che pretenderebbe “rime aspre e chiocce”:
No, non più. Odia ora. Odia la sua isola terribile, barbarica, la sua terra di massacro, d’assassinio, odia il suo paese piombato nella notte, l’Europa deserta di ragione. Odia questa Costantinopoli saccheggiata, questa Alessandria bruciata, quest’Atene, Tebe, Milano, Orano appestate, questa Messina, Lisbona terremotate, questa Conca d’oro coperta da un sudario di cemento, il giardino delle arance insanguinate. Odia questo teatro dov’è caduta la pietà, questa scena dov’è stata sgozzata Ifigenia, quest’Etna, questa Tauride di squadracce dove si consumano merci e vite, si svende onore, decenza, lingua, cultura, intelligenza…40
Dai toni nostalgici Consolo passa a quelli indignati di un coro antico e professa odio prima nei confronti della sua Sicilia, diventata “terribile, barbarica, terra di massacro”, una Tauride percorsa da “squadracce”, poi verso l’Europa e verso l’intero Mediterraneo. Il dramma in atto ha proporzioni gigantesche e il riferimento ai simboli della tragedia euripidea ne sancisce la gravità: sulla cavea è stata sgozzata Ifigenia, si è prodotto cioè il sacrificio dei sacrifici, la morte della sacerdotessa che Artemide aveva voluto salva, la morte dell’esiliata e, con lei, la morte di ogni forma di giustizia, cultura, rispetto. Il presente è una Tauride senza speranza. All’attentato nei confronti del patrimonio naturalistico e culturale si accompagna la violenza contro la vita umana, in svariate forme: il Mediterraneo è, per Consolo, spazio della conflittualità. La Palermo di Le pietre di Pantalica, in preda alle lotte di mafia, è come Beirut41: le bombe, i kalashnikov, gli efferati omicidi, il sangue sparso dai killer lasciano tra le strade siciliane il disastro dei campi di battaglia e spingono all’associazione con quell’altra violenza, in atto dall’altra parte dello stesso mare, della guerra che porta alla distruzione della capitale libanese. Comiso, poi, coi suoi missili Cruise, rappresenta la minaccia costante della violenza tra popoli a cui neppure le proteste dei pacifisti, bloccate brutalmente, possono opporsi. Nel racconto eponimo di Le pietre di Pantalica, mentre il paese “folgorato dal sole”, quasi fosse “uno di quei vuoti gusci dorati di cicala”, è tutto ripiegato nel suo torpore estivo,
40 Ibidem. 41 Le pietre di Pantalica, in Le pietre di Pantalica, p. 625.
poco più in là l’aeroporto, nella campagna deserta, accoglie i lavori per l’installazione. Alla sola vista del cancello con la scritta “Zona militare-Divieto d’accesso” emerge la tremenda apocalittica considerazione: “Non resterà di noi neanche una vuota, dorata carcassa, come quella della cicala scoppiata nella luce d’agosto. Non resterà compagna, figlio o amico; ricordo, memoria; libro, parola”42. Quasi a dire che troppo in là è andato l’uomo. Nel testo successivo, che porta nel titolo il toponimo, le cicale – ancora loro – che cantano nel sole estivo enfatizzano la pace e la fiacca che prelude alla carica delle forze dell’ordine sui dimostranti43. Di fronte al degrado della violenza – guerra per difendere la possibilità di fare la guerra – e di fronte alla speculazione edilizia e all’inquinamento, l’unica consolazione possibile viene a Consolo dalle rovine immerse nella natura, ovvero dal valore di un patrimonio naturalistico e culturale. Come ad Utica e ancor di più che ad Ustica, negli Iblei a Cava d’Ispica, a poca distanza da Comiso: qui ci sono “le migliaia di grotte scavate dall’uomo, le abitazioni, le chiese, le necropoli della preistoria, della storia più antica dei Siculi, dei Greci, dei Romani, dei Bizantini, di quelli di pochi anni passati”, qui c’è “un cammino bordato dai bastoni fioriti delle agavi, dagli ulivi, dai fichi, dai pistacchi, dai carrubi”44. E fuori dalla Sicilia? Una serie di articoli scritti a partire dagli anni Novanta denuncia una violenza connaturata in numerosi luoghi del Mediterraneo. Teatro del nascente integralismo è il Maghreb, l’Algeria in particolare, dove Consolo nel maggio 1991
42 Ivi, p. 623. 43 Più tardi, nell’atto unico Pio La Torre, Consolo accenna al coinvolgimento della mafia siciliana e americana nell’affare dei missili (Pio La Torre, cit., p. 65) e offre un’immagine amara della nuova Comiso, che contrasta con il passato nell’offesa dell’inquinamento selvaggio e della minaccia di una guerra (Ivi, p. 77). 44 Comiso, in Le pietre di Pantalica, pp. 637-638. Il testo si chiude con una visita alla necropoli bizantina di Cava d’Ispica. C’è la luna e, guardandola, Consolo ricorda la preghiera della Norma belliniana: “Casta diva, che inargenti / queste sacre, antiche piante…”. Dichiara di non sapere il motivo del ricordo. In realtà la memoria ha a che fare, più o meno volutamente, con Zanzotto, nella cui opera la presenza della Norma è significativa: in più di un’occasione il poeta, riferendosi alla luna, allude alle parole della sacerdotessa (un esempio su tutti l’Ipersonetto: “Casta diva” o “sembiante”, A. Zanzotto, Tutte le poesie, cit., p. 571).
scorge il rischio che “il mistico linguaggio della preghiera” si stravolga nel “mortale linguaggio delle armi”45. Uno “scenario apocalittico, sconvolgente”46 caratterizza poi la Sarajevo del 1997. Il “paesaggio di macerie” che si mostra allo sguardo mano a mano che gli italiani in visita si inoltrano nell’entroterra, con la guida di Matvejevic, impressiona ancor di più per il contrasto con il quieto profilo mediterraneo della costa, dove non c’è traccia di guerra e dove Consolo ritrova la vegetazione della sua terra. La città distrutta evoca le dure immagini del Trionfo della morte di Bruegel o quelle di Los desastres de la guerra di Goya47; i suoi resti, accostati a quelli di Assisi appena colpita dal terremoto, si fanno ammonimento, metafora “del nostro scadimento”: “siamo scivolati sul ciglio della voragine paurosa della natura”, ovvero è scomparsa la civiltà. Infernale è infine la Palestina, visitata da Consolo con altri membri del PIE nel 2002 48. Nella descrizione del tragitto che da Tel Aviv conduce a Ramallah, l’accostamento del paesaggio a quello siciliano si rompe all’apparizione dei check point e delle mitragliatrici, e sempre più nel procedere verso la striscia di Gaza si moltiplicano i segni di rovina e lutto, pur nella prorompente vitalità dei “nugoli di bambini dagli occhi neri”49, al punto che il percorso in direzione dei villaggi di Khan Yunus
45 Quei parabolizzati che sognano l’Italia, in “Corriere della sera”, 20 giugno 1991; Orgogliosa Algeri tra mitra e coltello, cit. Si veda anche la prefazione al libro di poesie di Mokthar Sakhri (Poesie, Libro italiano, Ragusa 2000). L’esperienza giornalistica ritorna nel romanzo Lo Spasimo di Palermo (pp. 903-905): Chino Martinez nel giardino della moschea di Parigi ripensa allo sciopero di Algeri, al mitra e al Corano degli integralisti. Sui fondamentalismi nel Mediterraneo si veda anche l’intervista con A. Prete, Il Mediterraneo oggi: un’intervista, cit., pp. 65-66. Sul fondamentalismo di matrice islamica e in particolare sull’attacco alle torri gemelle, Consolo si esprime manifestando un’accesa critica nei confronti di Oriana Fallaci, evidenziando da una parte che non serve reagire con la violenza e che molti sono i vantaggi dell’incrocio tra culture, come insegna la storia siciliana (l’intervista a cura di G. Caldiron, Lo scrittore siciliano Vincenzo Consolo risponde a Oriana Fallaci “Parole che conducono alla violenza”, in “Liberazione”, 2 ottobre 2001). 46 Ma questa è Sarajevo o Assisi, cit. 47 Sempre a proposito della guerra in Jugoslavia il riferimento all’opera di Goya compare in La morte infinita, in “Il Messaggero”, 6 febbraio 1994. 48 Madre Coraggio, in La mia isola è Las Vegas, pp. 195-200. 49 Ivi, p. 197.
e Rafah pare “una discesa nei gironi infernali”50. L’immagine più forte, quasi un simbolo, è però quella della resistenza eroica di una madre: ad aprire e chiudere il resoconto del viaggio è la figura della donna di Ramallah51, “imponente, dalla faccia indurita”, che vende nepitella raccolta nei luoghi selvatici e che di certo abita nel campo profughi, forse ha figli che combattono.
1.3 Mediterraneo come spazio di migrazioni
Nella rappresentazione offerta da Consolo l’immagine del Mediterraneo come spazio di migrazioni appare fondamentale e questo, oltre che per una chiara consapevolezza storica, per un’attenta lettura della contemporaneità. Divenuto, nei fatti, confine, limite, addirittura cimitero a causa della grande quantità di morti rimasti imprigionati nelle “carrette”, il mare potrebbe essere, invece, occasione di arricchimento in virtù dello scambio tra popoli. È un’immagine ideale, eppure realizzabile, quella che Consolo propone, insistendo su una storia di civiltà, quella siciliana in particolare, che ha la radice della sua grandezza proprio nell’incontro tra le differenze: ora che l’isola è divenuta luogo di approdo dei migranti che provano a sfuggire alla guerra, alla persecuzione o alla povertà, non si deve dimenticare che il progresso, quello vero, è sempre figlio dell’arricchimento che proviene dall’alterità. Lo dimostrano gli straordinari effetti della dominazione araba in Sicilia, a cui Consolo riconosce, sulla base di un ricco corredo di fonti e seguendo l’opinione di Sciascia, addirittura un valore fondante in termini di identità: i tratti tipici della sicilianità, ovvero lingua, letteratura, arte, agricoltura, cucina e persino fisionomia, risentono tutti del passato arabo52. Non
50 Ivi, p. 199. 51 Ivi, p. 195 e 200. 52 Estremamente rappresentativa appare a proposito la sezione Sicilia e oltre in Di qua dal faro e, in particolare, il saggio introduttivo, La Sicilia e la cultura araba. Il saggio si apre con alcune considerazioni sul legame tra la poesia della scuola siciliana e le qaside dei siculo-arabi, ancora attivi nell’isola sotto i Normanni (La Sicilia e la cultura araba, in Di qua dal faro, pp. 1187- 1192, a p. 1187) e riflette poi su diversi aspetti dell’influenza araba, ad esempio sulla rinascita economica e sullo spirito di tolleranza (p. 1189). Significativi nel testo i rimandi a Sciascia (in particolare alle pp. 1188-1189). Ricordo che il rapporto tra Sciascia e il mondo arabo costituisce un ambito ricco di spunti suggestivi. Significativa è la conclusione del saggio di apertura de La corda
a caso l’insistenza sulla presenza degli Arabi nell’isola si traduce nella frequente celebrazione delle innovazioni in ambito agricolo, tecnico, delle trasformazioni in ambito artistico-culturale. Di “rinascimento” parla Consolo, non perdendo occasione per evidenziare i lasciti, le tracce ancora vive nella contemporaneità siciliana. La lussureggiante Palermo, ad esempio, non avrebbe chiese-moschee, castelli, palazzi e giardini seducenti, non avrebbe aranceti se non ci fossero stati gli Arabi. Lo spazio insomma risulta segnato profondamente da questa “migrazione”. Sorprendenti riescono ad essere poi – afferma Consolo – gli incroci della storia, e Mazara, che ridiventa araba nel Novecento per il massiccio arrivo dei tunisini, aveva già nel momento del primo approdo dell’827 l’Africa nel suo nome, Mazar, traccia dell’antica presenza cartaginese. Come a dire che è sempre stato normale per i popoli spostarsi, il mare non è di nessuno, non può essere veramente limite, e la terra non reca un marchio di possesso ma molti strati di identità che il tempo e i popoli plasmano, partendo, arrivando. Se innumerevoli sono le eredità, anche visibili, tangibili, sebbene a rischio, del passato arabo, scomparsa del tutto risulta per Consolo la scelta della tolleranza e della convivenza tra culture, confermata anche dai normanni che non vollero eliminare la civiltà che li aveva preceduti, ma la integrarono e la valorizzarono. Perciò l’immagine del Mediterraneo come spazio di equilibrio e coesistenza tra le alterità non è solo parentesi del passato ma anche un’aspirazione, un esempio positivo da opporre a quanti insistono sui rischi dello scontro tra culture53.
Che l’arrivo di nuovi popoli produca progresso è poi testimoniato per l’autore anche da migrazioni più antiche come dimostra pazza (1970), Sicilia e sicilitudine, in cui l’autore traccia un collegamento ideale tra Salvatore Quasimodo e un poeta arabo di otto secoli precedente, Ibn Hamdis, siciliano di Noto, accomunati dai toni con cui hanno fatto poesia della pena profonda dell’esilio (L. Sciascia, Sicilia e sicilitudine, in Id. La corda pazza, cit., pp. 11-17). Sulla questione particolarmente interessanti risultano anche le osservazioni contenute in uno degli scritti del Canton Ticino, su Tomasi di Lampedusa, apparso su “Libera Stampa” il 27 gennaio 1959, ora raccolto in Troppo poco pazzi (L. Sciascia, Marx Manzoni eccetera e il Gattopardo, in R. Martinoni, a cura di, Leonardo Sciascia nella libera e laica Svizzera, Olschki, Firenze 2011, pp. 102-104 alle pp. 102-103). 53 Nell’ultima intervista Consolo riflette proprio sull’ignoranza di chi solleva lo scontro di civiltà e accosta integralismo e islam (V. Pinello, op. cit.).
l’entusiastica rappresentazione della Sicilia come museo a cielo aperto, che accoglie rovine antiche, città greche, elime, puniche. Ma numerosi sono anche i riferimenti alla nascita delle colonie, a volte molto precisi, con indicazione dell’ecista, del territorio di origine, degli sviluppi della vicenda coloniale54, sulla base dei dati forniti da fonti antiche, come l’opera di Tucidide55, o su testi più recenti che rinviano però alla storiografia greca. E ciò non solo nei testi saggistici: anche le prove narrative offrono una rappresentazione della Sicilia e del Mediterraneo che ne valorizza l’aspetto di crocevia di popoli. Concentrandosi sulle migrazioni dell’antichità, i testi impostano un implicito confronto con gli spostamenti di oggi, riconoscendovi ragioni identiche o simili, ovvero guerra, fame, difficoltà economiche. In particolare, ne L’olivo e l’olivastro56, Consolo si sofferma sull’emigrazione megarese verso la parte orientale dell’isola. La visita ai resti di Megara Hyblaea, oggetto dell’amorevole culto del giovane Salvo e dei suoi, mentre è in corso l’assedio della cannibalica civiltà industriale del polo siracusano, suscita un’entusiastica rievocazione dell’opera dell’ecista Lamis, dell’idea di uguaglianza e progresso dei coloni, della fertilità e della geometria nella suddivisione del terreno in lotti57. All’enfasi sulla fondazione Consolo
54 Ad esempio, Che non consumi tu tempo vorace, cit., p. 12; I muri d’Europa, in L. Restuccia, G.S. Santangelo, Scritture delle migrazioni: passaggi e ospitalità, Palumbo, Palermo 2008, p. 25. 55 L’archaiologhia siceliota del VI libro si apre con una sintesi storica a proposito dei più antichi popoli locali, a partire dai misteriosi Lestrigoni e Ciclopi, cui segue un quadro preciso delle migrazioni dalla Grecia e delle successive fondazioni. Consolo rinvia a Tucidide per la fondazione di Messina, l’antica Zancle (Vedute dallo stretto di Messina, in Di qua dal faro, p. 1045) e infatti il dato è rintracciabile in Tuc. VI 4,5. Ricava probabilmente dallo storico greco anche il dato relativo alla fondazione di Siracusa da parte dell’ecista Archia (Tuc. VI 3), ricordato in La dimora degli Dei (cit., p. 14). Oltre alla fonte tucididea si può riconoscere anche quella di Diodoro Siculo, esplicitata per la colonizzazione greca delle Eolie (Isole dolci del dio, cit., p. 21). 56 L’olivo e l’olivastro, p. 783. 57 Tucidide parla dell’arrivo dei Megaresi (Tuc. VI 4, 1-2) ma non riporta quest’ultimo dato della lottizzazione, che invece si ricava dai rilievi archeologici. A proposito si veda H. Tréziny, De Mégare Hyblaea à Sélinonte, de Syracuse à Camarine: le paysage urbain des colonies et de leurs sous-colonies, in M. Lombardo, F. Frisone (a cura di), Atti del convegno Colonie di colonie: le fondazioni subcoloniali greche tra colonizzazione e colonialismo, Lecce, 22-24 giugno 2006, Congedo editore, Galatina-Martina Franca, 2009,
aggiunge il plauso per le capacità che i Megaresi, scacciati dai Corinzi di Siracusa, dimostrarono, affrontando l’ignoto della Sicilia occidentale dove fondarono Selinunte. Le sue parole trasfigurano il neutro dato storico di Tucidide (VI 4, 2) attribuendo all’opera dei coloni i tratti di una straordinaria epopea58. I resti della civiltà greca di Megara e Selinunte, dunque, risultano monito contro lo straniamento che viene dalla degenerazione economica e culturale. La coscienza dell’identità trascurata dello spazio e della civiltà che l’ha costruita, originariamente straniera, immigrata, ma secondo le fonti storiche “progredita”, costringe l’attenzione sul rischio della perdita in termini di biodiversità culturale, e l’interesse per gli antichi coloni greci diventa traccia ecocritica. Ha a che fare con la volontà di valorizzare il passato greco dell’isola anche il ricorso al mito. Oltre al viaggio di Ulisse, Consolo ama ricordare la vicenda di Demetra, la madre disperata che, in cerca di sua figlia Kore, vaga per il Mediterraneo59, leggenda molto siciliana, in virtù dei luoghi coinvolti: ad Enna c’era l’antica sede della dea60, e proprio lì si svolse il rapimento di Kore, mentre poco più a
pp. 163-164; M. Gras, H. Tréziny, Mégara Hyblaea: le domande e le risposte, in Alle origini della magna Grecia, Mobilità migrazioni e fondazioni, Atti del cinquantesimo convegno di studi sulla Magna Grecia, Taranto 1-4 ottobre 2010, Stampa Sud, Mottola 2012, pp. 1133-1147. 58 L’olivo e l’olivastro, pp. 783-784, ma anche Retablo, p. 432; La Sicilia passeggiata, pp. 94-95; Malophoros, in Le pietre di Pantalica, p. 578. 59 Più volte Consolo esibisce citazioni dall’Inno a Demetra (nella traduzione di F. Cassola del 1975). In Retablo ad esempio (Retablo, p. 409) i primi due versi (“Demetra dalle belle chiome, dea veneranda, io comincio a cantare, / e con lei la figlia dalle belle caviglie, che Aidoneo / rapì”) sono esempio di suprema poesia per Clerici che sta sperimentando, nell’esperienza sublime dell’accoglienza da parte di Nino Alaimo, tra l’altro dedito al culto di una Grande Madre mediterranea, una sorta di possessione divina. La Sicilia passeggiata (p. 7) si apre con un’epigrafe tratta dall’Inno (Inno a Demetra, vv. 401-403) che pone l’attenzione sull’esito felice della vicenda, ovvero sul momento del ricongiungimento delle dee e sul ritorno della primavera; più avanti nel testo invece (La Sicilia passeggiata, p. 57) leggiamo anche i vv. 305-311 che descrivono l’amarezza di Demetra dopo la perdita della figlia e le conseguenze nefaste per gli uomini. In L’olivo e l’olivastro (p. 843) i versi 40-44 inquadrano i luoghi come scenario del vagabondaggio sofferente di Demetra. 60 La Sicilia passeggiata, p. 58; L’olivo e l’olivastro, p. 822. Al tradizionale luogo del culto di Demetra Consolo si riferisce anche nella prefazione al
Sud, nell’area dello zolfo, la tradizione colloca il regno di Plutone61. La scelta autoriale chiama in causa le dinamiche di rappresentazione del Mediterraneo, ma anche l’identità profonda degli spazi geografici, evidentemente compromessa con il mito. Immaginario collettivo e prospettiva razionalizzante si intrecciano, nell’evidenziare il legame esistente tra Sicilia e Grecia, tra due differenti rive di uno stesso mare. Il culto e il mito, infatti, sarebbero conseguenza della colonizzazione greca62.
Nel mito personale di un mondo antico vivace, fatto di intrecci e incroci alla presenza greca si aggiunge quella cartaginese o quella elima. La vicenda di quest’ultimo popolo, in bilico tra storia e mito, ha a che fare, già secondo Tucidide (VI 2), con l’arrivo in Sicilia dei Troiani: lo storico riferisce che la migrazione, successiva al crollo di Ilio, ebbe come effetto lo stanziamento in territori prossimi a quelli dei Sicani e tale vicinanza portò alla denominazione unica di Elimi per i due popoli; i centri più importanti di questa nuova civiltà furono Segesta e Erice. Consolo, pur conoscendo sicuramente il dato riportato dallo storico, è più sensibile in questo caso alla fonte poetica virgiliana. In La Sicilia passeggiata, ad esempio, il mistero sull’origine di Segesta – o Egesta – richiama i versi 755-758 del V libro dell’Eneide che proprio alla ktisis fanno riferimento63. La quale ktisis si conclude con la fondazione del tempio della dea Venere sulla vetta del monte Erice, com’è ricordato dai vv. 759-760 del V libro virgiliano che Consolo sceglie di citare in La Sicilia passeggiata (“Poi vicino alle stelle, in vetta all’Erice, fondano / un tempio a Venere Idalia”)64, quasi invitando a seguire nell’area occiden
volume di F. Fontana dedicato a Morgantina (V. Consolo, Che non consumi tu tempo vorace, cit., p. 11-13) 61 Consolo ricorda questa associazione tra mito e luogo geografico in La Sicilia passeggiata, p. 62; Uomini e paesi dello zolfo, in Di qua dal faro, p. 985. 62 Molti gli studi sulla questione che evidenziano la difficoltà di definire la reale provenienza del culto di Demetra e Kore. Si veda ad esempio P. Anello, Sicilia terra amata dalle dee, in T. Alfieri Tonini (a cura di), Mythoi siciliani in Diodoro, Atti del seminario di studi, Università degli studi di Milano, 12-13 febbraio 2007 = in “Aristonothos, scritti per il mediterraneo antico”, 2, 2008, pp. 9-24. 63 La Sicilia passeggiata, p. 106. 64 Ivi, p. 108. Consolo precisa il dato poetico aggiungendo che in realtà il tempio è antecedente all’arrivo dei Troiani: parla infatti di un sacello sicano, elimo o fenicio già dedicato al culto della dea dell’amore. Si fa riferimento al tempio anche in Retablo (Retablo, p. 458) e in L’olivo e l’olivastro (L’olivo e l’olivastro, p. 860), dove ritroviamo la citazione dei versi dell’Eneide. In L’olivo e l’olivastro sono ricordati “il bosco e la spiaggia del funerale,
tale dell’isola le orme del passaggio di Enea, sulla base delle indicazioni fornite dall’Eneide: un cammino attento potrebbe permettere di scoprire non solo l’area sacra ericina ma anche il bosco consacrato ad Anchise, la spiaggia dei sacrifici e delle gare65. La scelta di citare proprio i versi del rito di fondazione è interessante perché evidenzia la fusione tra popolazione straniera migrante, i Troiani, e popolazione locale, gli Elimi66. Da tutto ciò risulta evidente per Consolo che gli incontri, gli scambi tra popoli di culture diverse sono stati da sempre causa del cammino della civiltà, e che la chiusura, il rifiuto dell’ignoto che arriva da fuori, è perdita, regressione67. Perciò, egli, servendosi di una frase di Zanzotto, “Ci troviamo oggi tra un mare di catarro e un mare di sperma”, descrive il vecchio continente come perennemente arroccato nelle sue posizioni. “Vecchia” davvero è l’Europa, vecchia l’Italia, non solo per l’età media della popolazione, ma per una cecità di fronte all’arrivo delle masse disperate dei profughi che non riconosce la ricchezza dell’accoglienza e addirittura produce morboso attaccamento ai privilegi, difesi con pericolosi atteggiamenti xenofobi68. All’imperativo dell’accoglienza umanitaria, a cui implicitamente alludono nell’articolo Gli ultimi disperati del canale di Sicilia le immagini tremende del mare-cimitero (“bare di
delle gare in onore d’Anchise” (Ivi, p. 861), menzionati anche in Lo spazio in letteratura (Di qua dal faro, p. 1241). Al mito dell’arrivo dei Troiani in Sicilia si riferisce anche in Retablo l’onomastica relativa al fiume “Criniso o Scamandro” (p. 415). 65 Virgilio narra che Enea, fermatosi presso Drepano – l’attuale Trapani – dopo la parentesi di Cartagine, viene ospitato da Aceste e, con lui e i suoi, celebra gli onori funebri in onore di Anchise, lì seppellito un anno prima. Alla ospitalità già ricevuta da parte di Aceste si riferisce Aen. I 195. La morte di Anchise invece è accennata in Aen. III 707-710. Gli onori funebri in suo onore e i giochi successivi sono al centro del V libro (vv 42-103 e 104-603). 66 Dopo che le donne, istigate da Giunone, hanno dato fuoco alle navi (Aen. V 604-699), l’eroe, ispirato dalla visione di suo padre, decide di fondare una nuova città che sarà abitata da una parte del suo seguito e dai troiani dell’isola. Aceste e i suoi, infatti, che sono già in Sicilia (Aen. V 30 e 35-41) appartengono ad un’antica stirpe troiana. 67 Quando i Lombardi emigrarono in Sicilia, in “Corriere della Sera”, 4 maggio 1991. 68 Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, in “La Repubblica”, 18 settembre 2007. La frase di Zanzotto è ripresa da A. Zanzotto, In questo progresso scorsoio. Conversazione con M. Breda, cit., pp. 68-69. Il poeta la usa per commentare la situazione dell’Italia, sospesa tra “un’Europa invecchiante e le esplosioni demografiche vicine”.
ferro nei fondali del mare”) e dell’orrenda pesca dei morti (“i corpi degli annegati nelle reti dei pescatori siciliani”), si accompagna nella prospettiva autoriale l’invito ad una valutazione delle possibilità economiche e culturali che derivano dai flussi di migranti69. Estremamente significativo nel dibattito risulta per Consolo il caso della doppia migrazione da e verso il Maghreb. C’è stato un tempo lontano in cui il braccio di mare tra la Sicilia e le coste africane non era “frontiera, barriera fra due mondi, ma una via di comunicazione e di scambio”70, un tempo in cui era normale per i lavoratori di Sicilia, di Calabria o di Sardegna cercare fortuna nelle terre degli “infedeli”. Tale familiarità tra i due mondi è stata confermata dall’emigrazione ottocentesca, intellettuale e borghese prima, poi anche di braccianti dell’Italia meridionale, verso le coste nordafricane71. Si tratta di un fenomeno che sta molto a cuore a Consolo72. Non a caso egli lo accoglie nella narrazione di Nottetempo, casa per casa.
69 Negli stimoli offerti dall’emigrazione contemporanea Consolo scorge una possibilità di rinascita anche letteraria: così nell’intervista con A. Bartalucci (A. Bartalucci, op. cit., pp. 201-204, a p. 204). 70 Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, p. 1193. Consolo si è soffermato prima sulla seconda novella della quinta giornata del Decameron di Boccaccio che propone il tranquillo soggiorno di pescatori cristiani, trapanesi, nella musulmana Tunisia. Ma si veda anche in Retablo l’incontro di Clerici, accompagnato dal fido Isidoro e dal brigante, con Spelacchiata e i suoi compagni barbareschi, che si traduce in uno scambio di cerimonie (Retablo, pp. 438-440). L’episodio tiene conto dell’affinità culturale e della consuetudine dei rapporti tra paesi mediterranei. A proposito del valore della “rotta per Cartagine”, ovvero dell’attenzione consoliana per le relazioni storiche di contiguità e vicinanza tra Sicilia e Nord Africa, P. Montefoschi, Vincenzo Consolo: ritorno a Cartagine, in Id., Il mare al di là delle colline. Il viaggio nel Novecento letterario italiano, Carocci, Roma 2012, pp. 54-60; specificamente sull’episodio di Spelacchiata in Retablo, p. 55. 71 A proposito dell’emigrazione italiana in Tunisia si veda lo studio di F. Blandi: F. Blandi Appuntamento a La Goulette, Navarra Editore, Palermo 2012. 72 Del fenomeno Consolo fornisce dati precisi in diverse occasioni. Si veda in particolare Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, pp. 1195-1196; Il Mediterraneo tra illusione e realtà, integrazione e conflitto nella storia e in letteratura, in G. Interlandi (a cura di), La salute mentale nelle terre di mezzo. Per costruire insieme politiche di inclusione nel Mediterraneo, Atti del Convegno di Psichiatria Democratica, Caltagirone, 12-13 marzo 2009, numero monografico di “Fogli di informazione”, terza serie, 13-14, gennaio-giugno 2010, pp. 5-7.
La fuga di Petro, nuovo Enea73, si inserisce proprio nel contesto storico della migrazione verso l’Africa settentrionale. La sua vicenda non è eccezionale, se non forse per le motivazioni, ma rientra nella normalità di un flusso migratorio consolidato74. La stessa presenza del personaggio storico di Paolo Schicchi, con cui Petro ha un breve colloquio sulla nave, obbedisce alla storicità del fenomeno. L’anarchico siciliano, infatti, non fu il solo a cercare rifugio in Tunisia per ragioni politiche: esisteva sulla sponda sud del Mediterraneo una nutrita comunità di antifascisti e addirittura una vera e propria comunità anarchica siciliana a Tunisi75.
Il romanzo si chiude proprio con l’arrivo dall’altra parte del mare: i colori, le architetture, la vegetazione e gli uccelli sanciscono l’approdo ad un nuovo inizio, proprio come accadeva a coloro che emigravano in Tunisia76. Il nuovo spazio su cui si affaccia la nave si carica di attese, di possibilità, innesca un confronto con il passato, con la terra abbandonata, accende speranze, suscita decisioni. Petro lascia significativamente cadere in mare il libro che l’anarchico Schicchi gli ha consegnato durante il viaggio, a sancire il suo rifiuto per ogni forma di violenza, la sua volontà di essere “solo come un emigrante, in cerca di lavoro, casa, di rispetto”77.
La prospettiva di chi guarda e vive il passaggio ad un nuovo spazio definisce e ridefinisce i contorni della realtà, quella che ha lasciato e quella a cui va incontro. La Tunisia non è per Petro un luogo neutro e nemmeno lo è la Sicilia. Allo stesso modo la terra di partenza e la Milano dell’arrivo vengono ridiscusse nell’esperienza
73 Non a caso il capitolo finale reca l’epigrafe virgiliana Longa tibi exilia et vastum maris aequor arandum (Aen. II 780) che permette di associare la Sicilia in preda all’alba fascista ad una Ilio in rovina e Petro in fuga all’eroe costretto a cercare una nuova terra. 74 Nottetempo, casa per casa, p. 752. Nell’intervista con Gambaro (F. Gambaro, V. Consolo, op. cit., p. 102) Consolo evidenzia l’importanza degli scambi tra le due rive del Mediterraneo, proprio a partire della vicenda degli italiani emigrati, perché essi permettono un arricchimento culturale e letterario. 75 Nottetempo, casa per casa, pp. 753-754. A proposito della comunità italiana in Tunisia si veda lo studio di Marinette Pendola (Gli italiani di Tunisia. Storia di una comunità (XIX-XX secolo), Ed. Umbra, “I Quaderni del Museo dell’emigrazione”, Foligno, 2007), curatrice anche del sito www.italianiditunisia.com, denso di informazioni storiche. 76 Nottetempo, casa per casa, p. 755. 77 Ibidem.
di migrazione che conduce i meridionali, negli anni del miracolo economico, alla volta del Nord. Come accade, d’altronde, allo stesso Consolo che, sebbene non si muova per fame ma per realizzazione intellettuale, sperimenta il passaggio, vive una ridefinizione dei luoghi. L’insistenza dell’autore sulla presenza significativa degli italiani in Maghreb e sugli innumerevoli scambi avvenuti tra l’una e l’altra riva del mare fin dal Medioevo va considerata in relazione al suo interesse per quell’emigrazione africana in Italia che ha avuto origine negli anni Sessanta e che non si è più arrestata. Le riflessioni a tal proposito sono estremamente lucide e inquadrano precocemente la questione. I primi lavoratori tunisini, forniti del semplice passaporto con il visto turistico e sprovvisti di quell’autorizzazione che permetteva un regolare contratto di lavoro, giungevano in Sicilia nel 1968. La presenza di questi primi immigrati, costretti a ritornare in patria alla scadenza del visto turistico, rispondeva alla domanda di lavoro a buon mercato da parte di proprietari terrieri e di armatori, per i quali reclutare questa manodopera e sfruttarne la condizione abusiva era senza dubbio un vantaggio. Ai primi immigrati si aggiunsero allora parenti e amici e il fenomeno si allargò78. “L’emigrazione in Italia dei poveri del Terzo Mondo”79 ha inizio a Mazara, proprio lì dove il 17 giugno 827 – ricorda Consolo citando Amari – sbarcavano i musulmani, città splendida e prestigiosa secondo il geografo Idrisi80. A distanza di secoli, scomparsa la bellezza del passato, dopo che miseria e crollo avevano generato quell’altra migrazione, “di pescatori, muratori, artigiani, contadini di là dal mare, a La Goulette di Tunisi, nelle campagne di Soliman, di Sousse, di Biserta”81, il miracolo economico degli anni Sessanta attivava di nuovo la rotta dal Nord Africa82.
78 Sul fenomeno si veda A. Cusumano, Il ritorno infelice, Sellerio, Palermo 1978. Consolo lo cita in diverse occasioni, ad esempio, Il ponte sul canale di Sicilia, Di qua dal faro, p. 1197. 79 L’olivo e l’olivastro, p. 865. 80 Ivi, p. 864. 81 Ivi, p. 865. 82 Ibidem. Si veda anche Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, pp. 1197-1198. Molti gli articoli sul caso di Mazara, ad esempio I guasti del miracolo, cit.; Morte per acqua, cit; “Ci hanno dato la civiltà”, cit. Ancora precedente l’articolo uscito su “Sans frontières” nel 1980 che si sofferma sulla storia di Mazara prima di concentrarsi sulla quarta guerra punica o guerra
L’inversione di rotta, di cui Consolo evidenzia la specularità rispetto a quella italiana, va a riempire i vuoti lasciati dall’altro flusso migratorio, quello dei meridionali verso il Nord, e, anche se il caso di Mazara ha una sua indiscussa esemplarità, il fenomeno, come si è detto, già all’origine riguarda un po’ tutto il trapanese: una terra che ha più di un tratto in comune con la regione di partenza83. Ma mentre, accennando alla somiglianza geografica e culturale delle due rive del Mediterraneo, riporta l’attenzione sulla vicinanza tra i popoli e sui risvolti positivi dello scambio del passato, Consolo lascia emergere la stortura del presente e individua in questa nuova migrazione l’inizio di una lunga serie di episodi di xenofobia e persecuzione84. Gli immigrati maghrebini, infatti, a Mazara in maniera significativa, ma anche altrove, divennero presto oggetto di sfruttamento, divennero strumento di speculazione politica, furono vittime di razzismo, caccia, di rimpatrio coatto. Nel 1999, in Di qua dal faro Consolo già lamenta l’assenza di previsioni, progettazioni, di accordi tra governi85. La vicenda dei tunisini del trapanese e quella di tutti coloro che hanno attraversato e attraversano le acque del Mediterraneo – ma in alcune pagine il discorso si estende al mondo intero – alla ricerca di una nuova vita sono parte di un’unica drammatica storia scandita dalle tragedie quotidiane di corpi senza vita86.
del pesce i cui protagonisti erano proprio i tunisini immigrati della casbah: Quatrième guerre punique, in “Sans frontières”, 30 settembre 1980. 83 Alla somiglianza tra Italia meridionale e Nord Africa Consolo fa riferimento in“Ci hanno dato la civiltà”, cit.. Sulla questione anche un articolo del 1981, Immigration africaine en Italie (“Sans frontières”, 3 gennaio 1981): l’Italia è la prima tappa dei migranti per necessità geografiche ma anche perché è una terra non veramente straniera. 84 L’olivo e l’olivastro, p. 865; Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, p. 1197. Nel precedente I guasti del miracolo (cit.) Consolo rileva lo scandalo del dopo terremoto di Mazara (7 giugno 1981): ai tunisini vengono negate le tende, perché stranieri e perché non votanti e quindi ininfluenti nelle imminenti elezioni regionali. 85 Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, pp. 1197-1198. 86 Uomini sotto il sole, in Di qua dal faro, p. 1202. In particolare l’espressione “d’altri, scoperti, gettati in pasto ai pescecani” allude ad un episodio specifico, già tema del racconto Memoriale di Basilio Archita (Le pietre di Pantalica, pp. 639-646): nel maggio 1984, l’equipaggio della nave Garyfallia, che al comando di Antonis Plytzanopoulos era salpata dal porto di Mombasa da poche ore, si rese colpevole della morte, in mare aperto, proprio in pasto ai
L’ombra del mito antico si affaccia a rappresentare il destino dei migranti: essi ripetono l’esilio di Ulisse, ma soprattutto sono Enea in fuga da una terra in fiamme, oppure sono Troiane, fatte schiave e costrette ad allontanarsi dalla propria patria87.
La condizione degli esseri umani nel mare nostrum sembra così trovare una sintesi nella citazione da Braudel – “in tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato”88–, originariamente riferita all’età di Filippo II. Ma ancor di più i versi eliotiani di Morte per acqua, che ritornano con frequenza sorprendente nei testi giornalistici e nelle prove narrative, riescono a parlare della realtà contemporanea. Già in Retablo l’episodio in cui la statua dell’efebo di Mozia si perde nel mare suscita la riflessione su un’altra perdita, che è ben più grave, quella delle vite umane che in ogni tempo si sono spente e si spengono nell’acqua, “sciolte nelle ossa” come Phlebas il fenicio89. In L’olivo e l’olivastro la citazione si lega esplicitamente alla memoria di un fatto di cronaca: nel 1981 il giovane Bugawi, vittima del naufragio del Ben Hur di Mazara, rimane in fondo al mare e “una corrente sottomarina / gli spolpò le
pescecani, di un gruppo di clandestini. I migranti non vengono sacrificati solo nel Mediterraneo: la vicenda, infatti, come ricorda anche la voce narrante del racconto, il siciliano Basilio Archita, si svolge al largo delle coste del Kenia. I responsabili sono un “manipolo di orribili greci, dai denti guasti e le braccia troppo corte, mostri assetati di sangue e di violenza” (S. Giovanardi, Imbroglio siciliano, in “La Repubblica”, 2 novembre 1988; Id., Le pietre di Pantalica, in S. Zappulla Muscarà, Narratori siciliani del secondo dopoguerra, cit., pp. 179-182), insomma non hanno niente a che fare con i valori dell’antica Grecia. E anche la citazione di Kavafis, in bocca ad uno di loro, stride nel confronto con il terribile delitto. 87 Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, cit., o in I muri d’Europa, cit., p. 25. Entrambi i testi si aprono con citazione dalle Troiane di Euripide (vv. 45-47) e dall’Eneide di Virgilio (II 707-710). 88 Ad esempio a conclusione di Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, p. 1198; Il mare, in La mia isola è Las Vegas, p. 222; Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, cit.; I muri d’Europa, cit., p. 30; nel discorso al convegno per Psichiatria democratica, Il Mediterraneo tra illusione e realtà, integrazione e conflitto nella storia e in letteratura, cit. La citazione è tratta da F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II (F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, cit., pp. 981-982). 89 Retablo, p. 453.
ossa in sussurri”90. Ma anche i naufraghi di Scoglitti91 sono Phlebas il fenicio, e lo sono tutti i morti del Mediterraneo, tutti quelli che le carrette stracariche e le responsabilità umane hanno lasciato affogare92. Dal 2002 in poi Consolo interviene in maniera decisa e con la consueta indignazione sull’intensificarsi del fenomeno migratorio e sulle responsabilità della politica. Già un testo del ‘90 evidenzia l’ampliamento smisurato del braccio di mare tra Sicilia e Nord Africa, ovvero, la distanza economica creatasi tra i due mondi93. Ancora di più gli articoli successivi, suscitati in particolare dalla legge Bossi Fini, si concentrano sul contrasto evidentissimo, soprattutto a Lampedusa e nelle altre Pelasgie, tra l’opulenza del turismo nella natura incontaminata e la disperazione dell’approdo dei migranti94. Il procedimento antifrastico con cui Consolo si finge sostenitore delle ragioni dei ricchi vacanzieri contro gli sbarchi invadenti degli stranieri evidenzia lo stridere dei due mondi: “Ma lì, a Lampedusa, inopinatamente vi giungono anche, mannaggia, gli emigranti clandestini”95. Così la bella Lampedusa diventa nuovamente scenario di guerra contro l’infedele, come nel poema ariostesco. Se la Lipadusa del Furioso, “piena d’umil mortelle e di ginepri / ioconda solitudi
90 L’episodio è rievocato, con citazione da Eliot, in L’olivo e l’olivastro, pp. 865-866. Nel giugno del 1981 appena dopo il terremoto che aveva colpito Mazara, gli armatori ebbero fretta di rimandare in acqua le navi. Nel naufragio del Ben Hur morirono cinque mazaresi e due tunisini. L’identità di questi rimase ignota per diversi giorni: un indizio della condizione di sfruttamento e illegalità in cui lavoravano gli stranieri. Sullo stesso episodio, sempre con riferimento a Phlebas il fenicio, si veda il già citato Morte per acqua, cit., o “Ci hanno dato la civiltà”, cit. 91 Dedicato ai morti per acqua, in “L’Unità”, 29 settembre 2002. La citazione dei versi di Eliot chiude l’articolo e, che mi risulti, è l’unico caso in cui il passo è riportato per intero. Consolo si riferisce a quanto avvenuto il 24 settembre 2002: uno scafista abbandona a 300 metri dalla spiaggia di Scoglitti il suo carico di migranti; le onde impediscono l’approdo, muoiono 14 persone. 92 Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, cit., o in I muri d’Europa, cit., p. 29. Meno esplicito il riferimento a Eliot in Immigrati avanzi del mare, in “L’Unità”, 18 giugno 2003, dove è l’aggettivo “spolpato” (“qualche corpo gonfio o spolpato finisce nelle reti dei pescatori”) che allude a Phlebas il fenicio. 93 Cronache di poveri venditori di strada, cit. 94 Il mondo di Bossi Fini stupido e spietato, in “L’Unità”, 29 agosto 2002. 95 Ibidem.
ne e remota / a cervi, a daini, a caprioli, a lepri”96, ospita il triplice duello di Orlando, Brandimarte e Oliviero contro i saracini Gradasso, Agramante e Sobrino, nel Duemila l’isola, divenuta da “remoto scoglio”, “meta ambitissima del turismo esclusivo”, è luogo d’approdo di pescherecci e gommoni che rovesciano il loro carico di clandestini: “i nuovi turchi, i nuovi invasori saracini”97. E – ancora è dominante l’antifrasi –, se non ci sono gli antichi paladini a combatterli e neppure le navi militari auspicate da Bossi, c’è però il mare “quel fascinoso mare azzurro e trasparente che d’improvviso s’infuria e travolge ogni gommone o peschereccio”98. Tanto più assurde si rivelano le leggi per gestire gli arrivi e, se già prima della Bossi Fini, Consolo lamentava la violazione sistematica dei diritti dell’uomo, dopo il 2002 è ancora più duro. Bersaglio polemico sono le nuove normative, più rigide di quelle previste dalla legge Martelli o dalla Turco-Napolitano: le nuove disposizioni prevedono che le carrette siano bloccate in acque extraterritoriali, “forse anche speronate e affondate. Con tutto il loro carico umano”99. Bersaglio polemico sono i centri di prima accoglienza che – scrive – non meriterebbero questo nome, perché piuttosto di lager si tratta, luoghi atroci, di violenza e umiliazione100. Bersaglio polemico è la diffusione di sentimenti xenofobi, suscitati dalla politica nella mentalità comune, ben rappresentata dall’io narrante del racconto eponimo di La mia isola è Las Vegas che invoca la costruzione di muri d’acciaio per arrestare la marea dei migranti101. In quest’ottica di critica alla nuova legge e all’inadempienza del dovere morale verso i migranti va letta la netta opposizione di Consolo al progetto di un museo della migrazione a Lampedusa, promosso nel 2004 dalla deputata regionale dell’Udc Giusy Savarino. A lei l’autore si rivolge pubblicamente dalle pagine di “La
96 Ariosto, Orlando Furioso, XL 45 vv. 3-4. Il passo è ricordato da Consolo in Lampedusa è l’ora delle iene, “L’Unità”, 28 giugno 2003. Ma si veda anche Isole dolci del dio, cit., pp. 33-35. 97 Lampedusa è l’ora delle iene, cit. 98 Ibidem. 99 Il mondo di Bossi Fini stupido e spietato, cit. 100 Ibidem ma anche Immigrati avanzi del mare, cit. 101 La mia isola è Las Vegas, in La mia isola è Las Vegas, p. 217.
Repubblica”, accusando l’ipocrisia profonda di una tale iniziativa102 e riflettendo su quanto sia irrimediabilmente compromessa l’identità dello spazio mediterraneo. Che cosa rimane del mare di miti e storia? Che cosa della mirabile convivenza tra culture diverse? Il monito dei reperti archeologici, delle narrazioni risulta poca cosa di fronte al mutamento dello sguardo collettivo sancito da leggi xenofobe e lager mascherati da centri di accoglienza: il mare si è fatto frontiera, confine, che gli altri, gli stranieri, non devono superare. Ed è contemporaneamente cimitero, spazio del sacrificio, della tragedia. Perciò il progetto di un museo a Lampedusa, l’isoletta dell’ariostesca lotta contro l’infedele, è, per Consolo, strumento di una retorica ipocrita, che non è giusto appoggiare: che senso avrebbe un monumento all’emigrazione, quando proprio i migranti vengono combattuti, respinti, lasciati morire in mare? Ma, d’altra parte, è il mondo intero ad aver subito una metamorfosi: si è mutato agli occhi dell’autore in un “im-mondo”, ovvero negazione di se stesso, perché preda della follia. La ripetizione dell’aggettivo “nostro”, associato sia allo spazio stravolto che alla massa di cadaveri, assume, nel testo in versi Frammento, toni accusatori, richiamando gli esseri umani alle proprie responsabilità nei confronti della morte di innocenti.
Nostri questi morti dissolti
nelle fiamme celesti,
questi morti sepolti
sotto tumuli infernali,
nostre le carovane d’innocenti
sopra tell di ceneri e di pianti.
Nostro questo mondo di follia.
Quest’im-mondo che s’avvia…103
102 Solo un monumento per gli immigrati, in “La Repubblica”, 21 agosto 2004. Sulla questione Consolo si era già espresso qualche giorno prima: Perché non voglio quel museo, in “La Repubblica”, 19 agosto 2004. 103 Frammento, in Per una Carta “visiva” dei Diritti civili, Viennepierre, Milano 2001, anche in “Microprovincia”, 48, gennaio-dicembre 2010, p. 5.
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L’opera di Vincenzo Consolo e l’identità culturale del Mediterraneo, fra conflitto e integrazione
Gianni Turchetta*
Introduzione
- Siciliano e milanese
Il libro che avete fra le mani nasce da un Convegno internazionale tenutosi a Milano il 6 e 7 marzo 2019, presso l’Università degli Studi di Milano, nella prestigiosa Sala Napoleonica di Palazzo Greppi.
Tenevo molto alla realizzazione di questo Convegno e ora sono felice di aprire questo volume. Tornerò subito sull’importanza di Consolo scrittore e intellettuale. Ma voglio anzitutto sottolineare fino a che punto il sicilianissimo Vincenzo Consolo, (nato a Sant’Agata di Militello il 18 febbraio 1933), che per tutta la vita ha parlato e scritto quasi solo della Sicilia, avesse messo radici a Milano, dove ha vissuto dal 1° gennaio 1968 (una data singolarmente simbolica) fino alla morte, avvenuta il 21 gennaio 2012. Questo volume esce anche ormai a ridosso del decennale della scomparsa, di cui intende aprire le celebrazioni. Come molti altri scrittori siciliani, Consolo si è trasferito a Milano: e come non pochi altri, Vittorini in testa, c’è rimasto poi fino alla fine. È vero anche però che, in non pochi momenti della sua vita, egli ha meditato seriamente sulla possibilità di andarsene, di tornare in Sicilia, o quanto meno al sud, per vari motivi: per nostalgia, forse per tutta la vita, ma fors’anche mai
convintamente; perché il sud avrebbe avuto bisogno di una guida intellettuale (soprattutto all’indomani della morte di Sciascia, tra fine anni Ottanta e inizio anni Novanta, anche per le sollecitazioni di Goffredo Fofi, a sua volta tornato da Milano a Napoli); perché deluso da un nord affarista e rapace, traditore della grande tradizione illuminista (si veda Retablo), politicamente sempre più a destra (soprattutto all’indomani dell’elezione di Formentini a Sindaco di Milano, nel 1993), e poco dopo berlusconiano. Eppure, nonostante tutto, Consolo alla fine è rimasto a Milano, per tante altre ragioni. E dunque non si fa certo una forzatura considerandolo, così come tanti altri meridionali diventati milanesi d’adozione (mi ci metto anch’io), non solo siciliano, ma anche milanese. Certamente Milano ha dato molto a Consolo. E d’altro canto Consolo ha ricambiato con una fedeltà profonda, più di quanto potrebbe apparire a prima vista. Era dunque doveroso che Milano, finalmente, gli dedicasse un grande Convegno, e che questo Convegno non restasse solo un
evento, ma diventasse una tappa importante nella bibliografia critica consoliana, diventata ormai molto ampia e ricchissima di contributi di studiosi non italiani, o trasferiti da molto tempo in sedi estere. Prima di entrare nel merito dell’argomento cui sono dedicati i saggi qui raccolti, voglio ancora fare due osservazioni preliminari. La prima riguarda la necessità di acquisire in pianta stabile Consolo alla percezione diffusa della letteratura italiana contemporanea, a quello che potremmo chiamare il senso comune o, se preferite, il canone. La pubblicazione delle opere di Vincenzo Consolo nei Meridiani Mondadori ne sancisce del resto definitivamente la statura di “classico”, di scrittore destinato a restare. Sfruttando la prestigiosa auctoritas di Cesare Segre: «Consolo è stato il maggiore scrittore italiano della sua generazione»1, quella cioè degli anni Trenta. Segre ha certo ragione, ma noi possiamo allargare anche di più la sua affermazione, ribadendo, senza mezzi termini, che Consolo è tout court uno dei massimi scrittori italiani del Secondo Novecento. La seconda osservazione ha a che vedere con la scelta di inquadrare Consolo in relazione all’identità mediterranea, o piuttosto all’intreccio inestricabile di identità che caratterizza il Mediterraneo. Guardare a Consolo da questa prospettiva significa certo, in prima approssimazione, ribadire la costanza e la profondità dei suoi discorsi sulla Sicilia: ma tenendo sempre presente che per Consolo
la Sicilia, come vedremo fra poco, è fisicamente centro e simbolicamente luogo esemplare di una realtà più ampia e complessa: quella appunto del Mediterraneo. Lo testimonia, fra, le altre cose, anche l’importante antologia in lingua inglese degli scritti di Consolo, Reading and writing the Mediterranean, curata da Norma Bouchard e Massimo Lollini2. Allo stesso tempo, leggere Consolo
sub specie Mediterranei ha significato collocarsi in una specola privilegiata, dalla quale egli appare fin dal primo momento in tutta la sua complessità, di scrittore ma anche di intellettuale a tutto tondo, impegnato senza tregua anche sul piano politico-culturale. Sarei quasi tentato di parlare di una sorta di paradosso che governa il lavoro di Vincenzo Consolo: ma credo sia più opportuno parlare di una tensione costitutiva, che fa del resto tutt’uno con la sua straordinarietà. Sperimentalismo e eticità: fra scrittura e militanza La scrittura consoliana nasce certo da una vocazione implacabile, tutta tesa verso un’idea di letteratura come linguaggio speciale, tanto
denso da sfidare la concretezza stessa del reale. In questa prospettiva, Consolo assegna alla letteratura una missione insieme impossibile e necessaria, che ha una profonda valenza etica e politica. Dopo la fine della stagione dell’engagement, Consolo chiede alla letteratura di essere pienamente, ferocemente letteratura, di distinguersi sempre dalle altre forme di comunicazione: comprese quella della quotidiana battaglia politico-culturale, condotta soprattutto sui quotidiani e in genere sui periodici a larga diffusione.
Questa duplicità gli consente di affiancare due operazioni molto diverse, se non antitetiche: denunciare le ingiustizie del mondo, da un lato, producendo parole che potrebbero, nonostante tutto, contribuire a cambiarlo; ma anche, da un altro lato, valorizzare senza sosta la bellezza e la ricchezza della vita. Non è certo un caso che questa duplicità permei in profondità proprio la rappresentazione della Sicilia, come mostra esemplarmente, fra gli altri, un romanzoromanzo
come Retablo.
Se la scrittura propriamente letteraria è protesa verso la mission impossibile di sfidare la densità delle cose e della realtà, d’altro canto Consolo non smette di praticare senza sosta un’idea
fortemente militante del lavoro intellettuale, mediante il quale lo scrittore, pur consapevole dei propri limiti, si batte per denunciare le ingiustizie del mondo, intervenendo senza soluzione di continuità nel dibattito culturale, in tutte le sedi disponibili. A fianco alla produzione propriamente letteraria, Consolo ha così realizzato un’immensa produzione saggistica e giornalistica, ancora pochissimo studiata, e che è necessario indagare. Egli ha infatti collaborato per decenni (dal 1966 al 2010) con numerosissime testate, fra le quali «L’Ora», «Il Messaggero», «La Stampa», il «Corriere della Sera», «l’Unità», «il Manifesto», «Repubblica», «L’Espresso». Solo una piccola parte di questa produzione è stata raccolta e ripubblicata in volume: il che equivale a dire che fra i lavori da fare ci sono non poche possibili nuove edizioni. Per ora in volume troviamo anzitutto i magnifici saggi, di impianto prevalentemente storico e letterario, raccolti in Di qua dal faro3, un libro che a sua volta riprende altri più piccoli volumi precedenti. Già questo volume affronta la storia, la cultura e la
letteratura siciliane in una prospettiva che si apre verso il Mediterraneo tutto, anticipando prospettive di studio oggi molto frequentate e ai quali certo il presente volume intende ricollegarsi.
Ma Di qua dal faro raccoglie solo una piccola parte della vasta produzione saggistica di Consolo. Sul versante giornalistico, possiamo leggere in volume anche un’antologia degli articoli pubblicati sul quotidiano di Palermo «L’Ora» tra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta4, durante la stagione straordinaria della direzione di Vittorio Nisticò5. È poi disponibile una scelta quasi completa dei suoi scritti sulla mafia6: dove, di nuovo, emergono l’urgenza e la drammaticità di tematiche legate alla Sicilia e al Meridione d’Italia, nella loro peculiarità ma anche nel loro più
ampio rapporto con i processi di modernizzazione della penisola. La maggior parte degli scritti saggistici e militanti di Consolo resta però sparpagliata nelle diverse sedi in cui è uscita e in una piccola galassia di libretti di pressoché impossibile reperibilità. Consolo ha svolto un’attività giornalistica di ampiezza e intensità davvero straordinarie: mi permetto di rimandare, a questo proposito, alla bibliografia da me curata per il Meridiano7, che nella sua (quasi) esaustività consente di farsi un’idea precisa e fondata. E pensare che alcuni critici hanno detto che Consolo era “pigro”: bibliografia alla mano, pare proprio difficile sostenerlo! È vero solo, semmai, che egli ha scritto un numero relativamente limitato di libri propriamente di letteratura: questo è avvenuto proprio perché, quando scriveva «letteratura», costruiva delle macchine semiotiche ed espressive di natura assai diversa da quelle realizzate negli articoli e nei saggi, macchine che chiedevano una costruzione lentissima, sviluppata nel corso di anni interi. D’altro canto, per tutta la vita, o per lo meno dagli
anni immediatamente successivi all’esordio con La ferita dell’aprile 8, la scrittura letteraria è stata sempre affiancata da quella lato sensu giornalistica. Già i volumi a nostra disposizione ci consentono di cogliere fino a che punto Consolo fosse presente con grande costanza nella vita pubblica e nella vita politica, sempre ben salvaguardando la sua specificità di intellettuale, secondo un modello che deriva dalla cultura francese, da Émile Zola e dallo stesso Jean-Paul Sartre (entrambi citati più volte nei suoi scritti militanti). Consolo era, insomma, un intellettuale sempre pronto a parlare della realtà, del presente, della quotidianità, spesso toccando temi caldi e problematici, con un coraggio e una spregiudicatezza mai disponibili al compromesso, segnati da un’eticità rigorosissima, senza incrinature. Per dirla in modo un po’ colloquiale: Consolo non le mandava mai a dire, e questo, non lo si dimentichi, gli ha procurato non poche ostilità, delle quali si curava poco o nulla. Anche da questo punto di vista il suo esempio è davvero ammirevole. Vorrei persino dire che, pur rifiutando sempre le non poche sollecitazioni a scendere in politica9, a suo modo Consolo ha sempre fatto politica, per quanto in maniera molto diversa e lontana da quella dei politici professionali. - “Io non so che voglia sia questa”: l’ossessione della Sicilia Cominciamo a dirlo con le sue parole:
Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta d’addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca.10
Consolo ha sempre in mente la Sicilia, ne parla sempre. Un po’ la vuole, e un po’ però è lui il primo a non volerci tornare: la ama e non la sopporta, la desidera e gli ripugna. Rappresentare la Sicilia da
lontano ha significato per lui anche vivere l’ossessione della Sicilia nei termini, consapevolmente contraddittori di necessità del ritorno, ma anche di impossibilità del ritorno. Significativamente, egli ha reinventato il mito di Ulisse alla sua maniera, parlandoci di un Ulisse che non ha più un’Itaca dove tornare, della quête ormai impossibile di una patria e di un’origine che ormai non esistono più. Consolo è ossessionato da questa sua patria che non è più quella di prima, che non è più patria: ma parlando della Sicilia parla con ogni evidenza di tutto un mondo dove la perdita delle radici è la regola, dove non è più possibile affidarsi a un’appartenenza originaria, che rischia di essere mistificata e mistificatoria. Ma che Sicilia è la Sicilia di Consolo? Ancora una volta la contraddizione è vitale: da un lato è una Sicilia costruita con un’attenzione documentaria rigorosa. Da questo punto di vista, Consolo si comporta in molti casi quasi come uno specialista, uno storiografo di professione. Frequentando a lungo le sue carte ho potuto vedere bene in che modo egli arrivasse a costruire i suoi testi letterari, quasi sempre raccogliendo documenti e materiali vari per anni. Nel caso del Sorriso dell’ignoto marinaio (la cui costruzione ha richiesto tredici anni di lavoro) Consolo narra della cruenta rivolta contadina di Alcàra Li Fusi, del maggio 1860, poi repressa con violenza. Per ricostruirla non solo studia libri di storia, ma va in archivio, cercando le carte di quella vicenda: si procura, per
esempio, i certificati di morte dei rivoltosi condannati alla fucilazione. Quando infatti, alla fine del Sorriso, leggiamo proprio un certificato di morte, quello del bracciante Peppe Sirna, non siamo davanti a un’invenzione, ma a un documento autentico, che certo ha anche la funzione simbolica di farci percepire il contrasto terribile fra la nuda povertà di un certificato di morte, delle sue poche, gelide, burocratiche parole, che sono un quasi-nulla, e la vigorosa intensità della vita in corso, in particolare quella che avevamo percepito nel cap. V, dove la rappresentazione passa proprio attraverso il punto di vista di Peppe Sirna, messo in scena nelle sue fatiche, nelle sue percezioni e nei suoi pensieri. Consolo lavora così in molte occasioni: raccoglie i materiali come uno storiografo e si confronta con la documentazione, nella sua oggettività. Ma al tempo stesso non smette di mostrarci la soggettività di ogni punto di vista e la prospetticità di ogni visione del mondo. La Sicilia che egli rappresenta è del resto sì concretissima, ma può essere anche sottoposta a una torsione mitizzante che la rende persino fiabesca, come accade soprattutto in Lunaria, ma anche in Retablo. In ogni caso, la sua Sicilia è, come dire?, una Sicilia-Sicilia, fedele alla propria identità, ma al tempo stesso non
cessa di essere anche “altro”, di funzionare come una metafora ad alta densità, dotata di una energica tensione generalizzante. Anche la Sicilia di Consolo, com’era accaduto alla Lucania di Carlo Levi, si fa intensa rappresentazione del Sud del mondo e dei processi di modernizzazione che distruggono il mondo contadino: li vediamo all’opera in Italia, ma anche in tante altre nazioni, soprattutto extraeuropee. Anche se ci parla di come i processi di modernizzazione stiano distruggendo molte civiltà, in Consolo non c’è mai un atteggiamento nostalgico, la facile retorica sui bei tempi andati. È necessario ricordare, a questo proposito, come lo stesso plurilinguismo consoliano nasca dall’intenzione di conservare, attraverso la letteratura, parole che rischiano di perdersi, e, attraverso le parole, le culture, i punti di vista sul mondo, i modi di vita che esse portano
in sé. Nella scrittura di Consolo vi è insomma una grande preoccupazione antropologica, oltre che storica, coerentemente con la sua costante attenzione alla longue durée. Parlando della Sicilia Consolo ci racconta una storia drammatica, anche perché molte volte i cambiamenti sono parsi offrire delle possibilità di rinnovamento, di liberazione, che poi però sono andate perdute e hanno deluso. Al di qua e al di là della Storia, per Consolo la Sicilia è però anche una densa metafora dell’ambivalenza della vita. In fondo in Sicilia c’è tutto quello che si potrebbe desiderare per
essere felici: una cultura millenaria, con straordinari monumenti, dalla protostoria alla Magna Grecia, dalla romanità al Medioevo, al Barocco, al Liberty; una natura rigogliosa e varia; una cultura stratificata e ricchissima; anche, perché no?, una cucina tra le più raffinate del mondo. Detto in due parole, la Sicilia potrebbe forse essere il migliore dei mondi possibili. Eppure per molti versi è quasi il
contrario: è un mondo tragicamente violento e corrotto, pieno di orrori, tanto da rendersi persino proverbiale, visto che nel mondo intero è proprio una parola siciliana, mafia, a indicare tutte le forme
di criminalità organizzata. Rispetto alla rappresentazione dell’ambivalenza della Sicilia, Retablo11 è un testo esemplare: vi troviamo deliziosi incontri tra amici e nuove amicizie che nascono; ma al tempo stesso assistiamo alla rappresentazione di un orrore innominabile, senza fine. Si pensi, fra le altre, alla scena delle prostitute a cui per punizione viene tagliato il naso12. Una violenza atroce, quella delle mutilazioni come pena legale, che si praticava nel mondo passato, certo (e dunque… come idealizzarlo?): ma che continua ad accadere ancora oggi in non poche parti del mondo…
La Sicilia appare dunque in Consolo come un luogo in cui vi è tutto il male e tutto il bene, ed è di conseguenza anche per questo un’immagine della vita tutta, un luogo «bellissimo e tremendo», per
riprendere un’espressione di Consolo stesso13. La Sicilia si fa insomma metafora della vita, della sua bellezza straordinaria e della sua terribile violenza, che convivono. D’altro canto, Consolo non
cade mai in un vizio tipico dei letterati: quello di collocare tutto in «un tempo senza tempo», di parlare di ogni violenza e di ogni tristezza come di qualcosa di eterno, segno di un destino immodificabile e senza scampo. Non a caso del resto Consolo polemizza duramente con chi, come Tomasi di Lampedusa, pensa che la Storia sia inesorabilmente uguale a se stessa, che in essa «cambia tutto» perché «non cambi niente». Tutt’al contrario, Consolo ci ricorda in continuazione che i cambiamenti sono storicamente determinati: e che quindi bisogna continuare a combattere per provare a cambiare. “Non un paesaggio ma innumerevoli paesaggi”: il mosaico Mediterraneo
Se la Sicilia funziona come chiave per la lettura del mondo tutto, questo avviene anche e proprio perché la Sicilia è per Consolo una sorta di sintesi del Mediterraneo, cioè di un’area talmente ricca sul piano storico e culturale da poter valere come equivalente del mondo tutto: Perché è da qui che vogliamo partire, per un nostro viaggio, per una nostra ricognizione della Sicilia, per inventarci, liberi come siamo da confini di geografia, da limiti d’epoca storica o da barriere tematiche, un modo, tra infiniti altri, per conoscere quest’isola al centro del Mediterraneo, questo luogo d’incrocio d’ogni
vento e assalto, d’ogni dominio e d’ogni civilizzazione.14 L’ambiguità sintattica, che permette di interpretare sia la Sicilia sia il Mediterraneo come il “luogo d’incrocio d’ogni vento e assalto, d’ogni dominio e d’ogni civilizzazione” finisce per ribadire sul piano semantico la possibilità che la Sicilia sia una sorta di equivalente del Mediterraneo tutto, con le sue caratteristiche di molteplicità e, di più,
di totalità. Già i saggi contenuti in Di qua dal faro15 vanno del resto, fin dal titolo, in una direzione apertamente mediterranea. Il titolo infatti evoca polemicamente un modo di dire dei Borboni, che con l’espressione «Di là dal faro» designavano appunto la Sicilia, vista dal continente, e più specificamente da Napoli, come la parte del loro regno collocata al di là del faro di Messina: una regione a cui guardavano evidentemente con sufficienza e distacco. La prospettiva opposta, quella «di qua dal faro», implica invece uno sguardo partecipe, ma al tempo stesso, mentre sottolinea la
centralità della Sicilia, intende sottolineare proprio la necessaria apertura verso il Mediterraneo tutto: la Sicilia, dunque, come mondo “altro”, ma emblematico di un mondo più vasto. Quanto ricco sia il
Mediterraneo di Consolo verrà mostrato con ampiezza e profondità dai saggi qui raccolti. E voglio ricordare anche la recente uscita di un’importante monografia di Ada Bellanova su La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo, un volume che indaga ampiamente la mediterraneità di Consolo16. La dimensione mediterranea dell’opera di Consolo chiama in causa, come accennato poco sopra, un’identità che va declinata su una profondità storica straordinaria, plurimillenaria, di longue durée. In questa chiave, la storia si fa antropologia, anche perché chiama in
causa gesti antichi, azioni che fondano le comunità umane: la raccolta e la produzione dei cibi, la produzione di oggetti, l’acquisizione delle risorse, e, in generale, quelle che potremmo chiamare le azioni del lavoro umano. Non a caso, in Di qua dal faro si trovano tante “storie” (straordinarie) che ci parlano direttamente di queste azioni, di questi gesti: si pensi alle ricostruzioni della storia dell’estrazione dello zolfo, una grande vicenda economica e antropologica della storia italiana, o della pesca del tonno17. Certo il Mediterraneo è uno spazio fortemente identitario. Ma si tratta di
un’identità caratteristicamente plurale, perché composta da un mosaico complessissimo di tempi lingue culture etnie. Il Mediterraneo è un piccolo mare, certo, ma che tocca in un piccolo spazio tre continenti, in un’area segnata da una storia tanto antica da configurarsi per molti aspetti come la culla non di una, ma di molte civiltà. Ce lo ricordano, fra molte altre, le parole di uno dei più
grandi esperti di tutti i tempi della storia mediterranea, Fernand Braudel: Che cos’è il Mediterraneo? Mille cose insieme. Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma una serie di civiltà accatastate le une sulle altre. Viaggiare nel Mediterraneo significa incontrare il mondo romano in Libano, la preistoria in Sardegna, le città
greche in Sicilia, la presenza araba in Spagna, l’Islam turco in Iugoslavia. Significa profondare nell’abisso di secoli, fino alle costruzioni megalitiche di Malta o alle piramidi d’Egitto. Significa incontrare realtà antichissime, ancora vive, a fianco dell’ultramoderno: accanto a Venezia, nella sua falsa immobilità, l’imponente agglomerato industriale di Mestre; accanto alla barca del pescatore, che è ancora quella di Ulisse, il peschereccio devastatore dei fondi marini o le enormi petroliere.
Significa immergersi nell’arcaismo dei mondi insulari e nello stesso tempo stupire di fronte all’estrema giovinezza di città molto antiche, aperte a tutti i venti della cultura e del profitto, e che da secoli sorvegliano e consumano il mare.18 Lettore attento di Braudel, con ogni evidenza anche Consolo colloca il Mediterraneo sotto il segno della pluralità, che ritroviamo in tutti gli studi più autorevoli sul mare nostrum. Mi verrebbe persino da dire che la stessa scrittura consoliana, così programmaticamente plurale, intende in qualche modo echeggiare proprio quella pluralità.
Spazio millenario di intensi scambi e di ricchissima produzione culturale, nel Mediterraneo culture diversissime si sono mescolate, integrandosi prodigiosamente (si pensi alla civiltà arabo-sicula, o a
un fenomeno linguistico come il sabir, la lingua franca dei porti del Mediterraneo, che mescola lingue romanze e lingue semitiche) o tragicamente scontrandosi e combattendosi. Le scritture di Consolo evocano continuamente lo spessore storico delle vicende che hanno attraversato il Mediterraneo, proiettandole in modo sistematico sull’attualità, e mostrando come la straordinaria ricchezza multilinguistica e multi-culturale del Mediterraneo possa costituire un punto di riferimento per l’interpretazione della realtà contemporanea e per l’individuazione di strategie di integrazione.
La forza del riferimento all’identità mediterranea sta anche nel fatto che lo spazio del Mediterraneo rende problematiche molte opposizioni che siamo soliti dare per scontate, a cominciare da quelle, insieme geografiche e metaforiche, di nord vs sud e est vs ovest. Ragionare in termini di mediterraneità significa così, di necessità, fare sempre riferimento a un’identità composita, che nega
ogni semplificazione identitaria: proprio quel tipo di semplificazione da cui derivano le elementari, forzatissime e opportunistiche narrazioni sovraniste e populiste. Per sua stessa costituzione,
proprio l’identità mediterranea ci chiede continuamente di essere di nuovo decifrata, ci impone di non smettere mai di fare i conti con qualcosa che è sempre stata problematica, e che, per sovrapprezzo, gli ultimi anni hanno, drammaticamente, reso ancora più problematica e conflittuale. A questo proposito, è difficile trovare parole più esatte di quelle di un altro gigante degli studi mediterranei, Predrag Matvejević: l’Europa, il Magreb e il Levante; il giudaismo, il cristianesimo e l’Islam; il Talmud, la Bibbia e il Corano; Gerusalemme, Atene e Roma; Alessandria, Costantinopoli,
Venezia; la dialettica greca, l’arte, la democrazia; il diritto romano, il foro e la repubblica; la scienza araba; il Rinascimento in Italia, la Spagna delle varie epoche, celebri e atroci; gli Slavi del sud sull’Adriatico e molte altre cose ancora. Qui popoli e razze per secoli hanno continuato a mescolarsi, fondersi e contrapporsi gli uni negli altri, come forse in nessuna ragione di questo pianeta. Si
esagera evidenziando le loro convergenze e somiglianze, e trascurando invece i loro antagonismi e le differenze.19 Fra conflitto e integrazione, appunto, come nel nostro titolo. Parlare di Mediterraneo, non a caso, significa così anche denunciare la violenza che in questo spazio è stata e continua a essere esercitata. Ce lo ricorda ancora Braudel, in un passo che Consolo ha non a caso citato più di una volta: “In tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato, e vi conosce tutte le miserie, gli orrori e le santità degli universi concentrazionari”20. Consolo è stato, non per caso, uno dei più lucidi e tempestivi nel cogliere le nuove direzioni della violenza nel Mediterraneo, a cominciare da quella esercitata sui migranti, su cui torneremo fra pochissimo. Pochi come lui hanno capito subito, fin dagli anni Ottanta, che Il Mediterraneo oggi, forse per la prima volta nella propria storia millenaria vede intaccato il mito che costantemente lo ha accompagnato, quello della culla delle culture, delle civiltà, delle tre grandi religioni monoteistiche, per vederlo sostituire da un mito sommario, cumulativo, a grappolo, quasi, ed è quello che presenta il Mediterraneo come un mare pericoloso 21 La vibrata, lucida polemica di Andrea Gialloreto, Srećko Jurišić, Eliana Moscarda Mirković ci riporta, dolorosamente, a un contesto odierno dove purtroppo il confitto sembra prevalere sull’integrazione. Non sono pochi gli scenari in cui il peggioramento e il degrado sono
tragicamente evidenti, è fin troppo facile ricordarli: a cominciare dalla Siria, per proseguire con l’Algeria, la Libia, l’Egitto. Caterina Consolo ricordava con rimpianto gli anni in cui lei e Vincenzo potevano viaggiare da soli in vari paesi del Magreb, semplicemente noleggiando una macchina e girando in tutta tranquillità. Difficile immaginare oggi qualcosa di simile. Certo, il degrado dell’oggi
rimanda a tanti altri momenti e luoghi in cui sono prevalse la violenza e la conflittualità. A questo proposito, è opportuno ricordare che la tesi di laurea in Giurisprudenza di Consolo, discussa il 18 giugno 1960, si intitolava La crisi attuale dei diritti delle persone 22. Una volta di più, la prospettiva consoliana si mostra acutissima, sempre lucida davanti alla realtà presente. Per vari aspetti risulta impressionante, per la sua tempestività, l’insistenza di Consolo nel segnalare il dramma dei migranti africani e la frequenza delle tragedie in mare legate ai loro flussi attraverso il Mediterraneo, fin dagli anni Ottanta: si pensi a un racconto come il Memoriale di Basilio Archita 23, scritto addirittura nel 1984, una data incredibilmente precoce. Già allora, Consolo intuiva quanto Ian Chambers oggi può affermare senza incertezze: Il migrante moderno è colui che più intensamente delinea questa costellazione [attuale dell’ordine planetario]. Sospeso nell’intersecarsi di un’espropriazione
economica, politica e culturale, è colui/colei che porta le frontiere dentro di sé. […] Il/la migrante non è puramente un sintomo storico della modernità; piuttosto è l’interrogazione condensata dell’identità vera e propria del soggetto politico moderno.24 Va aggiunto peraltro che Consolo ha dato anche costante attenzione alla pluri-direzionalità e periodicità dei flussi migratori. Si pensi, in particolare, ai suoi ripetuti riferimenti all’emigrazione dei siciliani in Tunisia: ancora oggi un quartiere di Tunisi si chiama “Petite Sicile”. Proprio in Tunisia emigra, fra gli altri, il protagonista Petro Marano al termine di Nottetempo, casa per casa25. Vi proporrò ora, per avviarmi al termine del mio percorso, un esempio molto caratteristico della capacità di Consolo di leggere lucidamente, criticamente la realtà, e insieme però di fondere la lettura del presente con la possibilità di attribuirgli, tramite la tensione espressiva e la forza mitizzante della letteratura, una più ampia dimensione simbolica: così da far convivere metafora e storia, sperimentazione e tensione etica, poesia e politica, in una miscela che non smette di essere rarissima. Certo, oggi abbiamo tutti
presente ciò che sta succedendo in Europa e nel mondo: dove migliaia, centinaia di migliaia, milioni di persone migrano, si spostano e spesso muoiono nel tentativo di emigrare. Moltissimi, lo sappiamo, soccombono tragicamente nel canale di Sicilia e al largo delle coste dell’Egeo, uccisi “dall’acqua”. In tempi molto lontani Consolo ha cominciato a cogliere questo movimento che oggi è sotto gli occhi di tutti e che ha preso proporzioni così ampie da diventare uno degli argomenti centrali in discussione nell’agenda politica dell’Unione Europea. Se ne parla tutti i giorni, e ci si scontra su questo: i muri, le quote, i soldi alla Turchia e i ricatti di Erdogan, gli imbarazzi politici
della Merkel e di Macron, le polemiche di Salvini e di Meloni. Come abbiamo visto, Consolo ha capito prestissimo la rilevanza del fenomeno. È chiaro: egli guarda al presente, alla storia, al Meridione nostro e al Meridione del mondo, cogliendo il suo e nostro presente con rara tempestività e profondità, prima di tanti altri. Ma se consideriamo questa sua percezione da un altro lato, ci
accorgeremo che, ben da molto prima, Consolo dà corpo anche a un’ossessione letteraria, ben più antica, che lo rincorre fin dai primissimi racconti (si veda Un sacco di magnolie, 195726) e poi
ricorrerà per tutta la sua carriera di scrittore: l’immagine del morto in acqua e “per acqua”. Ben prima che le migrazioni nel Mediterraneo diventassero cronaca quotidiana, Consolo riprende infatti più e più volte l’immagine della Death by water della Waste Land di Thomas Stearns Eliot, sezione IV, con la figura di Phlebas il fenicio, morto nell’affondamento della sua nave. La forza mitizzante di lungo
periodo della letteratura diventa così a sua volta uno strumento privilegiato per cogliere la realtà presente. Una volta di più, metafora e storia si incontrano: così che l’ossessione letteraria fa tutt’uno con la profondità e la lucidità nello scandaglio del reale. La grandezza di Consolo sta anche qui.
I saggi raccolti nel presente volume concentrano l’attenzione su un amplissimo ventaglio tematico relativo all’emergere, in molteplici forme, delle questioni mediterranee in tutta l’opera di Consolo, sia
nelle opere propriamente letterarie, sia nelle prose saggistiche e giornalistiche. Ma è noto che uno dei tratti caratteristici della scrittura di Consolo sta anche nel rimescolare generi e stili. La ricchezza
della proposta interpretativa qui proposta vuole rispondere anche e proprio sia alla pluralità così caratteristica della dimensione mediterranea, sia alla pluralità che caratterizza costitutivamente la
scrittura di Consolo, e anche, più largamente, la sua fisionomia intellettuale e umana. In pochi rapidi cenni, ricorderò ora che Dominique Budor (Université Sorbonne Nouvelle), con “Gli inverni della storia” e le patrie immaginarie, approfondisce il ruolo dell’immagine di Milano, “patria immaginaria”, da un lato, e della Francia da un altro. Sebastiano Burgaretta, con L’illusione di Consolo tra metafora e realtà, mette a fuoco soprattutto la produzione saggistica di Consolo dedicata alla Sicilia (includendovi anche un testo peculiare per genere e per tono come La Sicilia passeggiata), nell’ottica privilegiata del discorso sul Mediterraneo di cui la Sicilia è centro e crocevia. Miguel Ángel Cuevas (Universidad de Sevilla), in Della natura equorea dello Scill’e Cariddi: testimonianze consoliane inedite su Stefano D’Arrigo, ripercorre il rapporto profondo e per certi aspetti portante fra Consolo e l’autore di Hocynus Orca, indagandone diramazioni letterarie e linguistiche. Rosalba Galvagno (Università degli Sudi di Catania), con Il «mondo delle meraviglie e del contrasto». Il Mediterraneo di Vincenzo Consolo, delinea un denso e intenso ritratto del Mediterraneo consoliano, che diventa una chiave privilegiata per delineare “il destino, cioè il senso” della sua scrittura. Salvatore Maira, in Parole allo specchio, ci regala un intenso, vivo ricordo, legato soprattutto alla scrittura condivisa della sceneggiatura cinematografica derivata da Il sorriso dell’ignoto marinaio: vicenda che diventa la specola per guardare a Consolo da un punto di vista originale. Nicolò Messina (Universitat de València) costruisce un’attenta Cartografia delle migrazioni in Consolo: una questione cruciale, come abbiamo visto, che Messina indaga a partire da un censimento pressoché completo delle occorrenze della parola Mediterraneo e dei suoi derivati. Facendo perno sull’antitesi fra conflitto e integrazione, Messina mette a fuoco appunto “l’idea di un’identità del Mediterraneo, esaltata proprio dalle migrazioni e dai suoi attori”27. Daragh O’Connell (University College Cork), in La notte della ragione:
Nottetempo, casa per casa fra poetica e politica, studia nel dettaglio, nella chiave qui proposta, il ruolo del secondo romanzo storico consoliano, strategico anche perché, come ebbe a dire l’autore, nato da “un sentimento nuovo di responsabilità all’indomani del vuoto lasciato da Sciascia nel panorama della letteratura europea e italiana”28. Marina Paino (Università degli Sudi di Catania), in La scrittura e l’isola, indaga in profondità soprattutto le relazioni fra la scrittura di Consolo, “i miti mediterranei del nostos e dell’isola” e “la scrittura o meglio gli autori siciliani”29. Carla Riccardi (Università degli Studi di Pavia), con Da Lunaria a Pantalica: fuga e ritorno alla storia?, costruisce un denso percorso fra alcune opere consoliane, lette come una “ricerca su come afferrare la realtà, la storia con tutta la strumentazione che si vale di parole”30, in una fascinosa varietà di generi e stili. Irene Romera Pintor (Universitat de València), in All’ombra di Vincenzo Consolo: esperienze a confronto, rende conto felicemente delle molte sfide poste dalla traduzione in spagnolo di
Consolo, nella consapevolezza dell’importanza delle traduzioni per comunicare al pubblico del presente e del futuro l’“immensa ricchezza culturale, linguistica e umana”31 della Sicilia, e del mondo, che lo scrittore santagatese ha voluto trasmettere. Corrado Stajano, con Un grande amico, ci offre un lucido e insieme toccante ricordo delle tappe cruciali di una grande, profonda, amicizia, durata tutta una vita, nelle sue complesse vicissitudini. Infine Giuseppe Traina (Università degli Sudi di Catania), in Per un Consolo arabomediterraneo, interpreta in modo articolato e persuasivo i diversi
modi, fra loro intrecciati, in cui Consolo ci parla della presenza araba: quello “memoriale, di marca geografico-artistica”32; quello storico-sociologico; quello più marcatamente letterario; quello politico. Per finire, il quadro che emerge ci mostra, se ce ne fosse stato ancora bisogno, fino a che punto la scrittura di Consolo continui a interrogare il nostro presente. Nei suoi testi balena del resto, con grande forza, una percezione della Storia molto vicina a quella di un altro autore a lui molto caro, Walter Benjamin: “La storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è il tempo omogeneo e vuoto, ma quello pieno di «attualità»”33. Che scriva romanzi storico-metaforici, testi dalla problematica identità di genere (come Lunaria o L’olivo e l’olivastro), saggi o articoli di quotidiano, Consolo continua comunque a mettere in questione il nostro presente, e a ricordarci che la Storia è sempre adesso.
Ringraziamenti
Grazie all’Università degli Studi di Milano, che ha ospitato il
Convegno, e concesso i fondi di ricerca che hanno consentito la
pubblicazione del presente volume. Grazie al Rettore Elio Franzini,
ai colleghi Paola Catenaccio e Dino Gavinelli, che sono intervenuti
all’apertura del Convegno. Un ringraziamento speciale all’amico
Stefano Raimondi, che ha voluto con forza la collana in cui il volume
esce, e a Francesca Adamo, che con la consueta perizia ne ha
curato la redazione. Grazie di cuore a tutti i relatori, e anche ai non
pochi colleghi che avrebbero voluto partecipare al Convegno: non
era possibile invitare tutti, ma anche il desiderio di esserci è una
bella testimonianza dell’ammirazione e della passione che
circondano Consolo, in Sicilia, a Milano, e in molti altri paesi.
- Università degli Studi di Milano
1 C. SEGRE, Un profilo di Vincenzo Consolo, in V. CONSOLO, L’opera completa,
a cura e con un saggio introduttivo di G. Turchetta e uno scritto di C. Segre,
Mondadori, Milano 2015, p. XI.
2 V. Consolo, Reading and writing the Mediterranean. Essays by Vincenzo
Consolo, a cura di N. Bouchard e M. Lollini, University of Toronto Press,
Toronto-Buffalo-London 2006.
3 V. Consolo, Di qua dal faro, Milano, Mondadori, 1999; ora in Id., L’opera
completa, cit., pp. 977-1260.
4 V. Consolo, Esercizi di cronaca, a cura di S. Grassia, Prefazione di S.S.
Nigro, Sellerio, Palermo 2013.
5 Di cui possiamo leggere il lucido e appassionato racconto in V. Nisticò,
Accadeva in Sicilia. Gli anni ruggenti dell’«Ora» di Palermo, Sellerio, Palermo
2001.
6 V. Consolo, Cosa loro, a cura di N. Messina, Bompiani, Milano 2017.
7 Bibliografia, Opere di Vincenzo Consolo, in V. Consolo, L’opera completa,
cit., pp. 1481-1517.
8 La ferita dell’aprile, Milano, Mondadori, 1963; poi Torino, Einaudi, 19772; poi
Milano, Mondadori 19893 (con introduzione di G. C. Ferretti); ora in Consolo,
V., L’opera completa, cit., pp. 3-122.
9 In particolare nel 1988-1989, quando Consolo venne sollecitato a candidarsi
come indipendente nelle liste del PCI per le elezioni europee da Aurelio
Grimaldi prima, e poi dallo stesso Segretario del Partito Achille Occhetto; cfr.
G. Turchetta, Cronologia, in V. Consolo, L’opera completa, cit., p. CXXXIII.
10 V. Consolo, Comiso, in Le pietre di Pantalica, Milano, Mondadori, 1988;
19902 (a cura e con introduzione di G. Turchetta, G.); ora in V. CONSOLO,
L’opera completa, cit., p. 632.
11 V. Consolo, Retablo, Palermo, Sellerio, 1987; ora a in V. CONSOLO, L’opera
completa, cit., pp. 365-475.
12 Ivi, p. 400.
13 V. Consolo, Viaggio in Sicilia, in Id., Di qua dal faro, Milano, Mondadori,
1999; poi in Id., L’opera completa, cit., p. 1224.
14 V. Consolo, La Sicilia passeggiata, ERI, Torino, 1991; poi con Prefazione di
G. Turchetta, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI) 2021, p. 18.
15 Id. Di qua dal faro, Milano, Mondadori, 1999; ora in V. CONSOLO, L’opera
completa, cit., pp. 987-1260.
16 A. Bellanova, Un eccezionale Baedeker. La rappresentazione degli spazi
nell’opera di Vincenzo Consolo, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI) 2021.
17 Un uomo di alta dignità, Introduzione a ‘Nfernu veru. Uomini & immagini dei
paesi dello zolfo, a cura di A. Grimaldi, Edizioni Lavoro, Roma 1985, pp. 9-
32, poi col titolo Uomini e paesi dello zolfo, in Di qua dal faro, cit., pp. 981-
1006; La pesca del tonno in Sicilia, in La pesca del tonno in Sicilia, con saggi
di R. Lentini, F. Terranova ed E. Guggino; schede di S. Scimè; glossario di M.
Giacomarra, Sellerio, Palermo 1986, pp. 13-30; poi in Di qua dal faro, cit., pp.
1007-1039.
18 F. Braudel, Il Mediterraneo. Lo spazio, la storia, gli uomini, le tradizioni
(1985), trad. it. di E. De Angeli, Bompiani, Milano 1987, 20193, pp. 5-6.
19 P. Matvejević, Breviario mediterraneo (1987), trad. ital. di S. Ferrari,
Garzanti, Milano 1991, 20062, pp. 18-19.
20 F. Braudel, Civiltà e Imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II (1949), trad.
it. di C. Pischedda, Einaudi, Torino 1976, vol. I, pp. 921-922.
21 A. Gialloreto, S. Jurišić, E. Moscarda Mirković, Introduzione, in Oceano
Mediterraneo. Naufragi, esili, derive, approdi, migrazione e isole lungo le rotte
mediterranee della letteratura italiana, a cura di Id., Franco Cesati, Firenze
2020, p. 9.
22 Per ulteriori dettagli si veda G. Turchetta, Cronologia, in V. Consolo, L’opera
completa, cit., p. CV.
23 Uscito per la prima volta con il titolo Il capitano ordinò “buttateli agli squali”,
«L’Espresso», 3 giugno 1984, pp. 55-64, venne poi inserito con il titolo
Memoriale di Basilio Archita in Le pietre di Pantalica, cit., pp. 639-646. Per
ulteriori dettagli si veda G. Turchetta, Note e notizie sui testi, in V. Consolo,
L’opera completa, cit., pp. 1371-1372 e 1383.
24 I. Chambers, Mediterranean Crossings. The Politics of an Interrupted
Modernity (2007), trad. ital. di S. Marinelli, Le molte voci del Mediterraneo,
Raffaello Cortina Editore, Milano 2007, p. 7.
25 V. Consolo, Nottetempo, casa per casa, Milano, Mondadori, 1992; ora in V.
CONSOLO, L’opera completa, cit., p. 755.
26 Ora in V. Consolo, La mia isola è Las Vegas, a cura di N. Messina,
Mondadori, Milano 2012, pp. 7-10.
27 Cfr. infra, p. 109.
28 Cfr. infra, p. 134.
29 Cfr. infra, p. 156.
30 Cfr. infra, p. 167.
31 Cfr. infra, p. 197.
32 Cfr. infra, p. 209.
33 W. Benjamin, Tesi di filosofia della Storia (1940), Tesi n. 14, in Id., Angelus
Novus. Saggi e frammenti (1955), trad. e introduzione di R. Solmi, Einaudi,
Torino, 1962, 19813, p. 83.
LO SPASIMO DI PALERMO FRA CRISI E MEMORIA
Cinzia Gallo
Università di Catania
Riassunto Lo Spasimo di Palermo è esempio di una crisi che ha ripercussioni nella forma espressiva: da una parte, emerge la consapevolezza che «sul ciglio dell’abisso la parola si raggela, si fa […] simbolo sfuggente», dall’altra il romanzo appare un «genere scaduto, corrotto, impraticabile». Il conflitto generazionale fra Chino e Mauro rientra pure in quest’ambito. Da qui derivano varie soluzioni che portano al «poema narrativo» di Consolo e testimoniano il disorientamento prevalente: accumuli paratattici, metafore, figure retoriche, figure del discorso. Le suggestioni pittoriche trovano il loro centro nello Spasimo di Sicilia di Raffaello, simbolo di una sofferenza che da Palermo arriva alla Sicilia e a tutto il mondo, mentre gli spazi hanno una grande importanza e mostrano la perdita della memoria storica, responsabile della crisi.
Consolo, crisi, memoria, storia Secondo Ugo Dotti,
Lo Spasimo di Palermo è caratterizzato dal «contrapporsi di storia a memoria, nel vano bisogno di conforto che il . 8 ricordo potrebbe dare e che suscita al contrario un cocente sentimento di patimento, di sconfitta, di spasimo» (Dotti, 2012, 315). Dunque, uno stretto nesso fra storia, crisi e memoria percorre l’intero testo, anche se esso è, innanzitutto, specchio di una crisi, sia collettiva che individuale. Consolo presenta non solo «il fallimento della generazione del dopoguerra nel creare una società più giusta e più civile» (O’Connell, 2008, 173), per cui terrorismo e mafia risultano uniti «in un clima da fine dei tempi, che nega la storia» (Donnarumma, 2011, 446), ma anche la sconfitta di Chino, padre e scrittore. Da ciò l’impossibilità di narrare, cioè di utilizzare i tradizionali mezzi espressivi. Raccontare è però necessario, come attestano le due battute del Prometeo incatenato di Eschilo poste in epigrafe: «Rivela tutto, grida il tuo racconto… / Il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore» (Consolo, 1998, 7). Quest’urgenza di dire si realizza subito tramite la letteratura, come nella conclusione di Nottetempo, casa per casa, in cui essa appare «ultima consolazione […] e ultima possibilità di spiegazione del “dolore” del mondo» (Luperini, 1999, 166). Lo stesso Consolo chiarisce: «[…] è caduta la fiducia nella comunicazione, nella possibilità […] della funzione sociale, politica della scrittura. Non rimane […] che l’urlo o il pianto, o l’unica forza oppositiva alla dura e sorda notte, la forza della poesia» (Consolo, 1993, 58). Il gioco citazionistico è, quindi, subito in primo piano: l’iniziale «Allora tu, […] ed io» (Consolo, 1998, 9), con cui il narratore si rivolge a Chino, è stato collegato da O’Connell (2008, 181) al celebre verso di Eliot «Let us go then – you and I», con cui, peraltro, si chiude il quinto capitolo. Un’altra citazione eliotiana («In my beginning is my end» [Consolo, 1998, 9]), rimandando al consueto simbolo consoliano della chiocciola, della spirale, rileva invece l’importanza della memoria, necessaria per recuperare un’identità veicolata dai nomi («il nome tuo d’un tempo, il punto di partenza» [Consolo, 1998, 9]), di cui Consolo sottolinea spesso l’importanza come segno identitario. Queste citazioni forniscono subito una prima chiave di lettura, in quanto Eliot utilizza termini spesso non uniti fra loro da legami logici, alterna espressioni auliche con altre colloquiali, mescola svariate lingue, rappresentando così la crisi esistenziale dell’uomo: similmente si comporta Consolo. Anche nel nostro testo, comunque, il narrare significa «rappresentare il mondo, cioè ricrearne un altro sulla carta» (Consolo, 2012, 92), che «assolva la tua pena, il tuo smarrimento» (Consolo, 1998,10). Questi stati d’animo, già nel primo capitolo, sono rapportati da Chino, giunto a Parigi per incontrare il figlio, con la parola che «si fa suono fermo, […] simbolo sfuggente» (Consolo, 1998, 12). Egli, dunque, respinge come false la lingua accademica («Stendono prose piane i professori, […] decorano le accademiche palandre di placche luccicanti» [Consolo, 1998, 12]) e quella giornalistica («Nul n’échappe décidément, au journalisme ou voudrait-il…» [Consolo, 1998, 12]), e nega il potere evocativo del linguaggio: se dapprima, infatti, il prete oppone alla forza delle armi quella delle parole (Giacomo – Marcellesi, 2004, 73-74), quando chiede, all’inizio dei bombardamenti, «di cantare l’aria con parole senza senso» (Consolo, 1998, 14), queste, poi, non servono a disincantare una «trovatura» (Consolo, 1998, 19). Tornano in mente a Chino, invece, termini legati ad epoche passate («Il maggiore parlò in un modo che credeva ancora di quel luogo» [Consolo, 1998, 13]). Per Consolo, difatti, «la vera scrittura […] poggia sulla memoria letteraria soprattutto» (Consolo, 2006, 71 – 72). O’Connell l’ha definita «un ricco mosaico di intertestualità, le cui tessere sono fatte di testi sia antichi sia moderni», in quanto pone accanto «linguaggi e dialetti diversi e spesso stridenti tra di loro», oscillando «tra registro alto e basso» (O’Connell, 2008, 164). Nei primi due capitoli, alcuni termini dialettali o colloquiali («anciove» [Consolo, 1998,15]; «caruso», «scarparo» [Consolo, 1998, 26]; «buatta» [Consolo, 1998, 32]; «a forma di lasagne» [Consolo, 1998, 25]) coesistono, dunque, con altri più elevati, o desueti, formando uno strano impasto linguistico, espressione dello smarrimento in cui vive Chino nel tentativo di superare i fantasmi del passato. Lo stesso Consolo ha dichiarato, in un’intervista: «sono stato […] sperimentatore, senza però arrivare all’estensione linguistica e alla straordinaria polifonia gaddiana, ma operando verticalmente, nel senso di riportare in superficie, […] parole e strutture di lingue sepolte» (Ciccarelli, 2005, 96). Si inserisce in tale ambito il termine «marabutto», di origine araba e perciò legato alla storia della Sicilia, che ritornando varie volte nel nostro testo, ne suggellerà l’andamento circolare svelando il suo carattere di «metafora malinconica» (Traina, 2001, 107). Rientra in questa circolarità anche il rilievo dato alle immagini, in quanto Consolo avverte «Sempre […] l’esigenza di equilibrare la seduzione […] della parola con la visualità, con […] una concretezza visiva» (O’Connell, 2004, 241). . 10 Il primo capitolo, così, accosta, secondo una tecnica cinematografica, parti quasi autonome, corrispondenti alle vicende affiorate alla memoria di Chino. Non a caso l’albergo di Parigi in cui egli soggiorna, oltre a chiamarsi La dixième muse, mostra alle pareti foto di vari divi del cinema, e alla mente di Chino ritorna l’immagine del IUDEX, protagonista del serial cinematografico di Feuillade che adesso egli vede per intero, dopo cinquant’anni, e che sarà richiamato anche alla fine del libro. L’ultimo segmento del capitolo presenta invece il dolore di Chino quale dolore collettivo attraverso il tipico uso consoliano delle figure retoriche, confermando l’orientamento dello scrittore verso il ben noto poema narrativo: Lo strazio fu di tutti, di tutti [anadiplosi] nel tempo il silenzio fermo [allitterazione], la dura pena, il rimorso scuro [chiasmo], come d’ognuno ch’è ragione, […] d’un fatale arresto, d’ognuno che qui resta, o di qua d’un muro, d’una grata, parete di fenolo [metafora], vacuo d’una mente, davanti alla scia in mare, all’arco in cielo che dispare di cherosene [iperbato]. L’esilio è nella perdita, l’assenza, in noi l’oblio, la cieca indifferenza (Consolo, 1998, 24). Un’anastrofe («il tempo suo più avventuroso» [Consolo, 1998, 25]) conclude invece le enumerazioni con cui si esprime lo stato di abbandono di Chino dopo la morte del padre. Analogamente, le enumerazioni indicano il disordine, il caos che contraddistinguono il viaggio di Chino ed Urelia, il loro arrivo a Palermo: Il viaggio fu infinito, nel fumo, nel freddo, raffiche di vento, pioggia, spruzzi delle onde, stretti fra reduci, sbandati, intrallazzisti, donne scasate e di mestiere, ragazzi fuggitivi, frati di questua e ceffi di galera. […] Mai erano stati Urelia e Chino nella città, mai avevano udito tanto chiasso, urla richiami imbonimenti, visto tanto correre e affannarsi tra macerie, travi fili ferri lamiere tufi calcinacci, cantoni in bilico, tappezzerie e maioliche esposte all’aria, giare e bidoni su lastrici crollati, statue riverse, guglie mozzate e cupole sventrate (Consolo, 1998, 31). piccano l’aggettivo dialettale «scasate», il neologismo «intrallazzisti» tra termini più elevati, quali «questua», «fuggitivi», mentre gli aggettivi «riverse», «mozzate», «sventrate» umanizzano gli oggetti, rendendo più forte la sensazione di sofferenza. A Palermo, i «ciechi vaiolosi, storpi, appestati d’ogni sorta che dallo Spasimo si recavano ogni giorno per mangiare alla Dogana» (Consolo, 1998, 32) ricordano l’ «orda di mendichi, ciechi, storpi, nani, malformati» che, in Retablo, si presentano davanti a Clerici, «con lamenti, cantilene e preghiere strazianti» (Consolo, 1992, 51). Con queste autocitazioni, Lo Spasimo di Palermo si conferma, come la critica unanime ha riconosciuto, testo che riassume l’evoluzione artistica ed ideologica di Consolo. Dopo un’ellissi, intanto, tornati nel tempo primo della narrazione, il terzo capitolo inizia, significativamente, con la parola «orrore» (Consolo, 1998, 33): è lo stato d’animo di Chino davanti al suo volto ritratto nello specchio, segno, perciò, quasi, di un’intima dissociazione, che egli descrive, grazie alle enumerazioni, espressionisticamente. Del resto, Norma Bouchard ha riscontrato, ne Lo Spasimo, «[…] an expressionism so radical that it has baffled more than one critic» (Bouchard, 2005, 6). Il pensiero subito rivolto al padre testimonia la persistenza di una lacerante distanza, messa in risalto dall’interrogativa: «Fosse vissuto, sarebbe scaduto così anche suo padre, avrebbe avuto quella faccia, quella sagoma avvilita, si sarebbe piegata la sua testa, il suo orgoglio si sarebbe [chiasmo] con gli anni incenerito [metafora]?» (Consolo, 1998, 33). La stessa incomunicabilità impernia, adesso, il suo rapporto con il figlio Mauro: le parole appaiono infatti «una pazzia recitata, un teatro dell’inganno» (Consolo, 1998, 35) quando i due si incontrano, in un clima di precarietà evidenziato da metafore: «Chi può sapere in questo mulinello di sagome simili e cangianti, questo turbinio di figure, quest’infinito scorrer d’apparenze?» (Consolo, 1998, 34). Se, da una parte, tale incertezza si manifesta, nuovamente, a livello individuale, per cui Chino è consapevole di non essere «riuscito a placare» i suoi «assilli» (Consolo, 1998, 36), «il panico, l’arresto, […] l’impotenza, l’afasia, il disastro» della sua vita, dall’altra lo «scadimento» (Consolo, 1998, 37) è generale, rappresentato dai gusti letterari dei frequentatori della libreria che Daniela ha voluto, per tentare di diffondere romanzi e poesie fra i compagni, «ignari e sprezzanti d’ogni forma letteraria» (Consolo, 12 1998, 37). Responsabile è l’omologazione, lo smarrimento della memoria storica, il predominio delle «mode» (Consolo, 1998, 37): nella vetrina della libreria, antifrasticamente chiamata «La porta d’Ishtar», notiamo allora «la foto d’un giovanotto levigato, riccioletti e occhio vellutato [omoteleuto], ultimo autore di successo, mistico e divo della tivù, […]» (Consolo, 1998, 36). Rafforza questo svilimento della memoria culturale il menu del ristorante Les philosophes: «Cotolette Spinoza – Salade Bergson – Salade Platon – Salade Aristote – Coupe Virgile – Coupe Socrate» (Consolo, 1998, 38). Mauro, poi, che enumera i mali italiani («Sempre nel marasma, nel fascismo inveterato, nell’ingerenza del pretame, nella mafia statuale il paese beneamato?» [Consolo, 1998, 39]), sottolineando le responsabilità del fascismo con l’omoteleuto («inveterato […] beneamato») e l’allitterazione («marasma […] fascismo»), rivolge al padre delle accuse ben precise, rese più incisive dalle metafore, dall’omoteleuto (ornamento-annientamento), dall’anafora, e che coinvolgono tutti i letterati: «tu e i soavi letterati siete le epigrafi d’ornamento, la lapide incongrua e compiaciuta sul muro di quel carcere mentale, quel manicomio d’annientamento» (Consolo, 1998, 39). I riferimenti al romanzo El recurso del método di Carpentier, autore particolarmente caro a Consolo, alla vicenda di Camille Rodin ribadiscono, poi, ancora, la volontà di distacco da una realtà costituita da un «tempo feroce e allucinato» (Consolo, 1998, 42). Il capitolo IV si apre allora con un lungo periodo che accosta immagini metaforiche apparentemente distinte, in realtà accomunate da un senso di negatività, dolore, precarietà, sottolineato dalle enumerazioni miste ad anafore e assonanze: Muro che crolla, interno che si mostra, fuga affannosa, segugio che non molla [assonanza], esito fra ruderi sferzati dalla pioggia, ironiche statue in prospettiva, teschi sui capitelli, maschere sui bordi delle fosse, botteghe incenerite, volumi che in mano si dissolvono, lei al centro d’un quadrivio accovacciata, lei distesa nella stanza che urla e che singhiozza, ritorna dall’estrema soglia, dall’ insulinico terrore, entra ed esce per la porta sull’abisso, il tempo è fisso nel continuo passaggio, nell’assenza, nel fondo sono le sequenze, i nessi saldi e veri (Consolo, 1998, 45). La serie di metafore può apparentarsi al flusso di coscienza di Joyce, il cui Ulisse Consolo definisce «L’odissea dei vinti»[1] (Consolo, 1999, 111). D’altra parte, vedere il film della sua giovinezza non risolve i problemi di Chino ma gli fa capire l’importanza dell’immaginazione e della memoria[2]: «Il tempo, la memoria esalta, abbellisce ogni pochezza, ogni squallore, la realtà più vera. Per la memoria, la poesia, l’umanità si è trasfigurata, è salita sull’Olimpo della bellezza e del valore» (Consolo, 1998, 53). La reazione di Mauro («”Ne hanno combinate i letterati!”» [Consolo, 1998, 53]) conferma che il contrasto generazionale con il padre coinvolge pure la funzione della letteratura e dei letterati, come si chiarirà nella conclusione. L’incomunicabilità fra i due sembra venir meno solo quando Chino dice al padre: «Portale [alla madre, Lucia] per me, quando sarà fiorito, il gelsomino» (Consolo, 1998, 55), mostrando così che, pure per lui, i legami con la Sicilia, di cui quel fiore è simbolo, al pari di quello che avviene ne L’olivo e l’olivastro, sono ineludibili. Per Chino, invece, ritornare in Sicilia significa ripercorrere le vicende della propria vita, che somiglia sempre più ad una fuga, per placare le proprie angosce. Milano e la Sicilia, ovvero i «due poli» entro cui si svolge la vicenda di questo e di molti testi consoliani, si precisano quali simboli «di una condizione di esilio perenne» (Lollini, 2005, 32). Da qui le tantissime «metafore dell’esilio, dell’erranza» (Lollini, 2005, 29), la ricorrenza dei termini ‘esilio-esule’, ‘fuga-fuggire, ‘partire-partenza’, ‘evadere-scappare’, insieme a quelli relativi al campo semantico del dolore. Il quinto capitolo registra questi concetti in modo particolare. Il primo segmento esprime ancora il disagio di Chino con i procedimenti già notati: brevi proposizioni cooordinate per asindeto, enumerazioni. Spicca il chiasmo «lame squame gemini binari» (Consolo, 1998, 57), in cui i due aggettivi aulici (‘squame’, antico; ‘gemini’, latinismo) sono incastonati fra i sostantivi ‘lame, binari’, del registro quotidiano. Segue un’analessi in cui vita e letteratura appaiono strettamente unite, visto che i libri hanno scandito le varie tappe dell’esistenza di Chino. Inverano, intanto, lo spazio: Chino si reca con Lucia, infatti, a visitare la tonnara e il mare descritti nelle [1] Un’allusione all’Ulysses di Joyce e «the re-inauguration of the modern nostos into twentieth-century literary culture», si troverebbe, secondo O’Connell (2012, 246), nel seguente passo: «Ascesero man mano e si dispersero per i vari cieli, entro le celle di quella Sandycove dell’introibo, teca babelica, averno del viaggio» (Consolo, 1998, 46). [2] Secondo O’Connell (Consolo narratore cit., 178), si ha qui un richiamo al saggio Angelus Novus di Benjamin, che peraltro Consolo cita in I ritorni, ed esattamente ai concetti di «rimembranza» e memoria. 14 Osservazioni pratiche intorno la pesca, corso e cammino dei tonni. Quando i poliziotti perquisiscono la sua casa, come si narra anche in Un giorno come gli altri, i suoi libri sparpagliati sembrano «storie perenti, lasche prosodie, tentativi inceneriti, miseri testi della sua illusione, del suo fallimento» (Consolo, 1998, 66), dovuto, comunque, al «tempo feroce, disumano» (Consolo, 1998, 67) in cui vive. Lo testimoniano i procedimenti espressivi. Il «boemo paonazzo», in cui si riconosce Milan Kundera, definisce infatti «merde» gli intellettuali insensibili ai problemi della primavera di Praga nella discussione tra le signore che, con allusione ad Eliot, «in seriche casacche orientali andavano e venivano, […] rivolgevano domande a Saul Bellow» (Consolo, 1998, 66). Il narratore, poi, inserisce la parola antica ‘grascia’ in un’enumerazione («ingombro, grascia, fermento, trionfo di laidume, baccano d’osceno carnevale» [Consolo, 1998, 68]) per raffigurare la disastrosa situazione di Milano. Essa, la «città ignota» è poi descritta con una citazione da Excelsior di Luigi Manzotti («“D’improvviso la scena si trasforma, la Luce e la Civiltà trovansi abbracciate…”» [Consolo, 1998, 69]), menzionato pure in Sopra il vulcano, e una dai Promessi Sposi («“Quel contrapposto di gale e di cenci, di superfluità e di miseria”» [Consolo, 1998, 70]). Il segmento successivo rielabora il brano I barboni, scritto nel 1995 per il catalogo di Ottavio Sgubin, che termina con una citazione dell’Odissea, l’unica di tutto Lo Spasimo («Di’ perché piangi e nel tuo animo gemi / quando odi la sorte…» [Consolo, 1998, 72]), che, non a caso, rimanda ad una condizione di sofferenza. Lo stesso Consolo ne chiarisce, ne Lo spazio in letteratura, il significato, collegando il nostro testo con L’olivo e l’olivastro. Quindi risponde alla richiesta contenuta nella citazione dell’Odissea sostenendo l’impossibilità della narrazione: «“Io sono… no, no, l’aridità, la lingua spessa, l’oblio d’ogni nesso… illuso ancora dell’ascolto, tu procedi”» (Consolo, 1998, 72), affermazione apparentemente in contrasto con il montaliano «varco» che avrebbe condotto Chino, all’inizio del capitolo, «nel passato, nel racconto, in cui […] tutto sembrava decifrabile» (Consolo, 1998, 69). In effetti, nell’analessi in cui il narratore rievoca la vita familiare inizialmente felice di Chino, di Lucia e poi devastata dalle circostanze, la letteratura è dapprima celebrata come depositaria della «verità umana» («“Là si trova” […] “negli assoluti libri, la verità umana”») ma poi, di fronte al precipitare degli eventi, ritenuta inadeguata a riprodurre correttamente la realtà («Ogni parola ora, povera, incapace, riduce quell’incanto, […]» [Consolo, 1998, 73]). Consolo, allora, da un canto adotta una tecnica cinematografica, mostrando i vari eventi (le intimidazioni, la conversazione con il commissario, la vendita della casa) come fotogrammi, dall’altro ritorna alla ‘narrazione poematica’ propria de L’olivo e l’olivastro[3], a confermare la corrispondenza tra i due testi. Così è facile riconoscere degli endecasillabi quando il narratore riferisce la decisione di Chino di lasciare Palermo per andare sulle tracce dell’originaria ed autentica identità siciliana. E il viaggio, vero e proprio topos per Consolo, avviene, significativamente, durante la Pasqua, momento di resurrezione: «S’era fatta smunta, pallida, inquieta /, […] Chino decise di rompere l’assedio, / d’evadere, fuggire dalla casa, / […] Andò con l’infelice per le strade, / […]. Andò in un aprile, nel tempo della Pasqua [due settenari]» (Consolo, 1998, 76-77). Una serie di immagini, combinate con un’anafora e un endecasillabo finale, presenta la Sicilia quale metafora del mondo: «Era là il centro dello spazio, la visione sconfinata, là il cuore della terra, / del mito più oscuro e luminoso» (Consolo, 1998, 77). Il nome di Borges, del resto, rimanda non solo ai «sogni», agli «incubi», agli «specchi», ai «labirinti» (Consolo, 1998, 80), temi presenti nel nostro testo, ma al suo prevalente carattere metaforico. La vicenda di Lucia, con il suo «precipitare nel gorgo medicale, nell’ignoranza, nel dominio, nel cinico interesse di luminari, case di cura, […] rete di sciacalli» (Consolo, 1998, 78) e quella di Chino testimoniano i danni causati dalla perdita della memoria storica: Palermo è, difatti, ormai, una città «stravolta, squallida nell’uniforme volto, nell’anonima sua morsa, nel cieco manto sopra ogni verde luce, nella grigia muraglia avanti a vecchi squarci, immobili macerie, […]» (Consolo, 1998, 79). All’insegna della metafora si svolge, allora, il capitolo settimo. «un re che narra e che governa, elude la metafora, annulla la contraddizione della prosa» (Consolo, 1998, 83) è, intanto, il personaggio principale del racconto letto dal glottologo protagonista de La perquisizione, dietro cui la critica ha scorto Un giorno come gli altri. La metafora si precisa, dunque, quale una necessità, legata a una narrazione in crisi, che tratta di periodi in crisi: appaiono così chiari i rapporti di Consolo con il postmodernismo. Da [3] Esso è l’«apice» di una vera e propria «sperimentazione “poetica”» (Francese, 2015, 70) . 16 una parte vi sembrerebbero rimandare il citazionismo, il plurilinguismo, il tema del complotto; dall’altra, però, Consolo se ne mantiene distante, proprio per l’importanza attribuita alla memoria e alla storia, come Norma Bouchard ha puntualizzato: «it is important to point out that even though Consolo’s novels exhibit many of the rhetorical devices that we have come to associate with postmodern writing practices, they also remain fundamentally distinct from dominant, majoritarian forms of postmodernism» (Bouchard, 2005, 10-11). Una «metafora perenne» giudica poi Chino il romanzo di Manzoni, modello per Consolo di romanzo storico, in quanto allude «alle pesti in ogni tempo di Milano» (Consolo, 1998, 85). Il «lazzaretto più appestato» sembra a Chino «una piazzetta» in cui, avvolti in un’omologazione che cancella ogni identità, «Stavano ragazzi barcollanti o immobili, il busto avanti, piegati sui ginocchi. Sembravano bloccati in quelle pose, pietrificati […]» (Consolo, 1998, 85). Modellato sull’Addio ai monti di Manzoni è, inoltre, l’Addio che Consolo rivolge a Milano, «Città perduta» (Consolo, 1998, 91) non meno della Milano di Berlusconi e della Lega Nord, condannata attraverso la consueta tecnica dell’accumulo: Illusione infranta, amara realtà, scacco pubblico e privato, castello rovinato, sommerso dall’acque infette, dalla melma dell’olona, dei navigli, […] scala del corrotto melodramma, palazzo della vergogna, duomo del profitto, basilica del fanatismo e dell’intolleranza, banca dell’avventura e dell’assassinio, fiera della sartoria mortuaria, teatro della calligrafia, stadio della merce e del messaggio, video dell’idiozia e della volgarità (Consolo, 1998, 91). Così, quando Mauro chiede al padre se stia scrivendo, egli risponde negativamente. E se il suo comportamento è differente da quello di altri scrittori (Calvino, Moravia, Sciascia, indicati con delle metafore – «il castoro ligure, il romano indifferente, l’amaro tuo amico siciliano»), ciò accade perché essi hanno «la forza […] della ragione, […] la geometria civile dei francesi» (Consolo, 1998, 88): non vivono cioè una condizione di disorientamento. Costituiscono dunque, queste parole, opinioni dello stesso Consolo (Chino Martinez sarebbe cioè un alter ego dello scrittore), che, proseguendo il suo discorso, una sorta di dichiarazione di poetica, confessa: «mi perdo nel ristagno dell’affetto, l’opacità del lessico, la vanità del suono…» (Consolo, 1998, 88). La letteratura, però, deve essere, soprattutto, espressione di una società, tant’è che Mauro, in carcere, chiede al padre di portargli I demoni di Dostoevskij, L’affaire Moro di Sciascia, Scritti corsari di Pasolini, Une saison en enfer, Illuminations di Rimbaud. Chino, allora, abbina alla letteratura, che perciò rappresenterebbe un’ancora di salvezza come nella conclusione di Nottetempo (si rifugia nella biblioteca, per esempio), il valore della memoria, delle radici, individuali e collettive. Sul treno per Napoli, infatti, ascoltando parlare dei ragazzi, individua facilmente, e con piacere, «le città e i paesi da cui quei ragazzi provenivano. […] Leggeva in quel concerto la storia d’ogni luogo, i segni […] superstiti delle migrazioni, dei remoti insediamenti» (Consolo, 1998, 95). Egli, pertanto, considera negativamente, al punto da definirla «trucida» (Consolo, 1998, 94), la nuova lingua annunciata da Pasolini, in quanto segno di un’omologazione negatrice della storia. Di questa sono testimonianza i luoghi, lo spazio, che Consolo ritiene, sempre, molto importanti. In prossimità di Palermo Chino scorge, difatti, «il piano di Sant’Erasmo, la foce melmosa dell’Oreto, […] la Porta dei Greci, […] gli antichi palazzi dietro nobiliari, le cupole e i campanili delle chiese, il Càssaro Morto e la Porta Felice, Santa Maria della Catena, la conca stagna affollata d’alberi di lussuose barche della Cala» ma anche «le palazzate nuove del sacco mafioso» (Consolo, 1998, 98). Attraverso lo spazio, cioè, è possibile leggere i cambiamenti della società. Se i luoghi, allora, come la letteratura, manifestano la memoria storica, Chino sente di dover «ricominciare» dai libri, oltre che «dalla chiara geografia» (Consolo, 1998, 102). Si presentano, questi, strettamente uniti, interdipendenti nelle pagine finali dello Spasimo, che, perciò, chiarisce e conclude l’esperienza letteraria di Consolo, rappresentando «al contempo la mediazione verso» quella che Consolo considera una vera e propria «impasse e la risposta ad essa» (O’Connell, 2008, 174). Così, dopo aver raccolto notizie sul musicista D’Astorga, da cui prende nome la strada in cui abita, ed aver scoperto il quartiere intorno, aver collegato il castello della Favara ad alcuni versi del poeta arabo Ab dar-Rahmân, Chino decide di «indagare sulla prigionia in Algeri di Cervantes», su quella di Antonio Veneziano[4] e di scrivere «della [4] Ne L’olivo e l’olivastro (1994, 105), Consolo afferma che, ad Algeri, Cervantes scrive dei versi per Antonio Veneziano. 18 pena vera di due poeti, fuori da ogni invenzione» (Consolo, 1998, 105). Infatti, Aborriva il romanzo, questo genere scaduto, corrotto, impraticabile. Se mai ne aveva scritti, erano i suoi in una diversa lingua, dissonante, in una furia verbale ch’era finita in urlo, s’era dissolta nel silenzio. Si doleva di non avere il dono della poesia, la sua libertà, la sua purezza, la sua distanza dall’implacabile logica del mondo (Consolo, 1998, 105). Consolo ripropone, in tal modo, le riserve nei confronti del romanzo manifestate in altri testi (Fuga dall’ Etna, Nottetempo, L’olivo e l’olivastro). Un «libro raro» (Consolo, 1998, 106), in spagnolo, trovato in biblioteca, conferma le sue convinzioni. Vi legge di ogni regione d’Italia e del mondo, apprende i vari significati, positivi, del termine ‘marabutto’. È consapevole, anche per questo, di come i tragici eventi che avevano portato alla morte del padre avessero costituito una stortura. Poi, dopo aver vagato per le strade di Palermo ed aver visto, nella «casba di Seralcadio» (Consolo, 1998, 108), un’altra faccia della città, come avvenuto a Milano, si ferma nella chiesa di Santa Maruzza, luogo carico di ricordi, personali e letterari, opposto al drammatico presente. Difatti, «Dentro era l’accesso, racconta il Natoli, alle caverne, alle camere segrete dei processi e delle sentenze dei giustizieri» (Consolo, 1998, 108). Ma al tribunale dei Beati Paoli si lega il vero Palazzo di Giustizia, a cui Chino giunge seguendo un «corteo, fantasmatico» (Consolo, 1998, 109). Il suo pensiero va, allora, al lavoro dei magistrati contro i gruppi mafiosi e, in particolare, al «figlio della sua dirimpettaia» (Consolo, 1998, 109), cioè il giudice Borsellino. L’incontro fra i due avviene nel segno dei libri e conferma come Chino sia alter ego di Consolo «Ho letto i suoi libri… difficili, dicono» (Consolo, 1998, 115), dice il giudice che, dopo aver citato un passo de Le pietre di Pantalica («Palermo è fetida, infetta. In questo luglio fervido esala odore dolciastro di sangue e gelsomino…» [Consolo, 2012, 132]), commenta: «Ma nulla è cambiato, creda. Vedrà, il prossimo luglio sarà uguale… o forse peggio» (Consolo, 1998, 115). Egli legittima, in tal modo, la funzione civile della letteratura, legata anche ad altre arti. Chino trova, infatti, nella «memoria d’un anonimo spagnolo», delle notizie sulla tela che Raffaello dipinge per la chiesa di Santa Maria dello Spasimo, e che intitola «sgomento della Vergine e Spasimo del Mondo» (Consolo, 1998, 112). Giustamente, dunque, la Sicilia è metafora del mondo: la sua crisi, la sua degenerazione sono generali, così come «questo Spasimo, da Palermo» (Consolo, 1998, 112) coinvolge la Sicilia e il mondo tutto. E i luoghi, come la letteratura testimonia, lo confermano: Lesse di Santa Maria dello Spasimo abbandonata dai frati per il nuovo baluardo di difesa che a ridosso il viceré don Ferrante Gonzaga fece costruire. Della magnifica chiesa che divenne poi nel tempo teatro, lazzaretto nella peste, granaio, magazzino, albergo di poveri, sifilicomio, cronicario, luogo di dolore, solitudine, abbandono (Consolo, 1998, 113). Una metafora indica il perdurare di questa condizione, ormai generalizzata, al presente: lo scirocco è un «sudario molle» (Consolo, 1998, 113). Le immagini mettono poi, in parallelo, la peste e il colera, che nel passato hanno oppresso Palermo, con la mafia. Al «paranzello o brigantino» che arrivava a Palermo «con l’infetto» (Consolo, 1998, 113) corrisponde «il corpo sfatto, quasi scheletrico» (Consolo, 1998, 116) rinvenuto dentro il pilastro del portico del palazzo dove abita Chino, il quale ricorda i vv. 10-12 del quarto canto dell’Inferno quale metafora dell’incapacità di trovare una soluzione a questa situazione: «Oscura e profonda era e nebulosa / tanto che, per ficcar lo viso a fondo, / io non vi discernea alcuna cosa» (Consolo, 1998, 118). L’ultimo capitolo si svolge dunque la domenica successiva al Festino di Santa Rosalia, per sottolineare come pure la Santa che aveva salvato Palermo dalla peste, nel 1624, sia adesso impotente. La conformazione della città, con «il fitto ammasso dei palazzi, il cantiere dietro il muro, la corta via d’Astorga [allitterazione]», mostra la perdita di ogni memoria storica, «sepolta sotto il cemento» (Consolo, 1998, 123). Le enumerazioni, mettendo insieme termini di origine araba (‘càssaro’, ‘kalsa’), spagnola (‘criadi’), neologismi (‘villena’), rappresentano questa condizione di disordine, che la metafora conclusiva suggella: «Congiura, contagio e peste in ogni tempo» (Consolo, 1998, 123). 9, 2020. 20 Alla memoria storica, invece, ci riporta il fioraio che in «questa città infernale» (Consolo, 1998, 126), in cui ogni ragionevolezza sembra essere venuta meno, si chiama, non a caso (il riferimento è ad Erasmo da Rotterdam e al suo Elogio della follia), Erasmo, e che, dopo aver donato a Chino dei gelsomini, gli rivolge delle parole, apparentemente oscure, inquietanti, ma che legano il suo passato al suo presente: «Ddiu ti scanza d’amici e nnimici, e di chiddi / chi ti manciunu lu pani. / Ddiu ti scanza di marabutta» (Consolo, 1998, 124). Ciò è evidente nella lettera che Chino scrive al figlio, in cui troviamo insieme i cinque romanzi che Massimo Onofri ha individuato fra le pagine de Lo Spasimo: «un romanzo sul rapporto Italia – Sicilia; un romanzo sul rapporto padre e figlio (il padre di Gioacchino / Chino e Chino); un secondo romanzo padre – figlio (Chino e Mauro); […] un romanzo d’amore (Chino e Lucia); e […] un romanzo di “oblio e dimenticanza”» (Onofri, 2004, 183). Si precisano qui, quando Chino allude all’omicidio del giudice Falcone, le corrispondenze con il passo de Le pietre di Pantalica citato da Borsellino: «Questa città, lo sai, è diventata un campo di battaglia, un macello quotidiano. Sparano, fanno esplodere tritolo, straziano vite umane, carbonizzano corpi, spiaccicano membra su alberi e asfalto – ah l’infernale cratere sulla strada per l’aeroporto! – E’ una furia bestiale, uno sterminio»[5] (Consolo, 1998, 128). Ne Le pietre di Pantalica aveva detto: «Questa città è un macello, le strade sono carnazzerie con pozzanghere, rivoli di sangue coperti da giornali e lenzuola. […] La guerra contro la civiltà, la cultura, la decenza» (Consolo, 2012, 132 – 134). E, ne L’olivo e l’olivastro, si indica in modo chiarissimo come responsabile di questa situazione, non limitata a Palermo ma diffusa in tutta Italia, sia la perdita della memoria storica: «Via, via, lontano da quella città che ha disprezzato probità e intelligenza, memoria, eredità di storia, arte, ha ucciso i deboli e i giusti. / Ma è Palermo o è Milano, Bologna, Brescia, Roma, Napoli, Firenze?» (Consolo, 1994, 125). Ne Lo Spasimo, questa situazione di crisi comporta una divaricazione tra letteratura e società. Chino ne matura la consapevolezza: Un paradosso questo del mantello nero in cui si muta qui la toga di chi inquisisce e giudica usando la forza della legge. E per me anche letterario. Voglio dire: oltre che in Inghilterra, nella [5] Da sottolineare come i quattro verbi (sparano-straziano-carbonizzano-spiaccicano) abbiano la stessa finale. Francia dello Stato e del Diritto è fiorita la figura del giustiziere che giudica e sentenzia fuori dalle leggi. Balzac, Dumas, Sue ne sono i padri, con filiazioni vaste, fino al Bernède e al Feuillade di Judex e al Natoli nostro, […]. In questo Paese invece, in quest’accozzaglia di famiglie, questo materno confessionale d’assolvenza, dove lo stato è occupato da cosche o segrete sette di Dévorants, […], dove tutti ci impegniamo, governanti e cittadini, ad eludere le leggi, a delinquere, il giudice che applica le leggi ci appare come un Judex, un giustiziere insopportabile, da escludere, da rimuovere. O da uccidere (Consolo, 1998, 129-130). Il letterato, dunque, l’intellettuale vive in una condizione di esilio, non è adeguatamente apprezzato, tant’è che quando Chino tenta di fermare Borsellino mentre suona al citofono, il giudice si gira ma non lo riconosce. Nell’attentato viene colpito Erasmo che, morendo, recita due versi de La storia di la Baronissa di Carini, ad attestare come, anche se al presente la letteratura non è ascoltata, è da questa, voce della tradizione, della memoria storica, che deve venire la salvezza:
O gran mano di Diu, ca tantu pisi, cala, manu di Diu, fatti palisi!
(Consolo, 1998, 131). 9, 2020. 22 Bibliografia Bouchard, Norma (2005). Vincenzo Consolo and the Postmodern Writing of Melancholy. Italica, 82, (1), 5 – 23. Ciccarelli Andrea (a cura di) (2005). Intervista a Vincenzo Consolo. Italica, 82, (1), 92 – 97. Consolo, Vincenzo (1988). Le pietre di Pantalica. Milano: Mondadori. Consolo, Vincenzo (1992). Retablo. Milano: Mondadori. Consolo, Vincenzo (1993). Fuga dall’Etna. Roma: Donzelli. Consolo, Vincenzo (1994). L’olivo e l’olivastro. Milano: Mondadori. Consolo, Vincenzo (1998). Lo Spasimo di Palermo. Milano: Mondadori. Consolo, Vincenzo (1999). Di qua dal faro. Milano: Mondadori. Consolo, Vincenzo (2006). «Ma la luna, la luna…». In Pintor Romera I. (a cura di). Lunaria. Vent’anni dopo. València: Generalitat Valenciana, Conselleria de Cultura, Educació i Esport. Consolo, Vincenzo (2012). La mia isola è Las Vegas. Milano: Mondadori. Donnarumma, Raffaele (2011). Storia, immaginario, letteratura: il terrorismo nella letteratura italiana (1969 – 2010). In Aa. Vv., Per Romano Luperini. Palermo: Palumbo. Dotti, Ugo (2012). Il senso della storia nell’opera di Vincenzo Consolo. In Ugo Dotti, Gli scrittori e la storia. La narrativa dell’Italia unita e le trasformazioni del romanzo (da Verga a oggi). Torino: Nino Aragno editore. Francese, Joseph (2015). Vincenzo Consolo: gli anni de «l’Unità» (1992 – 2012), ovvero la poetica della colpa – espiazione. Firenze: Firenze University Press. Lollini, Massimo (2005). Intrecci mediterranei. La testimonianza di Vincenzo Consolo, moderno Odisseo. Italica, 82, (1), 24 – 43. Luperini, Romano (1999). Controtempo. Napoli: Liguori. Marcellesi – Giacomo, Mathée (2004). Vincenzo Consolo: l’alchimie du logos. Croniques italiennes. 2-3, 197 – 214. Onofri, Massimo (2004). Il sospetto della realtà: Saggi e paesaggi italiani novecenteschi, Cava de’ Tirreni: Avagliano. O’Connell, Daragh (2004). Il dovere del racconto: Interview with Vincenzo Consolo. The Italianist. 24: II, 238 – 253. DOI: 10.1179 / ita.2004.24.2.238 O’Connell, Daragh (2008). Consolo narratore e scrittore palincestuoso. Quaderns d’Italià, (13), 161 – 184. O’Connell, Daragh (2012). «Tizzone d’Inferno»: Sciascia on Joyce. Totomodo, 237 – 248. Traina, Giuseppe (2001). Vincenzo Consolo. Fiesole: Cadmo.
Summary
Lo Spasimo di Palermo is example of a crisis that has repercussions on the expressive form: on the one hand, the consciousness that «sul ciglio dell’abisso la parola si raggela, si fa […] simbolo sfuggente» comes out, on the other hand novel seems a «genere scaduto, corrotto, impraticabile». The generational conflict between Chino and Mauro is included in this sphere too. Hence it follows many solutions that lead to Consolo’s «poema narrativo» and testify the prevailing disorientation: paratactic accumulation, metaphors, literary quotations, figures of speech. Pictorial suggestions find its centre in Raphael’s Lo Spasimo di Sicilia, symbol of a pain that from Palermo arrives to Sicily and all world, while the spaces have a great importance and show the loss of historical memory, responsible for crisis. Key words: Consolo, crisis, memory, history
IL RISCHIO DELLA FINE IN NOTTETEMPO, CASA PER CASA DI VINCENZO CONSOLO
ANITA VIRGA (University of the Witwatersrand)
Questo saggio intende analizzare il romanzo di Vincenzo
Consolo Nottetempo, casa per casa (1992) utilizzando il motivo della fine del
mondo come chiave interpretativa dell’opera ed elemento unificante i diversi
piani su cui la narrativa si sviluppa. Se da una parte La nascita della
tragedia di Friedrich Nietzsche costituisce un modello intellettuale di
riferimento e di confronto per il romanzo consoliano, dall’altra le
considerazioni dell’antropologo Ernesto De Martino sull’apocalisse ci
permetteranno di proporre Nottetempo come una risposta psicologica, culturale e
letteraria al rischio della “fine” esperito in questi tre diversi ambiti. Nel volume postumo che raccoglie gli appunti
preparatori all’opera rimasta incompiuta La fine del mondo, De Martino
approccia il tema dell’apocalisse derivando una connessione tra il senso di
fine del mondo vissuto nel disagio psicologico individuale e le grandi
apocalissi culturali elaborate dalle società o da singoli attori collettivi
operanti in esse. Anticipando i temi di questa ricerca in un articolo comparso
un anno prima della morte dell’antropologo su Nuovi argomenti, egli chiariva il
nesso tra apocalisse individuale e apocalisse collettiva nei seguenti termini:
“i caratteri esterni delle apocalissi psicologiche sembrano riprodursi anche in
quelle culturali, dato che anche le apocalissi culturali racchiudono l’annunzio
di catastrofi imminenti, il rifiuto radicale dell’ordine mondano attuale, la
tensione estrema dell’attesa angosciosa e l’euforico abbandono alle
immaginazioni di qualche privatissimo paradiso irrompente nel mondo” (De
Martino, 1964:111). Il compito delle apocalissi culturali sarà allora proprio
quello di scongiurare la fine, costituendosi come difesa e reintegrazione del
rischio della fine esperito nell’apocalisse psicopatologica: esse, cioè, hanno
il compito di rivalorizzare a livello collettivo e condiviso ciò che nella
crisi personale diventa perdita di senso, incapacità di dare valore e incapacità
di operare nel mondo quotidiano, decretandone così la sua fine. Tuttavia,
avverte De Martino, “se il dramma delle apocalissi culturali acquista rilievo
come esorcismo solenne, sempre rinnovato, contro l’estrema insidia delle
apocalissi psicopatologiche, è anche vero che questo esorcismo può riuscire in
varia misura, e di fatto può sbilanciarsi sempre di nuovo verso la crisi
radicale” (De Martino, 1964:113). Anche le apocalissi culturali, dunque,
possono incorrere nel rischio di essere “nuda crisi” senza possibilità di
rinnovamento, “senza escaton”, rischio che De Martino intravedeva
nell’apocalisse dell’occidente contemporaneo che “conosce il tema della fine al
di fuori di qualsiasi ordine religioso di salvezza, e cioè come disperata
catastrofe del mondano, del domestico, dell’appaesato, del significante e
dell’operabile” (De Martino, 2002:470). Il doppio piano della crisi
psicopatologica individuale e della crisi esperita dalla società nel suo
insieme è colta da Consolo in Nottetempo attraverso il dispiegamento di una
fantasmagoria di personaggi reali e fittizi e attraverso l’ambientazione
storica. Il contesto storico nel quale tali personaggi operano (i primordi del
Fascismo), infatti, è rappresentato e
interpretato secondo i modi di una apocalisse storica che rischia di essere
“nuda crisi”, catastrofe senza rinnovamento. Essa, inoltre, fa eco e diventa
metafora per il presente: l’inizio del Ventennio fascista, infatti, diventa
anche il mezzo per parlare dell’inizio della Seconda Repubblica1 – l’anno
di
*
1 Lo stesso autore, chiarendo come il passato sia una metafora per il presente, evidenzia il carattere “apocalittico” di tale passato e tale presente: “Dopo il Sorriso, ho continuato a scrivere romanzi storici […]. L’ultimo, Nottetempo, casa per casa, è ambientato negli anni
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pubblicazione del libro si colloca proprio nel passaggio tra la fine di un mondo e l’inizio di una nuova era per la società italiana, nonché pare profeticamente avvertire la crisi culturale che sarà presto inaugurata dall’ascesa di Berlusconi al potere. Come De Martino, Consolo avverte nel presente il senso di una fine che non prevede un nuovo inizio, mentre individua nel passato eventi apocalittici che hanno segnato un rinnovamento: ne è esempio concreto la rinascita della Val di Noto attraverso il barocco dopo il terremoto del 16932. Con Nottetempo siamo, dunque, nella Cefalù dei primi anni Venti e un uomo corre forsennatamente nella notte, in preda al “male catubbo”, una forma di depressione in cui l’interpretazione popolare riconosce il licantropismo 3, o “male di luna”, come aveva già mirabilmente descritto Pirandello in una sua omonima novella. Veniamo in seguito a sapere che egli è il padre di una famiglia tormentata dal male interiore, per cui il licantropismo cui è soggetto non può essere spiegato solamente con una diagnosi scientifica, ma ha ragioni ben più profonde. La moglie (“troppo presto assente”) è morta e le due figlie sono affette da problemi psicologici: l’una, Lucia (“che sola e orgogliosa se n’andava per altra strada”), è mentalmente instabile e verrà rinchiusa in una clinica, l’altra, Serafina (“torbida, di pietra”, 106), vive in uno stato catatonico. Petro, il figlio eventi,
, che mi sembrano terribilmente somiglianti a questi che
stiamo vivendo, anni di crisi ideologica e politica, di neo-metafisiche, di
chiusure particolaristiche, di scontri etnici, di teocrazie, integralismi […]
Il Sorriso e Nottetempo formano un dittico. […] Nel primo ho voluto insomma
raccontare la nascita di un’utopia politica, della speranza di un nuovo assetto
sociale; nel secondo, il crollo di quella speranza, la follia degli uomini e la
follia della storia, il dolore e la fuga” (Consolo, 1993:47-48). 2 Nel capitoletto La rinascita del Val di Noto
compreso in Di qua del faro, Consolo descrive il terremoto che distrusse la Sicilia
orientale alla fine del ’600 proprio usando il termine “apocalisse” e
riconoscendo nell’arte barocca un valore escatologico: “E però il Barocco non è
stato solamente il frutto di una coincidenza storica. Quello stile fantasioso e
affollato, tortuoso e abbondante è, nella Sicilia dei continui terremoti della
natura, degli infiniti rivolgimenti storici, del rischio quotidiano della
perdita d’identità, come un’esigenza dell’anima contro lo smarrimento della
solitudine, dell’indistinto, del deserto, contro la vertigine del nulla”
(Consolo, 2001a:99). 3 Spiega Consolo:
“Il padre si ammala di depressione, che nel mondo contadino arcaico viene
chiamata licantropia. Questo fenomeno è stato studiato dalla principessa di
Lampedusa, che era una psicanalista che ha associato la licantropia alla depressione:
nel mondo rurale questi poveretti che soffrivano terribilmente, uscivano fuori
di casa, magari urlavano e venivano scambiati per lupi mannari” (Consolo,
2001b). protagonista del romanzo, è affetto dalla malinconia, da una tristezza
le cui origini egli stesso rintraccia in un tempo primordiale, un tempo perso
nel tempo, di cui il nome della famiglia, Marano4, ne è spia: “‘Da quale
offesa, sacrilegio viene questa sentenza atroce, questa malasorte?’ si chiedeva
Petro. Forse, pensava, da una colpa antica, immemorabile. Da quel cognome suo
forse di rinnegato, di marrano di Spagna o di Sicilia, che significava eredità
di ànsime, malinconie, rimorsi dentro nelle vene” (42). E più oltre riflette
ancora che quel dolore sembra essere sorto “da qualcosa che aveva preceduto la
sua, la nascita degli altri” (106). La famiglia del protagonista e Petro stesso
rappresentano così un articolato inventario dell’apocalisse psicopatologica:
ognuno, chiuso nella propria incomunicabile individualità, esperisce solitariamente
il “delirio di fine del mondo”, cioè la perdita della “normalità” del mondo e
della possibilità dell’intersoggettività
dei valori che lo rendono un mondo possibile e umano. Del male che affligge la famiglia, tuttavia,
si intravede anche una motivazione più contingente e precisa in quel
cambiamento di status, peraltro non giustificato dalle convenzioni sociali, che
verghianamente aleggia sulla famiglia come una rovina: il padre ha ricevuto
infatti l’eredità di un signore locale che ha preferito beneficiare la famiglia
Marano piuttosto che suo nipote, il barone Don Nenè, legittimo erede. La
menzione di questo avanzamento sociale, all’origine anche dell’inimicizia fra
Petro e Don Nenè, viene lasciata cadere qua e là nel romanzo come fosse la
colpa da cui discende tutto il male che gravita sulla famiglia. La ragione
dell’impossibilità del matrimonio fra Lucia e Janu è quella verghiana5 che
impedisce
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4 “Ho adottato questo nome perché ha due significati per me. Marano significa marrano, cioè è l’ebreo costretto a rinnegare la sua religione e a cristianizzarsi, perché in Sicilia con la cacciata degli Ebrei nel 1492 – così come in Spagna, – ci furono quelli che andarono via ma anche quelli che rimasero e furono costretti a convertirsi. È stata una forma di violenza. Ho dato il nome di Marano a questa famiglia con questa memoria di violenza iniziale e poi per rendere omaggio allo scrittore Jovine che chiama il suo personaggio principale Marano ne Le terre del sacramento, quindi è un omaggio a una certa letteratura” (Consolo, 2001b). 5 E Verga, non a caso, costituisce modello forte e necessario per Consolo, non solo a livello tematico in quanto “cantore” degli umili e ultimi, ma anche a livello stilistico in quanto sperimentatore: “La mia opzione è stata sulla scrittura espressiva che aveva come archetipo un mio conterraneo, Giovanni Verga, che è stato il primo grande rivoluzionario stilistico nella letteratura moderna. Da lui si passava, attraverso altri scrittori, come Gadda e
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inizialmente ad Alfio Mosca di prendere in moglie la Mena. Lucia si innamorerà poi di un uomo il cui mancato ritorno dalla guerra le procurerà la ferita fondamentale che la porterà alla pazzia; Petro riflette allora che Janu “quell’uomo buono, schietto, avrebbe forse rasserenato la sorella […], cambiato la sua sorte, e provò pena per lui, per Lucia, rabbia per quell’assurdo vallone che s’era aperto fra loro due” (63). Ma su questo motivo verghiano della condizione di classe si innesta quello della roba inteso come voracità di accumulo sconsiderato di beni; si instaura il dubbio che la vera causa della perdita della ragione, il dolore che porta alla pietrificazione, possa trovarsi in quell’accumulo, in quella roba: “Petro si diceva come sarebbe stato meglio per Serafina, per Lucia, non aver avuto nulla, essere incerte nella roba, ma salde nella persona, nel volere, coscienti e attive” (114). Si intravede qui, solo accennata, anche una critica al capitalismo sfrenato e al consumismo, che è in definitiva accumulo di roba per la roba, senza altra finalità. La condizione psicopatologica individuale, dunque, prende forma e mette radice anche in una condizione di “malattia” più generale della società feticizzata, che per questa ragione non è più in grado di generare valori umani ma si accascia su se stessa senza rinnovamento e nuovo significato. Accanto ai Marano, compare poi tutta una sfilza di personaggi che ruotano attorno all’arrivo a Cefalù di un individuo alquanto eccentrico e realmente esistito, il satanista inglese Alastair Crowley, il quale si insedia in una villa poco fuori paese e lì celebra i propri riti coinvolgendo diverse persone. Le proteste contadine e le azioni degli squadristi fascisti, infine, connotano il clima storico e sociale all’interno del quale le vicende si muovono.
Pasolini” (Consolo, 2001b). Lo stesso concetto è ribadito qualche anno dopo in un’altra intervista: “in generale mi sono sempre mosso nel solco gaddiano (solco tracciato per primo, nella letteratura italiana moderna, da Verga)” (Ciccarelli, 2006:96). Si veda anche il commento di Ferroni: “Il suo espressionismo tutto siciliano parte da Verga, dal serrato confronto con lo scrittore verista con il parlato e con la tradizione letteraria, e giunge come a rendere più densa e aggrovigliata la miscela verghiana” (Adamo, 2007:7). Infine, si legga anche il capitolo “Verghiana” in Di qua dal faro.
I tempi dell’apocalisse consoliana: moto e impetramento
Il senso della fine del mondo, cioè la caduta o perdita di questo mondo possibile, si manifesta nel romanzo attraverso due movimenti tra loro opposti che si estremizzano senza armonia: da una parte un moto vano e dall’altra una stasi pietrificata. De Martino individua in questi due poli due segni uguali e contrari della fine del mondo:
Il mondo che diventa “immobile”, il divenire che perde la sua “fluidità”, la vita che si devalorizza costituiscono un momento vissuto dell’ethos del trascendimento che muta di segno: l’altro momento è l’universo in tensione, la onniallusività dei vari ambiti in cerca di semanticità, la forza che travaglia questi ambiti e li sospinge ad andare oltre i loro limiti in modo irrelato, e che li fa partecipare caoticamente a tutto il reale e a tutto il possibile, senza sosta e senza offrire mai un appiglio operativo efficace. La polarità di immobilità e tensione, di rigidezza e forza onniallusiva, di crollo degli appigli operativi e di irrelata scarica psicomotoria, porta il segno dell’alterità radicale e dell’essere-agito-da, cioè il segno dell’alienazione nel senso patologico del termine: in tutti i vissuti cui dà luogo, si manifesta infatti il diventar altro proprio di ciò che sta alla radice dell’io e del mondo, l’annientarsi dell’energia valorizzante delle presenza, il non poter emergere come presenza al mondo e l’esperire la catastrofica demondanizzazione del mondo, il suo “finire”. (De Martino, 2002:631)
Tutti i personaggi di Nottetempo sono tesi ora verso un polo
ora verso l’altro, manifestando e vivendo in maniera diversa il disagio della
catastrofe imminente. Il movimento cui si abbandonano alcuni personaggi, tra
cui in primo luogo il satanista inglese – e che a livello sociale richiama
anche l’imperativo all’azione degli squadristi fascisti – diventa un’agitarsi
vano e inconcludente, un muoversi legato al caos e irrelato al mondo degli
oggetti, dunque privo di significato e incapace di crearne. Questo agitarsi
vano è anche un modo per nascondere e non dover fermarsi a fissare il dolore
che permea l’esistenza umana; infatti, fissare questo dolore può portare alla
pietrificazione, alla stasi completa, se non si riesce ad elaborare tale
sofferenza in maniera produttiva. Osservare questa profonda realtà in un
momento in cui l’individuo o la società nella sua interezza non riescono a
creare valore e significato per tale sofferenza può essere tanto rischioso
quanto guardare negli occhi la Gorgone: è un atto che conduce alla
pietrificazione, la stasi, che racchiude in sé tutto ciò che è mancante di
movimento, ma anche assenza di parola, impossibilità del dire, del
rappresentare e del comunicare. A questa condizione dell’esistenza umana
corrisponde in Consolo quella narrativa, sospesa tra il rischio di dire troppo
dicendo nulla – il vuoto della retorica6 – e la pagina bianca, il non scrivere
e il non dire. Nei poli dell’apocalisse
consoliana possiamo riconoscere una degenerazione dei due impulsi che concorrono
a formare la tragedia greca così come è descritta dal filosofo tedesco
Friedrich Nietzsche in La nascita della tragedia greca: il dionisiaco e
l’apollineo. Il dionisiaco, che dà origine al coro della tragedia, è l’ebbrezza
estatica in cui grazie all’annullamento della soggettività l’uomo può entrare
in contatto con l’“unità originaria” del tutto e riconciliarsi con la natura; è
movimento, danza, musica, scatenamento degli istinti e delle pulsioni vitali.
L’apollineo, invece, è contemplazione, sogno, creazione di immagini,
rappresentazione; nella tragedia è l’“oggettivazione dello stato dionisiaco”
(Nietzsche, 2003:122) del coro, dunque la scena, il dramma. Nell’apollineo si
intravede la qualità statica della contemplazione, di immagini nelle quali si
riduce l’azione; una staticità che Nietzsche definisce come “silenziosa
bonaccia della contemplazione apollinea” (Nietzsche, 2003:103). L’interazione e
l’equilibrio tra l’apollineo e il dionisiaco è ciò che dona forma alla tragedia
greca; Consolo, tuttavia, vede nella modernità la perdita di questo equilibrio
e la perdita della forza creatrice dei due impulsi nietzschiani: il dionisiaco
diventa disumanità, movimento falso, scatenamento di istinti bestiali che
invece di connettere l’uomo con una supposta unità originaria, lo
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6 “La rottura del rapporto tra intellettuale e società ha lasciato un vuoto di cui si è impadronita una comunicazione che è sempre impostura; è la voce del più forte, la verità falsata del potere” (Consolo in Papa, 2003:193).
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disconnette dall’umano, dalla comunità e non lo lega né alla dimensione del divino, né alla dimensione di una realtà o verità profonda; e l’apollineo è pura stasi, è l’essere intrappolati nella contemplazione di immagini di dolore. Questi due impulsi generano in Consolo un presente caratterizzato da una tragedia degenerata, priva di catarsi, priva di conclusione; egli stesso lo spiega a commento della propria opera: “l’anghelos, il narratore, non appare più sulla scena poiché ormai la cavea è vuota, deserta. Sulla scena è rimasto solo il coro, il poeta, che in tono alto, lirico, in una lingua non più comunicabile, commenta e lamenta la tragedia senza soluzione, la colpa, il dolore senza catarsi” (Consolo 1996:258). In un’opera successiva, L’olivo e l’olivastro (1994), lo scrittore individuerà nella metafora dell’“olivo”, l’albero innestato, l’albero che nasce dalla cultura e dalla civiltà, e dell’“olivastro”, l’albero selvatico, un’altra metafora per esprimere il senso di perdita dell’armonia di due opposti impulsi che, come l’apollineo e il dionisiaco, dovrebbero formare il senso e il valore della civiltà, di un mondo umanamente abitabile: “spuntano da uno stesso tronco questi due simboli del selvatico e del coltivato, del bestiale e dell’umano, spuntano come presagio di una biforcazione di sentiero o di destino, della perdita di sé, dell’annientamento dentro la natura e della salvezza in seno a un consorzio civile, una cultura” (Consolo, 2012a:13-14). Essi “non si combattono: al contrario, si completano. Essi si uniscono in lui [in Ulisse] armoniosamente come il ceppo materno e il ceppo paterno” (Consolo, 1999:25). Ma il dramma della modernità, ciò che porta la civiltà occidentale a vivere la propria apocalisse, è il sopravvento dell’olivastro sull’olivo: “Ecco, nell’odissea moderna è avvenuta la separazione tra il selvatico e il coltivato. L’olivastro ha invaso il campo” (Consolo, 1999:25). Come l’apollineo e il dionisiaco hanno perso la loro forma rendendo la tragedia moderna priva di catarsi, così l’olivo e l’olivastro non coesistono più armonicamente nel tronco della civiltà portando questa verso il suo tramonto.
Primo tempo: il movimento artificioso
In Nottetempo, come già accennato, il polo del movimento è rappresentato in primo luogo dall’inglese satanista e reso con particolare efficacia in un capitolo, La Grande Bestia 666, che reca significativamente in esergo una citazione dall’apocalisse di Giovanni. Aleister Crowley inscena un allucinante e allucinato rito orgiastico che dovrebbe in qualche modo rifarsi all’Arcadia greca, riproporne i miti, riconnettersi con un mondo antico e aureo, ma che nella realtà non è che una degradata imitazione di forme vuote e, soprattutto, una degradata riproduzione di un rito dionisiaco in cui l’ebrezza, la musica, la danza dovrebbero portare alla visione estatica. Il capitolo principia, infatti, con la descrizione di un ballo, che ci immette subito nella sfera del movimento senza arresto, nonché nel regno dionisiaco. È Aleister, immedesimato in una ballerina, a compiere prodezze sostenuto “nella felice trascendenza dai vapori d’oppio, d’etere, di hashish, di cocaina” (85). Il ritmo diventa sempre più incalzante, i lunghi elenchi che riempiono la pagina riproducono il “suono della vibrante cetra, dei cembali tinnanti, dell’acciarino acuto, del timpano profondo” (83) con cui si apre il capitolo; si veda, a titolo di esempio, questa lista di nomi che connotano l’essenza fittizia di Aleister, senza sosta, in un ritmo incalzante che toglie il fiato alla lettura: In lui c’era stato il tebano Ankh-f-n-Khonsu, Ko Hsuan discepolo di Lao-Tze, Alessandro VI Borgia, Cagliostoro, un giovane morto impiccato, il mago nero Heinrich Van Dorn, Padre Ivan il bibliotecario, un ermafrodita deforme, il medium dalle orecchie mozze Edward Kelley, il dottor John Dee, l’evocatore d’Apollonio di Tyana, il gran cabalista Eliphas Levi, in lui, il gentiluomo di Cambridge, Aleister MacGregor, Laird di Boleskine, principe Chioa Khan, conte Vladimir Svareff, Sir Alastor de Kerval, in lui, la Grande Bestia Selvaggia, To Mega Thérion 666, Il Vagabondo della Desolazione, Aleister Crowley (dàttilo e trochèo). (84)
È un elenco dal ritmo vorticoso, che confonde in una sorta di ubriacatura di parole: Consolo rende in tal modo, con un linguaggio che si fa nietzscheanamente metafora del suono7, il senso di un vano agitarsi. Questo moto, sostenuto dall’uso delle droghe, si connota come anormale e nella collezione di identità in cui di volta in volta Aleister Crowley si identifica possiamo vedere un sintomo di schizofrenia e psicopatologia connessa a uno stato epilettico, analizzando il quale De Martino individua il principio del moto distorto come una delle sue caratteristiche: “in tutto sta in primo piano l’elemento del moto: l’alterazione del movimento, la perdita dell’equilibrio, lo scuotimento della sicurezza e della tranquillità nel mondo delle cose, conducono alla conclusione: il mondo crolla, sprofonda” (De Martino 2002:38). Ma quando Janu, “this sicilian caprone” (80) – il satiro – rifiuta di prendere parte al rito, di consumare l’orgia, e scappa, il movimento vorticoso si arresta; il cielo di carta pirandellianamente si squarcia e la messa in scena rivela il proprio carattere fittizio, scoprendo per un attimo la falsità della vita stessa che il rito attraverso il vortice del ballo cercava di occultare: “Declamò ancora più forte la danzatrice in terra. Restò immobile. Attese. S’era interrotta ogni musica, ogni nota, sospeso ogni sussurro, fiato, il silenzio freddo era calato nella sala” (88). È l’assenza di movimento e di parola a rivelare la realtà, a svelarla:
Sentì ch’era sopraggiunto quel momento, quell’attimo tremendo in cui cadeva dal mondo ogni velario, illusione, inganno, si frantumava ogni finzione, fantasia, s’inceneriva ogni estro, entusiasmo, desiderio, la realtà si rivelava nuda, in tutta l’insopportabile evidenza, cava si faceva la testa, arido il cuore. […] Guardava il mondo in quello stato, si guardava intorno, e ogni cosa gli appariva squallida, perduta. (89)
7 Il linguaggio, secondo il filosofo tedesco, nasce da un impulso nervoso che si trasferisce in immagine e poi in suono. Il linguaggio della poesia del canto popolare è quello che meglio di qualunque altro riesce “nella imitazione della musica” (Nietzsche, 2003:101).
È il momento drammatico della rivelazione. Il rischio è la stasi, ma Aleister la scongiura chiedendo che gli venga data altra droga per ridiscendere nella condizione di trance e ricreare un mondo fittizio. Il capitolo, tuttavia, si chiude bruscamente con un altro svelamento, un altro squarcio che irrompe in questa realtà: l’annuncio che l’infante, il figlio di Aleister, è morto. Segue “tutto un trambusto, un irrompere all’aperto, un correre nella notte” (99), ma ovviamente invano, perché la stasi suprema, la morte, si è già impossessata della piccola Poupée. Nella scomparsa dell’infante è da leggersi, metaforicamente, la morte di ogni speranza e del futuro. È anche presagio della futura “apocalisse” che si abbatterà un ventennio dopo su tutta l’Europa nella forma della Seconda Guerra Mondiale causata dai fascismi. Aleister, infatti, rappresenta anche l’irrazionalità e la bestialità del fascismo, se è vero che intorno a lui si convogliano personaggi simpatizzanti e legati al fascismo, come il barone Nenè e la sua cricca, e che lo stesso inglese viene nominato come Superuomo, “colui che aveva varcato ogni confine, violato ogni legge, che aveva osato l’inosabile, lui, la Grande Bestia dell’Apocalisse” (90). Ed egli, nel tentativo di ricreare un mondo antico attraverso una messa in scena irrazionale, si fa simulacro del progetto di Mussolini e del Duce stesso, di colui che ha “varcato ogni confine” umano, reale e metaforico. Per Consolo apocalisse è anche questa: l’andar oltre il limite, il troppo, il movimento che travalica il confine, come l’ultimo viaggio dell’Ulisse dantesco oltre le colonne d’Ercole. In molti, infatti, hanno riconosciuto nei personaggi dello scrittore siciliano dei moderni Ulisse condannati a una continua peregrinazione dove non esiste l’Itaca a cui tornare8 – tema d’altronde, quello della perdita di Itaca, comune a molta letteratura moderna italiana, per cui il ritorno è sempre impossibile, a iniziare dal ‘Ntoni verghiano. E proprio i personaggi del romanzo di Aci Trezza sono descritti da Consolo in
8 Si veda su tutti l’articolo di Massimo Lollini “La testimonianza di Vincenzo Consolo, moderno Odisseo.” Italica 82.1 (Spring 2005), in cui l’autore analizza le varie figure ulissiache di Consolo, tra cui il personaggio inglese Alastair, il barone Nenè e Petro di Nottetempo. Lollini arriva a far coincidere la figura di Ulisse con quella di Consolo stesso, testimone dello spaesamento e del peregrinamento dell’uomo moderno, descritto “in toni che a tratti si fanno apocalittici” (38), soprattutto quando lo sguardo cade sulle odierne devastazioni che occorrono lungo il Mediterraneo.
L’olivo e l’olivastro come in continua preda di un movimento, una frenesia che ha esplicitamente i caratteri dell’apocalisse: “[il popolo di formiche] visse in quell’apocalisse del movimento rapido, nella vitalità guizzante, nella ferocia del possesso, nel tetro accumulo, nel tumore divorante” (Consolo, 2012a:40). L’Ulisse consoliano è privo di connotazioni romantiche ed eroiche, divenendo anzi spesso simbolo non solo dello spaesamento dell’uomo moderno ma anche della sua folle ricerca di un superamento dell’umano e dei suoi limiti contingenti: “Il soggetto etico di cui i romanzi di Consolo si fanno portavoce […] insiste sull’importanza di una riflessione sui limiti stessi della scrittura, che poi sono i limiti della civiltà, del tentativo di apprezzare e definire i contorni di una cultura della finitudine umana” (Lollini, 2005:34). Il movimento e il dionisiaco degenerato si connotano, perciò, in termini distruttivi e apocalittici quando significano tentativo di superamento dell’umano, che è anche sempre violenza disumana, bestiale. Il varcare le colonne d’Ercole si pone dunque per Consolo entro una dimensione etica che non riguarda più solamente l’individuo e il suo singolare confronto con la divinità, con l’oltre, ma riguarda l’individuo in quanto parte di una comunità9: questo Ulisse moderno senza possibilità di ritorno non è un eroe solitario in lotta contro forze superiori, ma è uomo le cui scelte e le cui azioni sono e si iscrivono sempre entro una dimensione etica che riguarda tutta la comunità circostante. In questo vediamo delinearsi la responsabilità del satanista inglese Alaister che non può essere circoscritta geograficamente e temporalmente all’interno di ciò che avviene nella villa a Santa Barbara, la villa appartata che egli sceglie come dimora. Alaister diventa emblema e portavoce di un modello di ricerca che sfocia nel disumano e che ha come vittima il più piccolo, nonché futuro, della comunità. La vittima, tuttavia, non è prevista dal rito e perciò non è sacrificale; essa, rimanendo legati al significato etimologico del termine, non entra nel regno del sacro e non si connette con una spiritualità superiore, ma rimane ancorata al senso profano, alla materialità terrena, non assume nessun valore superiore.
9 Così, d’altra parte, lo intende anche Dante, collocando Ulisse nell’inferno non già perché ha sfidato gli dei, quanto piuttosto perché si è allontanato dalla comunità degli uomini, trascinando alla rovina anche i suoi compagni.
Diventa una morte disumana, legata al superamento del limite, e non una morte sacra, una morte che può trascendere nel significato.
Secondo tempo: l’incedere umano
È, dunque, attraverso il recupero del senso dell’umano che il movimento può ritrovare il suo giusto ritmo, la sua misura, e non eccedere verso il limite dell’apocalittico, che è superamento dell’umano. Un passo del capitolo successivo a La Grande Bestia 666 collega le tematiche del movimento apocalittico e della stasi con la ricerca di una dimensione umana che possa scongiurare i due estremi. La riflessione avviene in occasione dell’incontro tra Petro e Janu, che per tanti mesi era scomparso e ora appare cambiato:
Pensò Petro a come si può cangiare in poco tempo, al tempo che scorre, precipita e niente lascia uguale. Che solo la disgrazia, la pena grave blocca il movimento, il cuore la memoria, come una bufera immota, un terremoto fermo, una paura assidua che rode, dissecca, spegne volere gioia. E sbianca e invecchia, mentre che dentro la ferita è aperta, ferma a quel momento, nella sfasatura, nella disarmonia mostruosa. Una suprema forza misericordia immensa potrebbe forse sciogliere lo scempio, far procedere il tempo umanamente. (105, corsivo mio)
Petro, dunque, minacciato costantemente come i suoi familiari dal pericolo dell’arresto del tempo, dell’immobilità, scorge dentro sé una via diversa da quella del satanista inglese o del fascismo: movimento sì, movimento che significa vita, ma che “proceda umanamente”. Appare evidente il contrasto con il movimento vorticoso, ossessivo, ritmico e in definitiva artificiale che ha animato il rito delle pagine precedenti. Solo nel tempo umano c’è la possibilità di salvarsi dall’apocalisse. È questo il tempo della memoria, il tempo che può essere articolato dalla coscienza umana, il tempo entro cui può risiedere l’umano. È perciò anche progetto di scavo, archeologia del tempo, del passato da cui recuperare frantumi, frammenti di umanità, come nota Bouchard: “Consolo allows the ruins of the past to haunt the surface of his narratives with the intent of making current the wounds and the lacerations of history. Since these are wounds and lacerations that can no longer be abreacted by a successful work of mourning, they give rise to an interminable writing of melancholy that displaces the ontological certainty of our reality while pointing towards a better future that can only be built out of the memory traces of the past” (Bouchard, 2005:17).
Terzo tempo: “il male di pietra”
Il tempo che scorre umanamente è costantemente minacciato dall’altra possibilità: dall’arresto. È questa la metafora più efficace e pregnante in Consolo, poiché è il rischio che egli stesso in quanto scrittore – e in quanto uomo – corre, è il pericolo che costantemente gravita sulla sua scrittura e che ritorna quasi ossessivamente da una pagina all’altra: è il pericolo che incombe su chi acquista la consapevolezza della realtà, chi sente la sofferenza declinata sia come male di vivere dell’uomo sia nella sua contingenza come male dell’epoca contemporanea. Consolo, rifiutando l’uso di un linguaggio comune troppo abusato e vuoto, cioè la parola che danza ma non dice, cede inevitabilmente il passo alla pietrificazione, alla stasi della parola. Ed è dunque su questo punto che si arrovella, è questo il cruccio della sua scrittura nonché quasi il paradosso dell’urgenza del dire in un mondo dove non è più possibile dire. È questa la degenerazione apollinea di una rappresentazione, qui propriamente intesa come drama, che si pietrifica in un’unica immagine di sofferenza. Ben giustamente Arqués cita Calvino e il suo saggio sulla leggerezza a proposito di Consolo, ma lo fa per stabilire un parallelo tra la narrazione storica dello scrittore siciliano e Perseo, o, meglio, tra la realtà presente e la Gorgone, che non può essere guardata negli occhi, pena la pietrificazione. La metafora, tuttavia, acquista maggior pertinenza se nella figura della Gorgone non proiettiamo semplicemente il presente, ma il dolore, la realtà profonda che soggiace a ogni esistenza, quel male di vivere che non può essere nominato se non con una descrizione e che a seconda di chi parla e del momento può assumere forme diverse, ma che è anche sostrato universale che accomuna l’uomo di tutte le epoche e i luoghi. È quel senso di verità e dolore che, appunto, se viene fissato direttamente, scoperto e guardato nella sua cruda interezza pietrifica, proprio come il mostro mitologico. Calvino userà allora la leggerezza come specchio per guardare quella pesantezza dell’esistere; Consolo, invece, sa che anche il linguaggio è costantemente minacciato dal vano agitarsi di parole e perciò sente di non poter più praticare una lingua troppo tarata da forme vuote; correrà perciò sempre il rischio, come i suoi personaggi, di pietrificarsi fissando la medusa. In Nottetempo il personaggio cui è assegnata la sfida di trovare la giusta misura, il tempo umano, è Petro, che nel nome porta chiaramente il significato di quel cadere nella contemplazione del male d’esistere. Il primo capitolo, nel quale si svolge l’inseguimento notturno di Petro nei confronti del padre affetto dal “male catubbo”, stabilisce il campo semantico entro cui ci dobbiamo confrontare: il licantropismo, fenomeno dell’uomo tramutato in lupo, ci pone nel regno delle metamorfosi. Qui il riferimento classico è ovviamente Ovidio10, di cui la studiosa Galvagno riconosce una caratteristica fondamentale: “La métamorphose ovidienne, soit humaine, animale, végétale, liquide ou minérale (y compris les catastérismes), présuppose comme son moyau le plus intime une pétrification, une immebolité, une fixité de l’être métamorphosé” (Galvagno, 2007:179). Ora tale tratto della pietrificazione dell’essere sarebbe presente, secondo la studiosa, nella scrittura di Consolo – e abbiamo già citato, non casualmente, il mito di Perseo. Tutto in Nottetempo sembra essere sull’orlo della pietrificazione: personaggi, azioni, eventi, il tempo, la scrittura. Pietrificazione
10 Esistono differenti possibilità di interpretazione e stratificazioni di significato nella figura dell’uomo trasformato in lupo, nonché naturalmente differenti storie e tradizioni e appropriazioni di tali tradizioni da parte della letteratura, ma vale forse qui la pena ricordare il racconto che fa Ovidio di Licàone, trasformato in lupo da Giove perché progettava di uccidere il dio. Giove racconta: “[…] io con fuoco vendicatore faccio crollare quella casa indegna del suo padrone. Lui fugge, atterrito, e raggiunti i silenzi della campagna si mette a ululare: invano si sforza di emettere parole” (Ovidio, 1994:15). E dopo Giove invocherà l’apocalisse: la distruzione del genere umano, perché indegno, corrotto e criminale. Si legga, per confronto, il passo di Consolo: “Si spalancò la porta d’una casa e un ululare profondo, come di dolore crudo e senza scampo, il dolore del tempo, squarciò il silenzio di tutta la campagna” (6). E subito dopo l’episodio del lupo mannaro, comparirà sulla scena il satanista Aleister. richiama sia la stasi, l’assenza di movimento, di parola, sia il senso del peso, come aveva rilevato Calvino: la pesantezza dell’essere. E infatti chi si pietrifica è chi fissa, immobile, e contempla tale pesantezza, diventando egli stesso o ella stessa di pietra, avvertendo su di sé tutta la pesantezza del male e sprofondando nel silenzio. Il silenzio e l’impossibilità dell’esprimersi si associano all’assenza di movimento, alla pietrificazione, divenendo l’uno spia dell’altro. Fanno da contraltare le urla disumane, suoni che spesso non si articolano in parole intellegibili (come gli ululati del lupo mannaro) e che esprimono al pari del silenzio il dolore umano; molte volte l’urlo e il silenzio si ritrovano insieme come due espressioni dello stesso concetto di sofferenza. Molti sono gli esempi sparsi nel testo che esprimono il senso della stasi e/o del silenzio; si leggano questi: “il confine del dolore fermo, del vuoto immoto” (9), “ma là era silenzio e stasi, era riposo” (9), “Guardava il silenzio sulle case, ad ogni strada, piano, baglio, il silenzio al meriggio” (13), “nella sublime assenza, nella carenza di ragione” (37), “‘Uuuhhh…’ ululò prostrato a terra ‘uuhh… uhm… um… mmm… mmm… mmm…’” (38, e questa volta è Petro che emette suoni incomprensibili), “nell’attasso del cuore, canto del pendolo bloccato” (42), “nella segreta sua torre d’urla, di lamento” (51), “Siamo un ribollìo celato d’emozioni, un rattenuto pianto” (66), “E tu, e noi chi siamo? Figure emergenti, palpiti, graffi indecifrati. Parola, sussurro, accenno, passo nel silenzio” (67), “la pena grave blocca il movimento” (103), “Serafina torbida, di pietra” (106), “la pietra del dolore” (135). Sono tutte espressioni di sofferenza e legate alla consapevolezza della sofferenza, alla sua contemplazione che sottrae l’azione e la parola. Già nel Sorriso dell’ignoto marinaio (1976) era presente l’idea della pietrificazione come espressione del male, essa però era legata a una contingenza – i cavatori di pomice – che diventava metafora per una sofferenza più generale, quella degli ultimi: “‘Male di pietra’ continuò il marinaio ‘È un cavatore di pomice di Lipari. Ce ne sono a centinaia come lui in quell’isola. Non arrivano neanche ai quarant’anni’” (Consolo, 2010:8). Ma successivamente in L’olivo e l’olivastro la metafora “male di pietra” si approfondisce e diventa l’ossessione costante con cui dire la sofferenza umana. Nelle pagine iniziali ritornano i cavatori come a stabilire quel paragone, fondare quella metafora della pietra che poi diventa il nucleo lessicale fondamentale per esprimere il dolore: “[…] entrò nelle caverne della pomice, parlò con i cavatori silicotici […] Erano secchi e grigi i cavatori, avevano denti corrosi dalla polvere, prendevano anelettici, cardiotonici: cresceva dentro loro poco a poco una corazza di pietra, il cuore s’ingrossava, si smorzava il fiato, si spegneva” (Consolo, 2012a:26-27). E qui in questo testo allora abbondano non tanto – o non solo – espressioni diverse che indicano l’impossibilità del dire e del fare, quanto piuttosto in maniera più specifica lemmi legati alla radice “pietra”: “Che arrestò al suo accadere, pietrificò illusioni, speranze, rese di lava la vita” (34), “un vecchio poeta afasico, irrigidito nel giovanile errore, pietrificato nella follia ribelle” (36), “Una barca di pietra, la pietra in cui si mutò la barca feacica che aveva portato in patria l’eroe punito, l’eroe assolto dopo il lungo racconto–che in pietra si muti la barca, si saldi al fondale prima d’ogni ritorno, poiché nel ritorno, così nel racconto, consiste lo strazio” (39), “si pietrifica per il dolore, perde vigore e ragione” (41), “la Catania pietrosa e inospitale” (52), “la ferma maschera, quasi impietrita del nobile vegliardo” (59), “la loro tragedia s’è svolta in un attimo lasciando impietriti” (125). La pietrificazione è legata all’esperienza personale, alla scrittura, ma anche alla società. In un articolo pubblicato sul Corriere della Sera nel 1977, Paesaggio metafisico di una folla pietrificata, e che O’Connell riconosce come uno degli avantesti di Nottetempo per quell’incipit del tutto simile, Consolo attribuisce alla Sicilia, che sta sempre in rapporto sineddotico con la società, quell’impulso alla pietrificazione come forma generale e risposta alla consapevolezza del male: “c’è una depressione più inclemente e disumana di questa, ed è quella che non arriva all’estremo livello, ma si ferma al di qua, a un passo dall’insopportabilità. È lo stadio che blocca la vita, la congela, la pietrifica” (Consolo 1977:1). E la Sicilia sembra, per lo scrittore, bloccata “in questo limbo, in questa metafisica paralisi”, unica reazione con cui ha controbattuto il movimento artificiale, del quale ne diviene simbolo l’autostrada, “moderno feticcio dell’accelerazione spasmodica”. E pure qui la contrapposizione si ritrova anche sul piano della comunicazione, poiché in questa Sicilia “sequestrata e pietrificata” chi ha cercato “di fare e di dire”, cioè di cambiare la situazione, è stato costretto al silenzio e sulla lunga tradizione letteraria isolana, da Verga a Sciascia, ora domina “la parola vuota, l’inutile incanto, la retorica” (Consolo, 1977:1). In questo precedente di Nottetempo c’è dunque l’esplicitazione di come la metafora dell’impetramento e del movimento, del silenzio e della “vuota parola”, che permea il romanzo sia da leggersi anche sempre come condizione sociale oltreché intellettuale ed esistenziale. Queste considerazioni ci riportano a De Martino e all’associazione tra l’apocalisse psicopatologica e quella culturale. Se gli stati epilettici e la schizofrenia sono caratterizzati da un senso di moto che in ultima analisi veicola il senso della fine del mondo, lo stato catatonico è l’insania che al contrario si lega all’assenza di movimento e diventa negazione del tempo e della storia, cioè ancora del mondo: “Tutte le cose sono diventate immobili, in uno stato senza tempo. Il corpo risponde a questo mondo non muovendosi più: il catatonico sta fermo e dritto come una statua in un museo di curiosità, mentre per noi, non catatonici, il mondo parla così chiaramente di movimento, è così visibilmente in “moto”, che possiamo rispondere al suo appello solo con i movimenti del nostro corpo” (De Martino, 2002:57). Se per il non catatonico il mondo può procedere secondo un tempo che è umano, il catatonico bloccandosi come una statua rifiuta tale tempo e porta il mondo al suo precipitare. In Petro e nella famiglia Marano l’arresto e la catatonia concretizzano la metafora di “folla pietrificata” in una società sull’orlo dell’apocalisse.
La torre dell’urlo e del silenzio
Le sorelle di Petro, come abbiamo già accennato, sono chiuse
e sprofondate nell’impetramento dell’anima e del corpo. Serafina, col nome
programmatico di chi non appartiene a questo mondo e di chi ha una pace che non
è terrestre, è immobile in uno stato quasi catatonico, persa in vagheggiamenti
religiosi che non hanno più alcun referente nel contingente: “E Serafina,
ch’aveva preso prima il ruolo della madre e poi s’era seduta, fatta muta ogni
giorno, immobile, di pietra, dentro nella scranna, il solo movimento delle dita
che sgranano il rosario di poste innumerevoli, di meccaniche preghiere senza
sosta” (42). Serafina nella storia non c’è, è personaggio serrato in questa impossibilità
di essere e di comunicare; è solamente evocata e l’unica volta che compare è
un’immagine di chiusa pazzia: “Era prona la sorella, ai piedi del comò
acconciato come altare, pieno il marmo di fiori ceri avanti a quadri,
immaginette, duplicati nello specchio. Faceva un canto mesto, come un lamento”
(158); ma naturalmente le sue parole sono inintelligibili. L’altra sorella, invece, Lucia, cade in una
pazzia che prima ancora di essere assenza e distanza è urlo innaturale, parole
sconclusionate11, perse in un passato disordinato e non recuperabile. In Lucia,
infatti, si racchiude anche il tema fondamentale del recupero del passato, ma
un recupero che fallisce, poiché il disordine dei frammenti rimane un disordine
che non è in grado di tracciare nessuna via, per quanto precaria e labile. Il
ricordo delle ferite che riemerge in lei è un ricordo che riproduce
meccanicamente il trauma ma non lo supera mai; si legga la scena fondamentale
dove, dopo l’“oltraggio” subìto dalla famiglia Marano a causa dell’antagonismo
fra Petro e Don Nenè, Lucia farnetica pezzi di frasi che riportano alla luce un
passato non attinente all’evento appena accaduto e incapaci di produrre
conoscenza, comunicazione o presa sulla realtà: “‘Ah, tana di cani corsi, di
mastini […]’ riprese a dire la sorella ‘Ah, quanto piangere di madri,
d’innocenti […] Attento, Petro, non uscire!’ […] ‘Che fa Janu, non viene?
Dobbiamo andare o no alla mandra, a mangiare la ricotta? […] Si fece tardi
ormai […] No, no, aiuto! […]’ e indietreggiò, si portò le mani alle
orecchie” (158). Lucia, in un certo
senso, è andata oltre il limite umano, ha varcato un confine oltre il quale
l’uomo non può accedere rimanendo uomo, tanto che Petro osserva parlando all’amico
Janu: “Né io né tu possiamo più raggiungerla” (68). Ella rappresenta attraverso
l’urlo e il movimento irragionevole ciò che Serafina rappresenta attraverso la
stasi e il silenzio. Lucia, al contrario della sorella, è visibile, agisce, ha
una personalità forte e inquieta, va per la campagna con il fratello Petro e
l’amico Janu, è promessa sposa; ma il giovane che ha chiesto la sua mano non
torna dalla guerra. In quel dolore Lucia si chiude, si
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11 Ancora con De Martino possiamo leggere: “In
generale il dominio della follia diventa comprensibile come caduta dell’ethos
del trascendimento, della presentificazione valorizzante, e come costruzione di
difesa fittizia che accentuano il recedere verso l’incomunicabile, il privato,
il senza-valore-intersoggettivo” (De Martino, 2002:85).
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pietrifica, ma esplode in urlo piuttosto che cadere nel silenzio, esplode in suoni che non possono articolare e razionalizzare quel dolore: “Finché un giorno, un mezzogiorno che Petro tornava dalla scuola, non si mise a urlare disperata dal balcone, a dire che dappertutto, dietro gli ulivi le rocce il muro la torre la sipale, c’erano uomini nascosti che volevano rapirla, farla perdere, rovinare” (46). E poco oltre: “Lanciò improvviso un urlo e scappò via, si mise a correre, correre per il sentiero, come presa da frenesia, da tormenti” (47). È la fuga di Lucia oltre il limite dell’umano, eppure anch’ella è figura statica, immobile, figura che s’impetra nel dolore e lo fissa perdendo la capacità di vedere altro e cioè anche la capacità di creare e vedere altre visioni apollinee: rimane una sola visione senza drama e in essa Lucia si ferma. Così ecco che anche il suo nome acquista pregnanza, nel momento in cui il testo ci ripete insistentemente nello stretto volgere di un paragrafo che Lucia – che vuol dire luce ma che è anche patrona dei non vedenti e degli oculisti – non vede più, è diventata cieca nella fissità: “La portò via da casa […] perché si dissolvesse in lei l’idea fissa. […] Ma era come lei non vedesse […] era come se avesse gli occhi sempre altrove, fissi dentro un pozzo” (47) – dove quel “pozzo” sta per la profondità del dolore. Lucia è anche figura pietrificata in quel suo guardarsi continuamente allo specchio, atto autoriflessivo che non comunica con il mondo esterno ma ricade sulla persona medesima; ella fissa se stessa e la sofferenza che ha guardato con i propri occhi ora riflessi allo specchio. Atto solipsistico e chiuso, come chiusa è lei nella propria camera: “E stava ore e ore chiusa nella stanza, avanti alla toletta a pettinarsi, in incantesimo, il guardo trasognato, perso nel guardo suo di fronte dentro lo specchio” (46). La sofferenza familiare si racchiude metaforicamente nella concretezza della “torre”, ovviamente fatta in pietra (“la sua voce roca sembrava vorticare per le pietre della torre” 37), che assurge a simbolo di chiusura e solitudine – torre è quel tipo di edificio caratterizzato da una dimensione in altezza nettamente maggiore rispetto alla dimensione della base e che dunque si isola rispetto alle costruzioni circostanti; torre per antonomasia è quella di Babele, dove regna il caos, il disordine e la confusione, principio delle lingue diverse che impedirono all’uomo di comunicare l’uno con l’altro12. Nella torre dove sono chiusi i membri della famiglia Marano la comunicazione non è possibile, le parole non assumono un significato che possa essere compreso dagli altri, decifrato: “‘Pietà, pietà’ implorò in quella solitudine sicura, dentro quel rifugio della torre, quel segreto oratorio d’urla, pianto, sfogo” (38). L’urlo è il simbolo di questo dolore, sfogo inarticolato, contraltare del silenzio: “nella segreta sua torre d’urla” (51), “E nella torre ora, dopo le urla, il pianto”. L’urlo, come il silenzio, è una comunicazione bloccata. Petro allora si rende conto che è necessario recuperare le parole per uscire dalla torre. È questo un momento fondamentale del testo, che è sia riflessione sulla sofferenza umana sia sulla scrittura cui è affidato il compito di esprimere tale sofferenza. Nottetempo è allora anche e “innanzitutto la storia di una vocazione alla scrittura” (Traina, 2001:92). Il tentativo di uscire dalla torre di pietra e scongiurare l’afasia si pone come uno dei temi centrali del testo. Attraverso questo percorso del protagonista, si assiste anche alla lotta che lo stesso Consolo conduce per non cadere nell’impetramento della scrittura, nell’impossibilità del dire, del parlare, nell’apocalisse della parola.
Afasia
Nottetempo è anche romanzo autobiografico, non tanto perché ci siano elementi biografici dello scrittore che possano essere riconosciuti nella vicenda di Petro, quanto piuttosto perché la storia di Petro, la sua uscita dalla torre, è anche il viaggio intellettuale dello scrittore Consolo. Riconosciuta l’oppressione del silenzio familiare e dell’esilio dalla ragione e dalla parola delle due sorelle, nel protagonista del romanzo nasce il desiderio di uscire dalla torre ricomponendo un linguaggio attraverso cui poter di nuovo comunicare una realtà, riconnettersi con essa:
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12 “Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: ‘Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro’” (Genesi 11:5-7).
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Sentì come ogni volta di giungere a un limite, a una soglia estrema. Ove gli era dato ancora d’arrestarsi, ritornare indietro, di tenere vivo nella notte il lume, nella bufera. E s’aggrappò alle parole, ai nomi di cose vere, visibili, concrete. Scandì a voce alta: “Terra. Pietra. Sènia. Casa. Forno. Pane. Ulivo. Carrubo. Sommacco. Capra. Sale. Asino. Rocca. Tempio. Cisterna. Mura. Ficodindia. Pino. Palma. Castello. Cielo. Corvo. Gazza. Colomba. Fringuello. Nuvola. Sole. Arcobaleno […]” scandì come a voler rinominare il mondo, ricreare il mondo. (38-39)
Questo elenco precede quello che poi ritroveremo nelle pagine dedicate al rito satanico di Alaister e si pone su uno stesso piano di complementarietà: come quello nasceva dal movimento artificioso del dionisiaco degenerato, questo nasce dall’impetramento afasico dell’apollineo degenerato. In entrambi la parola è mimesi del gesto: lì c’è la ricreazione del movimento, in cui il segno della virgola dà il senso del ritmo della danza e della musica, qui c’è la riproduzione della stasi, marcata dal punto che segue ogni parola e che indica la pausa, una cesura di tempo e di spazio, la difficoltà dell’esprimere una parola dietro l’altra, l’inarticolazione di un discorso. E se là il vortice delle parole serviva a confondere, ad allontanare dalla realtà, qui c’è l’avvicinamento, o per lo meno il tentativo di avvicinarsi a qualcosa che si è perso da tempo – o mai avuto. È un elenco di parole semplici, in cui tuttavia si può riconoscere una catena logica di riferimenti che dalla terra vanno al cielo, dalla “pietra” al senso di libertà del volo degli uccelli e alla luce del sole. Attraverso questo “rinominare il mondo” Petro cerca di riattivare un legame con la realtà, o, per dirla ancora con Nietzsche, cerca parole che non esprimono altro che “relazioni delle cose con gli uomini” (Nietzsche, 1964:359); cerca dunque di ritrovare questa relazione con le cose. Nel processo dell’elencare riemerge una realtà frantumata, che si dà appunto solo in frammenti; ed è solo così, in quei frantumi testimoniati dall’accumulo di lemmi che si può cogliere una realtà la cui unità, come il discorso, come il narrare, non può essere (ri)composta. Anche la scrittura, infatti, si arresta, si blocca sull’orlo dell’impossibilità di esprimere, di connettere parole con realtà; così fallisce il tentativo di Petro: “cercò di scrivere nel suo quaderno – ma intinge la penna nell’inchiostro secco, nel catrame del vetro, nei pori della lava, nei grumi dell’ossidiana, cosparge il foglio di polvere, di cenere, un soffio, e si rivela il nulla, l’assenza di ogni segno, rivela l’impotenza, l’incapacità di dire, di raccontare la vita, il patimento” (53). Petro è come l’uomo dionisiaco descritto da Nietzsche: simile a lui cerca la salvezza nell’arte, cerca un’“illusione” che lo salvi dallo sguardo che ha gettato sull’orrore delle cose; egli ha la conoscenza del dolore e rischia per via di essa di rimanere pietrificato, di perdere la volontà dell’azione e dire “no” alla vita. “In questo senso” dice Nietzsche “l’uomo dionisiaco è simile ad Amleto: entrambi una volta hanno gettato uno sguardo vero nell’essenza delle cose, hanno conosciuto, e agire li nausea; poiché la loro azione non può cambiare niente nell’essenza eterna delle cose, essi sentono come ridicolo o infame che venga loro chiesto di rimettere in sesto il mondo uscito fuori dai cardini” (113). Consolo, attraverso il personaggio di Petro, ci descrive allora il viaggio verso l’esaltazione dionisiaca, che qui altro non è che volontà e capacità di esserci ancora, di agire in questo mondo – e di scrivere, di dire. Assistiamo così all’uscita metaforica di Petro dalla torre, alla sua presa di coscienza politica (che passa tramite lo sputo al barone, l’amicizia con il Miceli, la partecipazione alle manifestazioni di piazza, l’“oltraggio” subito e infine l’attentato perpetrato) e alla promessa, a fine romanzo, di una nuova scrittura attraverso cui sciogliere il grumo del dolore: “Pensò al suo quaderno. Pensò che ritrovata calma, trovate le parole, il tono, la cadenza, avrebbe racconto, sciolto il grumo dentro. Avrebbe dato ragione, nome a tutto quel dolore” (171). Questa scrittura, sappiamo, sarà il rifiuto delle parole cerimoniose e della falsa retorica, si distanzierà tanto dal libro dell’anarchico lasciato cadere in mare quanto dalle “parole rare e abbaglianti” di D’annunzio o quelle “roboanti” (112) di Rapisardi. La vicenda di Petro si conclude perciò in quella dei satiri del coro, nel recupero attraverso la scrittura di un dionisiaco non degenerato: Nella coscienza di una verità, ormai contemplata, l’uomo adesso vede dappertutto soltanto l’orrore o l’assurdità dell’essere […]. Qui, in questo supremo pericolo della volontà, si avvicina, come maga che salva e risana, l’arte: soltanto essa può piegare quei pensieri nauseati per l’orrore o l’assurdità dell’esistenza in rappresentazioni con cui si possa vivere. (Nietzsche, 2003:114)
Questo è anche il percorso intrapreso dal Consolo scrittore, che approda alla tragedia di Catarsi (1989) come simbolo di un modo di scrivere; dice nel saggio Per una metrica della parola: “La tragedia rappresenta l’esito ultimo della mia ideologia letteraria, l’espressione estrema della mia ricerca stilistica. Un esito, come si vede, in forma teatrale e poetica, in cui si ipotizza che la scrittura, la parola, tramite il gesto estremo del personaggio, si ponga al limite dell’intellegibilità, tenda al suono, al silenzio” (Consolo, 2002:250). Come ultima possibilità in una società dalla lingua corrotta e degradata, dallo sfaldamento della comunicazione, dalla rottura del rapporto tra scrittore e suo pubblico, suo referente in tale società, come ultima risorsa prima di cadere nell’afasia, nel silenzio, c’è il recupero dello spirito dionisiaco (e apollineo) che si esprime più compiutamente nel coro della tragedia, come si verifica nel Prologo a Catarsi:
La tragedia è la meno convenzionale, la meno compromessa delle arti, la parola poetica e teatrale, la parola in gloria raddoppiata, la parola scritta e pronunciata. Al di là è la musica. E al di là è il silenzio. Il silenzio tra uno strepito e l’altro del vento, tra un boato e l’altro del vulcano. Al di là è il gesto. O il grigio scoramento, il crepuscolo, il brivido del freddo, l’ala del pipistrello; è il dolore nero, senza scampo, l’abisso smisurato; è l’arresto oppositivo, l’impietrimento. (Consolo, 2002:13)
Allora in Nottetempo dobbiamo leggere questo approdo al canto del coro della tragedia, approdo di Petro dietro cui non sarà difficile riconoscere il percorso della scrittura e della poetica di Consolo stesso, teso tra il rifiuto della parola vuota e l’attrazione per quel silenzio che racchiude tutto il dolore. Petro è dunque il personaggio che incrocia tutti e tre i piani tematici su cui si dispone il romanzo e su cui si dispiega il senso dell’apocalisse: quello esistenziale, quello storico-culturale e quello della scrittura. A livello narrativo egli funziona come elemento unificatore di questi piani e, a livello contenutistico, si configura come chiave per trascendere il pericolo dell’apocalisse nel valore che possa rinnovare i mondi (quello interiore, quello sociale e quello letterario) infondendo loro nuovo significato. Più che romanzo “apocalittico”, dunque, Nottetempo è romanzo del “rischio della fine” e dell’inserimento di tale rischio in un’ottica che ne accenni e ne indichi il superamento e la reintegrazione.
Bibliografia
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Abstract This essay aims to analyse the novel, Nottetempo, casa per casa (1992), by Vincenzo Consolo, considering the motif of the end of the world as a central and unifying element of the different levels on which the narrative unfolds. While The Birth of Tragedy by Friedrich Nietzsche is the intellectual reference for the novel, the considerations by the anthropologist Ernesto De Martino on the apocalypse allows us to interpret Nottetempo as a response to the psychological, cultural and literary risk of the “end” experienced in these three different areas.
Italian Studies in Southern Africa/Studi d’Italianistica nell’Africa Australe Vol 27 No 2 (2014)
La scrittura come fuga dal carcere della Storia Il sorriso dell’ignoto marinaio
Giulia Falistocco
Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio Consolo riprende la lezione di Manzoni, ma decostruisce la forma romanzesca attraverso una struttura complessa e una forte sperimentazione linguistica. Il romanzo storico rimane per Consolo un modo per rappresentare metaforicamente il presente, sebbene non più in maniera innocente, ma per mezzo di forme parodiche, atte a superare un’arte ironica-borghese. L’articolo quindi analizza le strategie rappresentative e allegoriche con cui Consolo dà nuovo spessore al romanzo storico, riuscendo a conservare un vigore etico e politico.
Dopo tredici anni di silenzio, a seguito de La ferita dell’aprile, nel 1976 Vincenzo Consolo pubblica Il sorriso dell’ignoto marinaio. Il suo secondo romanzo è un’opera necessaria, «nata da esperienze private e da eventi pubblici» (Consolo 2015: 1255), con la quale l’autore affronta metaforicamente il passato e il presente siciliano. Per Consolo lo scrittore, infatti, da Zola in poi, non può sottrarsi alla Storia, «se non a rischio dell’accusa di complicità e di collaborazione col potere che perpetra ingiustizie e delitti» (Consolo 2015: 1173). Il romanzo propone una metafora politica e sociale, dunque, che tenta di superare il “silenzio artistico”, per dirla con parole dello stesso Consolo, e di sperimentare le potenzialità rappresentative del romanzo.
2La planimetria metaforica del romanzo è strutturata attraverso l’immagine della chiocciola, come ha mostrato Cesare Segre nel suo illuminante saggio (Segre 1991), archetipo ancestrale, «origine della percezione, conoscenza e costruzione» (Consolo 2015: 1254). Attraverso quest’immagine, Consolo dà forma alla materia narrata, con l’intento di allargare nel tempo, «verticalizzare» (Consolo 2015: 1255), il suo messaggio. L’obiettivo ultimo dell’autore, però, è quello di mostrarne il superamento: solo l’evasione dal carcere-chiocciola può ridurre lo spazio comunicativo fra testo linguistico e contesto situazionale. Nel pensiero di Consolo, quindi, la sfida alla chiocciola si coniuga con la sperimentazione del romanzo storico. Il punto focale, o, come direbbe Consolo, «l’angolo acuto» (Consolo 2015: 1255) di questo triangolo, è il quadro di Antonello da Messina: L’ignoto marinaio. Con il suo sorriso ironico, il ritratto è espressione dell’élite intellettuale, di cui l’autore mostra le mancanze, i limiti e le storture. Il raziocino culturale, in particolare di stampo illuminista, viene smascherato, con lo scopo di mostrare in ultimo la fragilità della parola: la letteratura deve quindi prendere coscienza della sua “impostura”, della sua soggettività e temporalità.
- 2 Come scrive Spinazzola: «I Viceré, I vecchi e i giovani, Il Gattopardo costruiscono una sorta di (…)
3In questo articolo si intende analizzare gli elementi di questo triangolo (chiocciola, ritratto e romanzo) attraverso i quali Consolo sperimenta e supera il romanzo storico, genere ricorrente nella più recente letteratura siciliana2.
4I capitoli chiave che ci consentono di entrare nel cuore del romanzo sono gli ultimi quattro, composti dalle lettere che Mandralisca invia a Giovanni Interdonato (compreso l’ultimo capitolo costituito dalla trascrizione delle epigrafi). Queste nascono dalla necessità di narrare i moti di Alcàra Li Fusi; ma l’impossibilità di trovare le parole della memoria dà origine a una requisitoria rivolta al suo alter ego, che si trasforma con lo scorrere delle pagine in una confessione. Le aporie della Storia diventano, quindi, il vero oggetto della lettera: la loro risoluzione passa attraverso l’immagine della chiocciola, simbolo della memoria personale e collettiva.
- 3 Dietro questa dichiarazione possiamo intravedere i modelli letterari dell’autore: se da un lato S (…)
5Nell’ottavo capitolo, intitolato Il carcere, l’ambientazione è nel castello di Maniforti, che nasconde nelle sue fondamenta la prigione, in cui vengono portati i condannati di Alcàra Li Fusi. Il carcere ha la forma di «un’immensa chiocciola con la bocca in alto e l’apice in fondo, nel bujo e putridume» (Consolo 2015: 235). È uno schema elicoidale che appunto, seguendo il suggerimento dello stesso Consolo, serve a «conoscere com’è la storia che vorticando dal profondo viene; immaginare anche quella che si farà nell’avvenire» (Consolo 2015: 238). La forma della conchiglia, essendo tridimensionale, unisce spazio e tempo, ed è proprio quest’ultimo che «verticalizza» la struttura. Come ha individuato Turchetta, «la progressione lineare del racconto si sovrappone costantemente al ripetersi di strutture analoghe» (Turchetta 2015: XLIX) che appunto mimano la chiocciola. Il romanzo infatti è composto da una serie di piani temporali apparentemente disgiunti, ma che nascondono molteplici connessioni. Capire l’iter vorticoso della Storia è compito del lettore quanto del protagonista Mandralisca. Attraverso l’immagine della chiocciola, quindi, l’autore organizza la narrazione: la sua forma semi-labirintica serve a dare un’orditura agli eventi storici, creando una spirale, di «estremi» e di «intermedi» (Segre 1991: 81) che, parafrasando le parole di Segre, si alternano o si mescolano. Attraverso i suoi vari significati, inoltre, la chiocciola rappresenta il corso degli eventi, tanto quanto le modalità con cui vengono rappresentati. Con il suo intreccio di voci e di echi il carcere-conchiglia, infatti, assume un valore meta-letterario, dando forma alla lingua che per Consolo deve racchiudere l’ordine illuminista e il disordine barocco: «una lingua che resta molteplice volge dal basso all’alto, dal mondo popolare e dal mondo classico» (Consolo 2015: 1237)3.
- 4 La citazione, presa da L’ordine delle somiglianze di Leonardo Sciascia insieme a Cronaca rimata d (…)
6La rappresentazione della chiocciola si realizza attraverso il gioco delle somiglianze, «scandaglio delicato e sensibilissimo» (Sciascia 1998: 35)4. È sempre Consolo, attraverso le parole del Mandralisca che ci fornisce la chiave di lettura delle procedure narrative. L’arco di ingresso al carcere, infatti, ha nove pietre portanti per lato «con figure a bassi rilievi, diverse, ma ognuna che somiglia o corrisponde all’altra allato della pila opposta, e unica la chiave, che divide o congiunge, tiene le due spinte, l’ordine contrapposto delle somiglianze» (Consolo 2015: 235). Per entrare nella chiocciola bisogna passare quindi tra immagini simili, ma in contrasto; tra queste solo la chiave non ha un corrispettivo: è l’inizio, il centro della chiocciola «che divide o congiunge» (Consolo 2015: 235). Non a caso «sull’ordine delle somiglianze è strutturato il sistema conoscitivo del barone di Mandralisca» (Traina 2011: 59): a lui infatti Consolo affida il compito di interpretare lo schema della chiocciola. Il romanzo perciò dovrà rifarsi a questo impianto gnoseologico, perché, come scrive sempre Traina, la sfida al labirinto passa per l’assunzione della sua forma. Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio, perciò, sono presenti una serie di elementi simmetrici, ma allo stesso tempo in contrasto: tre in particolare sono importanti nell’andamento dell’opera: i moti di Cefalù e Alcàra Li Fusi, Giovanni Interdonato e il Ritratto dell’ignoto.
7I moti di Cefalù del 1856 sono sedati dall’esercito borbonico, portando alla condanna degli organizzatori. Si tratta di una rivolta che vede la partecipazione dell’alta borghesia liberale, presentata con elementi tra il tragico e il melodrammatico (Spinuzza ad esempio è descritto con tono di pietas dal narratore). La rivolta di Alcàra Li Fusi, che occupa il romanzo dal terzo capitolo fino alla fine, è invece ad opera dei contadini. Anche questa viene sedata nella violenza, ma dai rappresentanti della borghesia liberale. Apparentemente speculari i due moti sono in realtà “contrapposti”: sono i due modi di dare corpo alla parola “Libertà”, come si chiarirà più avanti. Anche la figura di Giovanni Interdonato subisce un capovolgimento: nella seconda parte del romanzo infatti Mandralisca incontra l’omonimo cugino del rivoluzionario, «somigliante a me nel nome e cognome solamente, ché per il resto discordiamo» (Consolo 2015: 229), colui che attraverso l’inganno riesce a sedare il moto di Alcàra Li Fusi. In ultimo abbiamo il Ritratto di Antonello, il cui sorriso ironico da simbolo della ragione illuministica passa ad essere luciferino e malefico alla fine del romanzo.
8L’aporia della Storia-chiocciola perciò si realizza nell’aporia delle somiglianze: «somiglia, ecco tutto» scrive Sciascia ne Il gioco delle somiglianze (Sciascia 1998: 35). La lumaca, metafora della Storia “vorticosa”, perciò, diventa una figura claustrofobica, negazione di vita, come il carcere di Maniforti, luogo di dolori e affanni dal quale bisogna uscire. È sempre Mandralisca, nella lettera a Interdonato, che ne dà una lucida spiegazione:
Vidi una volta una lumaca fare strisciando il suo cammino in forma di spirale, dall’esterno al punto terminale senza uscita, come a ripeter sul terreno, più ingrandita, la traccia segnata sopra la sua corazza, il cunicolo curvo della sua conchiglia. E sedendo e mirando mi sovvenni allor con raccapriccio di tutti i punti morti, i vizi, l’ossessioni, le manie, le coartazioni, i destini, le putrefazioni, le tombe, le prigioni… Delle negazioni insomma d’ogni vita, fuga, libertà e fantasia, d’ogni creazion perenne, senza fine… (Consolo 2015: 217).
9La chiocciola è, quindi, riprendendo le parole di Segre, «metafora plurima», allegoria delle «ingiustizie del potere», dei «privilegi della cultura», «della proprietà come usurpazione» (Segre 1991: 80).
10La visione della Storia si associa alla riflessione sul linguaggio. «Cos’è stata la storia sin qui», scrive Consolo attraverso Mandralisca, se non «una scrittura continua di privilegiati» (Consolo 2015: 215). La Storia è una narrazione soggettiva, ad appannaggio di una determinata classe sociale, definita dall’autore come «coloro che possedevano i mezzi del narrare» (Consolo 2015: 215), e tra questi anche il romanziere-scrittore non ne è avulso. La giustapposizione tra documento e fiction dovrà, perciò, essere letta come la messa in discussione del racconto storico, non più fonte di veridicità. Come scrive Turchetta, «per tutta la vita Consolo ha messo in discussione lo statuto della parola, denunciandone gli invalicabili limiti, la falsità o quanto meno la tendenziosità e la dubbia legittimità, la sua inevitabile determinatezza, storica e soggettiva» (Turchetta 2015: XXV). Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio il maggiore esempio della polisemia linguistica è rappresentato dalla parola “Libertà”. Continuando a citare dalla lettera del Mandralisca:
e dunque noi diciamo Rivoluzione, diciamo Libertà, Egualità […] e gli altri, che mai hanno raggiunto i dritti più sacri e elementari, la terra e il pane, la salute e l’amore, la pace, la gioja e l’istruzione, questi dico, e sono la più parte, perché devono intender quelle parole a modo nostro? (Consolo 2015: 216).
11Infatti se per la borghesia liberale “libertà” indentifica una serie di diritti astratti e immateriali, per i contadini, per coloro che non hanno il mezzo del narrare, libertà è la terra. La polisemia della parola è un chiaro riferimento alla novella di Verga, intitolata appunto Libertà. Questa si conclude con le amare riflessioni di uno dei rivoltosi di Bronte condannati a morte: «Il carbonaio mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: – Dove mi conducete? – In galera? – O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà…» (Verga 2013: 325).
12La messa in discussione dell’istituto storia si lega, inoltre, a un progetto politico che deve mettere in scacco i soprusi di «coloro che hanno il mezzo del narrare». L’ambientazione scelta da Consolo è il Risorgimento: momento di contraddizioni e conflitti che deve essere liberato dalla sua patina oleografica e retorica. Consolo infatti scrive:
durante la campagna siciliana esplodono subito le contraddizioni, il conflitto tra i due modi di intendere il Risorgimento: quello popolare, come rivoluzione e riscatto sociale; e quello borghese intellettuale, come liberazione dalle dominazioni straniere del paese, come unità politica sotto forma di repubblica o di monarchia. (Consolo 2003)
- 5 La chiocciola, infatti, tra i suoi molteplici significati può assumere anche una valenza salvific (…)
13L’autore denuncia il crimine della proprietà, «la più grossa, mostruosa, divoratrice lumaca» (Consolo 2015: 220), che può essere proprietà della terra, quanto proprietà della parola. Simbolo della “proprietà” intellettuale è proprio il sorriso dell’ignoto, immagine dell’equilibrio tra «cupezza» e «riso» e della ragione «una lama d’acciao», «lucida» e «tagliente» (Consolo 2015: 144), come la definisce il narratore. Mandralisca, unicum nella società erudita siciliana, sente il bisogno di sottrarsi alle imposture della storia: deve perciò compiere una catabasi nelle profondità della chiocciola-carcere per riemergerne un uomo cambiato5. È lo stesso Interdonato a riconoscere le particolarità del barone:
voi invece, barone, mi dovete permettere, perché non siete un pazzo allegro, un imbecille o calacàusi come la maggior parte degli eruditi e dei nobili siciliani… Voi siete un uomo che ha le capacità di mente e di cuore per poter capire (Consolo 2015: 160)
14L’inganno della lumaca viene, dunque, smascherato da Mandralisca: dopo una vita passata a cercare e catalogare questi piccoli molluschi, non rimane altro che schiacciare quei gusci vuoti, bearsi del rumore delle chiocciole frantumate.
15L’impossibilità di conoscere la Storia attraverso la parola è una frattura epistemologica, sentita con forza da Consolo, che causa la crisi dell’intellettuale-scrittore. Questo deve, perciò, rinunciare al suo ruolo demiurgico, distaccato e ironico, e diventare l’opposto del ritratto che invece sembra fissare tutti negli occhi. La sua «impostura», un tempo origine di conoscenza, ora si rivela una chimera da affrontare. Così quel sorriso, un tempo «fiore d’intelligenza e sapienza, di ragione», diventa «pungente», «fiore di distacco e eleganza, d’aristocrazia, dovuta a nascita, a ricchezza, a cultura o potere che viene da una carica» (Consolo 2015: 219). Il rimedio potrebbe essere quello di scrivere la Storia dal punto di vista di coloro che non possiedono il mezzo del narrare; tuttavia lo scarto «di voce e di persona» (Consolo 2015: 215) non può essere eliminato, poiché la nascita e la formazione dello scrittore generano un vizio di forma insuperabile. Consolo, infatti, non mette sotto scacco solo la narrazione storica, ma anche qualsiasi forma di riproduzione del reale: «quando un immaginario meccanico istrumento tornerebbe al caso, che fermasse que’ discorsi al naturale, siccome il dagherrotipo fissa di noi le sembianze. Se pure, siffatta operazione sarebbe ancora ingiusta» (Consolo 2015: 216). Anche la forma d’arte più immediata, in presa diretta, come potrebbe essere il cinema o il documentario, alluse in queste parole, non sono sufficienti a superare l’impostura.
16«Che più, che fare?» (Consolo 2015: 218) si chiede il Mandralisca. La soluzione arriva da un altro personaggio. L’antagonista per eccellenza del sorriso, infatti, è Catena, colei che per prima riconosce l’aspetto «greve, sardonico, maligno» (Consolo 2015: 221) del ritratto e lo sfregia nel punto finale del labbro. Un gesto che Mandralisca comprende solo alla fine del romanzo e lo porta ad esclamare: «Ho capito: lumaca, lumaca è anche quel sorriso!» (Consolo 2015: 219). Catena, per quanto non compaia come personaggio attivo, ha quindi un ruolo chiave per la comprensione dell’opera. Bouchard analizza la rielaborazione parodica di Catena rispetto alla tradizione risorgimentale. La ragazza, infatti, prima presentata come una semplice tessitrice, quasi «topos dell’isterismo femminile» (Bouchard 2013: 45), si rivela in seguito paladina della causa risorgimentale.Catena è quindi un personaggio complesso, allegoria dell’inventio e detentrice del genio creatore: la tovaglia con l’albero delle quattro arance ne è la manifestazione. La descrizione del ricamo è affidata allo sguardo distante della baronessa Parisi: «sembrava quella tovaglia – pensò la baronessa – ricamata da una invasa dalla furia, che con intenzione ha trascurato regole numeri misure e armonia, fino a sembrare forse che la ragione le fosse andata a spasso» (Consolo 2015: 167-168). In questa «mescolanza dei punti più disparati» (Consolo 2015: 168), perciò, va rintracciato il progetto poetico di Consolo: il romanzo si origina dalla libera creatività, dando vita all’alternanza delle voci, rinascita della società. Bisogna notare che il «furore» (Consolo 2003) è la qualità attribuita dall’autore ai più alti poeti della tradizione letteraria: Virgilio, Dante, Petrarca e Leopardi.
17Le scritte, l’ultima testimonianza lasciata dal Mandralisca nel capitolo conclusivo, sono appunto frutto dell’immaginazione e della libertà creativa: evadono dal carcere-chiocciola portando il messaggio di «libertà» dei contadini di Alcàra Li Fusi. È qui, però, che interviene Consolo in persona, dando in ultimo al lettore il senso della sua poetica: le scritte infatti sono un artificio dall’autore stesso. In questo dialetto sanfratellano, siciliano e letterario si mescolano in un pastiche polivocalico, «sintesi linguistica», come scrive Segre, «della Sicilia medievale e barocca, feudale e popolare, cittadina e contadina» (Segre 1991: 86). La scrittura in questo modo diventa nemica della lumaca-labirinto, permettendone appunto la fuga.
18Lo scrittore, perciò, per poter evadere dal carcere-chiocciola, non può rinunciare all’impostura, ma aggirarla con l’immaginazione. Un percorso che egli compie in solitudine «per combattere il potere e il conformismo imposto dal potere» (Consolo 2015: 1173), scrive Consolo, solo così si potrà realizzare la libertà di linguaggio che è appropriazione di verità ed emotività. Lo stesso processo è indicato dal Mandralisca per i contadini di Alcàra: «tempo verrà in cui da soli conquisteranno que’ valori, ed essi allora li chiameranno con parole nuove, vere per loro, e giocoforza anche per noi, vere perché i nomi saranno intieramente riempiti dalle cose» (Consolo 2015: 217).
- 6 In precedenza questo saggio-racconto, Un giorno come gli altri, fu inserito da Enzo Siciliano in (…)
19Il modello che Consolo deve superare è quello razionale e ironico di Sciascia e Manzoni, così da approdare a una letteratura terrigna, perché «a guardar sotto, sotto la lumaca intendo, c’è la terra, vera, materiale, eterna» (Consolo 2015: 219). Nella poetica di Consolo questo non significa mai accostarsi alla realtà con ingenuità e spontaneità, ma è piuttosto un procedere di labor lime, di complessa sperimentazione, in grado di accogliere tutte le forme espressive. «Il narrare», scrive Consolo, è un’«operazione che attinge quasi sempre dalla memoria», questa però, a differenza dello scrivere, «mera operazione di scrittura impoetica», non può cambiare il mondo, «perché il narrare è rappresentare il mondo, cioè ricrearne un altro sulla carta» (Consolo 2012: 92)6. Eppure, prosegue l’autore, «il narratore dalla testa stravolta e procedente a ritroso, da quel mago che è, può fare dei salti mortali, volare e cadere più avanti dello scrittore, anticiparlo… questo salto mortale si chiama metafora» (Consolo 2012: 92). Il sorriso dell’ignoto marinaio, infatti, evita un approccio mimetico, ma è intarsiato di analogie, simmetrie tra i personaggi e tra le parti dell’opera (operazione che verrà ripresa anche in Retablo, con i tre capitoli che mimano la pala d’altare). Il romanzo è composto per blocchi, così da disorientare il lettore, non lasciandosi mai all’affabulazione: si pensi al passaggio dall’appendice del capitolo due, in cui vengono presentati i moti di Cefalù, a Morti Sacrata. Autocosciente della sua finzionalità, Il sorriso dell’ignoto marinaio non permette al lettore di adagiarsi in una lettura empatica e melodrammatica.
20In conclusione, l’analisi fin qui condotta permette di delineare cosa sia il romanzo storico per Vincenzo Consolo, attraverso il confronto con altre opere. Il primo paragone deve essere fatto con un altro romanzo composto nello stesso periodo e uscito a soli due anni di distanza, nel 1974: La Storia. Nel romanzo di Elsa Morante, come in Consolo, storia e romanzo non dialogano, ma vengono giustapposti. Morante, anche lei interessata a creare un linguaggio per le vittime del potere, predilige una lingua limpida e comunicativa, riformulando il rapporto tra epos e romanzo. Per l’autrice la letteratura gioca ancora un ruolo prioritario, in grado di illuminare le verità del reale. Consolo, invece, manifesta una crisi più profonda che coinvolge romanzo e linguaggio integralmente: questi condividono le stesse aporie, le stesse storture. Storia e invenzione, perciò, non si amalgamano, ma messi difronte l’uno all’altro condividono la stessa parità gnoseologica. Il campo d’indagine del romanzo storico, perciò, come sostiene Giovanna Rosa, va ricercato «nell’effetto di storia» (Rosa 2010: 50): tesi ancora più vera nel Novecento, visto che la Storia ha perso il suo carattere monolitico. Consolo, potremmo parafrasare, porta all’estremo la decostruzione del linguaggio creando “l’effetto di romanzo”. La riflessione dell’autore inizia proprio dal mettere in discussione l’istituto del genere, dando vita ad un romanzo che fa deflagrare il conflitto, prima di tutto linguistico. Il sorriso dell’ignoto marinaio, in maniera anti-affabulatoria, è «un romanzo storico che è la negazione del romanzo, come narrazione filata di una storia, e della Storia, come esplicazione degli avvenimenti» (Segre 1991: 77).
21L’afasia, possibile conseguenza dell’arbitrarietà della memoria, viene eclissata in favore di una parola che ritrova forza nello sperimentalismo di Gadda e Pasolini, ma soprattutto nel confronto con la grande tradizione del romanzo storico siciliano. «Il romanzo storico, e in specie in tema risorgimentale», scrive Consolo, è «passo obbligatorio, come abbiamo visto, di tutti gli scrittori siciliani, [ed] era per me l’unica forma possibile per rappresentare metaforicamente il presente, le sue istanze, le sue problematiche culturali» (Consolo 2003). Verga, Pirandello, ma soprattutto Tomasi di Lampedusa, sono i modelli di riferimento. Consolo però sceglie una via diversa rispetto agli autori siciliani: non un anti-romanzo, o contro-romanzo storico, ma una scrittura che manifesti il superamento:
per me il suo linguaggio e la sua struttura volevano il superamento in senso etico, estetico, attraverso mimesi, parodia, fratture, sprezzature, oltranze immaginative dei romanzi d’intreccio dispiegati e dominati dall’autore, di tutti i linguaggi logici, illuministici, che, nella loro limpida serena geometrizzazione, escludevano le “voci” dei margini (Consolo 2015 1258)
22Il Gattopardo in particolare, non a caso chiamato dall’autore romanzo della fine, segna un momento di frattura nel romanzo risorgimentale. Con la sua intelligenza razionale, la propensione per le idee astratte, il principe di Salina è il coronamento dell’atemporalità, del distacco armonico dell’intellighenzia siciliana. Passato il turbolento dibattito, infatti, Il Gattopardo è stato riconosciuto per quello che era, «un classico» (Consolo 2015: 1150). Consolo, invece, interessato a sperimentare le potenzialità del romanzo in un’epoca «senza speranza», ritiene che questo possa sopravvivere, ma solo sotto forma parodica e metaforica. Polivocalità e decostruzione del romanzo sono gli elementi per poter realizzare il processo di mediazione metaforica, ultimo orizzonte percorribile per rapportarsi con la realtà. Quindi il romanzo per Vincenzo Consolo può vivere solo sotto forma parodica, perché esso stesso è una parodia della realtà, un’impostura.
BIBLIOGRAFIA
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NOTE
2 Come scrive Spinazzola: «I Viceré, I vecchi e i giovani, Il Gattopardo costruiscono una sorta di caso letterario plurimo, fascinoso e sconcertante. Di solito, un’opera viene presa a modello da altri scrittori, della stessa età o di epoche successive, in quanto ha ottenuto successo. Qui invece ci troviamo di fronte a una serie di romanzi palesemente imparentati fra loro, ma senza che il primo e nemmeno il secondo abbiano incontrato fortuna, tutt’altro» (Spinazzola 1990: 7). Anche Il sorriso dell’ignoto marinaio può essere aggiunto alla triade di romanzi proposti da Spinazzola: benché se ne distanzi per stile e intento, il riferimento a queste opere è costante.
3 Dietro questa dichiarazione possiamo intravedere i modelli letterari dell’autore: se da un lato Sciascia infatti rappresenta la purezza linguistica, dall’altro Piccolo raffigura il caos barocco, una lingua classica e al tempo stesso ancestrale. Rispetto a Sciascia il rapporto è particolarmente importante, ma allo stesso tempo ambiguo; è Consolo stesso infatti ad alludere al distacco avvenuto da Sciascia attraverso Il sorriso dell’ignoto marinaio: «ha un altro significato ancora quel ritratto, che molto bene ha colto Sciascia. “Questo libro è la storia di un parricidio” ha detto riferendosi allo sfregio che il ritratto ha sulle labbra» (Consolo 1993: 43).
4 La citazione, presa da L’ordine delle somiglianze di Leonardo Sciascia insieme a Cronaca rimata di Giovanni Santi, è inserita da Consolo nell’incipit del romanzo.
5 La chiocciola, infatti, tra i suoi molteplici significati può assumere anche una valenza salvifica. Traina fa riferimento al significato archetipico della conchiglia «simbolo prettamente femminile associato ai poteri magici della matrice – passa dalla simbologia mitica alla simbologia cristiana, come segno di perpetuo rinnovamento, dunque di resurrezione: forse, per Consolo, di rivoluzione» (Traina 2011: 62).
6 In precedenza questo saggio-racconto, Un giorno come gli altri, fu inserito da Enzo Siciliano in Racconti italiani del Novecento, edito per Mondadori nel 1983.
Notizia bibliografica
Giulia Falistocco, «La scrittura come fuga dal carcere della Storia Il sorriso dell’ignoto marinaio», reCHERches, 21 | 2018, 77-85.
Notizia bibliografica digitale
Giulia Falistocco, «La scrittura come fuga dal carcere della Storia Il sorriso dell’ignoto marinaio», reCHERches [Online], 21 | 2018, online dal 05 octobre 2021, consultato il 07 décembre 2022. URL: http://journals.openedition.org/cher/1189; DOI: https://doi.org/10.4000/cher.1189
Giulia Falistocco
reCHERches, 21 | 2018, 77-85.
Nello scriptorium barocco di Vincenzo Consolo: riprese e ribaltamenti letterari in Retablo
Nicola Izzo
Negli anni Ottanta, la produzione di Consolo è contraddistinta dalla stilizzazione barocca, che raggiunge il suo culmine con Retablo (1987), opera-laboratorio e straordinario compendio letterario. Tale studio si concentra sulla pratica di riscrittura espletata dall’autore siciliano, che, quale il Pierre Menard autore del Chisciotte borgesiano, ricrea e rivisita testi importanti della letteratura italiana (Leopardi, Ariosto) ed europea (Goethe, Jaufré Rudel, Eliot).
Parole chiave:Consolo , Retablo , Leopardi , Ariosto , Genette , intertestualità , palinsesto , parodia , ribaltamento
1 Retablo è un che si contraddistingue per la sua fitta
stratificazione linguistica e letteraria, che va a termine – declinandosi
attraverso un’abile e ricercata commistione di prosa e lirismo, raffinato
pastiche espressionistico di toni e stili un vero e proprio palinsesto, che
richiama quanto teorizzato da Gerard Genette a proposito della letteratura
della seconda metà del Novecento (Genette 1982). L’intento di tale studio è
pertanto di penetrare tra i vari livelli dell’opera, alla ricerca dei numerosi
riferimenti intertestuali presenti, estrinsecandone in modo speciale i giochi
di parodie e ribaltamenti operati da Consolo.
A ciò va premio che la struttura di Retablo ricalca quella dell’omonimo
polittico e che la comp (…)
2 Il primo obiettivo è quello di analizzare il modo in cui i
personaggi dell’opera interagiscono all’interno del microcosmo consolano. La
passione che lega frate Isidoro a Rosalia e il sentimento di Fabrizio Clerici
sono manifestazioni di due opposte concezioni amorose, che rimandano a topoi
medievali attestati repertorio della letteratura.
3 Per quanto riguarda Isidoro: «Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato,
rosa che ha confuso, ro (…)
Alle prime intense parole d’ordine di utilizzatore», non notare quanto esse
presentino le medesime caratteristiche li forma che Guiette identificava nel
modello utilizzato, riconoscevi «la supremazia dell’ordine estetico utilizzato
per il suo valore incantatorio» e sublimato « ove «il linguaggio verrà
utilizzato per suo valore incantatorio» e sublimato « dalla sua collocazione,
dal suo volume, dall’uso che ne viene fatto» (Guiette 1990: 140).
4 La vexata quaestio sul nome del giullare autore dell’opera è tuttavia risolta
più avanti da Conso (…)
Il racconto di Isidoro e Rosalia è affiancabile al contrasto di Cielo o Ciullo
d’Alcamo, Rosa fresca aulentissima , breve composizione che il De Sanctis
identificava come il primo testo della letteratura italiana (De Sanctis 1981:
59) e che rielaborava il modello della pastorella (sottogenere della lirica
medievale che Bec inserimento nel registro popolareggiante) (Formisano 1990:
123) attraverso la «rottura del contrasto un po’ meccanico fra il portatore
delle convenzioni cortesi e la detentrice dell’istintiva diffidenza e
riottosità dell’ambiente plebeo» ( Pasquini 1987: 119).
5 Alcune concordanze possono anche il gioco evidenziabili e confermerebbero
letterario operato dallo scrittore siciliano:
Ahi, non abènto , e majormente ora ch’uscii di Vicarìa (Consolo 1987: 19).
Per te non ajo abènto notte e dia (Rosa fresca aulentissima, str. I, v. 4).
O ancora:
[…] la quale m’illudeva che, giunti a un numero bastevole di onze , smesso il
saio, avrei impalmato la figlia sua adorata Rosaliuzza (Consolo 1987: 23).
Intendi bene ciò che bol[io] dire?
men’este di mill’ onze lo tuo abere (Rosa fresca aulentissima, str. XVIII, vv.
4-5).
Il rivolgersi in prima persona al proprio amato scandendone il nome in funzione
vocativa richiamerebbe una certa teatralità, non estranea all’ambito
giullaresco e popolaresco (Apollonio 1981: 107-109); tuttavia, alle prime
intense evocazioni dei due incipit di Oratorio e Veritas , vi sono due cesure
orientate ad includere le due opposte della versione vicenda che deve l’ini
afflato lirico-sentimentale a una struttura dal respiro diegetico più ampio, la
cui vivacità e concretezza ricondurrebbero alla tradizione dei fabliaux .
6 Un modesto chierico e un’umile popolana si configurano
come due protagonisti ideali di un ipotetico fabliau , dacché, come afferma
Charmaine Lee «i frequentatori di questi luoghi ci vengono descritti con
abbondanza di dettagli, e quasi con una sorta di compiacimento nel ritrarre gli
aspetti più bassi della realtà» ( Lee 1976: 27) . E racconto senso di
concretezza si declina nell’accezione tutta erotica dell’amore che congiunge i
due protagonisti.
5 Cfr. «[…] la narrativa dei fabliaux , sbrigativa e salace, imperniata su
personaggi della borghesi (…)
7 Considerata la coscienza tabuizzata medievale, l’oscenità
andava infatti a costituire un serbatoio rilevante di temi per i fabliaux ;
seppure tale licenziosità non fosse affatto l’esito di menti pretestuosamente
lubriche, bensì espressione di un carnevalesco e faceto senso del contrario che
si risolveva nella parodia del modello di riferimento, ovvero quel fin’amor
cortese che plasmava il modello curiale e che in Retablo è riconoscibile nel
racconto di Fabrizio intorno al quale ruota il secondo capitolo dell’opera,
Peregrinazione 5 .
8 Questo senso del contrario è rilevabile anche attraverso la maniera in cui
Isidoro e Rosalia utilizza l’immaginario religioso. Le fattezze di Rosalia
nella mente d’Isidoro si ricollegano alla statua dell’omonima Santa (Consolo
1987: 19), così come l’aspetto del fraticello viene da lei giudicato «torvo,
nero come un san Calogero» (Consolo 1987: 194) paragonato al giovane «biondo e
rizzuto come un San Giovanni» (Consolo 1987: 194) di cui ella s’infatua
all’inizio del racconto. Tale operazione di sniženie bachtiniano, di
iconoclastico abbassamento sul piano materiale e corporeo di figure spirituali
(invero giocato al limite della blasfemia), porta con sé una non trascurabile
carica di irriverenza; e al devotamente suscettibile uditorio medievale non
poteva che destare il riso (o quantomeno suscitarne lo scandalo) (Bachtin 1979:
25).
9 L’amore che lega Rosalia ed Isidoro è un sentimento denso
di passione e di sensualità, che, come canta Ariosto, «guarda e involva e
stempre/ogni nostro disegno razionale» (Ariosto 1976: XIII, 20) e che alla fine
conduce all ‘insania il protagonista. Tale immagine di follia amorosa – «questo
furore che riduce l’uomo, come quel paladin famoso, a nuda e pura bestia,
privato vale a dire del cervello» (Consolo 1987: 58) – non può che rievocare le
mirabolanti vicende dell’Orlando Furioso, verso cui lo scioglimento di alcuni
nodi intertestuali riconduce il lettore di Retablo.
10 Già lo stesso elegiaco lamento di Isidoro, che occupa le pagine iniziali di
Oratorio , rende assimilabile la percezione del proprio sentimento a
quell’effetto insieme inebriante e stuporoso cantato dall’Ariosto:
[…] libame oppioso, licore affatturato, letale pozione
(Consolo 1987: 17).
«e questo hanno causato due fontane
che di effetto liquore
ambe in Ardenna, e non sono lontane:
d’amoroso disio l’una empie core;
che bee de l’altra, senza amor rimane» (Ariosto 1976: I, 78).
6 Ma anche Ariosto 1976: X, 46: «il suo amore ha dagli altri
differenza:/speme o timor negli altri (…)Passione che logora e consuma,
provocando quel «duol che sempre il rode e lima» (Ariosto 1976: I, 41) 6 , ea
cui Consolo in Retablo conferisce maggiore carnalità rispetto all’accezione
intellettuale ariostesca:
lima che sordamente mi corrose l’ossa (Consolo 1987: 18).
che ‘l poco ingegno ad o ad o mi lima (Ariosto 1976: I, 2).
Tale poche erotismo viene riassunto nelle righe che narrano della ben celata
dote del fraticello,
[…] e t’appressasti a me che già dormivo, ah Isidoro, Dio benedica, io subito
m’accorsi che la bellezza tua stava nascosta. Bella, la verità (Consolo 1987:
194). E che rievocano parodisticamente uno dei più salaci episodi ariosteschi,
quello di Bradamante, Ricciardetto e Fiordispina.
E se non fosse che senza dimora
Vi potete chiarir, non credereste:
e qual nell’altro sesso, in questo ancora
ho le mie voglie ad ubbidirvi preste.
Commandate lor pur, che fieno o ora
e sempre mai per voi vigile e deste.
Così le dissi; e feci ch’ella istessa
Trovò con man la veritade espressa (Ariosto 1976: XXV, 65)
11 La voluttuosa follia di Isidoro, in cui convivono
illusione e eros, è al centro anche di Peregrinazione , secondo capitolo di
Retablo in cui – invertendo lo schema diegetico ariostesco in cui un chierico,
Turpino, narrava la furia del cavaliere Orlando – il cavaliere Fabrizio narra
le penose conseguenze della passione del fraticello «che per amor venne in
furore e matto» (Ariosto 1976: I, 2)
[…] divenne matto: crollato in terra, si contorse, schiumò, lacerossi gli
abiti, la faccia, quindi nel vico si diede a piangere, a urlare come un
forsennato (Consolo 1987: 186).
E poi si squarciò i panni, e mostrò ignudo
l’ispido ventre e tutto ‘l petto e ‘l tergo;
e cominciò la gran follia, sì orrenda,
che de la più non sarà mai ch’intenda. (Ariosto 1976: XXIII,
133)
D’altronde al lettore colto di Retablo non sarà sfuggito che il racconto di
Fabrizio Clerici si avvicina per rutilante vitalismo, visività e inventiva
all’opera ariostesca, ovvero a quell’ideale di rappresentazione della vita
«nella sua più reale consistenza e nelle sue fughe fantastiche e irreali»
(Consolo 1987: 63).
12 Il viaggio di Fabrizio in Sicilia presenta, attraverso
efficaci immagini e ironici capovolgimenti, una realtà in cui il confine con la
menzogna risulta labile, ove ci si imbatte in «venditori d’incanti e illusioni»
(Consolo 1987: 63), in retablos de las maravillas che trasportano in lontani
castelli d’Atlante in cui «a tutti par che quella cosa sia,/ che più ciascun
brama e desia» (Ariosto 1976: XII, 20), attraverso una lunga e immaginifica
sequela di visioni in cui sfilano anche io potenziale:
Ecco che in mezzo a voi passa, sul suo destrier bianco e lo stendardo in mano
del Redentore nostro Gesù Cristo, seguito da’ chiari e baldi, dai più arditi
cavalèr normanni, il Conte magno, Roggiero d’Altavilla, il grande condottiero
che l ‘isola liberò dal giogo saracino […] (Consolo 1987: 65).
A tal proposito, è d’uopo rimarcare che Consolo, richiamando il poema
ariostesco, ne dissolve il proposito encomiastico in un ironico rovesciamento
di prospettiva, in linea con i suoi propositi critici ed estetico-ideologici.
L’autore di Retablo è stato uno scrittore permanentemente protetto alla ricerca
della verità, in lotta contro le falsificazioni imposte dai poteri costituiti,
rappresentati un tempo proprio da quella cavalleria cantata da Ludovico
Ariosto, e di cui con sarcasmo egli mette in dubbio i valori, come è
evidenziabile in questo passaggio: «voglia il cielo che in fatto d’armi, di
violenze e guerre, valga comunque e sempre la finzione» (Consolo 1987: 112).
13 Valori dissolti in una dimensione etica che appare infatti contraddittoria,
ambigua, manipolata. Sa lo scrittore siciliano che l’asservimento è costume
troppo frequent, come deplorava già San Giovanni ad Astolfo riconoscendo «la
giù ruffiani, adulatori, / buffon, cinedi, accusatori, e quelli/che viveno alle
corti e che vi sono/più grati assai che ‘il virtuoso e ‘l buono» (Ariosto 1976:
XXXV, 20) e come Fabrizio stigmatizza nella sua invettiva a mo’ di serventese, scagliandosi
contro «l’impostore, il bauscia, ciarlatan» (Consolo 1987: 128).
14 In Retablo , Consolo si confronta soprattutto con il tema metaletterario
della mistificazione artistica ad uso del potere, rappresentato da «il falso
artista, el teatrant vacant e pien de vanitaa» e dal «poeta dalla putrida
grascia brianzola» (Consolo 1987: 128), domanda che già Ariosto aveva posto
cinque secoli o sono:
Non fu sì santo né benigno Augusto
Come la tuba di Virgilio suona.
L’aver avuto in poesia buon gusto
La proscrizion iniqua gli perdona (Ariosto 1976: XXXV, 26)
Chiedendosi se in «questo che tutti chiamano il teatro del gran mondo, vale
sovente la rappresentazione, la maschera, il romore vuoto che la sostanza vera
della realtate» (Consolo 1987: 112).
15 Come accennato in precedenza, al sentimento segnato dalla
carnalità e dalla sensualità di Isidoro si contrappone l’aureo amore ideale di
Fabrizio, narratoci da lui stesso in Peregrinazione.
7 Albertocchi (2005: 95-111) dedica un esauriente articolo alla reale figura
storica di Teresa Blas (…)
16 Già in epigrafe Consolo consegna al lettore attento e meticoloso la chiave per aprire il portello centrale di Retablo, dove ci viene narrato il sentimento di Fabrizio Clerici per la contessina Teresa Blasco 7:
Avendo gran disio,
dipinsi una figura
bella, a voi somigliante.
Come in questa canzonetta Jacopo da Lentini rielabora e adatta al proprio substrato culturale stilemi e temi della lirica trobadorica provenzale, l’autore di Retablo svolge in questo capitolo – riprendendolo e proponendone un’ironica lettura in prospettiva postmoderna – il leitmotiv del fin’amor , l’amore inteso come suprema forma di affinamento spirituale. Fin’amor che contrapponendosi al fals’amor , l’amore nel senso carnale che lega Isidoro a Rosalia, va a formare una struttura a chiasmo in cui le due coppie – Isidoro e Rosalia, Fabrizio e Teresa – si pongono l’una al polo contrario dell’altra.
17 In Retablo sono presenti quei già largamente attestati
nella retorica mediolatina che tutti i simboli devono riconoscersi subito quali
importanti punti di riferimento per l’interpretazione artistica e il cui
ricorso implicava, per i poeti, collocarsi nell’alveo di una tradizione
consolidata e insieme approfondirla (Di Girolamo 1989: 36).
8 Per il lessico specifico trobadorico, oltre ai già citati testi di Formisano
e Di Girolamo, si ri (…)
9 È Fabrizia Ramondino, estimatrice e critica della prima ora di Retablo , a
suggerire, nella sua re (…)
10 Questi versi e quelli successivi sono ripresi da Roncaglia 1961: 304-307.
18 Sin dalla dedicatoria il cavaliere Fabrizio pone in
risalto la sottomissione alla sua domna 8 , doña Teresa, raffigurata come
sublime figura («donna bella e sagace, amica mia, che un padre di Spagna e una
madre di Sicilia ornaro di virtù speciali», Ret .:33) attorniata da una turba
di savai , uomini vili («sciocchi e muffi e mercantili», Ret .: 33). E, mentre
procede egli nella sua quête 9 cavalleresca, il pittore milanese vagheggia
della propria amata, la cui dimensione platonica viene caricata da Consolo nei
suoi tratti d’irraggiung. irraggiungibilità che si collega al tema della
distanza (e quan me sui partitz de lai/remembram, d’un amor de lonh ) 10 che
nel fitto repertorio della letteratura provenzale è trattato da Jaufré Rudel.
11 Si rimanda per un rapido sunto ancora a Di Girolamo 1989: 63, e approfonditi
da Picone 1979. Si c (…)12 Ibidem.
19 Quelle che rimangono ad oggi alcune delle più interessanti interpretazioni date all’ amor del lonh rudeliano 11 sono sovrapponibili al sentimento di Fabrizio ea «quel volontario vallo», «gelida distanza» (Consolo 1987: 76) che pone egli tra sé e la sua dama. L ‘amor de lonh di Fabrizio Clerici traduce in concreto quel sottile senso di angoscia compendiato nel paradosso cristiano di un «reale irreale» (il mondo invisibile esiste mentre quello visibile non ha nessuna esistenza) 12, come del resto conferme le sue inquietudini metafisiche («cos’è mai questa terribile, meravigliosa e oscura vita, questo duro enigma che l’uomo sempre ha declinato in mito, in racconto favoloso, […]?», (Consolo 1987: 134)). Da qui laperegrinazione come forma di affinamento spirituale.
20 Tuttavia, questo esemplare riconducibile al filone dell’amor cortese viene anch’esso capovolto in Retablo . Come è narrato nella sua vida , Jaufré Rudel dirigeva il suo amore verso la Contessa di Tripoli, donna che non aveva mai visto, ma di cui aveva ascoltato la descrizione, procedendo dunque dall’ideale al concreto. Al contrario, Fabrizio vagola alla ricerca di un’astrazione da ricondurre al concreto modello di partenza, di un «frammentario brano di poesia o d’un eccelso modello di beltà» (Consolo 1987: 77). Questo di Fabrizio è un amore dunque perfettamente intellettualistico, totalmente contemplativo, e che nulla concede al desiderio de «le carni ascose immaginate» (Consolo 1987: 172).
21 Tale eccesso di mezura – per usare un efficace ossimoro – non porta ad alcuno forma di elevazione e perfezione spirituale quale prevista dal fin’amor . Il nostro protagonista, alla fine della sua peregrinazione, si ritroverà più smarrito di prima e l’unico cambiamento inferto alla sua condizione di partenza sarà la notizia del matrimonio tra la sua amata Teresa Blasco e il Marchese Cesare Beccaria.
22 In Retablo, nel finale, si verifica anche questo estremo
ribaltamento dello schema di riferimento: il protagonista non accetterà il
«compromesso» che è posto alla base del fin’amor : all’ amor del lonh preferirà
un’errabonda solitudine e alla servitium amoris un prematuro comiat : «Ora
addio, donna bella e sagace, che foste amica mia. Addio Teresa Blasco, addio
marchesina Beccaria» (Consolo 1987: 189).
13 Dietro i personaggi del Cavaliere Fabrizio e del suo servo Isidoro che
compiono il loro Grand Tou (…)
23 Siamo giunti in questo modo alla fine del percorso
compiuto dai protagonisti, percorso che presenta molti tratti assimilabili alla
tradizione della narrativa picaresca 13. Tuttavia, poiché poiché Consolo
rovescia anche la struttura del Bildungsroman , Fabrizio, alla fine del suo
cammino, non avrà raggiunto né una crescita interiore, né tantomeno una calma
accettazione del presente, ma vivrà per sempre con quello che definisce un
«dolore senza nome» (Consolo 1987: 140).
24 Questo senso di ineluttabilità non è soltanto un’angoscia individuale, ma in
Retablo si collega alla concezione postmoderna della Storia, («[…] noi
naufraghi di una storia infranta», (Consolo 1987: 146)), di cui è andata persa
l ‘idea di causalità. Ed è in questa atmosfera rarefatta di disincanto che
riecheggiano i versi del Leopardi, la cui memoria letteraria è importante anche
per l’analisi dell’altra grande opera barocca di Consolo, Lunaria (Consolo 1985
e 1996) , pubblicata due anni prima di Retablo . Il dialogo col poeta di
Recanati non è solo poetico, ma anche filosofico, in quanto il pessimismo di
Fabrizio Clerici è assimilabile a quello che pervade i Canti leopardiani.
25 Inequivocabili sono le concordanze con L’infinito :
sedendo e mirando , e ascoltando… (Consolo 1987 : 101)
14 Si veda Leopardi 2007 (qui e di seguito, per tutte le citazioni
leopardiane).
Ma sedendo e mirando … (L’Infinito , v. 4) 14
26 E con La Ginestra :
O secol nostro superbo di conquiste e di scienza, secolo illuso, sciocco e
involuto!» (Consolo 1987: 128)
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco (La Ginestra, vv. 52-53)
15 È doveroso qui richiamare Alejo Carpentier e il suo El Siglo de Las Luces,
romanzo storico pubbli (…)
Il pessimismo storico di Leopardi viene da Consolo tradotto
nello scetticismo antilluministico di Fabrizio Clerici («peggiori di quanto noi
pensiamo sono i tempi che viviamo!»; Consolo 1987: 42) che porta questi ad
allontanarsi dalla Milano illustri dove intellettuali come i fratelli Verri e
Cesare Beccaria, l’autore del saggio Dei delitti e delle pene, che diffondendo
le nuove idee del Secolo dei Lumi 15.
27 La critica antistoricistica postmoderna si esprime in Retablo attraverso la
caduta del mito del progresso. E, riflesso nella finzione romanzesca
settecentesca, è riconoscibile il giudizio che dà l’autore agli anni Ottanta
del Novecento, anni in cui alla composizione letteraria egli affianca la
pratica giornalistica. La Milano tanto odiata da Fabrizio Clerici è la stessa
città contro cui l’autore scaglia la propria invettiva. Erano quelli gli anni
del governo socialista di Bettino Craxi (che darà vita dieci anni dopo allo
scandalo di Tangentopoli) e in cui in Italia c’era una diffusa idea di
benessere. Consolo, da grande intellettuale, individua proprio in quel periodo
la nascita del degrado sociale e culturale italiano, e non esita a condannarlo
dalle pagine del suo romanzo:
Arrasso, arrasso, mia nobile signora, arrasso dalla Milano attiva, mercatora, dalla
stupida e volgare mia città che ha fede solo nel danee, ove impera e trionfa
l’impostore, il bauscia, il ciarlatan, il falso artista, el teatrant vacant e
pien de vanitaa, il governante ladro, il prete trafficone, il gazzettier
potente, il fanatico credente e il poeta della putrica grascia brianzola.
Arrasso dalla mia terra e dal mio tempo, via, via, lontan! (Consolo 1987: 128)
Al tema storico di Retablo si coniuga anche il tema metafisico del Tempo. Uno
dei temi più ricorrenti nell’opera di Consolo è proprio il «male di vivere», la
profonda consapevolezza della caducità delle cose. Le rovine di antiche civiltà
presenti durante la Peregrinazione dei nostri protagonisti ci vengono come
destino «simboli indecifrati ed allarmanti» (Consolo 1987: 42), manifestazioni
della contingenza che domina il destino dell’Uomo.
28 Fabrizio si reca tra gli antichi templi siciliani per
abbandonare il concetto di Tempo escatologico e tornare al Tempo classico e
circolare del mito e finalmente ritrovare ristoro dalle proprie angosce nella
«stasi metafisica» (Consolo 1987: 40).
16 Il viaggio del grande autore di tedesco si svolge tuttavia nel 1787, circa
un ventennio dopo quel (…)
29 Il tour siciliano di Fabrizio avviene nella stessa epoca in cui si colloca un altro importante resoconto di viaggio, quasi parallelo al tour del nostro protagonista, quello di Goethe in Sicilia 16 , parte centrale del suo tour italico alla ricerca delle radici culturali e civili dell’ Occidente. Il grande poeta – che all’epoca aveva trentasette anni, nel pieno del suo fulgore artistico – arriva in Sicilia dopo averto le raffinate suggestioni di Venezia, l’eleganza colorata rinascimentale di Ferrara, la maestosità di Roma, la confusa e vivacità di Napoli , ed aver goduto sia dei diversi paesaggi culturali sia dei vasti campionari minerali, vegetali e paesaggistici offerti dalla penisola.
30 Alle tre pomeridiane del 2 aprile, allo sguardo estasiato
del poeta tedesco, si offrì «il più ridente dei panorami», Palermo:
La città, situata ai piedi d’alte montagne, guarda verso nord; su di essa,
conforme all’ora del giorno, splendeva il sole, al cui riverbero tutte le
facciate in ombra delle case ci apparivano chiare. A destra il Monte Pellegrino
con la sua elegante linea in piena luce, a sinistra la lunga distesa della
costa, rotta da baie, penisolette, promontori. Nuovo fascino aggiungevano al
quadro certi slanciati alberi dal delicato color verde, le cui cime, illuminate
di luce riflessa, ondeggiavano come grandi sciami di lucciole vegetali davanti
alle case buie. (Goethe 1983: 255-257)
Il medesimo spettacolo si offre a Fabrizio, assalito sul ponte nave dalle prime
impressioni antelucane di una Palermo immersa nell’incantevole aria mattutina e
inondata di luce:
[…] in oscillìo lieve di cime, arbori, guglie e campanili, in sfavillìo di
smalti, cornici e fastigi valenciani, matronali cupole, terrazze con giare e
vasi, in latteggiar purissimo de’ marmi nelle porte, colonne e monumenti, in
rosseggiar d ‘antemurali, lanterne, forti e di castell’a mare, in barbaglìo di
vetri de’ palagi, e d’oro e specchi di carrozze che lontano correvano le
strade. (Consolo 1987: 35)
17 Cfr. Capponi P., «Della luce e della visibilità, considerazioni in margine
all’opera di Vincenzo (…)
Gli effetti di luce e di riverbero su cui indugiano le consoliane fanno parte
di quella «retorica della luce» 17 descritto da Paola Capponi, e in cui pagine
va considerata la stessa esperienza biografica dello scrittore. La
polarizzazione su cui è incentrata tale riflessione si basa ancora su due
coppie disposte a chiasmo: una che si muove sul piano orizzontale e diatopico –
la Milano di Fabrizio Clerici e dell’ emigréVincenzo Consolo contrapposta ai
luoghi natii dello scrittore siciliano – e l’altra di ordine verticale e
diacronico – che si muove tra il grigio presente lombardo e le atmosfere
mediterranee del suo passato: «Di luce in luce, donna Teresita, di oro in oro.
» (Consolo 1987: 34). E la memoria influenza così la percezione dei fenomeni
esterni, come viene espresso in queste righe:
«E sognare è viepiù lo scrivere, lo scriver memorando del passato come
sospensione del presente, del viver quotidiano. E un sognare infine, in suprema
forma, è lo scriver d’un viaggio, e d’un viaggio nella terra del passato»
(Consolo 1987: 95).
31 Ma ciò si verifica soltanto in quella metaforica camera
oscura ove acquistano forma le reminiscenze dell’autore. Infatti nella
dimensione reale e presente, come ha modo di testimoniare il milanese Fabrizio
ad Alcamo, ove vige un iniquo sistema di poteri, lo splendore isolano si
effonde anche sulla miseria ed ha forza abbacinante, dissimulatoria:
Ma fu quello come il segnale d’un assalto nella guerra, la guerra intendo,
antica e vana, contra il nemico della fama. Che non si scorge qui, di primo
acchitto, come da noi ne’ nebbiosi e gelati inverni nella campagna bassa o su
per le valli sopra i laghi o sotto le gran montagne delle Alpi, ovvero meglio
in alcuni quartieri popolosi e infetti di Milano, per la chiarità del cielo e
pei colori, per la natura benevola e accogliente […] (Consolo 1987: 69).
Anche Goethe, perso nelle sue ricognizioni artistiche e scientifiche, ha modo
di assistere, proprio ad Alcamo, al penoso spettacolo di questa «guerra tra
poveri»:
Qualche cane ingoiava avido le pelli di salame che noi gettavamo; un piccolo
mendicante cacciò via i cani, divorò di buon appetito le bucce delle nostre
mele e venne a sua volta messo in fuga dal vecchio accattone. La gelosia di
mestiere è di casa ovunque. (Goethe 1983: 297)
e di misurare la propria indignazione sulle problematiche sociali dell’isola,
di biasimarne l’ambiguo e corrotto sistema di poteri che fa perno sulla
religiosità cristiana,
[…] l’intera cristianità, che da milleottocento anni asside il suo dominio, la
sua pompa ei suoi solenni tripudi sulla miseria dei propri fondatori e dei più
zelanti seguaci (Goethe 1983: 264)
e di cui siamo efficaci ragguaglio anche in Retablo.
E il Soldano in pompa magna, quale sindaco della civitate, in uno con i
decurioni, e con gli amici, seguito da cavalieri e da pedoni, in quella festa
della patrona santa, fece la visita e l’omaggio a tutti i conventi, ritiri ,
orfanotrofi, spedali, chiese, collegi, monasteri e compagnie. E in ognuno, in
sale, refettori o sacrestie, era ogni volta un ricevimento con dolciumi e
creme, rosoli, caffè e cioccolata (Consolo 1987: 60).
La Sicilia si offre quale realtà composita, come egli ha modo di notare appena
sbarcatovi in quel di Palermo «assai facile da osservarsi superficialmente ma
difficile da conoscere» (Goethe 1983: 255); un metaforico vasto retablo,
meraviglioso e vivace, che può rivelare una miserrima realtà.
32 Tuttavia è da notare che l’animo, seppur sensibile, del
grande autore del Werther, non sembra turbarsi intimamente, come accade invece
a Fabrizio Clerici. Ciò è giustificabile con la semplice constatazione che,
mentre il viaggio di Goethe in Sicilia in uno dei tanti tour che uomini di alta
cultura compivano in quel tempo per gustare gli splendori naturali dell’isola e
immergersi nelle sue anticheggianti suggestioni, dietro
Il viaggio letterario del lombardo Fabrizio Clerici si cela il nóstos di
Vincenzo Consolo e il lamento per la sua terra ferita intride di sé le pagine
dell’opera:
Dietro la croce e la Compagnia, venia la gente più miserevole, la più lacera,
malata e infelice. Ed era, così ammassata, così livida, come la teoria d’un
oltretomba, una processione d’ombre, d’umanità priva di vita e di colore
(Consolo 1987: 184).
L’autore siciliano sa che dietro alle mirabolanti facciate come quelle
architettoniche di Trapani, dietro alle bellezze fastose, si cela una realtà di
brutture, su cui si spande un mirabolante, quanto ingannevole, velo:
Mai vid’io insieme tanto orrore, tanto strazio. L’altra faccia, il rovescio o
forse la verità più chiara e netta di questa nostra vita. Che nascondiamo
ognora con l’illusione, i velami, gli oblii, le facciate come quelle teatrali
de’ palazzi della rua Nuova e della Grande, ch’io avea visto e ammirato la sera
avanti, della gente lussuosa, spensierata che là vi dimorava (Consolo 1987:
184).
La prosa consolaana rivela, attraverso la sua efficace espressività, una
tensione maggiore, un più acuto sguardo, laddove Goethe sembra solo intento a
gratificare la propria algida curiosità di visitatore, come accade tra le
rovine della terremotata Messina. Nell’autore tedesco sembra che l’itinerario
siciliano produca nulla più di un vacuo corroboramento del suo gusto
estetizzante e razionale. Laddove Fabrizio sembra inquietarsi, sconfortarsi
sempre più per il desengaño che ad ogni piè sospinto sembra squarciare il velo
di maraviglia che ammanta l’isola, il poeta tedesco sembra esaltarsi:
l’esaltazione poetica che provavo su questo suolo supremamente classico faceva
sì che di tutto quanto apprendevo, vedevo, osservavo, incontravo,
m’impossessassi per custodirlo in una riserva di felicità (Goethe 1983: 333).
Eppure sia Clerici che Goethe giungono in Sicilia con un bagaglio estetico e
culturale similitudine. Goethiana infatti è l’intenzione di risalita alle
origini, storiche e culturali in prima istanza, ma anche naturali, a cui
Fabrizio aggiunge un ulteriore fattore sentimentale:
[…] mi pare di viaggiare alla ricerca degli stampi o matrici del vostro
meraviglioso sembiante, della grazia che dagli avoli del corno di Sicilia
ereditaste, in tanto che viaggio in cerca delle tracce d’ogni più antica
civiltate. (Consolo 1987: 77).
Mentre la ricerca del poeta tedesco sembra focalizzarsi su una più asettica
analisi biologica, ovvero uno studio sull’ Urpflanze , la pianta originaria che
egli stesso aveva teorizzato:
Di fronte a tante forme nuove o rinnovate si ridestò in me la vecchia idea
fissa se non sia possibile scoprire fra quell’abbondanza la pianta originaria
(Goethe 1983: 295).
Ma soprattutto il poeta dell’ Italienische Reise e il pittore di Retablo –
dalla predilezione artistica tuttavia analoga a quella del compagno di viaggio
di Goethe, il pittore Christoph Heinrich Kniep – sono accomunati dal medesimo
punto di riferimento artistico: quel canone neoclassico ed ellenizzante,
winkelmanniano , ravvisabile nell’opera di Consolo nell’episodio della statua
moziese:
Più che un umano atleta trionfante, un dio mi parve, un Apolline, dalle forme
classiche, ideali, di quelle tanto amate dal Winkelmano.(Consolo 1987: 159)
e rintracciabile più volte nelle proprie di Goethe. Tuttavia equilibrio il
poeta tedesco vi dimostra un più legame, rivelando una maggior aderenza a
quell’ sintesi d’armonia, compostezza e razionalità mediato dal von Riedesel:
«[…] alludo all’eccellente von Riedesel, il cuicino custodisco in seno come
breviario o talismano.» (Goethe 1983: 307). Mentre, per quanto riguarda il
protagonista dell’opera di Consolo, nel gusto della descrizione-elencazione
sono ravvisabili influssi barocchi.
33 Efficace, a tal proposito, è il raffronto che può essere
operato attraverso le opposte rappresentazioni del tempio di Segesta, al centro
di una delle scene più suggestive di Retablo, ove si palesa la differenza
sostanziale di atteggiamento dei due viaggiatori:
Le colonne sono tutte ritte; due, ch’erano cadute, sono state risollevate di
recente. Se rivela o no uno zoccolo è difficile definire, e non esiste un
disegno che c’illumini al riguardo […]. Un architetto potrebbe risolvere la
questione (Goethe 1983: 306).
Il diametro di tutte le colonne è di 6 piedi, quattro
pollici, sei linee; l’altezza di 28 piedi, e sei pollici… E potrei viepiù continuare
se non temessi di tediarvi con altezze e larghezze e volumi, con piedi e
pollici e linee (Consolo 1987: 97)
Laddove Goethe rivolge la sua attenzione alla semplice ricognizione
tecnico-strutturale, il pittore milanese si lascia rapire dalla fascinazione
«del tempio che vorrei ritrarre in modo distanziato, come fosse una realtà che
poggia sopra un altro pianoforte, in un’aura irreale o trasognata» (Consolo
1987: 109); e alle speculazioni estetico-architettoniche goethiane si
contrappongono le riflessioni di carattere metafisico del protagonista
consolano:
[…] Come porta o passaggio concepire verso l’ignoto, verso l’eternitate e
l’infinito. (Consolo 1987: 99)
Goethe, come ci suggerisce lo stesso Consolo, giunge in Sicilia, questa realtà
eterogenea e prismatica, cercando non di raccontarla, bensì di «misurarla», con
la capziosa – o piuttosto presuntuosa – crede di decifrare il mistero
siciliano:
Sono, ripetiamo, queste certezze riposte nella bellezza, nell’ordine,
nell’armonia, nella cognizione e classificazione della natura, gli argini, le
barriere contro l’indistinto, il caos, l’imprevedibile, il disordine. Contro
l’infinito (Consolo 2001: 246).
A differenza di Goethe, Fabrizio riesce a spogliarsi dei suoi oberanti metri
illuministici e riesce ad abbandonare gli stereotipi estetizzanti e
classicheggianti legati al mito siciliano. Le antiche vestigia così alimentano
le sue inquietudini in quanto tracce degli orrori alla storia dell’Uomo che
«vive sopravvivendo sordo, cieco e indifferente su una distesa di struttura e
di dolore, calpesta inconsciamente chi soccombe» (Consolo 1987: 151). Nel
viaggio storico del poeta tedesco invece non vi è traccia di tali riflessioni,
da cui, anzi, sembra rifuggire:
Non bastava, osservai, che di tempo in tempo le sementi venivaro, se non da
elefanti, calpestate da cavalli e uomini? Che bisogno c’era di ridestare
bruscamente dal suo sogno di pace la fantasia risuscitando tali frastuoni?
(Goethe 1983: 259)
Clerici si arrenderà al mistero siciliano, alla sua ricchezza ed al suo
fascino, contrariamente al poeta tedesco che schiavo della sua razionale
riluttanza di non varcare, nel viaggio a ritroso verso l’antichità della
storia, verso l’origine della civiltà, la soglia dell’ignoto, di non inoltrarsi
nell’oscura e indecifrabile eternità; di non smarrirsi, immerso in una natura
troppo evidente e prorompente, nell’indistinto, nel caos infinito. (Consolo
2001: 244)
18 «Misera. La seule ha scelto qui nous console de nos misères est le divertissement,
et cependant c’est (…)
34 Come è stato scritto da Genette «une dialettique perplexe
de la veille et du rêve, du réel et de l’imaginaire, de la sagesse et de la
folie, traverse toute la pensée baroque» (Genette 1996: 18). Opera barocca per
eccellenza, Retablo gioca sull’oscillazione tra i temi della maravilla ed il
desengaño , della verità e della mistificazione, tra le percezioni sensibili
della superficie dei fenomeni e l’abisso dell’esistenza, tra le visioni che il
mondo propone ei riflessi capovolti di esse. I protagonisti consoliani si
trovano quindi «a passare dal sogno e dall’incanto al risveglio più lucido», e
ciò lungo il corso di un divertissement letterario, che – collegandosi e
capovolgendo un celebre pensiero di Blaise Pascal 18– non spinge alla
distrazione dalle domande dell’interiorità, ma ne esprime attraverso un’intensa
sensibilità stilistica, dacché come affermare ancora Genette «l’univers baroque
est ce sophisme pathétique où le tourment de la vision se résout – et s ‘achève
– en bonheur d’expression».
O mia Medusa, mia Sfinge, mia Europa, mia Persefone, mio sogno e mio
pensiero, cos’è mai questa terribile, meravigliosa e oscura vita, questo duro
enigma che l’uomo sempre ha declinato in mito, in racconto favoloso,
leggendario, per cercar di rispecchiarla, di decifrarla per allusione, per
metafora? (Consolo 1987:135)
Bibliografia
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APPUNTI
2 A ciò va premesso
che la struttura di Retablo ricalca quella dell’omonimo polittico e che la
comprensione e decodifica del racconto di Isidoro e Rosalia – senza dimenticare
la predella situata nell’esatta metà dell’opera – presuppone una lettura
unitaria laddove essa si presenta scissa in due capitoli: Oratorio e Veritas, e
presentanti ciascuno il relativo punto di vista narrativo.
3 Per quanto riguarda Isidoro: «Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato,
rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha róso, il mio cervello
s’è mangiato.» (Consolo 1987: 17-18). A queste parole nella risposta quelle di
Rosalia, su parte finale dell’opera: «Isidoro, dono dell’alma e gioia delle
carni, spirito di miele, verdello della state, suggello d’oro, candela della
Pasqua, battaglio d’ogni festa […]» (Consolo 1987: 193).
4 La vexata quaestio sul nome del giullare autore dell’opera è tuttavia risolta
più avanti da Consolo a favore della seconda ipotesi quando introdurrà,
ammantata da una notevole ironia, la sedicente Accademia poetica de Ciulli
Ardenti. A tal proposito, è interessante notare che anche Dario Fo si è
soffermato su Rosa fresca aulentissima, identificando il nome esatto
dell’autore in Ciullo e scartando l’invalso Cielo, risultato questo di una
mistificazione culturale a scopo censorio (ciulloindica anche membro il
maschile). È quanto meno ipotizzabile che Consolo conosca l’altro e più
scurrile significato della parola, tant’è che sembra giocarci col lettore in
queste righe: «di Ciullo intenno, chiaro al monno intero, e surtutto per nui de
l’Accademia ardente che al nome suo s’appenne» (Consolo 1987: 54).
5 Cfr. «[…] la narrativa dei fabliaux , sbrigativa e salace, imperniata su
personaggi della borghesia, del clero, del contado, o anche dell’aristocrazia,
ma in una chiave beffarda che sembra antitetica a quella del romanzo o del lai
» (Rutebeuf 2007 : 13).
6 Ma anche Ariosto 1976 : X, 46: «il suo amore ha dagli altri differenza:/speme
o timor negli altri il cor ti lima».
7 Albertocchi (2005: 95-111) dedica un esauriente articolo alla reale figura
storica di Teresa Blasco, rivelandone, attraverso i documenti dell’epoca, le
vicende – invero scabrose – che la videro protagonista nella Milano dei Lumi, e
che la allontanano notevolmente dalla figura di donna vereconda tratteggiata
nel diario di viaggio di Fabrizio.
8 Per il lessico specifico trobadorico, oltre ai già citati testi di Formisano
e Di Girolamo, si rimanda al più agevole glossario posto a margine di Cataldi
2006: 226-229.
9 È Fabri Ramondino, estimatrice e critica della prima ora di Retablo, a
suggerire, nella sua recensione all’opera inclusa nel numero del 3 novembre
1987 de «Il Mattino», che il romanzo è costruito secondo lo schema della quête
dei cavalieri erranti: l’orazione, la peregrinazione e la verità ritrovata.
10 Questi versi e quelli successivi sono ripresi da Roncaglia 1961: 304-307.
11 Si rimanda per un rapido sunto ancora a Di Girolamo 1989: 63, e approfonditi
da Picone 1979. Si consiglia inoltre la lettura dell’introduzione dell’edizione
curata da Chiarini 2003.
12 Ibidem.
13 Dietro i personaggi del Cavaliere Fabrizio e del suo servo Isidoro che
compiono il loro Grand Tour siciliano sono intravedibili le sagome dei
personaggi di Jacques le fataliste.
14 Si veda Leopardi 2007 (qui e di seguito, per tutte le citazioni
leopardiane).
15 È doveroso qui richiamare Alejo Carpentier e il suo El Siglo de Las Luces,
romanzo storico pubblicato nel 1962, e che ha sviluppato, per temi e atmosfere,
Vincenzo Consolo.
16 Il viaggio del grande autore di tedesco si svolge tuttavia nel 1787, circa
un ventennio dopo quello del protagonista di Retablo.
17 Cfr. Capponi P., «Della luce e della visibilità, considerazioni in margine
all’opera di Vincenzo Consolo», in: AA.VV. 2005.
18 «Misera. La seule ha scelto qui nous console de nos misères est le
divertissement, et cependant c’est la plus grande de nos misères. Car c’est
cela qui nous empêche principalement de songer à nous, et qui nous fait perdre
insensiblement. Sans cela, nous serions dans l’ennui, et cet ennui nous
pousserait à chercher un moyen plus solide d’en sortir. Mais le divertissement
nous amuse, et nous fait arriver insensiblement à la mort .» (Pascal 1971: I,
268).
Nicola Izzo , “Nello scriptorium barocco di Vincenzo Consolo: riprese e
ribaltamenti letterari in Retablo ” ,
reCHERches , 21 | 2018, 113-128.
Nicola Izzo
Université Jean Monnet, Saint-Étienne
Ports as locus of the Mediterranean imaginary Jean-Claude Izzo and Vincenzo Consolo
by
Maria Roberta Vella
In Partial Fulfillment of the Requirements of the Degree of
Master of Arts in Literary Tradition and Popular Culture
August 2014
Faculty of Arts
University of Malta
I dedicate this thesis to you, dear father. You showed me with your constant love, that whatever I do with persistence and commitment will open the doors to my destiny. The long nights I spent awake, reading and researching reminded me of the long nights you spent awake working, pennitting me to study and build my future. Your sacrifices are always accompanied by a constant smile that continuously gives me courage in difficult moments.
ACKNOWLEDGMENTS
The number of people to whom I owe my accomplishments is far too long to fit on this page, as many have inspired me and given me their constant support which has helped me realize that knowledge could open doors I did not even know existed. Nevertheless, there are a number of people who I would like to mention as they have been there for me during tough times and have given me the support I needed. I would like to thank my family without whom I would not have been able to further my studies, my boyfriend Terry, who has always believed in me and has always been there to support me with his constant love, and my uncle Carlo, who from an early age fed me with books and literature that fostered my love of knowledge and the curiosity to find my inner self. I would also like to thank my dearest colleague Ray Cassar, who always helped me grow both academically and as a person, as well as my tutor and mentor Adrian Grima, who directed me, allowing me to ground and express my ideas better whilst always respecting and valuing my opinions.
II
Table of Contents
1 Introduction …………………………………………………………………………………………. 2
1.1 The Harbour as Threshold ………………………………………………………………. 7
1.2 The Port as a Cultural Lighthouse ………………………………………………….. 10
1.3 The Mediterranean Imaginary of Izzo and Consolo Inspired by the Port12
1.4 Conclusion ………………………………………………………………………………….. 16
2 The Harbour as Threshold …………………………………………………………………… 1 7
2.1 Natural Landscape and the Development of Literature …………………….. 20
2.2 Instability vs. Stability in the Mediterranean Harbour ………………………. 23
2.3 The Prototypical Sailor …………………………………………………………………. 27
2.4 The Harbour as a Metaphorical Door ……………………………………………… 34
3 The Port as a Cultural Lighthouse ………………………………………………………… 38
3.1 Religious Cultural Mobility ………………………………………………………….. 43
3.2 The Lingua Franca Mediterranea as a Mode of Communication ………. 49
4 The Mediterranean Imaginary of Jean-Claude Izzo and Vincenzo Consolo
Inspired by the Port ………………………………………………………………………………….. 58
4.1 The Mediterranean Imaginary in Izzo and Consolo ………………………….. 60
4.2 The Mediterranean Imaginary in Popular Culture ……………………………. 69
4.3 Conclusion ………………………………………………………………………………….. 76
5 Conclusion ………………………………………………………………………………………… 78
5.1 The ‘Imaginary’ of the Mediterranean ……………………………………………. 80
5.2 The Mediterranean ‘Imaginary’ Beyond the Harbour ……………………….. 84
6 BIBLIOGRAPHY……………………………………………………………….. .. 9?.
III
Abstract
The Mediterranean harbour is a place of meeting, of encounters between
civilizations, of clashes, wars, destructions, peace; a place where culture comes to live, where art is expressed in various ways and where authors and thinkers have found inspiration in every comer. The harbour imposes a number of thresholds to the person approaching it. This threshold could have different fonns which could be emotional, geographical, spiritual or cultural. Authors such as Jean-Claude Izzo and Vincenzo Consolo lived and experienced the Mediterranean harbour in all its aspects and expressions; their powerful experience resulted in the formation of important images referred to as ‘imaginary’. The Mediterranean imaginary is the vision of various authors who have been able to translate facts and create figures and images that represent a collective, but at the same time singular imagination. The harbour is an important part of the Mediterranean geographical structure and thus it has been the main point of study for many examining the region. Factors such as language have transformed and suited the needs of the harbour, being a cultural melting pot.
1 Introduction
The Mediterranean is represented by chaos, especially in the harbour cities that are witness to the myriad of cultures which meet each and every day to discuss and interact in the harbour. It is imperative to state that chaos, as the very basis of a Mediterranean discourse has been fed through the different voices fonned in the region. These same voices, images and interpretations have found a suitable home in the Mediterranean harbours, places where literature and culture managed to flourish and where the so-called ‘margins’, both geographical and social, found centrality. The harbour has acquired significance in the discourse on the Mediterranean and thus on how literature and cultural expedients and the vaiious authors and artists recall the harbour as an anchorage point for their deep thoughts about the region. 1
Nowadays, the unification of the Mediterranean seems a ‘utopia’, since the Mediterranean is politically perceived as a region full of borders and security plans. One may easily mention the various strategic moves put forward by the European Union to safeguard the northern Mediterranean countries from migration from North African shores. By applying and reinforcing these security plans, the Mediterranean has become ever increasingly a region of borders. It is also important not to idealize the Mediterranean past as a unified past, because the 1 Georges Duby Gli ideali def Mediterraneo, storia, jilosojia e letteratura nella cultura europea
(Mesogea, 2000) pp.80-104
2
region was always characterized by conflict and chaos. Despite the chaos that was always part of the Mediterranean, being a region of clashing civilizations, it managed to produce a mosaic of various cultures that is visible to the eye of the philosopher or the artist. The artist and the philosopher manage to project their thoughts and ambitions for the region; therefore they are able to see hannony in a region that seems so incoherent. The aim of my thesis is to understand why the harbour is crucial in the construction of the Mediterranean imaginary. Both open space and border, the port, as in the case of Alexandria or Istanbul, has for a long time been a center for trade, commerce and interaction. Therefore, it is imperative to focus on the study of the harbour and harbour cities to be able to give substance to a study about the Mediterranean as a complex of imaginaries. The boundaries in the study about the Mediterranean have a special place; in fact a boundary that may be either geographical or political has the ability to project and create very courageous individuals that manage to transgress and go over their limits when facing the ‘other’. In the Mediterranean we perceive that the actual reason for transgressing and overcoming a limit is the need of confonning or confronting the ‘other’, sometimes a powerful ‘other’ able to change and shift ideas, able to transpose or impose cultural traits. Yet, the Mediterranean in its multicultural environment has been able to maintain certain traits that have shaped what it is today. Through movement of people in the region, the Mediterranean has been able to produce a number of great innovations, such as the movement of the Dorians who moved from the south all along the 3 Greek peninsula, and also the ‘sea people’ that came from Asia and, being hungry and thirsty, destroyed whatever they found. The same destruction and movement resulted in the creation of three important factors for the Mediterranean: the creation of currency, the alphabet, and marine navigation as we know it today. The various movements also contributed to the fonnation of the person as a free being with the ability to move freely. Therefore, movement and the overcoming of boundaries in the Mediterranean have contributed greatly to the fonnation of civilization itself.2 A board, today found in the museum of Damascus, with an alphabet very similar to the Latin one written on it, was very useful as it was very simple in its structure. This confirms a high level of democracy, as civilization meant that each individual had the possibility of knowing and understanding what his leaders understood. We get to understand that in the Mediterranean each person can practice his freedom by travelling out at sea and engage in trading. All this was made possible by the same interactions and conflicts raised in the region. Conflicts though are not the only factor that promoted the interaction and the fonnation of interesting cultural and literature in the Mediterranean, as we know it today. Art and culture have been means by which the various conflicts and interactions took life and expressed the deep feelings that inhabited the soul 2 Georges Duby Gli ideali de! Mediterraneo, storia, filosofia e letteratura nella cultura europea (Mesogea,2000) pp. 80-104
4
of the artist. Karl Popper3 states that the cultural mixture alone is not sufficient to put the grounds for a civilization and he gives the example of Pisistratus, a Greek tyrant that ordered to collect and copy all the works of Homer. This made it possible to have a book fair a century later and thus spread the knowledge of Homer. Karl Popper wants to tell us that art and culture have deeply influence the fonnation of a general outset of the region and that the fonnation of the general public is not something that comes naturally, but is rather encouraged. The Greeks in this sense were directly fed the works of Homer by the diffusion of the works themselves. On the other hand, the majority of Greeks already knew how to read and write, further enabling the diffusion of knowledge. Art and architecture are two important factors that have detennined the survival of empires and cultures through time. When artists such as Van Gogh were exposed to the Mediterranean, they expressed art in a different way and when Van Gogh came in contact with the Mediterranean region, the French Riviera and Provence in particular, he discovered a new way of conceiving art. In a letter that Van Gogh wrote to his sister in 1888, he explained that the impact the Mediterranean had on him had changed the way he expressed art itself. He told her that the colours are now brighter, being directly inspired by the nature and passions of the region. The Mediterranean inspired Van Gogh to use a different kind of colour palette. If the art expressed by Van Gogh that is inspired by the Mediterranean is directly 3 Georges Duby Gli ideali del Mediterraneo, storia, jilosofia e letteratura nella cultura europea (Mesogea,2000) pp. 80-104
5 represented and interpreted by the spectator, the region manages to be transposed through the action of art itself.4 The way in which the thesis is structured aims to focus on the vanous images created by poets, popular music and art. Each chapter provides evidence that the harbour has been the centre of attention for the many authors and thinkers who wrote, discussed and painted the Mediterranean. The thesis aims to prove that certain phenomena such as language and religion have contributed to a knit of imaginaries, the layout of certain events such as the ex-voto in the Mediterranean and the use of Sabir or Lingua Franca Mediterranea, which shows how the harbour managed to be the center of events that shaped the cultural heritage of the Mediterranean. The language and religious movement mentioned have left their mark on the Mediterranean countries, especially the harbour cities, which were the first cities encountered. The choice of the harbour cities as the representation and the loci of a Mediterranean imaginary vision is by no means a casual one. In fact, the harbour for many centuries has been the anchorage point not only in the physical sense but also emotionally and philosophically for many authors and thinkers, two of which are Jean-Claude Izzo and Vincenzo Consolo, extensively mentioned in the dissertation. These two authors are relevant for the purpose of this study as they manage to create a vision of the Mediterranean, based on their personal experience and influenced by 4 Georges Duby Gli ideali de! Mediterraneo, storia, jilosojia e letteratura nella cultura europea (Mesogea,2000) pp.43-55
6 the harbour from which they are looking at the region and observing the
Mediterranean. Popular culture ‘texts’ such as movies and music based on the interaction between the person and the Mediterranean region have an important role in the study, as they represent the first encounter with the harbour. It is a known fact that in the postmodern era where technological means have a broader and deeper reach, popular culture has become the first harbour in which many find anchorage. Therefore it would be difficult to mention literature works that have shaped the Mediterranean without mentioning the popular texts that have constructed images about the region that intertwine and fonn a complete and powerful image. The relevance of each factor is well defined in this study, delving deep in not only popular culture but also in language and various historical events that have transformed the Mediterranean, providing examples of how factors such as geographical elements, spirituality, devotion and passion have transfonned the way in which we perceive a region.
1.1 The Harbour as Threshold The first chapter focuses on the harbour as a threshold between stability and instability, between wealth and poverty, between mobility and ilmnobility. The various elements that constitute the harbour always convey a sense of ‘in between’ to the person approaching. The very fact that the harbour seems to be a place of insecurity gives the artists and authors a more stimulating environment to 7 write about their feelings and to contrast them with the ever-changing and chaotic enviromnent of the harbour. The way in which the natural landscape manages to influence the poetic and artistic expression is of great relevance to the study of the Mediterranean region, especially with regards to the study of the harbour. Poets such as Saba and Montale wrote about the way in which nature felt as a personified figure, able to give hope and change the way poets look at the world.
They also wrote about nature in the Mediterranean as being an impmiant feature
shaping the way in which history and culture developed.
The sailor as a representation of a Mediterranean traveller is often found in
literature especially with regards to the notion of the harbour as an image of the
Mediterranean culture. Many authors such as Jean-Claude Izzo and Vincenzo
Consolo wrote about the figure of the sailor in relation to the sea and everyday life in Mediterranean harbours. The novels fl Sorriso dell ‘Ignoto Marinaio by
Vincenzo Consolo and Les Marins Perdus by Jean-Claude Izzo are written in two
different geographical areas of the Mediterranean and reflect two different
periods, but they are tied by an expression of a Meditemm~im i1rn1eirn1ry and
somehow recall common features and aspects of the harbour. Both novels manage to transpose their authors’ personal encounter with the Mediterranean, therefore
recalling their own country of birth. The novels are somewhat personal to the
authors; Consolo recalls Sicily while Izzo often refers to Marseille. The fact that
the novels are projecting two different areas and two different points of view on
8
the Mediterranean proves that by gathering different experiences related to the
region, a rich imaginary is created.
The harbour is a door, an entryway to a new world, and borders. Security
and expectations are all part of the experience of the threshold when entering a
country, especially in the Mediterranean, where thresholds are constantly present and signify a new and exciting experience that leads to a new interpretation of a Mediterranean imaginary. The way in which the harbour acts as an entryway suggests that what lies beyond the harbour is sometimes a mystery to the traveller.
Literature greatly contributes to the fonnation of ideas, especially in regard to the fonnation of thoughts such as the idea of a Mediterranean imaginary, but there is another element of fundamental importance to the formation of ideas on a generic line, which is popular culture. High-culture, referring to elements such as art, literature, philosophy and scholarly writings, creates a common understanding between an educated public. Popular culture refers to the section of culture that has a common understanding between the public. High-culture and popular culture have the power to transform what is mostly regarded as pertaining to high society; literature is constantly being reinterpreted and transfonned by popular culture to be able to reach a greater audience.
9
1.2 The Port as a Cultural Lighthouse The imp01iance of natural landscape which detennines the success or failure of a harbour, also detennines a number of historical events. In this sense, the Mediterranean is a region that has been naturally set up with a number of very important harbours that consequently fonned a particular history. The image of the harbour could be compared to the image of the lighthouse, which is part of the harbour itself but at the same is a distinct entity that in some cases had a role which went beyond its initial role of guidance and assumed almost a function of spiritual assistance. 5 The symbol of the lighthouse is also tied to knowledge and therefore the lighthouse has the ability to give knowledge to the lost traveller at sea, it is able to show the way even in uncertainties. The lighthouses in the Mediterranean had the ability to change through ages and maintain a high historical and cultural meaning; their function is a matter of fact to give direction to the traveller, but in certain cases it has been used to demarcate a border or as a symbol of power.
The Mediterranean Sea has witnessed different exchanges, based on belief,
need and sometimes even based solely on the search of sel£ Among these modes
of exchange and these pretexts of voyage in the Mediterranean, we find the exvoto and the movement of relics. Both types of exchange in the region have in
common at the basis religion that instilled in the traveller a deep wish to follow a
5 Predrag Matvejevic Breviario Mediterraneo (Garzanti: 2010)
10
spiritual path. These exchanges resulted in an increasing cultural exchange. The
ex-voto6 shows a number of things. One of these things is that the very existence
of ex-voto proves a deep connection with the geographical aspect in the
Mediterranean and therefore proving that the region is a dangerous one. In this
sense, people in the Mediterranean have shown their gratitude to God or the
Virgin Mary in the fonn of ex-voto after a difficult voyage at sea. On the other
hand, the ex-voto shows how popular culture mingles with the spiritual experience and the way in which a person expresses gratitude to the divine. The ex-voto paintings have a special way of being identified. The saint or in most cases Virgin Mary, is usually set in a cloud or unattached from the sea in a tempest. Another element that shows if a painting is or is not part of an ex-voto collection, is the acronyms found in the bottom of every painting V.F.G.A (votum facit et gratiam accepit). The use of Latin demonstrates the vicinity to Christianity, whilst the words meaning that ‘I made a vow and I received grace’ prove the tie between the tragedies at sea and the grace given by God. The difficult Mediterranean geographical predisposition, discussed by Femand Braudel7 has developed an abundance of devotion that transformed to shrines and objects of adoration and gratitude. These same shrines, objects and materials that were most of the time exchanged and taken from one place to another, have deeply enriched the Mediterranean with cultural objects and the same shrines are nowadays part of a collective cultural heritage.
6 Joseph Muscat Il-Kwadri ex-voto Martittimi Maltin (Pubblikazzjonijiet Indipendenza, 2003) 7 Fernand Braudel The Mediterranean and the Mediterranean world in the age of Philip II
(Fontana press: 19 8 6)
11
1.3 The Mediterranean Imaginary of Izzo and Consolo Inspired by the
Port The Mediten-anean for Jean-Claude Izzo and Vincenzo Consolo revolves around the idea of a harbour that gives inspiration because it is in essence a border where ideas meet and sometimes find concretization. The Mediterranean harbour for centuries has been a meeting place for people and cultures, thus creating a region full of interactions on different levels. The imaginary for both authors has been shaped by both cultural elements and by the literary elements that find a special place in the mindset of the author. Culture as a popular expression of the concept of the Mediten-anean has developed in different ways, one of which is the projection of the harbour and the Mediterranean itself through media and advertising. Various elements such as the touristic publicity or the actual reportage about the harbour and the Mediten-anean have widened the horizon and the imaginary of the region. In advertisements, the Mediterranean has been idealized in some ways and tends to ignore controversial issues such as ‘migration’; advertising also tends to generalize about the Mediterranean and so mentions elements such as the peaceful and relaxing way of life in the region. Advertisement obviously has its own share in the building of an ‘imaginary’ of the region, but it may also create confusion as to what one can expect of the region. On the other hand, the reportage about the Mediterranean harbour and the region itself focuses more on everyday life in the Mediterranean and common interactions such as encounters with fishennen. Nevertheless, when mentioning 12 the MediteITanean even the reportage at times makes assumptions that try to unite the MediteITanean into an ideal space and it sometimes aims to give an exotic feel to the region. Yet there are a number of informative films that have gathered important material about the MediteITanean, such as the French production Mediteranee Notre Mer a Taus, produced by Yan Arthus-Bertrand for France 2.8 The difference between the usual promotional or adve1iising video clips and the documentary film produced for France 2 was that in the latter the focus points were an expression of the beauty of the whole, whereas in the fonner, beauty usually lies in the common features that for marketing purposes aim to synthesize the image of the Mediterranean for a better understating and a more clear approach to the region. The harbour and other vanous words associated to the concept of the harbour have been used in many different spaces and areas of study to signify many different things other than its original meaning, and this makes us realize that the harbour itself may hold various metaphorical meanings. We have seen the way in which the harbour served as a first spiritual refuge or as an initial salvation point, but it is also interesting to note how the harbour is conceptually seen today,
in an era where globalization has shortened distances and brought down barriers. Nowadays, the harbour is also used as a point of reference in the various technological terms especially in relation to the internet, where the ‘port’ or 8 Yan Arthus-Betrand Mediteranee notre mer a taus (France 2, 2014)
www.yannarthusbertrand.org/ en/films-tv/–mediterranee-notre-mer-a-tous (accessed February,
2014)
13
‘portal’ refers to a point of entry and thus we perceive the main purpose of the harbour as being the first point of entry as is in the context of infonnation technology. The concept of core and periphery has deeply changed in the world of Internet and technology, as the concept of core and periphery almost disappeared. Similarly, the Mediterranean’s core and pe1iphery have always been in a way different from what is considered to be the nonn. Geographically, the core could be seen as the central area, the place where things happen, whereas in the Mediterranean, the periphery acquires almost the function of the core. The harbour is the geographical periphery; neve1iheless, it acquires the function of the core. The islands for example are usually centres, whereas in the Mediterranean they are crossroads rather than real centres of power. In nonnal circumstances the relation between core and periphery is something that denotes not only the geographical location of a place but it usually also refers to economical, social and cultural advancement. Therefore, in the Mediterranean region the concept of geographical centre and economical and social centres are different from their usual intended meaning.
The Mediterranean imaginary has developed in such a way that it
purposely distorted the concepts such as the standard core and periphery or the usual relationship between men and nature or between men and the various borders. In the Mediterranean imaginary, which as we have mentioned is being fed by various authors and popular discourse, has the ability to remain imprinted in our own thoughts and thus has the ability to reinterpret the region itself; we find 14 that the usual conceptions change because they suit not only the region but the author that is writing about the region. The way in which the various authors and artists who describe the Mediterranean are faced with the ongoing challenges presented by the region shows how in essence each and every author has their own personal approach to the region. Their works are essentially a personal project which lead to the enriclunent of the region’s imaginary. The differences between each and every author makes the ‘imaginary’ and the accounts about the Mediterranean much more interesting and ersonalized.
Consolo9 and Izzo10 have different ways of perceiving the region and
although they both aim to create an ‘imaginary’ that may recall similar features, it is undeniable that there are substantial differences in their approach. Consolo on the one hand focuses a lot on the image of Ulysses as a figure that represents him in his voyage in search of the self. Ulysses for Consolo is a figure that manages to preserve a meaning even in the modem era, a figure that is able to travel through time all the while reinventing the Mediterranean. Izzo as well feels that the figure of Ulysses is imperative to the study of the Mediterranean, but he mostly focuses on the impact of the present experience of the region on the conception of a Mediterranean ‘imaginary’ rather than focusing on the past as a representation of the present situation. 9 Vincenzo Consolo Il Sorriso dell’Ignoto Marinaio (Oscar Mondadori: 2012) 10 Jean-Claude Izzo Marinai Perduti (Tascabili e/o: 2010) 15
1.4 Conclusion
The Mediterranean has been seen as a region full of inconsistencies,
contradictions and conflicts, based mainly on the divergent ideas and cultures residing in the same area. The Mediterranean imaginary does not exclude the conflicts that are present in the region and does not aim to unify the region, and in doing so it aims to give voice to the region. For the various authors and thinkers that are mentioned in the thesis, the Mediterranean has transmitted an emotion or has been able to create the right environment to express ideas and fonn thoughts. The relevance of each and every author within the framework of this thesis shows that without analyzing the single expression about the region, through the various works, one cannot fonn an imaginary of the Mediterranean region. The various concepts of borders, thresholds, conflicts and cultural clashes manage to mingle with each other in everyday life in the Mediterranean – greater ideas and fundamental questions find resonance and meaning in simple everyday interaction between a common sailor and a woman at a bar. The Mediterranean in essence is the voyage between the search for deep roots and the analysis of the clashes that result from this search for roots. The study of the Mediterranean is the constant evaluation of boundaries and the search for the ‘self’ through a wholly subjective analysis of the ‘other’. The imaginary plays a fundamental role in bringing near the ‘roots’ and the ‘present’, and the ‘self’ and the ‘other’.
16
2 The Harbour as Threshold The Mediterranean harbour for many authors and thinkers is a starting point as well as a dying point of the so called ‘Mediterranean culture’. In fact many sustain that the ‘MediteITanean culture’ takes place and transfonns itself in its harbours. This concept does not have to confuse us in assuming that a ‘Mediterranean culture’ in its wholesomeness really does exist. There are elements and features that seem to tie us; that the sea so generously brought ashore. On the other hand the same sea has been keeping things well defined and separate. The harbour as the first encounter with land has always maintained an important role in the formation of ideas and collective imagination. The harbour is not selective in who can or cannot approach it and so the fonnation of this collective imagination is a vast one. It is also important to state that the harbour in itself is a place of contradictions, a place where everything and nothing meet. The contrasting elements and the contradictions that reside in Mediterranean ports are of inspiration to the various authors and thinkers who study the Mediterranean. In this sense they have contributed in the formation of this Mediterranean imagination. Literature is an important factor that contributes to a fonnation of a collective imagination; it would be otherwise difficult to analyze the Mediterranean without the help of literature, as the fonnation of a collective imagination was always fed through literature and cultural expedients.
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The Mediterranean region, as we shall see, is an area that is somehow
constructed; a person in France may not be aware of what a person in Morocco or in Turkey is doing. The concept of a constructed Mediterranean may be tied to the anthropological study conducted by Benedict Anderson 11 where he states that the ‘nation’ is a constructed concept and may serve as a political and somehow economic pretext. The sea is navigated by both tragic boat people and luxurious cruise liners, and these contradictions seem to be legitimized in the Mediterranean region. To give two recent examples we can observe on a political sphere, the European Union’s decision to fonn a Task Force for the Mediterranean (TFM) whose aims are to enhance the security of its shores and to drastically reduce deaths at sea. The TFM is a recent initiative that follows a number of proposals at a political level that have the Mediterranean security at heart. 12 This idea was triggered by a particular event that saw the death of 500 migrants off Lampedusa. It clearly poses a question whether the Mediterranean is a safe place or not, and whether it remains in this sense appealing to touristic and economic investment. The TFM probably reinforces the idea that the Mediterranean is a problematic region and thus requires ongoing ‘security’. To reconnect to the main idea, the TFM reinforces the notion that the Mediterranean is a constructed idea where access from one shore to another is denied and where one shore is treated as a security threat whereas the other shore is treated as an area to be protected or an 11 Benedict Anderson, Imagined communities (Verso, 1996)
12 Brussels, 4.12.2013 COM (2013) 869 Communicationjiwn the commission to the European Parliament and the council on the work of the Task Force Mediterranean 18 area that is unreachable. The contradictions keep on adding up when we see the way the Mediterranean is portrayed for economic and touristic purposes. One example is the ‘Mediterranean port association’ that helps the promotion of cruising in the Mediterranean region providing assistance to tourists who would like to travel in the region. In this context the Mediterranean is used in a positive way in relation to the touristic appeal it may have. The construction of a Mediterranean idea is by no means restricted to an economical or a political discourse; it has deeper roots and meanings that have fonned through a history of relations between countries and of fonnations of literary expedients. For Franco Cassano13, the Mediterranean is a region that in essence is made of differences, it would be otherwise difficult to justify the clashes that have characterized the Mediterranean history, if it was not for the fact that we are all aware that it is a region made up of dissimilarities On the other hand it is due to these dissimilarities that the Mediterranean is an appealing region both for authors and for travelers alike.
13 Franco Cassano,Danilo Zolo L ‘alternativa mediterranea (Milano:Feltrinelli, 2007)
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2.1 Natural Landscape and the Development of Literature Nature and literature are two elements that intertwine and thus create a collective imagination around the concept of the Mediterranean harbour. In fact, the dialectic between natural landscape and poetic expression was always a matter of great relevance as nature constantly managed to aid the development of poetic expression. The natural landscape helps the fonnation of existential thoughts, such as life, death and the existence of men – thoughts that are always reinterpreted and reinvented through literature. This relation between men and nature was always important in configuring spaces and detennining them according to a common understanding. 14 In the poem of Giacomo Leopardi Dialogo delta Natura e di un Islandese, Nature is personified, and although the indifference and coldness of nature is palpable, we sense that the poet is being aided by nature in fanning his ideas about life itself. Through time and especially through globalization, the world is being interpreted in terms of geographical maps and technology is subsequently narrowing our concept of space and enlarging our concept of life. In the new modem dimension, where the concept of space has acquired an abstract meaning, literature leaves the possibility of dialectic relationship between men and nature, thus enabling men to perceive the places they inhabit as a significant part of their self-construction process. This concept takes us to the perception created around the Mediterranean region and especially the way people look at 14 Massimo Lollini fl Mediterraneo de/la contingenza metafisica di montale all’apertura etica di Saba (Presses Universitaires Paris Quest: 2009) pp.358-372
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figures such as the sea, the ports and the shores. In Giambattista Vico’s15 poetic geography we understand that the representation of geography through poetic expression is something that dates back in time, through a cosmic representation of senses and feelings. In this regard, Montale and Saba both express in a relatively modem tone the deep representation of the Mediterranean through a mixture of contrasting feelings and ideas. The image of the harbor and any other images in the Mediterranean are deeply felt and analyzed, through the eyes of the poets that live in the region. Montale uses the dialectic of memory to explain his relationship with the Mediterranean, a region locked in its golden age that lives through the memory of poets and authors. He refers to the Mediterranean as ‘Antico ‘ emphasizing the fact that it is an old region. The word ‘Antico ‘ does not merely refer to oldness, but to oldness combined with prestige. The memory characterizes the Mediterranean for Montale, the image of the sea for instance is an archaic image that notwithstanding holds a modem and yet spiritual meaning as it expresses a sense of purification. The sea with its movement brings ashore all the useless and unwanted elements. On the other hand the sea may be seen as a fatherly figure that becomes severe in its actions and makes the poet feel insignificant and intimidated. Montale’s aim was to overcome the threshold between artistic expression and natural landscape through a dialogue with the Mediterranean Sea. This aim was not fulfilled. Montale tried hard to express artistically what the Mediterranean Sea meant but ended his poem humbly putting himself at a lower stage in comparison to the greatness of the Sea. Montale fills 15Massimo Lollini Il Mediterraneo della contingenza metafisica di montale all’apertura etica di Saba (Presses Universitaires Paris Ouest: 2009)
21 his poetry with a mixture of humility and paradoxes; two elements that keep on repeating themselves in the poetry concerning the MeditelTanean.
Furthennore, in Umberto Saba’s ‘Medite1Taneet16 we encounter the same
contrasts and paradoxes used by Montale to develop the figure of the
MeditetTanean Sea. Saba uses the microcosm of Trieste to explain a larger
macrocosm: The MeditetTanean. This technique renders his work more personal and gives it a deeper meaning. Saba and Montale both rely on the memory to express a feeling of deep ties with the element of the sea and the life of the MeditelTanean harbour. Saba’s MeditelTanean resides in his microcosm, personal encounters and experiences fonn his ideas about the region; a region he perceives as being full of fascinating contradictions.
‘Ebbri canti si levano e bestemmie
nell’Osteria suburbana. Qui pure
-penso- e Mediterraneo. E il mio pensiero
all’azzulTo s’inebbria di quel nome.’ 17
‘Drunken songs and curses rise up
in the suburban tavern. Here, too,
I think, is the Mediterranean. And my mind is
drunk with the azure of that name.’ 18
16 Umberto Saba, translated by George Hochfield: Song book the selected poems of Umberto Saba
\V\V\V. worldrepublicofletters.com/excerpts/songbook excerpt.pdf (accessed, July 2014)
17 Massimo Lollini fl Mediterraneo della contingenza metafisica di montale all’apertura etica di Saba (Presses Universitaires Paris Ouest: 2009) pp.358-372
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Saba mingles his personal classicist fonnation expressed in the ‘all’azzurro’
with the poorest part of the Mediterranean harbour ‘l’osteria’. Both factors are intertwining, and so, the Mediterranean for Saba is the combination of both the richness of classicist thoughts that fonned in the Mediterranean as well as the meager elements that fonned in its po1is; yet they embellish and enrich the concept of the Mediterranean. Saba is searching for his personal identity through the search for a definition to the Mediterranean. In his art he attempts to portray the very heart of the MediteITanean which is found in his abyss of culture and knowledge with the everyday simple life of the harbours. 2.2 Instability vs. Stability in the Mediterranean Harbour In Saba and Montale’s works, the fascinating inconsistencies in the Mediterranean seem to find a suitable place in the ports and in the minds of each and every author and thinker who encounters it. The notion of stability and instability finds its apex in the port. The sea is the synonym of instability, especially in the Mediterranean, being depicted as dangerous and unpredictable. As in the recounts of the Odyssey, the sea, and the Mediterranean as a whole, is a synonym of instability and thus prone to natural catastrophes. The Homeric recounts of Ulysses’ journey explore the Mediterranean that was previously an unknown place. Although the places mentioned by Homer are fictitious, they now 18 Umberto Saba, translated by George Hochfield: Song book the selected poems of Umberto Saba
www.worldrepublicofletters.com/excerpts/song:book _excerpt.pdf (accessed, July 2014)
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have a general consensus over the definition of the actual places. As time went by historians and authors went on confinning what Homer had depicted in his Odyssey – a Mediterranean that constantly poses a challenge, danger and fascination at the same time. Femand Braudel in his ‘Mediterranean and the Mediterranean world in the age of Philip the II’ 19 sustains the view of a difficult Mediterranean, of a succession of events that have helped the success of the Mediterranean for a period of time. Its instability and complication have not aided the area in maintaining its ‘golden age’. This discourse was reinvented by Horden and Purcell in ‘The Corrupting Sea’20 where the Mediterranean meets geographically, historically and anthropologically. In ‘The Corrupting Sea’ the view of Femand Braudel is expanded into what the Mediterranean meant
geographically and historically, therefore Horden and Purcell explain that the inconsistencies and natural features in the Mediterranean really contributed to bring the ‘golden age’ to an end, but they were the same features that brought on the rich culture around the Mediterranean countries in the first place. Where literature is concerned, the inconsistencies and natural features served as an inspiration to various authors who went on fonning the collective imagination around the Mediterranean. Therefore, it could be argued that the geographical
complexity of the region is in fact the tying point to the ‘Mediterranean’ itself that resides in the unconscious and that otherwise would have died with its economical shift towards other areas of interest. The problematic identity and the challenging 19 Femand Braudel The Mediterranean and the Mediterranean world in the age of Philip II (Fontana press: 1986)
20 Peregring Horden, Nicholas Purcell The Corrupting sea, a study of the Mediterranean histmy (Blackwell publishing: 2011)
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natural enviromnent brought by an ongomg sense of curiosity and attraction towards the Mediterranean region. The port is the first encounter with stability after a journey that is characterized by instability, at the surprise of the inexperienced traveler. However, the port does not always covey immovability. The p01i gives a sense of limbo to the traveller that has just arrived. It is a safe place on the one hand but on the other hand due to its vicinity to the sea, it is as unpredictable as the sea itself The sailor is a frequent traveler who knows and embraces the sea. He chose or has been forced to love the sea, to accept the sea as his second home. The sailor is in fact the figure that can help us understand the fascination around the Mediterranean and its ports. It is not an unknown factor that sailors and their voyages have captured the attention of many authors that tried extensively to understand the affinity sailors have to the sea. The sailor21 is a man defined by his relation with the sea and is a recurrent figure in a number of literature works all over Europe and the rest of the world. The sailor is the incarnation of the concept of human marginality, he lives in the margin of life and he embraces the marginality of the harbour with the different aspects of the port. The thresholds present in the port are represented by the sailor; a figure that lives between the sea and land, between betrayal and pure love,
between truth and lie. Like the portrayal of Odysseus, the concept of a sailor has 21 Nora Moll Marinai Ignoti,perduti (e nascosti). fl Mediterraneo di Vincenzo Consolo, JeanClaude Izzo e Waciny Lare} (Roma: Bulzoni 2008) pp.94-95
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infidelic properties. He carnally betrays his loved one, but he is psychologically anchored to one women for his whole life; a women who is always present in various thoughts but at the same time she is always physically distant. As we will see in various works, the sailor is in constant search of knowledge – the very same knowledge that brought him to love and embrace the sea. The knowledge that is conveyed through the action of travelling itself is another question that would require a deep analysis, but for the sake of our study the fact that knowledge is transmitted through the depth of the sea is enough to make a com1ection with the purpose by which the sailor travels. The sailor fluctuates between sea and land, between danger and security, between knowledge and inexperience. The thresholds are constantly overcome by the curious and free spirited sailor that embarks in this voyage to the discovery of his inner-self. The literary voyage of the sailor in the Mediterranean takes a circular route while it goes deep in ancient history and ties it to modem ideas. Since the sailor is not a new character but a recurring one in literature and culture it has the ability to transfonn and create ideas giving new life to the Mediterranean harbours. While the seamen are the link between the high literature and the popular culture, the sailor does not have a specific theme in literature but the archetype of ‘the sailor’ has a deep resonance in many literary themes. As Nora Moll states in one of her studies about the image of the sailor, she puts forward a list of common themes associated with the image of the sailor:
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‘Tra i complessi tematici, a cm m parte ho gia accem1ato,si
annoverano l’avventura, il viaggio, l’eros, l’adulterio, il ritorno, il
superamento di limiti (interiori) e di sfide ( esterne ), la liberta, la vita
come “navigatio” e come intrigo conflittuale di esperienze. ’22
‘Amongst the complex themes, which I partly already mentioned, we
find adventure, travel, Eros, adultery, the return, the overcoming of
limits (interior) and challenges (exterior), freedom, life as “navigatio”
and as a conflictual intrigue (or scheme) of experiences.’
2.3 The Prototypical Sailor The interesting fact about the study conducted by Nora Moll is that the sailor in her vision is not merely a figure tied to a specific social class, but as we can see the themes listed are themes that can be tied also to the figure of Ulysses. It is difficult to say that Ulysses or the image of the sailor own a predestined set of themes, and in fact they do not necessarily do so. Ulysses is a character that comprehends certain themes, but these change and shift in accordance to space, time and circumstances. What does not change is the thresholds that are always present in the life of a sailor, the limits that are constantly there to be overcome and the external challenges that need to be confronted. The harbour conveys a 22 Nora Moll Marinai Jgnoti,perduti (e nascosti). I! Mediterraneo di Vincenzo Consolo, JeanClaude Izzo e Waciny Larej (Roma: Bulzoni 2008) pp.94-95
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number of thresholds; as we have seen these are embodied in the figure of the manner. Jean Claude Izzo in his Les Marins Perdus23 wrote about the discomfort of sailors having to forcedly stay on land and their relationship with the harbor, a passing place that has a special meaning. The harbor is in fact a special place for the mariner, as it is the only place where they can have human contact beyond that of the crew. The mariner in Jean Clause Izzo does not feel that he belongs to any nation or country. He belongs to the sea; a sea that managed to give meaning to his life but at the same time managed to destroy it. Jean Claude Izzo uses strong images of the port to describe the tie the sailor has to the harbour itself, he uses sexual and erotic images and ties them to legends and popular culture expedients. The story is interesting because of the way Jean Claude Izzo reverses the way sailors live. In fact he recreates a story where the sailor is trapped in the harbour and so he is forced to view the sea from land and not the other way round as he usually does. The psychological discomfort that Jean Claude Izzo creates portrays the Mediterranean archetypes and the life in the ports from a reverse point of view. Everyday life in the harbour is analyzed through a succession of tragedies that on one hand recall the classicist view of the Mediterranean, and on the other hand, due to references to everyday life elements, may be easily connected to the modem conception of the Mediterranean port. The links created by Jean Claude Izzo are made on purpose to create an ongoing bond between the classic Homeric 23 Jean-Claude Izzo Marinai Perduti (Tascabili e/o: 2010) pp.238
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Mediterranean and the modem Mediterranean. In fact, Diamantis -the mam character of the novel- is portrayed as a modem Ulysses trying to cope with ongoing temptations and with the constant drive for knowledge. The Odyssey is for Diamantis a point of anchorage. He reads the Odyssey while attempting to define himself: ‘In effetti l’Odissea non ha mai smesso di essere raccontata, da una taverna all’altra,di bar in bar: … e Ulisse e sempre fra noi. La sua eterna giovinezza e nelle storie che continuiamo a raccontarci anche oggi se abbiamo ancora un avvenire nel Mediterraneo e di sicuro li. [ … ]I porti del Mediterraneo … sono delle strade. ’24 ‘Yes … In fact, the Odyssey has constantly been retold, in every tavern
or bar … And Odysseus is still alive among us. Eternally young, in the
stories we tell, even now. If we have a future in the Mediterranean,
that’s where it lies.” [ … ] “The Mediterranean means … routes. Sea
routes and land routes. All joined together. Connecting cities. Large
and small. Cities holding each other by the hand.’ In this quote we see the continuous threshold between space and time being overcome, that serves to keep alive the Mediterranean itself. It is clear that the classic Homeric recount is always reinterpreted and reinvented. The Odyssey
is not the only point of reflection for Diamantis. In fact the protagonist is seen as a 24 Jean-Claude Izzo Marinai Perduti (Tascabili e/o: 2010) pp.238
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deep character that reflects on the various incidents in his life and it could be argued that Diamantis is the expression of Jean Claude Izzo’s thoughts. The sailors in Jean Claude Izzo’s novel chose to be Mediterranean; naval commerce exists beyond the enclosed sea, but these men chose to sail with inadequate ships in a region where geographical beauty and historical richness meet. The port for Izzo, has multiple meanings and he defines the Mediterranean harbours as differing from other harbours, because of the way they are accessed. Izzo uses the image of the harbour as a representation of love: ‘Vedi, e’ il modo in cui puo essere avvicinato a detenninare la natura di un porto. A detenninarlo veramente [ … ] Il Mediterraneo e’ un mare di prossimita’. ’25
‘You see, it’s the way it can be approached that detennines the nature of
a port. Really detennines it. [ … ] The Mediterranean, a sea of closeness.’
This passage shows the influence of thought, Izzo inherited from
Matvej evic. In fact the approach used to describe the harbour and to depict the nature is very similar to the one used by Matvejevic in his ‘Breviario Mediterraneo’. 26 We perceive that the harbour is substantially a vehicle of devotion, love, passion and Eros, though we may also observe the threshold between the love and passion found in the port and the insecurity and natural brutality that the sea may convey. In this novel, the port is transfonned in a secure 25 Jean-Claude Izzo Marinai Perduti (Tascabili e/o: 2010) ppl22 26 Predrag Matvejevic Breviario Mediterraneo (Garzanti:2010)
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place whilst the sea is a synonym of tragedy. At the same time the port is seen as a filthy and conupt place. While for Izzo the past is used as a background to tie with the present and moreover to show a link with the future, Consolo uses a different technique. He goes deep in one focal historical point to highlight certain Mediterranean features and problematic issues. Consolo uses the period of time where Sicily was undergoing various political changes. He describes the revolution and the Italian unification, and portrays real events and characters tied to Sicilian history. In Vincenzo Consolo, the image of the sailor is used as a metaphor through the work of Antonello ‘il Sorriso dell’Ignoto Marinaio’.27 The title itself gives us a hint of the tie between art and everyday life. The voices that intertwine and form the discourse around the Mediterranean are hard to distinguish as they have fanned the discourse itself to a point where a voice or an echo is part of another. The work of Consolo28 goes through a particular historical period in Sicily to describe present situations and ongoing paradoxes in the Mediterranean region. It is difficult to resume and give a name and specific allocation to the works on the Mediterranean as the multiple faces and voices have consequently fanned a variety of literature and artistic works. The beauty behind works on the Mediterranean is that archetypes such as the concept of a ‘sailor’ or the ‘harbour’ are revisited and reinterpreted, thus acquiring a deeper meaning and at the same time enriching the meaning of ‘the Mediterranean’ itself.
27 Vincenzo Consolo fl sorriso dell’Jgnoto Marinaio (Oscar Mondadori:2012)
28 Vincenzo Consolo fl sorriso dell’lgnoto Marinaio (Oscar Mondadori:2012)
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Consolo focuses on the microcosm of Sicily and he portrays a fluctuation
between sea and land. He locates Sicily in an ideal sphere where the thresholds are nonexistent: ‘La Sicilia! La Sicilia! Pareva qualcosa di vaporoso laggiù nell’azzurro tra mare e cielo, me era l’isola santa! ’29 ‘Sicily! Sicily! It seemed something vaporous down there in the blue between sea and sky, but it was the holy island!’ Sicily is placed in an ideal sphere where beautiful natural elements coexist with famine, degradation and war. The imagery created around the island of Sicily may be comparable to the imagery around the Mediterranean region. As for the harbour it is described by Consolo as a place of contradictions, comparable to the ones found in the whole Mediterranean. The detail given to the life in the port is extremely in depth and the type of sentences used expresses the frenetic lifestyle of the port itself: ‘Il San Cristofaro entrava dentro il porto mentre ne uscivano le barche, caicchi e gozzi, coi pescatori ai rami alle corde vele reti lampe sego stoppa feccia, trafficanti con voce urale e con richiami, dentro la barca, tra barca e barca, tra barca e la banchina, affollata di vecchi, di donne e di bambini, urlanti parimenti e agitati [ … ].’30 29 Vincenzo Consolo fl sorriso dell’Jgnoto Marinaio (Oscar Mondadori:2012) pp:56
30 Vincenzo Consolo fl so1-riso dell’Jgnoto Marinaio (Oscar Mondadori:2012) pp:29
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‘The San Cristoforo sailed into the harbour whilst the boats, caiques
and other fishing boats, sailed out with the fishennen holding the
ropes sails nets tallow oakum lee, traffickers beckoning with an ural
voice, inside the boat, from one boat to another, from one boat to the
quay, crowded with the elderly, women and children, screaming
equally and agitated’ [ … ] The tension around the port is well transmitted in the explanation given by Consolo, there seems to be a point of nothingness and a point of departure at the same time. We perceive that there is plenty of life in the port but at the same time confusion reigns, therefore we could argue that people in ports are not really conscious of life and that they are letting things turn. Nevertheless, the port is the starting point of life that develops either in the sea or inland. Both by Consolo and in Izzo we are made aware of the importance of life at the ‘starting point’, therefore the port in the works of both authors acquires the title of a ‘threshold’ between life and death, consciousness and unconsciousness, love and hatred, nature and artifice, aridity and fertility. In the microcosm described by Consolo, the Sicilian nature and its contradictions seem to recall the ones in the rest of the region. For example, the painting ‘Ignoto Marinaio’ is described as a contradictory painting. In fact, the sailor is seen as an ironic figure that smiles notwithstanding the tragedies he has encountered. The ‘Ignoto Marinaio’ has seen the culture and history of the Mediterranean unveil, he has therefore a strange smile that 33 expresses the deep knowledge acquired through his experience and a deep look that convey all the suffering he has come upon. In the novel by Consolo, the painting serves as a point of reference and in fact, the ‘Ignoto Marinio’ resembles another important character in the novel; Intemodato. Both figures share the ironic and poignant smile and the profound look. Intemodato is seen as a typical Sicilian revolutionary who embraces the sea but at the same time is not psychologically unattached to the situations that happened on land. He is part of the revolution and integral part of the Sicilian history.
2.4 The Harbour as a Metaphorical Door Consolo and Izzo with their accounts of sailors and the life in Mediterranean harbours brought us to the interpretation of the harbour as a metaphorical door. As in the seminal work of Predrag Matvejevic ‘Breviario Mediterraneo’,31 the harbour is tied to the concept of a metaphorical door. In Latin both ‘porto’ and ‘porta’ have the same root and etymological derivation. A harbour in fact is a metaphorical and physical entryway to a country. In the Roman period, the god Portunos was the deity of the harbour who facilitated the marine commerce and the life in the port in general. The various deities related to the sea in the Roman 31 Predrag Matvejevic II Mediterraneo e I ‘Europa, lezioni al college de France e altri saggi (Garzanti elefanti:2008)
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and Greek traditions are an indication of a deep relation between the figure of the harbour and the physical and geographical figure of the door or entryway. The door may have many different shapes and may divide different spaces but it always signifies a threshold from one point to another. In literature the harbour signifies a metaphorical door between fantasy and reality, history and fiction, love and hatred, war and peace, safety and danger. The image of the door is concretized through the various border controls, visas and migration issues and in this regard the entryway becomes a question of membership. A piece of paper in this case detennines the access through that doorway, but from a cultural and
identity point of view the Mediterranean threshold is overcome through the encounter with history and fiction. Thierry Fabre in his contribution to the book series ‘Rappresentare ii Mediterraneo’; 32 in relation to the Mediterranean identity he states; ” … Non si situa forse proprio nel punto di incorcio tra la storia vera e i testi letterari che danno origine all’immaginario Mediterraneo?”33 ‘ Isn’t perhaps situated exactly at the meeting point between the real stories and the literature texts that give birth to the Mediterranean imagination?’ Fabre is conscious of the fact that the discourse about the Mediterranean limits itself to a constructed imaginary, the poet or artist in general that enters this metaphorical door is expected to conceive the Mediterranean imaginary; blending reality with fiction. The door is not always a static figure but is sometimes blurred and does not 32 Jean Claude Izzo, Thierry Fabre Rappresentare il Mediterraneo, lo sguardo fiwicese (Mesogea: 2000) 33 Ibid (Mesogea: 2000) pp.25
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clearly divide and distinguish. The Mediterranean itself is a region of unclear lines the fonnation of a port and of a nation itself is sometimes not that clear. In Matvejevic’s ‘Il Mediterraneao e l’Europa’34 literature blends with facts and culture so does the geography around the Mediterranean region: ‘Tra terra e mare, in molti luoghi vi sono dei limiti: un inizio o una
fine, l’immagine o 1 ‘idea che li uniscono o li separano. Numerosi sono
i tratti in cui la terra e il mare s’incontrano senza irregolarita ne rotture,
al punto che non si puo detenninare dove comincia uno o finisce
l’altro.Queste relazioni multiple e reversibili, danno fonna alla costa. ’35
‘Between land and sea, there are limits in many places: a start or a
finish, the image or the idea that joins or separates them. The places
where sea meets land without any irregularities or breaks are
numerous, to the extent that it’s not possible to detennine where one
starts or the other finishes. These multiple and reversible links that
give shape to the coast.’ The coast in this sense is made up of a set of relations between figures and fonns that meet without touching each other, the door is not always present; it sometimes disappears to give room to imagination and the fonnation of literature.
34 Predrag Matvejevic Il Mediterraneo e !’Europa, Lezioni al College de France e Altri Saggi
(Garzanti elefanti: 2008)
35 Ibid (Garzanti: 2008) pp.53
36
The concept of literature allows the analysis of culture and the way it 1s
envisioned and spread through Mediterranean harbours. The fluctuations of varied thoughts that have shaped the Mediterranean imagery through its harbours have no ties with everyday life, if not by the transmission of culture and the means of popular culture that served as a point of anchorage and sometimes as a point of departure for the fonnation of a deeply rooted but also enriching and contested collective imagination.
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3 The Port as a Cultural Lighthouse The harbour for many centuries has been an anchorage point and a safe place for sailors and travellers that navigate the Mediterranean. We perceive the safety of the harbour as something that is sometimes naturally part of its very makeup, as on such occasions where we encounter natural harbours. In other cases, to suit their needs, people have built around the shores and transfonned paii of the land into an artificial harbour which is able to welcome the foreigner and trade and at the same time to defend if needed the inland. Femand Braudel36 in his The Afediterranean and the Mediterranean World in thP AgP nf Philip TT <liscusse<l the importance of the Mediterranean shores for the traveller in an age when people were already able to explore the outer sea, but yet found it reassuring to travel in a sea where the shore was always in sight. The Mediterranean Sea has always instilled a sense of uncertainty in the traveller, because of its natural instability. Nevertheless, the fact that the shores and ts are always in the vicinity, the Mediterranean traveller is reassured that he can seek refuge whenever needed. The fascinating thing is that the ports in the age delineated by Femand Braudel were not only a means of safety but most of all of communication – a type of economic and cultural c01mnunication that went beyond 36 Fernand Braudel The Mediterranean and the Mediterranean world in the age of Philip II (Fontana press: 19 8 6)