Domani
rintoccheranno i dieci anni dalla scomparsa di Vincenzo Consolo, il quale era nato
a Sant’Agata di Militello il 18 febbraio del 1933: il paese sul mare sotto i
Nebrodi con cui ebbe, per tutta la vita, un rapporto conflittuale, di quasi
rabbioso amore: lo stesso, del resto, che patì per l’Italia tutta. Morì infatti
a Milano: ove era approdato inseguendo un sogno vittoriniano di emancipazione, città
che, negli ultimi anni, voleva abbandonare, consegnata come gli sembrava a un
processo di preoccupante involuzione politica. Di lettura ardua, Consolo è
stato però uno scrittore consacrato presto dai lettori e dalla critica.
Basterebbe ricordare che, quando uscì il suo libro forse più bello, Il
sorriso dell’ignoto marinaio (1976), Sciascia gli dedicò un intenso saggio
ora raccolto in Cruciverba (1983). Senza dire di Nottetempo, casa per
casa (1992), il romanzo con cui vinse il Premio Strega. Epperò, io che gli
ho voluto bene non sono mai riuscito a vederlo smemoratamente sereno e soddisfatto
per quanto aveva ottenuto, se non raramente accanto alla moglie Caterina,
perché un tarlo lo rodeva sempre: si fa fatica, in effetti, a non pensare al
suo rapporto difficile con altri due scrittori siciliani di successo, Gesualdo
Bufalino e Andrea Camilleri. Ho detto della sua disposizione politica, che
viveva con un certo animoso risentimento, ma che connotava in profondità la sua
scrittura, in un modo tutt’altro che esornativo. Non si capirà mai fino in
fondo che tipo di scrittore sia, se non si riconoscerà un fatto: che quella civile
sia stata sempre, e talvolta parossisticamente, il rovescio esatto e perfetto d’una
oltranza della forma: sino al punto da non poter capire noi se fosse più
importante per lui -seppure nella declinazione d’un disincanto sempre più feroce-
un progetto di contestazione sociale o il sabotaggio d’una lingua sciattamente
comunicativa e globalizzata, del tutto coerente con la grammatica semplificata
e feroce del Potere, poco importa se, in questo suo antagonismo, Consolo abbia lavorato
per incielarsi nella lingua letteraria o per discendere nel ventre del dialetto.
Per questo decennale gli si rende giustamente onore con alcune pregevoli iniziative: a cominciare dalla ripubblicazione per Mimesis, con la nuova prefazione di Gianni Turchetta, dell’ormai introvabile La Sicilia passeggiata (pp. 176, euro 16.00), stampata nel 1990 con un corredo fotografico di Giuseppe Leone, che ritorna ora con altri scatti dell’artista: un testo «conosciuto quasi solo dagli specialisti», ma -per dirla con lo stesso Turchetta- capace di esercitare «sul lettore una seduzione intensa, fatta di leggerezza e profondità, dinamismo e erudizione». Turchetta -uno degli studiosi a Consolo più fedele negli anni (fu lui a predisporre nel 2015, con un notevole saggio, il Meridiano dedicatogli)- è anche il curatore sempre per Mimesis del volume che raccoglie gli atti d’un convegno internazionale che si tenne tra il 6 e il 7 marzo 2019 presso l’Università degli Studi di Milano, ovvero “Questo luogo d’incrocio d’ogni vento e assalto”. Vincenzo Consolo e la cultura del Mediterraneo, fra conflitto e integrazione (pp. 236, euro 20.00). Tra i relatori mi piace ricordare il francese Dominique Budor, lo spagnolo Miguel Ángel Cuevas, che indaga il rapporto tra il nostro e il «tempestosissimo» Stefano D’Arrigo (l’aggettivo è di Consolo stesso), l’irlandese Daragh O’ Connell, concentrato -attraverso Nottetempo, casa per casa– sul grande tema della «notte della ragione» e sui già accennati rapporti tra poetica e politica. Ma non posso non nominare, tra gli italiani, Corrado Stajano, uno dei nostri più importanti intellettuali civili (che a Consolo era legato da forte amicizia), Carla Riccardi, che si misura con la questione fondamentale della Storia tra fughe e ritorni (su un arco cronologico che va da Lunaria alle Pietre di Pantalica), e infine Giuseppe Traina, il quale disquisisce intorno all’affascinante tema dell’influenza arabo-mediterranea. Ha ragione Turchetta, nella sua introduzione, a sottolineare il nesso tra sperimentalismo e eticità e a ricordarci che in Consolo la letteratura, nella sua «missione insieme impossibile e necessaria», resta sempre un «linguaggio speciale, tanto denso da sfidare la concretezza stessa del reale».
Non manca per il decennale il contributo dei
più giovani. Mi riferisco al libro Al di qua del faro. Consolo, il viaggio,
l’odeporica di Dario Stazzone, dottore di ricerca in Italianistica ma già
assiduo frequentatore della letteratura dell’Otto-Novecento non solo siciliana,
pubblicato da Leo S. Olschki Editore (pp. XVIII-114, euro 18.00). Il titolo
rievoca evidentemente quello della raccolta di scritti di Consolo del 1999, ma
con una variazione che ne svela il movimento, conducendoci al senso profondo
del libro: «in luogo della relativa staticità della locuzione Di qua dal
faro si è preferito l’uso del moto a luogo, per rendere l’idea del
movimento dei viaggiatori impegnati nel Grand Tour d’Italie che si
spingevano fino alle estreme propaggini meridionali d’Italia, fino alla Sicilia».
Il che individua da subito anche la fitta trama di rimandi tra testi consoliani
e contesto odeporico, obiettivo primo delle pagine di Stazzone: a documentare l’importanza
del rapporto che tutta l’opera di Consolo, non solo quella di vocazione
esplicitamente saggistica, ha con la letteratura di viaggio. Stazzone, del
resto, accoglie in pieno la definizione che dello scrittore aveva dato Stajano,
«eterno migrante del ritorno», convinto com’è che Consolo sia vissuto «sempre
in bilico tra il desiderio di rivedere i luoghi natali e la delusione che scaturiva,
volta per volta, nell’osservarli violentati da gretto interesse economico,
arroganza criminale e complicità politica», sdoppiato com’era nel simultaneo punto
di vista di nativo e di viaggiatore che arrivava da Nord. E sempre la Sicilia
come questione cruciale: per lui e per tutti i grandi siciliani, Sciascia in
primis, che lo avevano preceduto.
Questo saggio intende analizzare il romanzo di Vincenzo
Consolo Nottetempo, casa per casa (1992) utilizzando il motivo della fine del
mondo come chiave interpretativa dell’opera ed elemento unificante i diversi
piani su cui la narrativa si sviluppa. Se da una parte La nascita della
tragedia di Friedrich Nietzsche costituisce un modello intellettuale di
riferimento e di confronto per il romanzo consoliano, dall’altra le
considerazioni dell’antropologo Ernesto De Martino sull’apocalisse ci
permetteranno di proporre Nottetempo come una risposta psicologica, culturale e
letteraria al rischio della “fine” esperito in questi tre diversi ambiti. Nel volume postumo che raccoglie gli appunti
preparatori all’opera rimasta incompiuta La fine del mondo, De Martino
approccia il tema dell’apocalisse derivando una connessione tra il senso di
fine del mondo vissuto nel disagio psicologico individuale e le grandi
apocalissi culturali elaborate dalle società o da singoli attori collettivi
operanti in esse. Anticipando i temi di questa ricerca in un articolo comparso
un anno prima della morte dell’antropologo su Nuovi argomenti, egli chiariva il
nesso tra apocalisse individuale e apocalisse collettiva nei seguenti termini:
“i caratteri esterni delle apocalissi psicologiche sembrano riprodursi anche in
quelle culturali, dato che anche le apocalissi culturali racchiudono l’annunzio
di catastrofi imminenti, il rifiuto radicale dell’ordine mondano attuale, la
tensione estrema dell’attesa angosciosa e l’euforico abbandono alle
immaginazioni di qualche privatissimo paradiso irrompente nel mondo” (De
Martino, 1964:111). Il compito delle apocalissi culturali sarà allora proprio
quello di scongiurare la fine, costituendosi come difesa e reintegrazione del
rischio della fine esperito nell’apocalisse psicopatologica: esse, cioè, hanno
il compito di rivalorizzare a livello collettivo e condiviso ciò che nella
crisi personale diventa perdita di senso, incapacità di dare valore e incapacità
di operare nel mondo quotidiano, decretandone così la sua fine. Tuttavia,
avverte De Martino, “se il dramma delle apocalissi culturali acquista rilievo
come esorcismo solenne, sempre rinnovato, contro l’estrema insidia delle
apocalissi psicopatologiche, è anche vero che questo esorcismo può riuscire in
varia misura, e di fatto può sbilanciarsi sempre di nuovo verso la crisi
radicale” (De Martino, 1964:113). Anche le apocalissi culturali, dunque,
possono incorrere nel rischio di essere “nuda crisi” senza possibilità di
rinnovamento, “senza escaton”, rischio che De Martino intravedeva
nell’apocalisse dell’occidente contemporaneo che “conosce il tema della fine al
di fuori di qualsiasi ordine religioso di salvezza, e cioè come disperata
catastrofe del mondano, del domestico, dell’appaesato, del significante e
dell’operabile” (De Martino, 2002:470). Il doppio piano della crisi
psicopatologica individuale e della crisi esperita dalla società nel suo
insieme è colta da Consolo in Nottetempo attraverso il dispiegamento di una
fantasmagoria di personaggi reali e fittizi e attraverso l’ambientazione
storica. Il contesto storico nel quale tali personaggi operano (i primordi del
Fascismo), infatti, è rappresentato e
interpretato secondo i modi di una apocalisse storica che rischia di essere
“nuda crisi”, catastrofe senza rinnovamento. Essa, inoltre, fa eco e diventa
metafora per il presente: l’inizio del Ventennio fascista, infatti, diventa
anche il mezzo per parlare dell’inizio della Seconda Repubblica1 – l’anno
di
*
1 Lo stesso autore, chiarendo come il passato
sia una metafora per il presente, evidenzia il carattere “apocalittico” di tale
passato e tale presente: “Dopo il Sorriso, ho continuato a scrivere romanzi
storici […]. L’ultimo, Nottetempo, casa per casa, è ambientato negli anni
**
pubblicazione del libro si colloca proprio nel passaggio tra la fine di un mondo e l’inizio di una nuova era per la società italiana, nonché pare profeticamente avvertire la crisi culturale che sarà presto inaugurata dall’ascesa di Berlusconi al potere. Come De Martino, Consolo avverte nel presente il senso di una fine che non prevede un nuovo inizio, mentre individua nel passato eventi apocalittici che hanno segnato un rinnovamento: ne è esempio concreto la rinascita della Val di Noto attraverso il barocco dopo il terremoto del 16932. Con Nottetempo siamo, dunque, nella Cefalù dei primi anni Venti e un uomo corre forsennatamente nella notte, in preda al “male catubbo”, una forma di depressione in cui l’interpretazione popolare riconosce il licantropismo 3, o “male di luna”, come aveva già mirabilmente descritto Pirandello in una sua omonima novella. Veniamo in seguito a sapere che egli è il padre di una famiglia tormentata dal male interiore, per cui il licantropismo cui è soggetto non può essere spiegato solamente con una diagnosi scientifica, ma ha ragioni ben più profonde. La moglie (“troppo presto assente”) è morta e le due figlie sono affette da problemi psicologici: l’una, Lucia (“che sola e orgogliosa se n’andava per altra strada”), è mentalmente instabile e verrà rinchiusa in una clinica, l’altra, Serafina (“torbida, di pietra”, 106), vive in uno stato catatonico. Petro, il figlio eventi,
, che mi sembrano terribilmente somiglianti a questi che
stiamo vivendo, anni di crisi ideologica e politica, di neo-metafisiche, di
chiusure particolaristiche, di scontri etnici, di teocrazie, integralismi […]
Il Sorriso e Nottetempo formano un dittico. […] Nel primo ho voluto insomma
raccontare la nascita di un’utopia politica, della speranza di un nuovo assetto
sociale; nel secondo, il crollo di quella speranza, la follia degli uomini e la
follia della storia, il dolore e la fuga” (Consolo, 1993:47-48). 2 Nel capitoletto La rinascita del Val di Noto
compreso in Di qua del faro, Consolo descrive il terremoto che distrusse la Sicilia
orientale alla fine del ’600 proprio usando il termine “apocalisse” e
riconoscendo nell’arte barocca un valore escatologico: “E però il Barocco non è
stato solamente il frutto di una coincidenza storica. Quello stile fantasioso e
affollato, tortuoso e abbondante è, nella Sicilia dei continui terremoti della
natura, degli infiniti rivolgimenti storici, del rischio quotidiano della
perdita d’identità, come un’esigenza dell’anima contro lo smarrimento della
solitudine, dell’indistinto, del deserto, contro la vertigine del nulla”
(Consolo, 2001a:99). 3 Spiega Consolo:
“Il padre si ammala di depressione, che nel mondo contadino arcaico viene
chiamata licantropia. Questo fenomeno è stato studiato dalla principessa di
Lampedusa, che era una psicanalista che ha associato la licantropia alla depressione:
nel mondo rurale questi poveretti che soffrivano terribilmente, uscivano fuori
di casa, magari urlavano e venivano scambiati per lupi mannari” (Consolo,
2001b). protagonista del romanzo, è affetto dalla malinconia, da una tristezza
le cui origini egli stesso rintraccia in un tempo primordiale, un tempo perso
nel tempo, di cui il nome della famiglia, Marano4, ne è spia: “‘Da quale
offesa, sacrilegio viene questa sentenza atroce, questa malasorte?’ si chiedeva
Petro. Forse, pensava, da una colpa antica, immemorabile. Da quel cognome suo
forse di rinnegato, di marrano di Spagna o di Sicilia, che significava eredità
di ànsime, malinconie, rimorsi dentro nelle vene” (42). E più oltre riflette
ancora che quel dolore sembra essere sorto “da qualcosa che aveva preceduto la
sua, la nascita degli altri” (106). La famiglia del protagonista e Petro stesso
rappresentano così un articolato inventario dell’apocalisse psicopatologica:
ognuno, chiuso nella propria incomunicabile individualità, esperisce solitariamente
il “delirio di fine del mondo”, cioè la perdita della “normalità” del mondo e
della possibilità dell’intersoggettività
dei valori che lo rendono un mondo possibile e umano. Del male che affligge la famiglia, tuttavia,
si intravede anche una motivazione più contingente e precisa in quel
cambiamento di status, peraltro non giustificato dalle convenzioni sociali, che
verghianamente aleggia sulla famiglia come una rovina: il padre ha ricevuto
infatti l’eredità di un signore locale che ha preferito beneficiare la famiglia
Marano piuttosto che suo nipote, il barone Don Nenè, legittimo erede. La
menzione di questo avanzamento sociale, all’origine anche dell’inimicizia fra
Petro e Don Nenè, viene lasciata cadere qua e là nel romanzo come fosse la
colpa da cui discende tutto il male che gravita sulla famiglia. La ragione
dell’impossibilità del matrimonio fra Lucia e Janu è quella verghiana5 che
impedisce
*
4 “Ho adottato questo nome perché ha due
significati per me. Marano significa marrano, cioè è l’ebreo costretto a
rinnegare la sua religione e a cristianizzarsi, perché in Sicilia con la
cacciata degli Ebrei nel 1492 – così come in Spagna, – ci furono quelli che
andarono via ma anche quelli che rimasero e furono costretti a convertirsi. È
stata una forma di violenza. Ho dato il nome di Marano a questa famiglia con
questa memoria di violenza iniziale e poi per rendere omaggio allo scrittore
Jovine che chiama il suo personaggio principale Marano ne Le terre del
sacramento, quindi è un omaggio a una certa letteratura” (Consolo, 2001b).
5 E Verga, non a caso, costituisce
modello forte e necessario per Consolo, non solo a livello tematico in quanto
“cantore” degli umili e ultimi, ma anche a livello stilistico in quanto
sperimentatore: “La mia opzione è stata sulla scrittura espressiva che aveva
come archetipo un mio conterraneo, Giovanni Verga, che è stato il primo grande
rivoluzionario stilistico nella letteratura moderna. Da lui si passava,
attraverso altri scrittori, come Gadda e
**
inizialmente ad Alfio Mosca di prendere in moglie la Mena.
Lucia si innamorerà poi di un uomo il cui mancato ritorno dalla guerra le
procurerà la ferita fondamentale che la porterà alla pazzia; Petro riflette
allora che Janu “quell’uomo buono, schietto, avrebbe forse rasserenato la
sorella […], cambiato la sua sorte, e provò pena per lui, per Lucia, rabbia
per quell’assurdo vallone che s’era aperto fra loro due” (63). Ma su questo
motivo verghiano della condizione di classe si innesta quello della roba inteso
come voracità di accumulo sconsiderato di beni; si instaura il dubbio che la
vera causa della perdita della ragione, il dolore che porta alla
pietrificazione, possa trovarsi in quell’accumulo, in quella roba: “Petro si diceva
come sarebbe stato meglio per Serafina, per Lucia, non aver avuto nulla, essere
incerte nella roba, ma salde nella persona, nel volere, coscienti e attive”
(114). Si intravede qui, solo accennata, anche una critica al capitalismo
sfrenato e al consumismo, che è in definitiva accumulo di roba per la roba,
senza altra finalità. La condizione psicopatologica individuale, dunque, prende
forma e mette radice anche in una condizione di “malattia” più generale della
società feticizzata, che per questa ragione non è più in grado di generare
valori umani ma si accascia su se stessa senza rinnovamento e nuovo
significato. Accanto ai Marano, compare poi tutta una sfilza di personaggi che
ruotano attorno all’arrivo a Cefalù di un individuo alquanto eccentrico e realmente
esistito, il satanista inglese Alastair Crowley, il quale si insedia in una
villa poco fuori paese e lì celebra i propri riti coinvolgendo diverse persone.
Le proteste contadine e le azioni degli squadristi fascisti, infine, connotano
il clima storico e sociale all’interno del quale le vicende si muovono.
Pasolini” (Consolo,
2001b). Lo stesso concetto è ribadito qualche anno dopo in un’altra intervista:
“in generale mi sono sempre mosso nel solco gaddiano (solco tracciato per
primo, nella letteratura italiana moderna, da Verga)” (Ciccarelli, 2006:96). Si
veda anche il commento di Ferroni: “Il suo espressionismo tutto siciliano parte
da Verga, dal serrato confronto con lo scrittore verista con il parlato e con
la tradizione letteraria, e giunge come a rendere più densa e aggrovigliata la
miscela verghiana” (Adamo, 2007:7). Infine, si legga anche il capitolo
“Verghiana” in Di qua dal faro.
I tempi dell’apocalisse consoliana: moto e impetramento
Il senso della fine del mondo, cioè la caduta o perdita di
questo mondo possibile, si manifesta nel romanzo attraverso due movimenti tra
loro opposti che si estremizzano senza armonia: da una parte un moto vano e
dall’altra una stasi pietrificata. De Martino individua in questi due poli due
segni uguali e contrari della fine del mondo:
Il mondo che diventa “immobile”, il divenire che perde la
sua “fluidità”, la vita che si devalorizza costituiscono un momento vissuto
dell’ethos del trascendimento che muta di segno: l’altro momento è l’universo
in tensione, la onniallusività dei vari ambiti in cerca di semanticità, la
forza che travaglia questi ambiti e li sospinge ad andare oltre i loro limiti
in modo irrelato, e che li fa partecipare caoticamente a tutto il reale e a
tutto il possibile, senza sosta e senza offrire mai un appiglio operativo
efficace. La polarità di immobilità e tensione, di rigidezza e forza
onniallusiva, di crollo degli appigli operativi e di irrelata scarica
psicomotoria, porta il segno dell’alterità radicale e dell’essere-agito-da,
cioè il segno dell’alienazione nel senso patologico del termine: in tutti i
vissuti cui dà luogo, si manifesta infatti il diventar altro proprio di ciò che
sta alla radice dell’io e del mondo, l’annientarsi dell’energia valorizzante
delle presenza, il non poter emergere come presenza al mondo e l’esperire la
catastrofica demondanizzazione del mondo, il suo “finire”. (De Martino,
2002:631)
Tutti i personaggi di Nottetempo sono tesi ora verso un polo
ora verso l’altro, manifestando e vivendo in maniera diversa il disagio della
catastrofe imminente. Il movimento cui si abbandonano alcuni personaggi, tra
cui in primo luogo il satanista inglese – e che a livello sociale richiama
anche l’imperativo all’azione degli squadristi fascisti – diventa un’agitarsi
vano e inconcludente, un muoversi legato al caos e irrelato al mondo degli
oggetti, dunque privo di significato e incapace di crearne. Questo agitarsi
vano è anche un modo per nascondere e non dover fermarsi a fissare il dolore
che permea l’esistenza umana; infatti, fissare questo dolore può portare alla
pietrificazione, alla stasi completa, se non si riesce ad elaborare tale
sofferenza in maniera produttiva. Osservare questa profonda realtà in un
momento in cui l’individuo o la società nella sua interezza non riescono a
creare valore e significato per tale sofferenza può essere tanto rischioso
quanto guardare negli occhi la Gorgone: è un atto che conduce alla
pietrificazione, la stasi, che racchiude in sé tutto ciò che è mancante di
movimento, ma anche assenza di parola, impossibilità del dire, del
rappresentare e del comunicare. A questa condizione dell’esistenza umana
corrisponde in Consolo quella narrativa, sospesa tra il rischio di dire troppo
dicendo nulla – il vuoto della retorica6 – e la pagina bianca, il non scrivere
e il non dire. Nei poli dell’apocalisse
consoliana possiamo riconoscere una degenerazione dei due impulsi che concorrono
a formare la tragedia greca così come è descritta dal filosofo tedesco
Friedrich Nietzsche in La nascita della tragedia greca: il dionisiaco e
l’apollineo. Il dionisiaco, che dà origine al coro della tragedia, è l’ebbrezza
estatica in cui grazie all’annullamento della soggettività l’uomo può entrare
in contatto con l’“unità originaria” del tutto e riconciliarsi con la natura; è
movimento, danza, musica, scatenamento degli istinti e delle pulsioni vitali.
L’apollineo, invece, è contemplazione, sogno, creazione di immagini,
rappresentazione; nella tragedia è l’“oggettivazione dello stato dionisiaco”
(Nietzsche, 2003:122) del coro, dunque la scena, il dramma. Nell’apollineo si
intravede la qualità statica della contemplazione, di immagini nelle quali si
riduce l’azione; una staticità che Nietzsche definisce come “silenziosa
bonaccia della contemplazione apollinea” (Nietzsche, 2003:103). L’interazione e
l’equilibrio tra l’apollineo e il dionisiaco è ciò che dona forma alla tragedia
greca; Consolo, tuttavia, vede nella modernità la perdita di questo equilibrio
e la perdita della forza creatrice dei due impulsi nietzschiani: il dionisiaco
diventa disumanità, movimento falso, scatenamento di istinti bestiali che
invece di connettere l’uomo con una supposta unità originaria, lo
*
6 “La rottura del rapporto tra intellettuale e
società ha lasciato un vuoto di cui si è impadronita una comunicazione che è
sempre impostura; è la voce del più forte, la verità falsata del potere”
(Consolo in Papa, 2003:193).
**
disconnette dall’umano, dalla comunità e non lo lega né alla
dimensione del divino, né alla dimensione di una realtà o verità profonda; e
l’apollineo è pura stasi, è l’essere intrappolati nella contemplazione di
immagini di dolore. Questi due impulsi generano in Consolo un presente
caratterizzato da una tragedia degenerata, priva di catarsi, priva di
conclusione; egli stesso lo spiega a commento della propria opera: “l’anghelos,
il narratore, non appare più sulla scena poiché ormai la cavea è vuota,
deserta. Sulla scena è rimasto solo il coro, il poeta, che in tono alto,
lirico, in una lingua non più comunicabile, commenta e lamenta la tragedia
senza soluzione, la colpa, il dolore senza catarsi” (Consolo 1996:258). In un’opera successiva, L’olivo e l’olivastro
(1994), lo scrittore individuerà nella metafora dell’“olivo”, l’albero
innestato, l’albero che nasce dalla cultura e dalla civiltà, e
dell’“olivastro”, l’albero selvatico, un’altra metafora per esprimere il senso
di perdita dell’armonia di due opposti impulsi che, come l’apollineo e il
dionisiaco, dovrebbero formare il senso e il valore della civiltà, di un mondo
umanamente abitabile: “spuntano da uno stesso tronco questi due simboli del
selvatico e del coltivato, del bestiale e dell’umano, spuntano come presagio di
una biforcazione di sentiero o di destino, della perdita di sé,
dell’annientamento dentro la natura e della salvezza in seno a un consorzio
civile, una cultura” (Consolo, 2012a:13-14). Essi “non si combattono: al
contrario, si completano. Essi si uniscono in lui [in Ulisse] armoniosamente
come il ceppo materno e il ceppo paterno” (Consolo, 1999:25). Ma il dramma
della modernità, ciò che porta la civiltà occidentale a vivere la propria
apocalisse, è il sopravvento dell’olivastro sull’olivo: “Ecco, nell’odissea
moderna è avvenuta la separazione tra il selvatico e il coltivato. L’olivastro
ha invaso il campo” (Consolo, 1999:25). Come l’apollineo e il dionisiaco hanno
perso la loro forma rendendo la tragedia moderna priva di catarsi, così l’olivo
e l’olivastro non coesistono più armonicamente nel tronco della civiltà
portando questa verso il suo tramonto.
Primo tempo: il movimento artificioso
In Nottetempo, come già accennato, il polo del movimento è
rappresentato in primo luogo dall’inglese satanista e reso con particolare
efficacia in un capitolo, La Grande Bestia 666, che reca significativamente in
esergo una citazione dall’apocalisse di Giovanni. Aleister Crowley inscena un
allucinante e allucinato rito orgiastico che dovrebbe in qualche modo rifarsi
all’Arcadia greca, riproporne i miti, riconnettersi con un mondo antico e
aureo, ma che nella realtà non è che una degradata imitazione di forme vuote e,
soprattutto, una degradata riproduzione di un rito dionisiaco in cui l’ebrezza,
la musica, la danza dovrebbero portare alla visione estatica. Il capitolo
principia, infatti, con la descrizione di un ballo, che ci immette subito nella
sfera del movimento senza arresto, nonché nel regno dionisiaco. È Aleister,
immedesimato in una ballerina, a compiere prodezze sostenuto “nella felice
trascendenza dai vapori d’oppio, d’etere, di hashish, di cocaina” (85). Il
ritmo diventa sempre più incalzante, i lunghi elenchi che riempiono la pagina
riproducono il “suono della vibrante cetra, dei cembali tinnanti,
dell’acciarino acuto, del timpano profondo” (83) con cui si apre il capitolo;
si veda, a titolo di esempio, questa lista di nomi che connotano l’essenza
fittizia di Aleister, senza sosta, in un ritmo incalzante che toglie il fiato
alla lettura: In lui c’era stato il tebano Ankh-f-n-Khonsu, Ko Hsuan discepolo
di Lao-Tze, Alessandro VI Borgia, Cagliostoro, un giovane morto impiccato, il
mago nero Heinrich Van Dorn, Padre Ivan il bibliotecario, un ermafrodita
deforme, il medium dalle orecchie mozze Edward Kelley, il dottor John Dee,
l’evocatore d’Apollonio di Tyana, il gran cabalista Eliphas Levi, in lui, il
gentiluomo di Cambridge, Aleister MacGregor, Laird di Boleskine, principe Chioa
Khan, conte Vladimir Svareff, Sir Alastor de Kerval, in lui, la Grande Bestia
Selvaggia, To Mega Thérion 666, Il Vagabondo della Desolazione, Aleister
Crowley (dàttilo e trochèo). (84)
È un elenco dal ritmo vorticoso, che confonde in una sorta
di ubriacatura di parole: Consolo rende in tal modo, con un linguaggio che si
fa nietzscheanamente metafora del suono7, il senso di un vano agitarsi. Questo
moto, sostenuto dall’uso delle droghe, si connota come anormale e nella
collezione di identità in cui di volta in volta Aleister Crowley si identifica
possiamo vedere un sintomo di schizofrenia e psicopatologia connessa a uno
stato epilettico, analizzando il quale De Martino individua il principio del
moto distorto come una delle sue caratteristiche: “in tutto sta in primo piano
l’elemento del moto: l’alterazione del movimento, la perdita dell’equilibrio,
lo scuotimento della sicurezza e della tranquillità nel mondo delle cose,
conducono alla conclusione: il mondo crolla, sprofonda” (De Martino 2002:38). Ma quando Janu, “this sicilian caprone” (80)
– il satiro – rifiuta di prendere parte al rito, di consumare l’orgia, e
scappa, il movimento vorticoso si arresta; il cielo di carta pirandellianamente
si squarcia e la messa in scena rivela il proprio carattere fittizio, scoprendo
per un attimo la falsità della vita stessa che il rito attraverso il vortice
del ballo cercava di occultare: “Declamò ancora più forte la danzatrice in
terra. Restò immobile. Attese. S’era interrotta ogni musica, ogni nota, sospeso
ogni sussurro, fiato, il silenzio freddo era calato nella sala” (88). È
l’assenza di movimento e di parola a rivelare la realtà, a svelarla:
Sentì ch’era sopraggiunto quel momento, quell’attimo
tremendo in cui cadeva dal mondo ogni velario, illusione, inganno, si
frantumava ogni finzione, fantasia, s’inceneriva ogni estro, entusiasmo,
desiderio, la realtà si rivelava nuda, in tutta l’insopportabile evidenza, cava
si faceva la testa, arido il cuore. […] Guardava il mondo in quello stato, si
guardava intorno, e ogni cosa gli appariva squallida, perduta. (89)
7 Il linguaggio, secondo il filosofo tedesco,
nasce da un impulso nervoso che si trasferisce in immagine e poi in suono. Il
linguaggio della poesia del canto popolare è quello che meglio di qualunque
altro riesce “nella imitazione della musica” (Nietzsche, 2003:101).
È il momento drammatico della rivelazione. Il rischio è la
stasi, ma Aleister la scongiura chiedendo che gli venga data altra droga per
ridiscendere nella condizione di trance e ricreare un mondo fittizio. Il
capitolo, tuttavia, si chiude bruscamente con un altro svelamento, un altro
squarcio che irrompe in questa realtà: l’annuncio che l’infante, il figlio di
Aleister, è morto. Segue “tutto un trambusto, un irrompere all’aperto, un
correre nella notte” (99), ma ovviamente invano, perché la stasi suprema, la
morte, si è già impossessata della piccola Poupée. Nella scomparsa dell’infante è da leggersi,
metaforicamente, la morte di ogni speranza e del futuro. È anche presagio della
futura “apocalisse” che si abbatterà un ventennio dopo su tutta l’Europa nella
forma della Seconda Guerra Mondiale causata dai fascismi. Aleister, infatti,
rappresenta anche l’irrazionalità e la bestialità del fascismo, se è vero che
intorno a lui si convogliano personaggi simpatizzanti e legati al fascismo,
come il barone Nenè e la sua cricca, e che lo stesso inglese viene nominato
come Superuomo, “colui che aveva varcato ogni confine, violato ogni legge, che
aveva osato l’inosabile, lui, la Grande Bestia dell’Apocalisse” (90). Ed egli,
nel tentativo di ricreare un mondo antico attraverso una messa in scena
irrazionale, si fa simulacro del progetto di Mussolini e del Duce stesso, di
colui che ha “varcato ogni confine” umano, reale e metaforico. Per Consolo
apocalisse è anche questa: l’andar oltre il limite, il troppo, il movimento che
travalica il confine, come l’ultimo viaggio dell’Ulisse dantesco oltre le
colonne d’Ercole. In molti, infatti, hanno riconosciuto nei personaggi dello
scrittore siciliano dei moderni Ulisse condannati a una continua peregrinazione
dove non esiste l’Itaca a cui tornare8 – tema d’altronde, quello della perdita
di Itaca, comune a molta letteratura moderna italiana, per cui il ritorno è
sempre impossibile, a iniziare dal ‘Ntoni verghiano. E proprio i personaggi del
romanzo di Aci Trezza sono descritti da Consolo in
8 Si veda su tutti l’articolo di Massimo
Lollini “La testimonianza di Vincenzo Consolo, moderno Odisseo.” Italica 82.1
(Spring 2005), in cui l’autore analizza le varie figure ulissiache di Consolo,
tra cui il personaggio inglese Alastair, il barone Nenè e Petro di Nottetempo.
Lollini arriva a far coincidere la figura di Ulisse con quella di Consolo
stesso, testimone dello spaesamento e del peregrinamento dell’uomo moderno,
descritto “in toni che a tratti si fanno apocalittici” (38), soprattutto quando
lo sguardo cade sulle odierne devastazioni che occorrono lungo il Mediterraneo.
L’olivo e l’olivastro come in continua preda di un
movimento, una frenesia che ha esplicitamente i caratteri dell’apocalisse: “[il
popolo di formiche] visse in quell’apocalisse del movimento rapido, nella
vitalità guizzante, nella ferocia del possesso, nel tetro accumulo, nel tumore
divorante” (Consolo, 2012a:40). L’Ulisse consoliano è privo di connotazioni
romantiche ed eroiche, divenendo anzi spesso simbolo non solo dello spaesamento
dell’uomo moderno ma anche della sua folle ricerca di un superamento dell’umano
e dei suoi limiti contingenti: “Il soggetto etico di cui i romanzi di Consolo
si fanno portavoce […] insiste sull’importanza di una riflessione sui limiti
stessi della scrittura, che poi sono i limiti della civiltà, del tentativo di
apprezzare e definire i contorni di una cultura della finitudine umana”
(Lollini, 2005:34). Il movimento e il
dionisiaco degenerato si connotano, perciò, in termini distruttivi e
apocalittici quando significano tentativo di superamento dell’umano, che è
anche sempre violenza disumana, bestiale. Il varcare le colonne d’Ercole si
pone dunque per Consolo entro una dimensione etica che non riguarda più
solamente l’individuo e il suo singolare confronto con la divinità, con
l’oltre, ma riguarda l’individuo in quanto parte di una comunità9: questo
Ulisse moderno senza possibilità di ritorno non è un eroe solitario in lotta
contro forze superiori, ma è uomo le cui scelte e le cui azioni sono e si
iscrivono sempre entro una dimensione etica che riguarda tutta la comunità
circostante. In questo vediamo delinearsi la responsabilità del satanista
inglese Alaister che non può essere circoscritta geograficamente e
temporalmente all’interno di ciò che avviene nella villa a Santa Barbara, la
villa appartata che egli sceglie come dimora. Alaister diventa emblema e
portavoce di un modello di ricerca che sfocia nel disumano e che ha come
vittima il più piccolo, nonché futuro, della comunità. La vittima, tuttavia,
non è prevista dal rito e perciò non è sacrificale; essa, rimanendo legati al significato
etimologico del termine, non entra nel regno del sacro e non si connette con
una spiritualità superiore, ma rimane ancorata al senso profano, alla
materialità terrena, non assume nessun valore superiore.
9 Così, d’altra parte, lo intende anche Dante,
collocando Ulisse nell’inferno non già perché ha sfidato gli dei, quanto
piuttosto perché si è allontanato dalla comunità degli uomini, trascinando alla
rovina anche i suoi compagni.
Diventa una morte disumana, legata al superamento del
limite, e non una morte sacra, una morte che può trascendere nel significato.
Secondo tempo: l’incedere umano
È, dunque, attraverso il recupero del senso dell’umano che
il movimento può ritrovare il suo giusto ritmo, la sua misura, e non eccedere
verso il limite dell’apocalittico, che è superamento dell’umano. Un passo del
capitolo successivo a La Grande Bestia 666 collega le tematiche del movimento
apocalittico e della stasi con la ricerca di una dimensione umana che possa
scongiurare i due estremi. La riflessione avviene in occasione dell’incontro
tra Petro e Janu, che per tanti mesi era scomparso e ora appare cambiato:
Pensò Petro a come si può cangiare in poco tempo, al tempo
che scorre, precipita e niente lascia uguale. Che solo la disgrazia, la pena
grave blocca il movimento, il cuore la memoria, come una bufera immota, un
terremoto fermo, una paura assidua che rode, dissecca, spegne volere gioia. E
sbianca e invecchia, mentre che dentro la ferita è aperta, ferma a quel
momento, nella sfasatura, nella disarmonia mostruosa. Una suprema forza
misericordia immensa potrebbe forse sciogliere lo scempio, far procedere il
tempo umanamente. (105, corsivo mio)
Petro, dunque, minacciato costantemente come i suoi
familiari dal pericolo dell’arresto del tempo, dell’immobilità, scorge dentro
sé una via diversa da quella del satanista inglese o del fascismo: movimento
sì, movimento che significa vita, ma che “proceda umanamente”. Appare evidente
il contrasto con il movimento vorticoso, ossessivo, ritmico e in definitiva
artificiale che ha animato il rito delle pagine precedenti. Solo nel tempo
umano c’è la possibilità di salvarsi dall’apocalisse. È questo il tempo della
memoria, il tempo che può essere articolato dalla coscienza umana, il tempo
entro cui può risiedere l’umano. È perciò anche progetto di scavo, archeologia del tempo, del passato da
cui recuperare frantumi, frammenti di umanità, come nota Bouchard: “Consolo
allows the ruins of the past to haunt the surface of his narratives with the
intent of making current the wounds and the lacerations of history. Since these
are wounds and lacerations that can no longer be abreacted by a successful work
of mourning, they give rise to an interminable writing of melancholy that
displaces the ontological certainty of our reality while pointing towards a
better future that can only be built out of the memory traces of the past”
(Bouchard, 2005:17).
Terzo tempo: “il male di pietra”
Il tempo che scorre umanamente è costantemente minacciato
dall’altra possibilità: dall’arresto. È questa la metafora più efficace e
pregnante in Consolo, poiché è il rischio che egli stesso in quanto scrittore –
e in quanto uomo – corre, è il pericolo che costantemente gravita sulla sua
scrittura e che ritorna quasi ossessivamente da una pagina all’altra: è il
pericolo che incombe su chi acquista la consapevolezza della realtà, chi sente
la sofferenza declinata sia come male di vivere dell’uomo sia nella sua
contingenza come male dell’epoca contemporanea. Consolo, rifiutando l’uso di un
linguaggio comune troppo abusato e vuoto, cioè la parola che danza ma non dice,
cede inevitabilmente il passo alla pietrificazione, alla stasi della parola. Ed
è dunque su questo punto che si arrovella, è questo il cruccio della sua
scrittura nonché quasi il paradosso dell’urgenza del dire in un mondo dove non
è più possibile dire. È questa la degenerazione apollinea di una
rappresentazione, qui propriamente intesa come drama, che si pietrifica in
un’unica immagine di sofferenza. Ben giustamente Arqués cita Calvino e il suo
saggio sulla leggerezza a proposito di Consolo, ma lo fa per stabilire un
parallelo tra la narrazione storica dello scrittore siciliano e Perseo, o,
meglio, tra la realtà presente e la Gorgone, che non può essere guardata negli
occhi, pena la pietrificazione. La metafora, tuttavia, acquista maggior
pertinenza se nella figura della Gorgone non proiettiamo semplicemente il
presente, ma il dolore, la realtà profonda che soggiace a ogni esistenza, quel
male di vivere che non può essere nominato se non con una descrizione e che a
seconda di chi parla e del momento può assumere forme diverse, ma che è anche
sostrato universale che accomuna l’uomo di tutte le epoche e i luoghi. È quel
senso di verità e dolore che, appunto, se viene fissato direttamente, scoperto
e guardato nella sua cruda interezza pietrifica, proprio come il mostro
mitologico. Calvino userà allora la leggerezza come specchio per guardare
quella pesantezza dell’esistere; Consolo, invece, sa che anche il linguaggio è
costantemente minacciato dal vano agitarsi di parole e perciò sente di non
poter più praticare una lingua troppo tarata da forme vuote; correrà perciò
sempre il rischio, come i suoi personaggi, di pietrificarsi fissando la medusa.
In Nottetempo il personaggio cui è assegnata la sfida di trovare la giusta
misura, il tempo umano, è Petro, che nel nome porta chiaramente il significato
di quel cadere nella contemplazione del male d’esistere. Il primo capitolo, nel
quale si svolge l’inseguimento notturno di Petro nei confronti del padre
affetto dal “male catubbo”, stabilisce il campo semantico entro cui ci dobbiamo
confrontare: il licantropismo, fenomeno dell’uomo tramutato in lupo, ci pone
nel regno delle metamorfosi. Qui il riferimento classico è ovviamente Ovidio10,
di cui la studiosa Galvagno riconosce una caratteristica fondamentale: “La
métamorphose ovidienne, soit humaine, animale, végétale, liquide ou minérale (y
compris les catastérismes), présuppose comme son moyau le plus intime une
pétrification, une immebolité, une fixité de l’être métamorphosé” (Galvagno,
2007:179). Ora tale tratto della pietrificazione dell’essere sarebbe presente,
secondo la studiosa, nella scrittura di Consolo – e abbiamo già citato, non
casualmente, il mito di Perseo. Tutto in
Nottetempo sembra essere sull’orlo della pietrificazione: personaggi, azioni,
eventi, il tempo, la scrittura. Pietrificazione
10 Esistono differenti possibilità di
interpretazione e stratificazioni di significato nella figura dell’uomo
trasformato in lupo, nonché naturalmente differenti storie e tradizioni e
appropriazioni di tali tradizioni da parte della letteratura, ma vale forse qui la pena ricordare il
racconto che fa Ovidio di Licàone, trasformato in lupo da Giove perché
progettava di uccidere il dio. Giove
racconta: “[…] io con fuoco vendicatore faccio crollare quella casa
indegna del suo padrone. Lui fugge, atterrito, e raggiunti i silenzi della
campagna si mette a ululare: invano si sforza di emettere parole” (Ovidio,
1994:15). E dopo Giove invocherà l’apocalisse: la distruzione del genere umano,
perché indegno, corrotto e criminale. Si legga, per confronto, il passo di
Consolo: “Si spalancò la porta d’una casa e un ululare profondo, come di dolore
crudo e senza scampo, il dolore del tempo, squarciò il silenzio di tutta la
campagna” (6). E subito dopo l’episodio del lupo mannaro, comparirà sulla scena
il satanista Aleister. richiama sia la stasi, l’assenza di movimento, di
parola, sia il senso del peso, come aveva rilevato Calvino: la pesantezza
dell’essere. E infatti chi si pietrifica è chi fissa, immobile, e contempla
tale pesantezza, diventando egli stesso o ella stessa di pietra, avvertendo su
di sé tutta la pesantezza del male e sprofondando nel silenzio. Il silenzio e
l’impossibilità dell’esprimersi si associano all’assenza di movimento, alla
pietrificazione, divenendo l’uno spia dell’altro. Fanno da contraltare le urla
disumane, suoni che spesso non si articolano in parole intellegibili (come gli
ululati del lupo mannaro) e che esprimono al pari del silenzio il dolore umano;
molte volte l’urlo e il silenzio si ritrovano insieme come due espressioni
dello stesso concetto di sofferenza. Molti sono gli esempi sparsi nel testo che
esprimono il senso della stasi e/o del silenzio; si leggano questi: “il confine
del dolore fermo, del vuoto immoto” (9), “ma là era silenzio e stasi, era
riposo” (9), “Guardava il silenzio sulle case, ad ogni strada, piano, baglio,
il silenzio al meriggio” (13), “nella sublime assenza, nella carenza di
ragione” (37), “‘Uuuhhh…’ ululò prostrato a terra ‘uuhh… uhm… um…
mmm… mmm… mmm…’” (38, e questa volta è Petro che emette suoni
incomprensibili), “nell’attasso del cuore, canto del pendolo bloccato” (42),
“nella segreta sua torre d’urla, di lamento” (51), “Siamo un ribollìo celato
d’emozioni, un rattenuto pianto” (66), “E tu, e noi chi siamo? Figure
emergenti, palpiti, graffi indecifrati. Parola, sussurro, accenno, passo nel
silenzio” (67), “la pena grave blocca il movimento” (103), “Serafina torbida,
di pietra” (106), “la pietra del dolore” (135). Sono tutte espressioni di
sofferenza e legate alla consapevolezza della sofferenza, alla sua contemplazione
che sottrae l’azione e la parola. Già nel Sorriso dell’ignoto marinaio (1976)
era presente l’idea della pietrificazione come espressione del male, essa però
era legata a una contingenza – i cavatori di pomice – che diventava metafora per una sofferenza
più generale, quella degli ultimi: “‘Male di pietra’ continuò il marinaio ‘È un
cavatore di pomice di Lipari. Ce ne sono a centinaia come lui in quell’isola.
Non arrivano neanche ai quarant’anni’” (Consolo, 2010:8). Ma successivamente in
L’olivo e l’olivastro la metafora “male di pietra” si approfondisce e diventa
l’ossessione costante con cui dire la sofferenza umana. Nelle pagine iniziali
ritornano i cavatori come a stabilire quel paragone, fondare quella metafora
della pietra che poi diventa il nucleo lessicale fondamentale per esprimere il
dolore: “[…] entrò nelle caverne della pomice, parlò con i cavatori
silicotici […] Erano secchi e grigi i cavatori, avevano denti corrosi dalla
polvere, prendevano anelettici, cardiotonici: cresceva dentro loro poco a poco
una corazza di pietra, il cuore s’ingrossava, si smorzava il fiato, si
spegneva” (Consolo, 2012a:26-27). E qui in questo testo allora abbondano non
tanto – o non solo – espressioni diverse che indicano l’impossibilità del dire
e del fare, quanto piuttosto in maniera più specifica lemmi legati alla radice
“pietra”: “Che arrestò al suo accadere, pietrificò illusioni, speranze, rese di
lava la vita” (34), “un vecchio poeta afasico, irrigidito nel giovanile errore,
pietrificato nella follia ribelle” (36), “Una barca di pietra, la pietra in cui
si mutò la barca feacica che aveva portato in patria l’eroe punito, l’eroe
assolto dopo il lungo racconto–che in pietra si muti la barca, si saldi al
fondale prima d’ogni ritorno, poiché nel ritorno, così nel racconto, consiste
lo strazio” (39), “si pietrifica per il dolore, perde vigore e ragione” (41),
“la Catania pietrosa e inospitale” (52), “la ferma maschera, quasi impietrita
del nobile vegliardo” (59), “la loro tragedia s’è svolta in un attimo lasciando
impietriti” (125). La pietrificazione è legata all’esperienza personale, alla
scrittura, ma anche alla società. In un articolo pubblicato sul Corriere della
Sera nel 1977, Paesaggio metafisico di una folla pietrificata, e che O’Connell
riconosce come uno degli avantesti di Nottetempo per quell’incipit del tutto
simile, Consolo attribuisce alla Sicilia, che sta sempre in rapporto
sineddotico con la società, quell’impulso alla pietrificazione come forma
generale e risposta alla consapevolezza del male: “c’è una depressione più
inclemente e disumana di questa, ed è quella che non arriva all’estremo
livello, ma si ferma al di qua, a un passo dall’insopportabilità. È lo stadio
che blocca la vita, la congela, la pietrifica” (Consolo 1977:1). E la Sicilia
sembra, per lo scrittore, bloccata “in questo limbo, in questa metafisica
paralisi”, unica reazione con cui ha controbattuto il movimento artificiale,
del quale ne diviene simbolo l’autostrada, “moderno feticcio dell’accelerazione
spasmodica”. E pure qui la contrapposizione si ritrova anche sul piano della
comunicazione, poiché in questa Sicilia “sequestrata e pietrificata” chi ha
cercato “di fare e di dire”, cioè di cambiare la situazione, è stato costretto
al silenzio e sulla lunga tradizione letteraria isolana, da Verga a Sciascia,
ora domina “la parola vuota, l’inutile incanto, la retorica” (Consolo, 1977:1).
In questo precedente di Nottetempo c’è dunque l’esplicitazione di come la
metafora dell’impetramento e del movimento, del silenzio e della “vuota parola”,
che permea il romanzo sia da leggersi anche sempre come condizione sociale
oltreché intellettuale ed esistenziale. Queste considerazioni ci riportano a De
Martino e all’associazione tra l’apocalisse psicopatologica e quella culturale.
Se gli stati epilettici e la schizofrenia sono caratterizzati da un senso di
moto che in ultima analisi veicola il senso della fine del mondo, lo stato
catatonico è l’insania che al contrario si lega all’assenza di movimento e
diventa negazione del tempo e della storia, cioè ancora del mondo: “Tutte le
cose sono diventate immobili, in uno stato senza tempo. Il corpo risponde a
questo mondo non muovendosi più: il catatonico sta fermo e dritto come una
statua in un museo di curiosità, mentre per noi, non catatonici, il mondo parla
così chiaramente di movimento, è così visibilmente in “moto”, che possiamo
rispondere al suo appello solo con i movimenti del nostro corpo” (De Martino,
2002:57). Se per il non catatonico il mondo può procedere secondo un tempo che
è umano, il catatonico bloccandosi come una statua rifiuta tale tempo e porta
il mondo al suo precipitare. In Petro e nella famiglia Marano l’arresto e la
catatonia concretizzano la metafora di “folla pietrificata” in una società
sull’orlo dell’apocalisse.
La torre dell’urlo e del silenzio
Le sorelle di Petro, come abbiamo già accennato, sono chiuse
e sprofondate nell’impetramento dell’anima e del corpo. Serafina, col nome
programmatico di chi non appartiene a questo mondo e di chi ha una pace che non
è terrestre, è immobile in uno stato quasi catatonico, persa in vagheggiamenti
religiosi che non hanno più alcun referente nel contingente: “E Serafina,
ch’aveva preso prima il ruolo della madre e poi s’era seduta, fatta muta ogni
giorno, immobile, di pietra, dentro nella scranna, il solo movimento delle dita
che sgranano il rosario di poste innumerevoli, di meccaniche preghiere senza
sosta” (42). Serafina nella storia non c’è, è personaggio serrato in questa impossibilità
di essere e di comunicare; è solamente evocata e l’unica volta che compare è
un’immagine di chiusa pazzia: “Era prona la sorella, ai piedi del comò
acconciato come altare, pieno il marmo di fiori ceri avanti a quadri,
immaginette, duplicati nello specchio. Faceva un canto mesto, come un lamento”
(158); ma naturalmente le sue parole sono inintelligibili. L’altra sorella, invece, Lucia, cade in una
pazzia che prima ancora di essere assenza e distanza è urlo innaturale, parole
sconclusionate11, perse in un passato disordinato e non recuperabile. In Lucia,
infatti, si racchiude anche il tema fondamentale del recupero del passato, ma
un recupero che fallisce, poiché il disordine dei frammenti rimane un disordine
che non è in grado di tracciare nessuna via, per quanto precaria e labile. Il
ricordo delle ferite che riemerge in lei è un ricordo che riproduce
meccanicamente il trauma ma non lo supera mai; si legga la scena fondamentale
dove, dopo l’“oltraggio” subìto dalla famiglia Marano a causa dell’antagonismo
fra Petro e Don Nenè, Lucia farnetica pezzi di frasi che riportano alla luce un
passato non attinente all’evento appena accaduto e incapaci di produrre
conoscenza, comunicazione o presa sulla realtà: “‘Ah, tana di cani corsi, di
mastini […]’ riprese a dire la sorella ‘Ah, quanto piangere di madri,
d’innocenti […] Attento, Petro, non uscire!’ […] ‘Che fa Janu, non viene?
Dobbiamo andare o no alla mandra, a mangiare la ricotta? […] Si fece tardi
ormai […] No, no, aiuto! […]’ e indietreggiò, si portò le mani alle
orecchie” (158). Lucia, in un certo
senso, è andata oltre il limite umano, ha varcato un confine oltre il quale
l’uomo non può accedere rimanendo uomo, tanto che Petro osserva parlando all’amico
Janu: “Né io né tu possiamo più raggiungerla” (68). Ella rappresenta attraverso
l’urlo e il movimento irragionevole ciò che Serafina rappresenta attraverso la
stasi e il silenzio. Lucia, al contrario della sorella, è visibile, agisce, ha
una personalità forte e inquieta, va per la campagna con il fratello Petro e
l’amico Janu, è promessa sposa; ma il giovane che ha chiesto la sua mano non
torna dalla guerra. In quel dolore Lucia si chiude, si
*
11 Ancora con De Martino possiamo leggere: “In
generale il dominio della follia diventa comprensibile come caduta dell’ethos
del trascendimento, della presentificazione valorizzante, e come costruzione di
difesa fittizia che accentuano il recedere verso l’incomunicabile, il privato,
il senza-valore-intersoggettivo” (De Martino, 2002:85).
**
pietrifica, ma esplode in urlo piuttosto che cadere nel
silenzio, esplode in suoni che non possono articolare e razionalizzare quel
dolore: “Finché un giorno, un mezzogiorno che Petro tornava dalla scuola, non
si mise a urlare disperata dal balcone, a dire che dappertutto, dietro gli
ulivi le rocce il muro la torre la sipale, c’erano uomini nascosti che volevano
rapirla, farla perdere, rovinare” (46). E poco oltre: “Lanciò improvviso un
urlo e scappò via, si mise a correre, correre per il sentiero, come presa da
frenesia, da tormenti” (47). È la fuga di Lucia oltre il limite dell’umano,
eppure anch’ella è figura statica, immobile, figura che s’impetra nel dolore e
lo fissa perdendo la capacità di vedere altro e cioè anche la capacità di
creare e vedere altre visioni apollinee: rimane una sola visione senza drama e
in essa Lucia si ferma. Così ecco che anche il suo nome acquista pregnanza, nel
momento in cui il testo ci ripete insistentemente nello stretto volgere di un
paragrafo che Lucia – che vuol dire luce ma che è anche patrona dei non vedenti
e degli oculisti – non vede più, è diventata cieca nella fissità: “La portò via
da casa […] perché si dissolvesse in lei l’idea fissa. […] Ma era come lei
non vedesse […] era come se avesse gli occhi sempre altrove, fissi dentro un
pozzo” (47) – dove quel “pozzo” sta per la profondità del dolore. Lucia è anche
figura pietrificata in quel suo guardarsi continuamente allo specchio, atto
autoriflessivo che non comunica con il mondo esterno ma ricade sulla persona
medesima; ella fissa se stessa e la sofferenza che ha guardato con i propri
occhi ora riflessi allo specchio. Atto solipsistico e chiuso, come chiusa è lei
nella propria camera: “E stava ore e ore chiusa nella stanza, avanti alla
toletta a pettinarsi, in incantesimo, il guardo trasognato, perso nel guardo
suo di fronte dentro lo specchio” (46).
La sofferenza familiare si racchiude metaforicamente nella concretezza
della “torre”, ovviamente fatta in pietra (“la sua voce roca sembrava vorticare
per le pietre della torre” 37), che assurge a simbolo di chiusura e solitudine
– torre è quel tipo di edificio caratterizzato da una dimensione in altezza
nettamente maggiore rispetto alla dimensione della base e che dunque si isola
rispetto alle costruzioni circostanti; torre per antonomasia è quella di
Babele, dove regna il caos, il disordine e la confusione, principio delle
lingue diverse che impedirono all’uomo di comunicare l’uno con l’altro12. Nella
torre dove sono chiusi i membri della famiglia Marano la comunicazione non è
possibile, le parole non assumono un significato che possa essere compreso
dagli altri, decifrato: “‘Pietà, pietà’ implorò in quella solitudine sicura,
dentro quel rifugio della torre, quel segreto oratorio d’urla, pianto, sfogo”
(38). L’urlo è il simbolo di questo dolore, sfogo inarticolato, contraltare del
silenzio: “nella segreta sua torre d’urla” (51), “E nella torre ora, dopo le
urla, il pianto”. L’urlo, come il
silenzio, è una comunicazione bloccata. Petro allora si rende conto che è
necessario recuperare le parole per uscire dalla torre. È questo un momento
fondamentale del testo, che è sia riflessione sulla sofferenza umana sia sulla
scrittura cui è affidato il compito di esprimere tale sofferenza. Nottetempo è
allora anche e “innanzitutto la storia di una vocazione alla scrittura”
(Traina, 2001:92). Il tentativo di uscire dalla torre di pietra e scongiurare
l’afasia si pone come uno dei temi centrali del testo. Attraverso questo percorso
del protagonista, si assiste anche alla lotta che lo stesso Consolo conduce per
non cadere nell’impetramento della scrittura, nell’impossibilità del dire, del
parlare, nell’apocalisse della parola.
Afasia
Nottetempo è anche romanzo autobiografico, non tanto perché
ci siano elementi biografici dello scrittore che possano essere riconosciuti
nella vicenda di Petro, quanto piuttosto perché la storia di Petro, la sua
uscita dalla torre, è anche il viaggio intellettuale dello scrittore Consolo.
Riconosciuta l’oppressione del silenzio familiare e dell’esilio dalla ragione e
dalla parola delle due sorelle, nel protagonista del romanzo nasce il desiderio
di uscire dalla torre ricomponendo un linguaggio attraverso cui poter di nuovo
comunicare una realtà, riconnettersi con essa:
*
12 “Ma il Signore scese a vedere la città e la
torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: ‘Ecco, essi sono un
solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e
ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo
dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua
dell’altro’” (Genesi 11:5-7).
**
Sentì come ogni volta di giungere a un limite, a una soglia
estrema. Ove gli era dato ancora d’arrestarsi, ritornare indietro, di tenere
vivo nella notte il lume, nella bufera. E s’aggrappò alle parole, ai nomi di
cose vere, visibili, concrete. Scandì a voce alta: “Terra. Pietra. Sènia. Casa.
Forno. Pane. Ulivo. Carrubo. Sommacco. Capra. Sale. Asino. Rocca. Tempio.
Cisterna. Mura. Ficodindia. Pino. Palma. Castello. Cielo. Corvo. Gazza.
Colomba. Fringuello. Nuvola. Sole. Arcobaleno […]” scandì come a voler
rinominare il mondo, ricreare il mondo. (38-39)
Questo elenco precede quello che poi ritroveremo nelle
pagine dedicate al rito satanico di Alaister e si pone su uno stesso piano di
complementarietà: come quello nasceva dal movimento artificioso del dionisiaco
degenerato, questo nasce dall’impetramento afasico dell’apollineo degenerato.
In entrambi la parola è mimesi del gesto: lì c’è la ricreazione del movimento,
in cui il segno della virgola dà il senso del ritmo della danza e della musica,
qui c’è la riproduzione della stasi, marcata dal punto che segue ogni parola e
che indica la pausa, una cesura di tempo e di spazio, la difficoltà
dell’esprimere una parola dietro l’altra, l’inarticolazione di un discorso. E
se là il vortice delle parole serviva a confondere, ad allontanare dalla
realtà, qui c’è l’avvicinamento, o per lo meno il tentativo di avvicinarsi a
qualcosa che si è perso da tempo – o mai avuto. È un elenco di parole semplici,
in cui tuttavia si può riconoscere una catena logica di riferimenti che dalla
terra vanno al cielo, dalla “pietra” al senso di libertà del volo degli uccelli
e alla luce del sole. Attraverso questo “rinominare il mondo” Petro cerca di
riattivare un legame con la realtà, o, per dirla ancora con Nietzsche, cerca
parole che non esprimono altro che “relazioni delle cose con gli uomini”
(Nietzsche, 1964:359); cerca dunque di ritrovare questa relazione con le
cose. Nel processo dell’elencare
riemerge una realtà frantumata, che si dà appunto solo in frammenti; ed è solo
così, in quei frantumi testimoniati dall’accumulo di lemmi che si può cogliere
una realtà la cui unità, come il discorso, come il narrare, non può essere (ri)composta. Anche la scrittura, infatti, si
arresta, si blocca sull’orlo dell’impossibilità di esprimere, di connettere
parole con realtà; così fallisce il tentativo di Petro: “cercò di scrivere nel
suo quaderno – ma intinge la penna nell’inchiostro secco, nel catrame del
vetro, nei pori della lava, nei grumi dell’ossidiana, cosparge il foglio di
polvere, di cenere, un soffio, e si rivela il nulla, l’assenza di ogni segno,
rivela l’impotenza, l’incapacità di dire, di raccontare la vita, il patimento”
(53). Petro è come l’uomo dionisiaco
descritto da Nietzsche: simile a lui cerca la salvezza nell’arte, cerca
un’“illusione” che lo salvi dallo sguardo che ha gettato sull’orrore delle
cose; egli ha la conoscenza del dolore e rischia per via di essa di rimanere
pietrificato, di perdere la volontà dell’azione e dire “no” alla vita. “In
questo senso” dice Nietzsche “l’uomo dionisiaco è simile ad Amleto: entrambi
una volta hanno gettato uno sguardo vero nell’essenza delle cose, hanno
conosciuto, e agire li nausea; poiché la loro azione non può cambiare niente
nell’essenza eterna delle cose, essi sentono come ridicolo o infame che venga
loro chiesto di rimettere in sesto il mondo uscito fuori dai cardini” (113).
Consolo, attraverso il personaggio di Petro, ci descrive allora il viaggio
verso l’esaltazione dionisiaca, che qui altro non è che volontà e capacità di
esserci ancora, di agire in questo mondo – e di scrivere, di dire. Assistiamo
così all’uscita metaforica di Petro dalla torre, alla sua presa di coscienza
politica (che passa tramite lo sputo al barone, l’amicizia con il Miceli, la
partecipazione alle manifestazioni di piazza, l’“oltraggio” subito e infine
l’attentato perpetrato) e alla promessa, a fine romanzo, di una nuova scrittura
attraverso cui sciogliere il grumo del dolore: “Pensò al suo quaderno. Pensò
che ritrovata calma, trovate le parole, il tono, la cadenza, avrebbe racconto,
sciolto il grumo dentro. Avrebbe dato ragione, nome a tutto quel dolore”
(171). Questa scrittura, sappiamo, sarà
il rifiuto delle parole cerimoniose e della falsa retorica, si distanzierà
tanto dal libro dell’anarchico lasciato cadere in mare quanto dalle “parole
rare e abbaglianti” di D’annunzio o quelle “roboanti” (112) di Rapisardi. La
vicenda di Petro si conclude perciò in quella dei satiri del coro, nel recupero
attraverso la scrittura di un dionisiaco non degenerato: Nella coscienza di una
verità, ormai contemplata, l’uomo adesso vede dappertutto soltanto l’orrore o
l’assurdità dell’essere […]. Qui, in questo supremo pericolo della volontà,
si avvicina, come maga che salva e risana, l’arte: soltanto essa può piegare
quei pensieri nauseati per l’orrore o l’assurdità dell’esistenza in
rappresentazioni con cui si possa vivere. (Nietzsche, 2003:114)
Questo è anche il percorso intrapreso dal Consolo scrittore,
che approda alla tragedia di Catarsi (1989) come simbolo di un modo di
scrivere; dice nel saggio Per una metrica della parola: “La tragedia
rappresenta l’esito ultimo della mia ideologia letteraria, l’espressione
estrema della mia ricerca stilistica. Un esito, come si vede, in forma teatrale
e poetica, in cui si ipotizza che la scrittura, la parola, tramite il gesto
estremo del personaggio, si ponga al limite dell’intellegibilità, tenda al
suono, al silenzio” (Consolo, 2002:250).
Come ultima possibilità in una società dalla lingua corrotta e
degradata, dallo sfaldamento della comunicazione, dalla rottura del rapporto
tra scrittore e suo pubblico, suo referente in tale società, come ultima
risorsa prima di cadere nell’afasia, nel silenzio, c’è il recupero dello
spirito dionisiaco (e apollineo) che si esprime più compiutamente nel coro
della tragedia, come si verifica nel Prologo a Catarsi:
La tragedia è la meno convenzionale, la meno compromessa delle arti, la parola
poetica e teatrale, la parola in gloria
raddoppiata, la parola scritta e pronunciata. Al di là è la musica. E al di là
è il silenzio. Il silenzio tra uno strepito e l’altro del vento, tra un boato e
l’altro del vulcano. Al di là è il gesto. O il grigio scoramento, il crepuscolo, il brivido del freddo, l’ala
del pipistrello; è il dolore nero, senza
scampo, l’abisso smisurato; è l’arresto oppositivo, l’impietrimento. (Consolo,
2002:13)
Allora in Nottetempo dobbiamo leggere questo approdo al
canto del coro della tragedia, approdo di Petro dietro cui non sarà difficile
riconoscere il percorso della scrittura e della poetica di Consolo stesso, teso
tra il rifiuto della parola vuota e l’attrazione per quel silenzio che
racchiude tutto il dolore. Petro è
dunque il personaggio che incrocia tutti e tre i piani tematici su cui si
dispone il romanzo e su cui si dispiega il senso dell’apocalisse: quello esistenziale,
quello storico-culturale e quello della scrittura. A livello narrativo egli
funziona come elemento unificatore di questi piani e, a livello contenutistico,
si configura come chiave per trascendere il pericolo dell’apocalisse nel valore
che possa rinnovare i mondi (quello interiore, quello sociale e quello
letterario) infondendo loro nuovo significato. Più che romanzo “apocalittico”,
dunque, Nottetempo è romanzo del “rischio della fine” e dell’inserimento di
tale rischio in un’ottica che ne accenni e ne indichi il superamento e la reintegrazione.
Bibliografia
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Abstract This essay aims to analyse the novel, Nottetempo, casa per casa (1992), by Vincenzo Consolo, considering the motif of the end of the world as a central and unifying element of the different levels on which the narrative unfolds. While The Birth of Tragedy by Friedrich Nietzsche is the intellectual reference for the novel, the considerations by the anthropologist Ernesto De Martino on the apocalypse allows us to interpret Nottetempo as a response to the psychological, cultural and literary risk of the “end” experienced in these three different areas.
Italian Studies in Southern Africa/Studi d’Italianistica nell’Africa Australe Vol 27 No 2 (2014)
*
MILANO, 6 -7 MARZO 2019
Università degli Studi
Sala Napoleonica
via Sant’Antonio 10/12
Responsabile scientifico Gianni Turchetta
Segreteria Chiara Melgrati
GIOVEDÌ 7 MARZO
9.30
Coordina Irene Romera Pintor (Universitat de València)
Sebastiano Burgaretta (etnologo e docente)
L’illusione di Consolo tra metafora e realtà Rosalba Galvagno (Università degli Studi di Catania)
Il «mondo delle meraviglie e del contrasto».
Il Mediterraneo di Vincenzo Consolo
Miguel Angel Cuevas (Universidad de Sevilla)
Della natura equorea dello Scill’e Cariddi:
testimonianze consoliane inedite su Stefano D’Arrigo
11.00 | Pausa caffè
11.30
Daragh Daragh O’Connell (University College Cork)
La notte della ragione: Nottetempo, casa per casa
fra poetica e politica Giuseppe Traina (Università degli Studi di Catania)
Per un Consolo arabo-mediterraneo
Salvatore Maira (scrittore e regista)
Parole allo specchio
MERCOLEDÌ 6 MARZO
14.30 | Saluti di apertura
Elio Franzini
Magnifico Rettore dell’Università degli Studi di Milano
15.00
Coordina Alberto Cadioli (Università degli Studi
di Milano)
Gianni Turchetta (Università degli Studi di Milano)
Introduzione ai lavori
Carla Riccardi (Università degli Studi di Pavia)
Da Lunaria a Pantalica: fuga e ritorno alla storia?
Nicolò Messina (Universitat de València)
Cartografia delle migrazioni in Consolo
16.30 | Pausa caffè
17.00
Corrado Stajano (giornalista e scrittore)
Storia di un’amicizia
Dominique Budor (Université Sorbonne Nouvelle)
“Gli inverni della storia” e le “patrie immaginarie”
Marina Paino (Università degli Studi di Catania)
La scrittura e l’isola
L’opera di
Vincenzo Consolo
e l’identità culturale del Mediterraneo
foto Giovanna Borgese
Sesto di otto figli, nacque a Sant’Agata di Militello (Messina) il 18 febbraio 1933, da Calogero (1898-1962) e Maria Giallombardo (1900-88).
Il padre, commerciante alimentare e poi piccolo imprenditore con la nascita della ditta ‘Fratelli Consolo Cereali’ nel 1939, trasmise al figlio i tratti di un’etica rigorosa, dimostrata anche contro la mafia, la quale nell’immediato dopoguerra veniva organizzando in tutta la Sicilia il controllo delle attività economiche.
Anche evocando il celebre testo di Luigi Pirandello sulla propria nascita nella contrada del Caos, Consolo ricordò i luoghi d’infanzia, le sue origini e la sua prima educazione nel romanzo d’esordio, La ferita dell’aprile (Milano 1963), dedicato «con pudore» a suo padre, scomparso proprio in quell’anno.
Iniziava una progressiva centralità della Sicilia nella sua personalità di uomo e di scrittore, di intellettuale al bivio tra saggistica e letteratura, in una contaminazione di ‘generi’ che ha sempre distinto le sue pagine e che trova in Leonardo Sciascia, maestro dell’ibridismo, un decisivo modello.
La sua terra di origine si rivela come presenza «ossessiva», con un forte valore identitario, storico ma anche simbolico, che segna in parte il destino di uno scrittore «anfibio», tra terra e mare, tra passato e presente. Sicilia come luogo, tema, personaggio, persino struttura narrativa; quasi ad annodare, in una profonda corrispondenza e circolarità, i fili dell’amplissimo e diversificato corpus letterario dello scrittore, da La ferita dell’aprile al postumo La mia isola è Las Vegas: «tutti i romanzi, se ordinati in base alla cronologia dei fatti descritti o allusi, compongono, per momenti decisivi, una storia della Sicilia degli ultimi duecentocinquant’anni» (C. Segre, Un profilo di V. C., in V. Consolo, L’opera completa, a cura di G. Turchetta, Milano, 2015, p. XIV). Questa sicilianità «ostinata» e «implacabile» (v. G. Turchetta, Da un luogo bellissimo e tremendo, ibid., pp. XXV-LXXIV, con partic. riferimento a p. XXV) emerge spesso nella declinazione, tematica e metaforica, del viaggio, che è spostamento fisico ma anche attraversamento di tempi e luoghi, sfida all’ignoto e continua tensione verso un altrove; nella duplice direzione della partenza e del nostos che richiama il grande archetipo omerico, l’Odissea, il «poema in cui per la prima volta si apre davanti ai nostri occhi lo spazio mediterraneo» (Lo spazio in letteratura, in Di qua dal faro, poi in L’opera completa, cit., p. 1239). Eppure, «nella modernità, le colpe non sono più soggettive, ma oggettive, sono della storia. I mostri non sorgono più dal mare, dalla profondità del subconscio, ma sono mostri concreti, reali, che tutti noi abbiamo creato […] Itaca non è più raggiungibile. Questo, secondo me, lo scrittore oggi ha il compito di dire, di narrare» (in V. Consolo – M. Nicolao, Il viaggio di Odisseo, introd. di M. Corti, Milano 1999, p. 22). Nel tragico confronto tra passato mitico e desolato presente, la sua terra gli appare aver perso tutti i connotati di un approdo. Si ripropone la sofferta diaspora, e il doloroso ritorno, degli scrittori meridionali; la «dolorosa saggezza» e la «disperata intelligenza» di cui Consolo ragiona ne Le pietre di Pantalica, come declinazione personale del paradigma della «intelligenza siciliana» di Vitaliano Brancati. Non è un caso se nel laboratorio della scrittura, oltre alla lezione di Italo Calvino o Cesare Pavese, affiora il realismo lirico-fantastico di Elio Vittorini o la prosa di cose di Giovanni Verga, Federico De Roberto, ma anche Pirandello.
Gli anni della guerra per il giovanissimo Vincenzo trascorsero relativamente tranquilli fino al 1943, quando gli americani, in preparazione dello sbarco, diedero avvio a massicci bombardamenti che coinvolsero la zona di Sant’Agata, sulla linea strategica Messina-Palermo, e che costrinsero la famiglia Consolo a ‘sfollare’ in campagna, nella contrada di Vallebruca. Dopo le scuole medie all’istituto salesiano Guglielmo Marconi, l’assenza di scuole pubbliche di grado secondario lo condusse nel 1947 al primo allontanamento da casa, per frequentare il liceo-ginnasio salesiano Luigi Valli a Barcellona Pozzo di Gotto, a ottanta chilometri da Sant’Agata. Era già chiara la sua passione per la lettura. Nelle pause scolastiche approfittava di un cugino del padre, Peppino Consolo, che possedeva una pur scarna biblioteca con alcuni classici della letteratura, da Manzoni a Hugo o Balzac, ai romanzieri russi.
Negli anni liceali si collocano i primi esercizi di scrittura, anche su suggestione di due letture che si rivelarono decisive: Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini e Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi. Iniziava allora una lunga ricerca sulle lingue, anche antiche. La sperimentazione di nuovi codici, registri e linguaggi si veniva costituendo in una «ideologia» precisa e insieme fluida e mai conclusa, tradotta in racconto con I linguaggi del bosco (in Le pietre di Pantalica, poi in L’opera completa, cit., pp. 606-612).
Nell’autunno del 1952 giunse il primo trasferimento, «traumatico», a Milano, per frequentare la facoltà di giurisprudenza dell’Università Cattolica. Fu in quei primi anni universitari che conobbe Basilio Reale, l’amico Silo che lo introdusse alla casa editrice Mondadori (cfr. Sirene siciliane, Palermo 1986; poi in Di qua dal faro, cit.), e Lucio Piccolo, il «barone magico» delle Pietre di Pantalica: «grande poeta di sconfinata cultura, cugino e antagonista di Tomasi di Lampedusa. Fu lui a insegnarmi la vera letteratura, la poesia e, insieme, a farmi amare certi libri di erudizione provinciale, ottocentesca, storie, guide, cataloghi, ‘pieni di insospettabile poesia’ diceva, che furono miniere lessicali per me» (Fuga dall’Etna, Roma 1993, p. 18).
Costretto a interrompere gli studi per assolvere gli obblighi del servizio militare (dapprima a Orvieto e poi a Roma), riprese il percorso universitario nel 1957, stavolta a Messina, per laurearsi quindi nel 1960 discutendo una tesi in filosofia del diritto dal titolo «La crisi attuale di diritti della persona umana».
I PRIMI GRANDI ROMANZI
Il primo testo a stampa risale al 1957, Un sacco di magnolie, apparso a firma «Enzo Consolo» nella rivista La parrucca (poi in La mia isola è Las Vegas, a cura di N. Messina, Milano 2012, pp. 8-10) che vantava collaboratori come Umberto Eco, Giorgio Manganelli o Edoardo Sanguineti. Il suo esordio come romanziere è invece La ferita dell’aprile (cit.) che, dopo lunga gestazione, apparve nel 1963 per Mondadori nella collana «Il Tornasole» di Niccolò Gallo e Vittorio Sereni, con l’assistenza redazionale di Raffaele Crovi: «Mi sono ritrovato fatalmente nel solco sperimentale di Gadda e Pasolini, di D’Arrigo e Mastronardi, anche. Non era ancora apparso all’orizzonte il Gruppo ’63, dal quale in ogni caso mi avrebbe tenuto ben lontano un forte senso di appartenenza alla tradizione letteraria» (Fuga dall’Etna, cit., p. 15). Forse anche per quella coincidenza cronologica con le spinte avanguardistiche, il romanzo quasi sfuggì all’attenzione di critica e di lettori. Suscitò invece l’interesse di Sciascia, al quale Consolo aveva inviato il libro allegando una lettera nella quale gli dichiarava il suo debito come scrittore. Era l’inizio di una salda e duratura amicizia, alla quale Consolo dedicò numerose pagine, molte delle quali raccolte nella sezione Intorno a Leonardo Sciascia del volume Di qua dal faro (cit., pp. 1161-1184).
La ferita dell’aprile, «poemetto narrativo» da leggersi anche come Bildungsroman autobiografico, costituisce un unicum nella carriera dello scrittore. Nel racconto della vita di un paese siciliano e delle lotte politiche del dopoguerra, la narrazione in prima persona (di cui Consolo non usufruì nei romanzi successivi) è impostata cronologicamente come diario di un anno scolastico e mette in scena i turbamenti dell’uscita dall’infanzia, nell’intreccio tra vicende personali dei protagonisti e storia d’Italia.
Sin dall’esordio emerge con forza, nella scrittura, quella centralità della parola che ha connotato fortemente l’intera sua produzione, fino a consacrarlo come ‘autore difficile’, ‘enigmatico’: «Mi ponevo […] sul crinale della sperimentazione, mettendo in campo una scrittura fortemente segnata dall’impasto linguistico» (in Adamo, 2006, p. 183).
L’attento lettore e saggista seguiva da vicino il dibattito sulla letteratura contemporanea. A segnare profondamente quella stagione fu anche la pubblicazione in Rinascita, del noto saggio di Pasolini, Nuove questioni linguistiche, apparso nel dicembre 1964, alla vigilia della pubblicazione del primo capitolo del Sorriso dell’ignoto marinaio, e anche della stesura di Il pane (1964), dei racconti Grandine come neve, Befana di novembre (1965) e Triangolo e Luna (1966), poi inclusi in La mia isola è Las Vegas (cit.).
Nel 1964 prese a scrivere per L’Ora di Palermo, giornale allora diretto da Vittorio Nisticò; era l’inizio di una lunga collaborazione che lo impegnò fino al 1975 e poi ancora dal 1977 al 1991, e che vide Consolo anche titolare di una rubrica di successo, «Fuori casa», inaugurata nel dicembre 1968. Nel racconto Per un po’ d’erba ai margini del feudo (in L’Ora, 16 aprile 1966, poi incluso da Sciascia nell’antologia Narratori siciliani curata per Mursia insieme con Salvatore Guglielmino), forte anche della lettura del fortunato saggio di Hans Magnus Enzensberger Letteratura come storiografia (in Il Menabò, 1966, n. 9), inaugurava un nuovo modo narrativo, fondato sull’intreccio tra fiction e storia, racconto e documenti, che avrebbe poi preso corpo nel suo maggiore romanzo.
Nello stesso 1966 si collocano per Consolo viaggi significativi: uno nella valle del Belice, che torna nel racconto del 1984, Il drappo rosso con le spighe d’oro, e la trasferta a Parigi con Sciascia, il quale nello stesso 1966 aveva dato vita al premio Brancati di Zafferana Etnea coinvolgendo, oltre ad Alberto Moravia, Dacia Maraini e Pier Paolo Pasolini, anche i siciliani Ignazio Buttitta, Lucio Piccolo e naturalmente Consolo.
Nel 1967, l’anno nel quale Pasolini pubblicava in Nuovi Argomenti la prosa poetica di Lucio Piccolo L’esequie della luna da cui nacque lo spunto per Lunaria, Consolo vinse un concorso per la RAI. Interruppe quindi l’insegnamento nelle scuole secondarie di secondo grado e, nel gennaio 1968, prese servizio presso la sede di Milano. Era un trasferimento destinato a essere definitivo, che segnò la vita e l’opera dello scrittore. Ad accoglierlo in azienda fu, tra gli altri, Caterina Pilenga, che aveva apprezzato il suo poco noto romanzo La ferita dell’aprile e che divenne compagna della vita, e moglie con rito civile dal 1986.
Quel trasferimento, in quel «momento di acuta storia», per l’acceso dibattito politico e culturale e per il duro conflitto sociale, fu una decisiva cesura, uno snodo sul quale spesso Consolo avrebbe riflettuto, non senza ripensamenti. Era una declinazione tragica del tema del contrasto di dimensione spazio-temporale, la sua protesta contro luoghi e tempi rispetto ai quali si sarebbe spesso sentito estraneo: la Milano di allora, l’«attiva, mercatora» città, e in particolare la RAI, «completamente ipotecata dal potere politico, dalla mafia partitica».
Pur mai rinunciando al suo carattere anarcoide, che lo portò non di rado ad aperte contestazioni, quella del servizio pubblico televisivo fu in effetti una postazione privilegiata per penetrare il paesaggio della letteratura contemporanea che Consolo lettore e critico ben conosceva; in una posizione insieme scomoda ma anche centrale di giornalista, che rivive nel personaggio Antonio Crisafi del racconto La pallottola in testa (poi in La mia isola è Las Vegas, cit., pp. 157-162).
Stabilitosi a Milano, Consolo prese a frequentare la casa sui Navigli della compagna di Vittorini, Ginetta Varisco, un cenacolo culturale animato tra gli altri da Carlo Bo, Italo Calvino, Paolo Volponi e Salvatore Quasimodo. Intanto lesse, destinati a incidere il suo percorso di scrittura, Manifesto per un nuovo teatro di Pasolini, pubblicato in Nuovi Argomenti, e Appunti sulla narrativa come processo combinatorio di Calvino, apparso in ‘Nuova Corrente’.
In quel ‘caldo’ 1968 aveva anche inviato a Paragone, la rivista diretta da Roberto Longhi e Anna Banti, un racconto intitolato Il sorriso dell’ignoto marinaio: si trattava del primo capitolo del futuro capolavoro, che tuttavia non venne accolto dalla rivista e apparve in Nuovi Argomenti, per volontà di Enzo Siciliano, nell’ultimo numero della stessa annata.
Nel 1975, dopo il rallentamento subìto negli anni precedenti, l’attività giornalistica s’intensificò. Nell’autunno del 1976 Consolo iniziò a collaborare anche con La Stampa e Il Corriere di Sicilia; dal dicembre 1977 con il Corriere della sera e, dal 1980, col Messaggero. Era un lavoro che non solo non si interruppe ma che, attraverso l’impegno profuso in numerosi quotidiani e periodici, anche stranieri, si prospettò infine come possibile impegno esclusivo: «Ho cercato di lasciare Milano nel 1975, perché non volevo più scrivere, non volevo più fare lo scrittore […]. Mi sono detto ‘farò il giornalista a vita’, perché mi sembra importante fare il giornalista, soprattutto in una città di frontiera com’era Palermo a quell’epoca» (in Pintor, 2006, p. 252).
Era la vigilia dell’uscita del romanzo, che avrebbe fatto conoscere Consolo al grande pubblico. Nell’autunno del 1975, infatti, all’insaputa dell’autore, apparve l’edizione Manusè del Sorriso dell’ignoto marinaio, per interessamento della compagna Caterina e di Sciascia, con un’acquaforte di Renato Guttuso. Dopo diverse proposte editoriali, e con un crescente interesse di pubblico e di critica, il romanzo apparve in versione definitiva nel 1979 per Einaudi, la casa editrice con la quale collaborava dal 1976 su proposta dell’amica Elsa Morante e dello stesso Giulio Einaudi; mentre già si diffondevano le traduzioni e mentre la RAI commissionò un progetto (mai realizzato) di sceneggiatura allo stesso Consolo e al regista Salvatore Maira.
Il romanzo richiama nel titolo il sorriso enigmatico raffigurato nel Ritratto di ignoto di Antonello da Messina. L’intreccio prende corpo intorno a tre elementi, che si fanno nuclei narrativi: il fascino esercitato dalla preziosa tavoletta pittorica ammirata già nell’estate del 1949 presso la Casa-museo Mandralisca; l’interesse per la storia della rivolta contadina di Alcàra Li Fusi, innescata dall’arrivo di Garibaldi; l’inchiesta sui cavatori di pietra pomice delle isole Eolie ammalati di silicosi. Ne vien fuori una complessa architettura narrativa, più volte letta come anti-Gattopardo; pur con moduli espressivi e pur da postazioni ideologiche e artistiche molto differenti, al centro di entrambi i romanzi è la Sicilia percorsa dai moti risorgimentali, liberata (o occupata) dai Mille. In tale prospettiva, Il sorriso può intendersi come epigono della tradizione del racconto storico siciliano per ridisegnare l’epopea risorgimentale sullo sfondo del quadro storico-sociale negli anni dello sbarco garibaldino: una tradizione «sempre critica, antirisorgimentale», che da Verga, attraverso De Roberto e Pirandello, arrivava a Sciascia e Tomasi di Lampedusa. La complessità strutturale e stilistica giustifica la lunga gestazione del testo. La trasposizione del tempo storico all’immediato presente, la riflessione sulla lingua e la stessa tessitura linguistica, impastata di dialetti e gerghi tecnici, sembrano confermare la natura più autentica della narrativa di un autore che, sul modello di Zola, «abdica, per così dire, alla sua condizione di letterato per divenire intellettuale, ‘politico’» (Letteratura e potere, [1979], in Di qua dal faro, cit., p. 1168); la decisione di «non scrivere in italiano» era una forma di «ribellione alle norme» e alla storia, una «uccisione del padre» (in Sinibaldi, 1988, p. 12).
Nella contaminazione tra inserti documentari e narrazioni d’autore, in una costante sovrascrittura per la quale è stata richiamata la tecnica chirurgica del «trapianto» (O’ Connell, 2008, p. 165), il romanzo evoca le sperimentazioni novecentesche, il pastiche gaddiano o lo sperimentalismo pasoliniano, pur con una declinazione personalissima, a tratti neobarocca; in una raffinatezza strutturale, di carattere anche simbolico, che si rivela in una «costruzione a chiocciola», concentrica e labirintica, sulla quale ha insistito un fortunato saggio di Cesare Segre (Segre, 1987). A sostenere questo complesso impianto è, però, anche la grande tradizione del romanzo storico, e naturalmente il suo primo modello, il Manzoni dei Promessi sposi e della Storia della colonna infame.
Continuava intanto l’attività di scrittura come protesta e insieme documento, in quei caldi ‘anni di piombo’, di attentati e inchieste, che Consolo tradusse anche in racconto nel riuscito Un giorno come gli altri (1981) inserito poi da Enzo Siciliano nel «Meridiano» dei Racconti italiani del Novecento.
GLI ANNI OTTANTA E IL DITTICO BAROCCO DI LUNARIA E RETABLO
Anche sull’onda del successo del Sorriso, negli anni Ottanta Consolo intensificò l’attività di scrittura nella ricerca di nuove forme espressive, come mostra l’ampio ventaglio di progetti ai quali lavorò: un singolare romanzo giallo, Morte del giardiniere (1981); un libro saggistico sul Movimento indipendentista siciliano (1981); l’ipotesi di una sceneggiatura sulla vita di Giovanni Pascoli, alla quale si dedicò a Roma nel 1982 con Vincenzo Cerami per un film che avrebbe dovuto esser realizzato da Marco Bellocchio; il progetto di una inchiesta su una vicenda criminale degli anni Cinquanta (i frati estorsori di Mazzarino, primo nucleo narrativo di Le pietre di Pantalica); la traduzione, insieme con Dario Del Corno, di Ifigenia fra i Tauri di Euripide, che andò in scena nel 1982 al Teatro antico di Siracusa.
Nel novembre 1983 discusse con l’allora giovanissimo regista Roberto Andò il progetto di un testo teatrale tratto dal citato poemetto in prosa di Lucio Piccolo, Le esequie della luna; ne nacque invece Lunaria, favola teatrale ambientata nella Palermo settecentesca che apparve nei «Nuovi Coralli» di Einaudi (Torino 1985) e che gli valse il premio Pirandello.
La scrittura degli anni Ottanta sembra, almeno in parte, allontanarsi dalle ardite sperimentazioni formali e linguistiche del Sorriso. Tanto Lunaria (cit.) quanto Retablo (Palermo, 1987) sembrano aprirsi a forme più distese, costruite su vicende ambientate in un Settecento colmo di riferimenti storici e insieme estraneo a documentazioni rigorose, con una libertà di invenzione che mancava alle opere precedenti.
Nella profonda tensione etica, la scrittura si sarebbe liberata dallo scavo della realtà autobiografica e storica proprio con Lunaria, che può anche leggersi come semplice allegoria della solitudine dello scrittore. Nella Palermo settecentesca si muove il malinconico Viceré Casimiro, che sogna la caduta della luna, turbato da fantasmi di una diversa realtà, in una visione che si fa presagio che s’invera. Con un’apertura della prosa verso la poesia, quella poesia alla quale pure Consolo si dedicò (Accordi. Poesie inedite di V.C., a cura di F. Zuccarello – C. Massetta Milone, S. Agata di Militello 2015), ‘Lunaria’ vira decisamente in direzione del fantastico, ma anche del conte philosophique, che però attinge alla fortunata tradizione popolare del cuntu, come anche alle suggestioni del teatro barocco, Calderón de la Barca in testa (cfr. Di Legami, 1990, p. 28). Nel giugno 1986 l’opera andò per la prima volta in scena, a Roma, con la Cooperativa Quarta espressione, costituita da giovani diplomati dell’Accademia drammatica Silvio d’Amico.
Si moltiplicava, intanto, la rete di relazioni significative (da José Saramago ad Alberto Moravia), mentre proseguiva con Sciascia una salda amicizia, che lo spinse a pubblicare un articolo (Difficile mestiere scrivere da uomo libero, in Il Messaggero, 27 gennaio 1987), in difesa dello scrittore di Racalmuto travolto dalle polemiche suscitate da I professionisti dell’antimafia, apparso nel Corriere della sera il 10 gennaio 1987.
In seguito all’insistente invito di Elvira Sellerio, nell’estate del 1987 Consolo raggiunse Palermo per lavorare a Retablo, che apparve (dopo l’anticipazione di alcuni capitoli in la Repubblica) nell’ottobre 1987, con cinque disegni di Fabrizio Clerici. Retablo riscosse grande successo di pubblico e gli valse il premio Grinzane Cavour e il premio Racalmare. Nel 1997 Sebastiano Romano ne realizzò una lettura scenica a Milano, nella chiesa sconsacrata di San Paolo Converso, per la regia di Richi Ferrero e dello stesso Romano. Una versione teatrale, scritta da Ugo Ronfani, andò in scena nel 2001 al teatro stabile di Catania e poi a Milano.
L’opera segna per molti aspetti uno snodo all’interno della produzione di Consolo che, sensibile agli esiti della narrativa italiana e straniera (da Calvino a Manganelli, da Perec a Borges), pone al centro della narrazione romanzesca una stringente interrogazione sulla scrittura. Nella reiterata sovrapposizione tra storia e invenzione, persone e personaggi, Retablo, che richiama l’arte pittorica sin dal titolo, segue le vicende di un intellettuale e artista in fuga da Milano verso la Sicilia alla ricerca della matrice culturale e umana della donna che ama, Teresa Blasco (nella storia, la madre di Giulia Beccaria). Intorno al protagonista-pittore si dipana un intreccio tra letteratura e arti visive, ormai divenuto centrale nella scrittura di Consolo (Cuevas, Ut pictura: el imaginario iconografico en la obra de V. C., in Cuevas, 2005, pp. 63-77); fino a una immaginazione visiva che punta sulla centralità dei luoghi, in una personale geografia esistenziale. Retablo infatti è costruito sul modello odeporico, che richiama, per rinnovarla, la tradizione dei racconti del Grand Tour oltre che del modello classico del nostos, che utilizzò poi anche nelle narrazioni successive, nella opposizione geostorica Milano-Sicilia.
Il 1989 segnò per Consolo il ritorno alla forma tragica, con un testo redatto insieme con gli amici Gesualdo Bufalino e Leonardo Sciascia, Trittico appunto, andato in scena al teatro stabile di Catania il 3 novembre 1989 per la regia di Antonio Calenda (poi in volume, Catania 1989). L’atto unico di Consolo, Catarsi, si accompagnava a La panchina di Bufalino e a Quando non arrivarono i nostri, rielaborazione drammaturgica di una novella di Sciascia.
LA TRILOGIA DEGLI ANNI NOVANTA
La sincera passione civile, declinata spesso nel segno della protesta, non si tradusse mai nella partecipazione attiva alla politica – nonostante i ripetuti inviti a una sua candidatura avanzati dal Partito comunista italiano (PCI) di Achille Occhetto – ma certo animò la sua scrittura, nella battaglia ingaggiata tra le parole e le cose. All’indomani dell’assassinio del giudice Rosario Livatino, il 21 settembre 1990, in un acceso clima di rivendicazioni e polemiche, decise di dimettersi dalla giuria del premio Racalmare, che intanto era stato intitolato a Sciascia, scomparso l’anno precedente.
È nel segno di questa protesta che si inserisce anche lo studio e il racconto della Sicilia, che Consolo continuava a osservare e denunciare: l’isola tra mito e storia, la terra dalla quale idealmente non riuscì mai a separarsi, sul piano intellettuale e artistico, eppure nella quale non tornò mai a vivere. È in questa prospettiva che può leggersi quella che sembra configurarsi quasi come trilogia: Nottetempo, casa per casa (Milano 1992), L’olivo e l’olivastro (ibid. 1994) e Lo spasimo di Palermo (ibid. 1998), sotto il segno del definitivo tramonto dell’utopia, nell’accentuazione di una dimensione simbolica della storia e della realtà.
Dopo una serie di ritratti di scrittori lombardi realizzati in RAI nel 1991 con il titolo Tracciati (Piero Chiara, Carlo Emilio Gadda, Lucio Mastronardi, Ada Negri, Vittorio Sereni, Delio Tessa e Giovanni Testori), nel 1992 Nottetempo, casa per casa (cit.), che fu insignito con il Premio Strega, rappresentò un ritorno al romanzo storico, come già forse, in parte, Le pietre di Pantalica (Milano 1988), stratificato e multigenere, la cui struttura tripartita (Teatro, Persone, Eventi) rimandava ancora una volta al teatro.
Al progetto narrativo di Nottetempo Consolo lavorava almeno dalla fine degli anni Sessanta, quando aveva cominciato a raccogliere materiali e documenti sul risorgimento in Sicilia, sulla strage di Alcàra Li Fusi e sulla Cefalù degli anni Venti alle prese con il controverso caso del “santone” Aleister Crowley. L’opera sembra segnare il secondo tempo di una ideale lunga storia della Sicilia, una fase successiva al Risorgimento del Sorriso e precedente agli anni Novanta di Lo spasimo di Palermo (1998). «In Nottetempo ho voluto far vedere come il fascismo fosse figlio della follia, la follia privata del protagonista e quella pubblica della Storia, il ricorso al satanismo che voleva distruggere il cristianesimo di una società malata: tutti segni oscuri e premonitori, come quelli che vediamo oggi con il ritorno a queste ridicole forme di esorcismo, questi fondamentalismi, questi revanscismi» (in Parazzoli, 1998, p. 28).
Continuava la sua forte militanza civile: le proteste contro l’elezione di Formentini a sindaco di Milano, o le dimissioni, all’indomani della nomina, il 10 settembre 1993, dalla carica di presidente del consiglio di amministrazione del teatro stabile di Palermo, in polemica con il direttore artistico Pietro Carriglio, ritenuto «intellettuale organico alla DC di Salvo Lima».
Questa forte militanza proseguì con maggiore libertà dopo il suo collocamento in pensione dalla RAI, nel 1993. In seguito alla vittoria di Silvio Berlusconi alle elezioni politiche, Consolo aderì al Forum Manifesto democratico 1994, promosso da Cesare Segre, Raffaele Fiengo e Corrado Stajano. Intanto, il 25 giugno di quell’anno partecipò a un dibattito coordinato da Renato Nisticò da cui sarebbe nato il testo Fuga dall’Etna (cit.), nuova testimonianza di una sicilianità che trovò riconoscimento anche nella cittadinanza onoraria di Cefalù, cui seguì, nel 1996, la stessa onorificenza da parte del Comune di Santo Stefano di Camastra. Ed è sempre la Sicilia al centro del volume del 1994, L’olivo e l’olivastro, che nel consueto superamento dei confini di ‘generi’ compiuto da Consolo, nell’intreccio tra poesia e prosa, narrazione e saggismo, che per alcuni richiama l’Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, si presenta come graffiante narrazione di viaggio. Il doloroso ritorno di Odisseo-Consolo verso l’Itaca-Sicilia è «un viaggio in verticale, una discesa negli abissi». Come Retablo, anche L’olivo e l’olivastro conduce il lettore attraverso la Sicilia di un presente degradato, che si confronta con il passato mitico.
Nel dicembre dello stesso 1994 ricevette per il complesso della sua opera narrativa e saggistica il premio internazionale Unione Latina da una giuria composta, tra gli altri, da José Saramago, Jorge Amado, Luigi Malerba.
In questi anni Novanta la presenza internazionale di Consolo si andò rafforzando. Nel 1995, su invito dell’allora presidente Salman Rushdie, divenne membro del Parlament international des écrivains (PIE) di Strasburgo. Tra dicembre 1995 e gennaio 1996 a Parigi andò in scena La crèche de Sicile, rappresentato anche a Palermo l’anno dopo. Il 15 febbraio 1996 il ministro della Cultura francese Philippe Douste-Blazy lo nominò chevalier dans l’Ordre des Arts et des lettres. Ormai anche socio onorario dell’Accademia di Brera, nel 1996 fu inoltre in Argentina con una delegazione di scrittori italiani, su invito dell’Università di Buenos Aires; seguirono quindi viaggi a Strasburgo, Santiago del Cile e nella Bosnia-Erzegovina della guerra.
Alla Sicilia continuano a essere dedicate anche le sue opere mature. Il 19 giugno 1998 venne eseguita al teatro Verdi di Firenze, l’Ape iblea. Elegia per Noto, musicata da Francesco Pennisi (poi, insieme con Catarsi, raccolto nel volume Oratorio, Lecce 2002). Pochi mesi dopo apparve il suo ultimo romanzo, Lo spasimo di Palermo (Milano 1998) che, riprendendo elementi de La ferita dell’aprile, segna come un ritorno all’autobiografismo. La vicenda si svolge nell’anno delle stragi di Capaci e via D’Amelio, i tragici fatti del 1992 ai quali Consolo aveva già dedicato un testo-adattamento della Messa di requiem di Verdi: Dies irae. Requiem da questa Palermo (poi Requiem per le vittime della mafia), eseguita con musiche di vari artisti nella Cattedrale di Palermo il 27 marzo 1993. La vicenda del protagonista-scrittore Gioacchino Martinez e del suo nostos ai luoghi dell’infanzia e giovinezza riscosse grande successo di pubblico e di critica (premio Monreale per la narrativa nel 1998; nonché, l’anno successivo, insignito con il premio Flaiano e il premio Brancati).
La Sicilia è ancora protagonista dell’ampia raccolta di saggi per la quale ipotizzava il titolo Pane di zolfo o Per nascente solfo, che apparve invece con il titolo Di qua dal faro (Milano 1999; premio Nino Martoglio e premio Feronia). Ed è ancora alla cultura popolare isolana che si consacra una sua riscrittura delle Fiabe siciliane raccolte nel 1868-69 dall’etnologa siculo-svizzera Laura Gonzenbach (Roma 1999).
IL SILENZIO DELLO SCRITTORE
Gli ultimi anni di vita sono segnati per Consolo da una dolorosa afasia artistica, che si manifesta come ulteriore declinazione dell’impegno, nella presenza-assenza al suo tempo e nella difficile condizione di un intellettuale «solo perché libero» (Letteratura e potere, cit., p. 1172). Nel marzo 2000 partecipò a una conferenza in difesa di Adriano Sofri, organizzata dal citato PIE con Christian Salmon, Jacques Derrida, Jacqueline Risset e Antonio Tabucchi. Il mese successivo firmò la sua adesione al Manifesto in difesa della lingua italiana promosso tra gli altri da Luigi Manconi, Aldo Masullo, Vittorio Sermonti, nella convinzione che l’Italia «ha perso memoria di sé, della sua storia, della sua identità», e che «l’italiano è divenuta un’orrenda lingua, un balbettio invaso di linguaggi che non esprimono altro che merce e consumo» (Il lungo sonno della lingua, in Il Corriere della sera, 6 giugno 2000).
Dopo esser stato in Francia ospite d’onore dell’Académie française al Prix Italiques, dove lesse la relazione La patria immaginaria, (poi con il titolo I Vespri, i paladini e la patria immaginaria, in Stilos, 1° maggio 2001), nel 2002 si trovò a esprimere per motivi politici – insieme con Umberto Eco e Antonio Tabucchi – il suo rifiuto alla partecipazione al Salon du livre di Parigi come componente della delegazione ufficiale italiana. Nello stesso anno si recò in Palestina con il PIE, per consegnare un appello di pace ad Arafat (cfr. Madre coraggio, poi in La mia isola è Las Vegas, cit., pp. 195-200) e firmò anche un Manifesto contro la islamofobia, che sarebbe stato presentato poi alla Fundación de cultura islámica di Madrid il 30 gennaio 2007.
Intanto, era ascoltato, letto e studiato all’estero: nel 2002 tenne un ciclo di conferenze negli Stati Uniti, mentre si avvicendavano convegni e volumi a lui dedicati: Siracusa, Siviglia e tre convegni all’Università di Valencia per iniziativa di Irene Romera Pintor, traduttrice di opere consoliane. Con il convegno Éthique et écriture tenuto il 25 e 26 ottobre 2002, con la direzione di Dominique Budor (ed. in volume, Parigi 2007), l’Università Sorbonne di Parigi dedicava per la prima volta un convegno a uno scrittore vivente.
Nel 2003 l’Università di Roma «Tor Vergata» gli conferì la laurea honoris causa in lettere: pronunciò una lectio magistralis (La metrica della memoria) che riprendeva una fortunata relazione del 1996. Nello stesso anno, dal Ministère de la culture et de la communication francese, fu insignito del grado di officier dans l’Ordre des Arts et des lettres. Una seconda laurea honoris causa, in filologia moderna, gli venne conferita, insieme con Luigi Meneghello, da parte dell’Università di Palermo nel 2007.
Mentre proseguivano le edizioni di romanzi e raccolte di saggi in Europa, negli Stati Uniti e in Canada, a settembre 2004 Consolo iniziò a lavorare a una raccolta di racconti, che apparve postuma nel maggio 2012, a pochi mesi dalla morte, con il titolo La mia isola è Las Vegas, a cura di Nicolò Messina. Dichiarava intanto di lavorare al suo ultimo romanzo, Amor sacro e amor profano, del quale però nell’Archivio Consolo non sono state rinvenute carte.
Nel 2010 Consolo avrebbe dovuto introdurre un’opera di Roberto Saviano (La parola contro la camorra, DVD, Torino 2010) ma, risentito per alcune non condivise dichiarazioni letterarie e politiche del giovane autore, ritirò il suo testo.
Mentre dunque Consolo testimoniava la sua presenza nel segno della denuncia, e spesso del rifiuto, si moltiplicavano le trasposizioni delle sue opere letterarie. Erano transcodificazioni, da intendersi anche come viaggio dei testi, che rispondevano a specifici interessi di un intellettuale sempre attento ai diversi linguaggi artistici, in particolare alla pittura – che tanto attraversava la sua scrittura –, al teatro e soprattutto al cinema, consumato quest’ultimo come rito collettivo, come rievoca nel racconto-saggio scritto in occasione della proiezione di Nuovo cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore (Dal buio, la vita, in Di qua dal faro, cit., pp. 1179-1184). Mentre si arenava il progetto di una riduzione cinematografica dello Spasimo di Palermo, proseguivano adattamenti teatrali delle sue opere. Dopo la versione di Retablo al teatro stabile di Catania, per la stessa regia di Daniela Ardini, Ugo Ronfani scrisse nel luglio 2010 l’adattamento del Sorriso dell’ignoto marinaio, andato in scena a Genova. Al festival di Cannes dello stesso anno venne presentato il progetto cinematografico Vivre ou rien, di Maria Agnès Viala e Giorgio Arlorio, tratto da Lo spasimo di Palermo.
Il 5 giugno del 2011, nonostante fosse affetto da un tumore in stadio avanzato, Consolo si recò personalmente a Ostana (Cuneo) per ricevere il premio Lenga Maire, dedicato alle scritture in lingue minoritarie. Teneva molto al premio, che riconosceva il suo impegno per far rivivere lingue marginali e in via di estinzione.
Morì poco dopo, a Milano, il 21 gennaio 2012. Rifiutando cerimonie pubbliche in fede alla volontà dell’Autore, la moglie Caterina fece celebrare le esequie a Sant’Agata di Militello il 23 gennaio, dove fu seppellito nella cappella di famiglia.
OPERE
Gran parte dei volumi editi sono ora raccolti nel «Meridiano» L’opera completa, a cura di G. Turchetta con un profilo di C. Segre, Milano 2015, da cui si cita e cui si rimanda anche per una esaustiva bibliografia degli scritti (che include articoli, saggi in volume, traduzioni, riscritture e altri scritti sparsi), insieme con una dettagliata bibliografia critica.
Il volume comprende (nell’ordine delle prime edizioni): La ferita dell’aprile, Milano 1963; Il sorriso dell’ignoto marinaio, Torino 1976; Lunaria, ibid. 1985; Retablo, Palermo 1987; Le pietre di Pantalica, Milano 1988; Nottetempo, casa per casa, ibid. 1992; L’olivo e l’olivastro, ibid. 1994; Lo spasimo di Palermo, ibid. 1998; Di qua dal faro, ibid. 1999.
Ci si limita qui a segnalare i volumi non inclusi in quella edizione (anche postumi) e i saggi critici citati: Marina a Tindari. Poesie, Vercelli 1972; V. Consolo – N. Rubino, Fra contemplazione e Paradiso. Suggestioni dello Stretto, Messina 1988; Catarsi, in V. Consolo – G. Bufalino – L. Sciascia, Trittico, a cura di A. Di Grado – G. Lazzaro Damuso, Catania 1989; La Sicilia. Passeggiata, Torino 1991; Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Roma 1993; Neró metallicó, Genova 1994; V. Consolo – M. Nicolao, Il viaggio di Odisseo, introd. di M. Corti, Milano 1999; Il Teatro del Sole. Racconti di Natale, Novara 1999; V. Consolo – F. Cassano, Lo sguardo italiano. Rappresentare il Mediterraneo, Messina 2000; Oratorio, Lecce 2002; Isole dolci del Dio, Brescia 2002; Reading and writing the Mediterranean. Essays by V. C., a cura di N. Bouchard – M. Lollini, Toronto 2006; Il corteo di Dioniso, Roma 2009; Pio La Torre, orgoglio di Sicilia, Palermo 2009; L’attesa, Milano 2010; La mia isola è Las Vegas, a cura di N. Messina, ibid. 2012; Esercizi di cronaca, a cura di S. Grassia, Palermo 2013; Accordi. Poesie inedite di V. C., a cura di F. Zuccarello – C. Masetta Milone, S. Agata di Militello 2015.
FONTI E BIBLIOGRAFIA
M. Sinibaldi, La lingua ritrovata: V. C., in Leggere, II (1988), pp. 8-15; C. Segre, Introduzione a V. Consolo, Il Sorriso dell’ignoto marinaio, Milano 1987, pp. V-XVIII (poi in Id., Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino 1991, pp. 71-86); F. Di Legami, V. C. La figura e l’opera, Marina di Patti 1990; V. C., Nuove Effemeridi, VIII (1995/I), 29 (n. monografico); P. Farinelli, Strategie compositive, motivi e istanze nelle opere di V. C., in Italienisch, XXXVII (1997), pp. 38-45; F. Parazzoli, Il gioco del mondo, dialoghi sulla vita, i sogni, le memorie, Cinisello Balsamo 1998, pp. 21-33; G. Traina, V. C., Fiesole 2001; E. Papa, V. C., in Belfagor, LVIII (2003), 2, pp. 179-198; Per V. C., Atti delle giornate di studio… 2003, a cura di E. Papa, San Cesario di Lecce 2004; Leggere V. C. – Llegir V. C., a cura di M.A. Cuevas, in Quaderns d’Italià, X (2005), pp. 5-132; «Lunaria» vent’anni dopo, a cura di I. Romera Pintor, Valencia 2006; La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di V. C., a cura di G. Adamo, San Cesario di Lecce 2006; V. C. Éthique et écriture, Atti del Convegno… 2002, a cura di D. Budor, Paris 2007; L. Terrusi, L’onomastica nel «Sorriso dell’ignoto marinaio» di V. C., in Il Nome del testo, XIV (2012), pp. 55-63.