«Nulla è sicuro, ma scrivi»: il citazionismo etico in ‘Retablo’ di Vincenzo Consolo

di Agnese Macori

«Veritas»: è questo il titolo di una delle tre parti che compongono Retablo, romanzo pubblicato da Sellerio nel 1987.[1] Il titolo fa riferimento al termine spagnolo utilizzato per indicare un polittico, una pala d’altare composta da tre pannelli: tre infatti sono le sezioni del libro, giustapposte una all’altra, in quanto tre versioni diverse della medesima vicenda. Ma retablo è anche una citazione del Retablo de las maravillas di Cervantes, la cui trama viene dichiaratamente ripresa per farne un breve episodio incastonato tra le pagine del romanzo: il Cavalier Clerici, nobile milanese in viaggio attraverso la Sicilia, assiste per le strade di Alcamo a una truffa da parte di due artisti di strada ai danni dei loro ingenui spettatori, e si accorge che l’inganno è lo stesso sui cui si basa l’atto unico di Cervantes.[2] Ma non è questa l’unica citazione presente nel romanzo, che anzi è fittamente intessuto di riferimenti ipertestuali. Un’altra fonte importante, per esempio, individuata tra gli altri da Bellanova, è l’Italianische Reise di Goethe:

In Italianische Reise di Goethe, in particolare, Consolo coglie la ricerca di una rinascita, un cammino a ritroso verso le radici della civiltà e della cultura che ha la sua necessaria conclusione proprio in Sicilia. Qui si svelano al viaggiatore del Nord, come in una iniziazione misterica, gli straordinari prodigi dei templi e dei marmi e, in questo, l’Odissea diventa “parola viva”: attraverso l’arte figurativa gli si svela la grandezza della poesia epica antica.[3]

Per comprendere a pieno questi riferimenti ad altre opere letterarie, è utile rifarsi al saggio La metrica della memoria, in cui Consolo ripercorre brevemente la sua produzione narrativa, fornendo le coordinate per interpretare ciascuna delle sue opere, affermando, a proposito di Retablo, che «per i rimandi, le citazioni esplicite e no, per la struttura, il risultato del racconto è di un ipertesto letterario e di un palinsesto».[4] Proprio alla luce di queste considerazioni dell’autore, si rende necessario soffermarsi brevemente sulla nozione di «palinsesto» nell’uso specifico e particolare che ne fa Consolo. A tal proposito credo possa essere illuminante un aneddoto di Cesare Segre, il quale ricorda, a proposito di Lunaria:

Quando Consolo mi mise tra le mani il meraviglioso libretto, e io gli mostrai di riconoscerne alcune fonti, invece di chiudersi nell’enigma mi procurò la fotocopia dei testi cui più si era ispirato, lieto che io ripercorressi i suoi itinerari. Mai come in questo caso la letteratura cresce su se stessa, e se ne vanta. Il lettore deve partecipare, come in un gioco, all’invenzione dello scrittore.[5]

Alla base delle citazioni di Consolo vi è dunque l’idea che non si scrive mai nel vuoto, e la convinzione che «bisogna sapere con esattezza cosa ci ha preceduto e cosa si sta svolgendo intorno a noi», abbandonando qualsiasi illusoria pretesa di una letteratura ingenua e vergine.[6] Le citazioni e le riscritture sono in questo senso il segno evidente del fatto che si scrive sempre su una pagina già scritta: da qui l’idea di una scrittura palinsestica. È da notare che la nozione stessa di «palinsesto» sia una evidente assonanza al lavoro di Genette che, proprio in quegli anni, aveva tracciato un’esaustiva mappa di quella che aveva definito «la letteratura al secondo grado».[7] In particolare, dei cinque tipi di transtestualità individuate in Palimpsestes, sono due quelle che riguardano più da vicino l’opera di Consolo: l’intertestualità e l’ipertestualità. L’intertestualità viene definita come «la relazione di copresenza fra due testi», che solitamente si risolve nella «presenza effettiva di un testo in un altro»: in questa categoria rientrano la citazione, il plagio e l’allusione.[8] Mentre il termine ipertestualità fa riferimento a «ogni relazione che unisca un testo B […] a un testo A […] sul quale si innesta in una maniera che non è quella del commento»: in questa categoria molto ampia rientrano le varie forme di riscrittura o di pastiche.[9]

Le due forme di transtestualità agivano già nella prima produzione di Consolo. In particolare Turchetta, a proposito de La ferita dell’aprile, suggerisce la presenza di alcune riprese intertestuali di testi fondamentali del modernismo europeo: non solo già il titolo La ferita dell’aprile si presta a essere letto come un rimando ad «April is the cruellest month», verso incipitario di The Waste Land com’è noto, ma vengono individuate analogie strutturali e tematiche (l’educazione di un giovane in una scuola di preti) anche con A Portrait of the Artist as a Young Man di Joyce.[10]

Ma il gioco intertestuale raggiunge il suo apice in Lunaria, la cui natura di riscrittura al quadrato è segno di un mutato rapporto tra la letteratura e il mondo, nella misura in cui alla letteratura sembrano essere necessari un numero sempre maggiore di «livelli di realtà» da frapporre tra sé e il suo oggetto. L’intertestualità non si riduce però a quella che Genette ha definito ipertestualità, ma assume in Lunaria l’aspetto di un’infinita trama di citazioni a tema appunto lunario, che attinge a piene mani dalla tradizione letteraria italiana e non solo. Sono citati, e si nominano solo i casi più lampanti a una prima lettura, Dante, Ariosto, ovviamente Leopardi, ma anche Cyrano de Bergerac, Pascal, Galileo Galilei e Pirandello.[11] In Lunaria la realtà sembra essere sempre più distante e intangibile; il sogno, l’evasione letteraria, la citazione come forma di presa di distanza dal reale possono essere interpretati come chiari segni di un cedimento a istanze tipicamente postmoderne, posizione qui non accolta per motivi che cercheremo di spiegare più avanti.

In Retablo queste modalità di riscrittura diventano il fulcro stesso della narrazione, e la natura di palinsesto del romanzo non è solo riconosciuta a posteriori dallo scrittore, ma è apertamente dichiarata all’interno delle pagine del libro. Il cavalier Clerici, protagonista della vicenda, esprime infatti la convinzione che l’essenza di ogni arte sia di «essere un’infinita derivanza, una copia continua, un’imitazione o impunito furto».[12] Inoltre, quest’idea di letteratura che scrive sempre su qualcosa di già scritto è resa icasticamente in un episodio emblematico del romanzo: il cavalier Clerici, nella sua «peregrinazione» per la Sicilia, viene derubato delle sue carte e delle sue chine, con le quali avrebbe voluto disegnare le antichità di cui è alla ricerca, e con cui, soprattutto, avrebbe continuato a scrivere il diario del viaggio – dedicato alla donna amata, Teresa Blasco – che è, naturalmente, il testo che il lettore ha tra le mani. Per non interrompere la narrazione, il Cavaliere riesce a rimediare delle vecchie pergamene da un convento, sul cui verso è raccontata la storia a tinte fosche di una fanciulla dal nome Rosalia, ingannata da un frate e vendicata da un converso che si farà in seguito bandito, e sul cui recto può proseguire il suo diario. Il gioco metatestuale è portato da Consolo alle sue estreme conseguenze: e così, nella parte centrale del romanzo, si alternano effettivamente pagine scritte in corsivo, in cui sono raccontate le vicende di Rosalia, e pagine in tondo in cui prosegue il resoconto di Clerici, in quello che è un «palinsesto» nel senso letterale del termine a dimostrazione che «qualsivoglia nuovo scritto che non abbia una sua tremenda forza di verità, d’inaudito, sia la controfaccia o l’eco di altri scritti».[13]

Questo motivo dell’«infinita derivanza» e del «furto continuo» ha portato la critica a considerare Retablo «uno degli esempi più consapevoli e meglio riusciti di una via italiana alla letteratura postmoderna».[14] Flora di Legami a tal proposito ha messo in evidenza come proprio questi tratti facciano sì che «la funzione del romanzo novecentesco, e di questo in particolare, si avvicina […] a quella del teatro barocco», nella misura in cui la scrittura diviene il mezzo «con il quale si percepisce la molteplicità e il disordine dei dati oggettivi, che la macchina del romanzo ricostruisce».[15] Questo accostamento tra il postmoderno e il barocco non è nuovo – si ricorderà la celebre definizione di Eco di postmodernismo come manierismo della modernità – ed è stata più volte chiamata in causa per definire l’opera di Consolo nella sua totalità, e di Retablo in particolare. Se Traina fa riferimento a Lunaria e Retablo come a un «dittico barocco», forse la definizione migliore del secondo elemento del «dittico» rimane quella proposta da Sciascia, che lo ha definito «un delirio barocco riflesso in uno specchio illuministico».[16] Per comprendere questa definizione apparentemente paradossale occorre soffermarsi brevemente sulla struttura e sul contenuto del romanzo.

L’elemento illuministico è facilmente identificabile: la vicenda è ambientata nel Settecento e il protagonista è un pittore milanese, appartenente alla cerchia dei fratelli Verri e di Cesare Beccaria, suo rivale in amore. Proprio perché la parte centrale del romanzo non è nient’altro che il diario del suo viaggio in Sicilia, la narrazione è filtrata dal suo occhio di intellettuale illuminista, con tanto di citazioni da Rousseau e accorati appelli contro la tortura e la pena di morte.[17] Lo spirito razionalista di Clerici si manifesta in tutto il racconto, a partire dal suo infelice amore per donna Teresa, sul quale cerca sempre di tenere uno sguardo sereno e misurato, facendo da contraltare al furor amoris di Isidoro, il fraticello smonacato che lo accompagna nel suo viaggio. È stato notato come, in questa parte centrale del romanzo, «invertendo lo schema diegetico ariostesco in cui un chierico, Turpino, narrava la furia del cavaliere Orlando – il cavaliere Fabrizio narra le penose conseguenze della passione del fraticello “che per amor venne in furore e matto”».[18]

Il romanzo, sebbene il diario di Clerici ne costituisca la parte centrale, nonché la più corposa e articolata, è in realtà – come si è detto – tripartito, e a ognuna delle tre sezioni corrisponde un diverso narratore che fornisce la sua versione dei fatti: da cui deriva appunto il titolo Retablo.  Dunque la prima parte, «Oratorio», è il racconto, portato avanti da frate Isidoro, del suo amore per una giovane ragazza del popolo di nome Rosalia (che, nonostante alcune somiglianze non è la Rosalia della pergamena su cui scrive Clerici), per la quale ha smesso la veste monacale. Al fine di guadagnare i soldi necessari a sposare la ragazza, Isidoro accetta di accompagnare Clerici, incontrato per caso al porto, nel suo viaggio ma, ritornato a Palermo dopo qualche settimana, scopre che la sua Rosalia lo ha abbandonato, e, riconosciutene le fattezze in una statua (non a caso, allegoria della Verità), impazzisce di dolore. La Rosalia amata da Isidoro, divenuta cortigiana, è la modella da cui effettivamente lo scultore Serpotta si ispira per la sua statua, e il povero frate, ignaro di tutto, riconoscendo i tratti della fanciulla, «davanti a la Verità, divenne matto». Ma proprio perché incarnata da Rosalia, personaggio sfuggente e inafferrabile, che inganna e mente, la sovrapposizione tra i due volti assume valore antifrastico, mostrando che la verità, per quanto possa essere «bella», sia una vana chimera, la cui ricerca non può che rimanere frustrata.[19] La terza parte «Veritas» è lo speculare racconto di Rosalia, la quale, venuta a conoscenza delle disgrazie occorse al povero Isidoro, gli scrive per dirgli addio, spiegando che, sebbene non abbia mai smesso di amarlo, ormai vive come cortigiana a palazzo ed è prossima a partire per una tournée come cantante d’opera.

Le tre tavole che formano il Retablo sono quindi tre punti di vista sulla medesima storia, che viene però raccontata da prospettive diverse che si integrano a vicenda.[20] Se infatti Isidoro liquida in poche parole le settimane di viaggio, da lui intrapreso solo nell’ottica di tornare al più presto a Palermo dalla sua amata Rosalia, quel medesimo viaggio viene raccontano nei minimi dettagli dal Cavalier Clerici, che al contrario annota solo di sfuggita la scena di disperazione di Isidoro di fronte all’allegoria della Verità. Il romanzo si configura quindi come un gioco di specchi decisamente barocco, in cui la medesima vicenda assume connotati differenti in funzione del punto di vista da cui è osservata, e in cui anche la Veritas è una immagine illusoria dinnanzi alla quale la ragione può venire meno. La moltiplicazione prospettica dei punti di vista è l’elemento strutturale forte da cui prende le mosse l’intero impianto romanzesco. Il gioco degli sguardi ricorda al lettore come ogni narratore sia inevitabilmente inattendibile in quanto portatore di uno sguardo parziale, che si focalizza su aspetti che, visti da una differente prospettiva, sono assolutamente marginali e trascurabili. Come è stato giustamente notato, «Retablo avrebbe quindi la funzione di rappresentare la realtà non nel senso di una manierata mimesi, ma in quello di un avvertito e moderno racconto iconico. Il retablo diventa dunque una metafora dell’arte, della sua inadeguatezza a rappresentare il reale in maniera univoca e attendibile».[21]

Ma il barocchismo del romanzo raggiunge il suo vertice a livello stilistico, in una lingua che, su una base di italiano sostenuto e arricchito da arcaismi, atti a simulare quello settecentesco dei personaggi, innesta virtuosismi, citazioni nonché innumerevoli inserti metrici. Sono numerosi i passi che sarebbe possibile riscrivere in versi, ottenendo serie endecasillabiche, con sporadici inserti settenari, sul modello della canzone leopardiana.[22] Si veda ad esempio, nelle prime pagine del diario di Clerici: «Mosse la carrozza dal mio albergo / nel crepuscolo incerto del mattino, / io dentr’a la vettura col valletto / e l’altri due di fora uno a cavallo / come caporedina e l’altro a terra / come palafrenero / armati si schioppi e di terzette./ I passi nel silenzio delle bestie, / il dondolio di cuna lo stridere / monotono dei cuoi, precipitaro / nel sonno, se mai n’uscì levandosi / il povero Isidoro».[23] O ancora l’incipit «Ga/i/gian/net/ti e/ no/vi/ let/ti/ca/ri», che peraltro riprende il verso dantesco «Novi tormenti e novi tormentati».[24] O, per rimanere nelle citazioni della più alta poesia italiana: «E sedendo e mirando, e ascoltando»,[25] in cui il calco leopardiano è talmente evidente da non dover essere esplicitato (a cui sono da aggiungere anche calchi montaliani, e specificamente da Ossi di seppia e Occasioni).[26]   

Fin dal vertiginoso incipit, lunghissima invocazione di Isidoro alla donna amata, lo stile si impone come protagonista indiscusso del romanzo, in un gioco di suggestioni e di assonanze che fin da subito annulla la funzione referenziale della parola, per restituirle il suo ruolo poetico e evocativo primario:

Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha róso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia. Poi il tramonto, al vespero, quando nel cielo appare la sfera d’opalina, e l’aere sfervora, cala misericordia di frescura e la brezza del mare valica il cancello del giardino, scorre fra colonnette e palme del chiostro in clausura, coglie, coinvolge, spande odorosi fiati, olezzi distillati, balsami grommosi. Rosa che punto m’ha, ahi!, con la sua spina velenosa in su nel cuore.[27]

Per questo inizio tutto giocato sul nome nella donna amata è stato giustamente chiamato in causa il celeberrimo incipit di Lolita, ma, e non è niente di più che una suggestione, un simile gioco sul termine «rosa», e sul suo ruolo centrale nella storia della letteratura italiana, era stato accennato anche da Eco nelle sue postille a Il nome della rosa.[28] Queste righe sono inoltre rivelatrici anche della propensione di Consolo per la paratassi, e per quelle «enumerazioni a catena» che vengono da lui ricondotte a «un bisogno di realismo», in quanto, eliminati i passaggi sintattici, diventa possibile isolare il sostantivo «che indica immediatamente la cosa».[29]

È questo un passaggio su cui occorre soffermarsi: quando Consolo afferma che il suo «bisogno di realismo» viene appagato dal sostantivo isolato, sta implicitamente dando una definizione ontologica della sua scrittura. E, sia detta come precisazione metodologica, nel momento in cui si chiarisce il rapporto di un autore con la realtà, si definiscono anche le sue implicazioni con la nozione di verità, e quindi, nel caso di Consolo, la sua eventuale collocazione nell’alveo del postmodernismo. Appare evidente come il termine «realismo» venga inteso da Consolo in un’accezione particolare, che di sicuro non fa riferimento a quella dominante nella seconda metà dell’Ottocento e rivitalizzata, almeno in Italia, tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta del Novecento. Eppure, anche assumendo con cautela «uno degli ‘ismi’ più ambigui e controversi di tutta la cultura occidentale, la cui imprecisione nomenclatoria è direttamente proporzionale alla quantità e alla varietà dei fenomeni che intende rubricare», è difficile comprendere in che senso lo stile elencatorio di Consolo possa essere ricondotto nell’alveo del realismo.[30] Se è vero che, per dirla con Pellini, «a diverse idee di realtà corrispondono diversi realismi», occorre allora in primo luogo capire quale sia la nozione di realtà a cui lo scrittore fa riferimento.[31]

Spostando il baricentro del discorso dai generi letterari a un livello più propriamente ontologico, si può dire che il realismo di Consolo, per cui il nome designa «immediatamente» l’oggetto a cui si riferisce, sembra indagare soprattutto la natura del rapporto tra le parole e le cose. Se il romanzo di Eco – sette anni prima – si chiudeva con il trionfo del nominalismo e con l’accettazione, tipicamente postmoderna, di un’assoluta alterità tra i «nudi nomi», convenzionali ed effimeri, e la realtà, il tentativo quasi ossessivo di Consolo di definire il suo oggetto con lunghissimi elenchi di sostantivi, può al contrario essere letto come sintomo di una perdurante fiducia nelle possibilità del linguaggio di afferrare e dire l’oggetto, la cosa in sé. In quest’ottica il realismo è quindi da intendersi nel senso di una concezione forte della parola, che, per quanto convenzionale, ha ancora un rapporto diretto con il suo oggetto, e può – e deve – dire qualcosa di esso. Infatti, se da una concezione assolutamente nominalista del linguaggio, per cui questo non ha un legame forte con la realtà, discende la logica conseguenza che la letteratura, proprio in quanto artificio linguistico, non può avere nessun appiglio sul «mondo non scritto», una concezione realista può al contrario condurre a esiti di maggior impegno sul reale, o quantomeno a una problematizzazione, anche sofferta, del valore della parola scritta. Appare quindi evidente come Consolo non possa in alcun modo essere accostato a un postmodernismo per cui la letteratura è un gioco su sé stessa e con sé stessa, e per cui la parola non ha più nessun contatto con il reale.

È proprio questa riflessione della letteratura su sé stessa a rappresentare il filo rosso di tutta la narrativa di Consolo; e Retablo, pur nella sua apparenza di «svago affabulativo» e di «vacanze rispetto agli altri, più esplicitamente impegnati romanzi», è, secondo Traina, il frutto più maturo di una questa meditazione letteraria condotta alla luce del «confronto costante fra storia e metafisica, tra destini collettivi e privati».[32] Ancora una volta, come avveniva nel Sorriso, in cui Consolo lasciava la parola al Barone Mandralisca, il demandare l’atto narrativo a uno dei personaggi consente la rappresentazione della scrittura nel suo farsi e la conseguente apertura a riflessioni metanarrative nonché a definizioni di campo quasi programmatiche. Clerici, nello scrivere il suo diario indirizzato a Teresa Blasco, si interroga innanzitutto su quale debbano essere gli argomenti accolti nel suo racconto:

Ma pure lo scrivente, io stesso intendo, che mi riprometto d’osservare, di disegnare e riprodurre le sole antichitate, ogni residuo o testo di remoto o evo, quieto e fermo, bagnato dall’incantanto e smemorante, dall’estatico mare metafisico, non posso qualche volta dispensarmi di guardare immagini attuali, di vita bruta, dolente e indecorosa.[33]

Nell’opposizione dell’«estatico mare metafisico» alla «vita bruta» è racchiusa quella tensione tra ricerca stilistica e impegno etico, che Turchetta ha indicato come motore primo di tutta la narrativa di Consolo.[34] Per quanto in Retablo prevalga effettivamente un concezione della letteratura come consolazione e fuga dal vivere quotidiano, esemplificata da alcune riflessioni di Clerici sulla scrittura come sogno, la storia, nella sua drammaticità, non può essere completamente esclusa dalla narrazione.[35] E la storia entra nel racconto in forma duplice, come è proprio dei romanzi storici (Retablo essendo anche un romanzo storico): da un lato sono infatti i tempi in cui svolge la vicenda ad essere sottoposti a critica («peggiori di quanto noi pensiamo sono i tempi che viviamo!» esclama a un certo punto il narratore), ma ancora una volta è la contemporaneità di Consolo che emerge, metaforizzata e nascosta dietro i velami della distanza cronologica. È già stato da altri notato, per esempio, come l’invettiva di Clerici contro la Milano settecentesca sia anche un’allusione alla «Milano “da bere” degli anni Ottanta e dell’era Craxi, cioè di un presente di superficialità, consumismo e corruzione».[36]

È tuttavia innegabile che il nucleo tematico forte di Retablo non sia più da ricercare nelle riflessioni sui destini collettivi, o nell’indagine dei rapporti di egemonia culturale tra le diverse classi sociali, ma sia, evidentemente, l’amore, autentico motore di tutte le azioni del romanzo. Anche il razionalista Clerici, dietro il sorriso olimpico, cela un grumo di sofferenza amorosa, per fuggire il quale ha intrapreso il suo viaggio erudito.[37] È lo stesso Consolo ad ammettere che «Fabrizio Clerici è la rivendicazione di quanto l’ideologia politica non poteva comprendere e contemplare: i sentimenti umani».[38] Il ritorno al privato non è in alcun modo negato e, anzi, sembra anche in questo caso essere accolto con un certo sollievo, ma non è mai portato avanti in chiave intimistica o psicologica. Proprio la natura di palinsesto del romanzo mette in salvo da un eccesso di intimismo e fa sì che la rivitalizzazione del motivo amoroso avvenga sotto l’egida dei grandi modelli della tradizione letteraria italiana e non solo: sono chiamati in causa Boiardo, Ariosto, Shakespeare, massimi interpreti di quell’amore che è «inseguimento vano, è inganno e abbaglio, fuga notturna in circolo e infinita, anelito mai sempre inappagato»; sono inoltre evocati i sempre presenti Dante, Petrarca e Leopardi, le citazioni dai quali non si contano, ma anche il Cyrano di Rostand e alcune novelle del Decameron.

La chiusura della stagione dell’engagement aveva definitivamente svincolato gli scrittori dall’obbligo morale di una letteratura in grado di agire direttamente sulla realtà. A questa mutata situazione Consolo non reagisce però con una reazionaria chiusura della scrittura su sé stessa, ma, proprio perché ormai libero da qualsiasi istanza ideologica proveniente dall’esterno, giunge alla consapevolezza che «lo scrittore deve fare il proprio mestiere, fino in fondo, senza compromessi: solo così la scrittura può guadagnare lo spessore etico adeguato alle proprie aspirazioni, conoscitive non meno che estetiche».[39] Nel momento in cui la letteratura è di nuovo solo letteratura, può effettivamente interrogarsi sul suo valore e sulle sue possibilità. E questa riflessione nulla concede all’autocompiacimento dell’arte per sé stessa, se si pensa all’episodio del giovinetto di Mozia, che si conclude con queste parole: «Ma tu, squisita fattura d’uomo, fiore d’estrema civiltà, estrema arte, tu, com’ogni arte, non vali la vita, un fiato del più volgare o incolto, più debole o sgraziato uomo».[40]

La medesima alterità profonda tra arte e vita è dichiarata a chiare lettere da Consolo nelle ultime pagine di Retablo, in cui don Gennaro, il protettore di Rosalia, grande artista, cantate lirico di fama mondiale, ma, proprio per questo, castrato, esprime tutto il suo rimpianto per un’esistenza vissuta da spettatore:

Siamo castrati, figlia mia.[…] Siamo castrati tutti quanti vogliamo rappresentare questo mondo: il musico, il poeta, il cantore, il pintore… stiamo ai margini, ai bordi della strada, guardiamo, esprimiamo, e talvolta, con invidia, con nostalgia struggente, allunghiamo la mano per toccare la vita che ci scorre davanti.[41]

Sebbene l’arte sia altro rispetto alla vita, e sebbene anche la scrittura sembri tendere irrimediabilmente verso il silenzio, la posizione di Consolo, ancora a questa altezza cronologica, rimane quella di una concezione etica della letteratura, costantemente tesa ad afferrare il mondo, seppur consapevole dell’inevitabile sconfitta. Ha pertanto ragione dunque Turchetta quando afferma che

Consolo non smette mai di essere scrittore profondamente etico, che muove dalla percezione, intimamente tragica, profondissima, e patita fino allo spasimo, del proprio essere scrittore come una limitazione, una condizione fatalmente segnata da un non medicabile distacco dal mondo: un modo che pure egli intende cambiare, denunciandone senza sosta l’ingiustizia e la violenza.[42]

D’altro canto Martinengo ha potuto notare come nella produzione consoliana «la sperimentazione linguistica [sia] il corrispettivo letterario della fiducia dell’autore nel ruolo civile e sociale della letteratura e dei letterati; i picchi della sperimentazione si raggiungono nei momenti in cui questa fiducia è massima».[43] In questo senso si può affermare che Retablo rappresenta un momento di medietas stilistica, in cui i picchi sono presenti (si pensi al già citato incipit), ma vengono immediatamente ricondotti a una scrittura certamente meno sperimentale rispetto a quella del Sorriso, ma comunque ancora impegnata in un confronto corpo a corpo con il reale.

In conclusione, possiamo affermare che è necessaria una sofferta indagine della scrittura su sé stessa, affinché questa possa prendere autocoscienza di sé e, non più succube di obblighi morali, assumere una piena e coerente consapevolezza etica: ricorda Adamo che «Consolo non credeva nell’innocenza dell’arte: gramscianamente sosteneva che bisogna sempre sapere da dove si parte per sapere dove si vuole andare».[44] In questo senso si è potuto parlare di «aperta politicità e senso di colpa dell’intellettuale, sempre abitato dalla sofferta consapevolezza della sua distanza dall’azione reale», consapevolezza che avvicinerebbe Consolo ad alcune riflessioni di Sereni e Fortini.[45] Di fronte alla scoperta che «la poesia / non muta nulla», la risposta di Consolo sembra infatti essere la medesima formulata da Fortini, in un imperativo categorico che non ammette repliche: «nulla è sicuro, ma scrivi».[46]

SINESTESIEONLINE SUPPLEMENTO DELLA RIVISTA «SINESTESIE» XI, n. 37, 2022


[1] V. Consolo, Retablo, Sellerio, Palermo 1987, ora in V. Consolo, L’opera completa, a cura di G. Turchetta, Mondadori, Milano 2015.
[2] «L’invenzione di far veder nel quadro ciò che si vuole, dietro ricatto d’essere, se non si vede, fortemente manchevole o gravato d’una colpa, non mi sembrò originar da loro. E mi sovvenni allora ch’era la trama comica de l’entremés del celebre Cervantes, intitolato appunto El retablo de las maravillas, giunto di Spagna in questa terra sicola e dai due fanfàni trasferito dalla finzione del teatro nella realitate della vita per guadagnar vantaggi e rinomanza.» (V. Consolo, L’opera completa cit., p. 397).
[3] A. Bellanova, Un eccezionale Baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo, Mimesis, Milano-Udine 2021, p. 190.
[4] V. Consolo, La metrica della memoria, in La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo, a cura di G. Adami, Manni, San Cesario di Lecce 2006, pp. 177-189.
[5] C. Segre, Un profilo di Vincenzo Consolo, in V. Consolo, L’opera completa cit., p. XV.
[6] S. Gentili, Letteratura, storia e realtà. Conversazione con Vincenzo Consolo, in «Bollettino di italianistica», Carocci, anno V, n. 2, 2008, p. 70.
[7] G. Genette, Palimpsestes. La littérature au second degré, Éditions du Seuil, Parigi 1982.
[8] Ivi, p. 5. [9] Ivi,pp. 7-8.
[10] G. Turchetta, Da un luogo bellissimo e tremendo, in V. Consolo, L’opera completa, cit., p. XXXVIII. Sul rapporto tra Consolo e Dedalus si veda anche M. Martinengo, Il debito modernista di Vincenzo Consolo: ‘La ferita dell’aprile’ e ‘Dedalus’, in La funzione Joyce nel romanzo italiano, a cura di M. Tortora, A. Volpone, Ledizioni, Milano 2022.
[11] Sui riferimenti intertestuali in Lunaria si vedano: C. Segre, Teatro e racconto su frammenti di luna, in Id., Intrecci di voce. La polifonia nella letteratura del Novecento, Einaudi, Torino 1991; N. Messina, ‘Lunaria’ dietro le quinte, in  Lunaria vent’anni dopo, a cura di I. Romera Pintor,Generalitat Valenciana-Universitat de València, Valencia 2006 pp. 179 – 191; I. Romera Pintor, Introduzione a Lunaria: Consolo versus Calderón, in La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo cit., Manni, San Cesario di Lecce 2006, pp. 177-189; P. Baratter, ‘Lunaria’: il mondo salvato dalla luna, in «Microprovincia, n. 48, 2010, pp. 85-93.
[12] V. Consolo, Retablo, cit., p. 398.
[13] Ivi, pp. 421-423.
[14] G. Traina, Vincenzo Consolo, Cadmo, Fielsole 2001, p. 82.
[15] F. Di Legami, Vincenzo Consolo. La figura e l’opera, Pungitopo, Marina di Patti 1990, p. 43.
[16] L. Sciascia, Il sogno dei Lumi tra Palermo e Milano, in «Corriere della Sera», 18 dicembre 1987 (citato in F. Di Legami, Vincenzo Consolo cit. p. 43). [17] Cfr. ad esempio la seguente citazione: «Fu allora che m’accorsi, dal
punto alto ove mi trovava, che sotto, confusi tra merce d’ogni ragione, erano istromenti strani e paurosi. Istromenti giudiziali di tortura e di condanna, gabbie di ferro ad altezza d’uomo, tine che si rivelano per gogne, e ruote infisse al capo delle pertiche, e letti e croci, tutti di ferro lustro e legno fresco e unto. Il più tristo era poi lo stipo d’una gran porta issato su un palchetto, porta di grossi travi incatramati, vuota contro la vacuità celestiale, alta sul ciglio della prora, le grosse boccole pendenti per i cappi ch’ogni piccola onda o buffo facea sinistramente cigolare. […] La vision di quegli ordegni bruti sulla plancia farebbe inorridire, al par di me, e indignare i fratelli Verri e il giovin Beccaria, vostro divoto amico e ammirante.» (V. Consolo, Retablo cit., p. 381).
[18] N. Izzo, Nello scriptorium barocco di Vincenzo Consolo: riprese e ribaltamenti letterari in Retablo, in «reCHERches» [Online], 21, 2018, online dal 05 ottobre 2021, p. 116.
[19] V. Consolo, Retablo cit., p. 465.
[20] A proposito di questa moltiplicazione dei punti di vista, interessante è l’osservazione di Bisanti, che ha notato come «la pluralizzazione dei punti di vista e delle verità possibili avvenga proprio a partire dalle varie figure di donne sedotte o seduttrici, che sembrano confluire in un volto solo: quando infatti Clerici si accinge a disegnare un profilo di donna che nelle sue intenzioni dovrebbe ritrarre l’amata Teresa Blasco, don Vito vi riconosce la Rosalia per amor della quale aveva ucciso il seduttore fra’ Giacinto, mentre Isidoro è convinto che si tratti della propria Rosalia. Il fulcro su cui convergono tutti questi percorsi sono dunque le fattezze, ma soprattutto il nome di Rosalia, personaggio dall’identità fluttuante e incerta.» (in T. Bisanti, Seduzione amorosa e seduzione artistica in ‘Retablo’ di Vicenzo Consolo, in «Cahiers d’études italiennes», 5, 2006, pp. 62-63).
[21] A. Chmiel, Rompere il silenzio. I romanzi di Vincenzo Consolo, Wydawnictwo Uniwersytetu Śląskiego, Katowice 2015, pp. 64-65.
[22] Sul rapporto tra la prosa consoliana e la poesia si veda M. Attanasio, Struttura-azione di poesia e narratività nella scrittura di Vincenzo Consolo, in «Quaderns d’Italià», 10, 2005, pp. 19-30, in particolare: «Una vera e propria “struttura-azione” di poesia potentemente interviene a costituire il corpo stesso della narratività di Vincenzo Consolo, restringendo gli spazi di comunicazione, dissolvendo ogni ordinata sequenzialità di tempi e di sintassi, travalicando ogni rigida separazione tra i generi; ed emergendo in punte espressive — disancorate dalla narrazione — con due difformi e spesso simultanei riporti: tragico nei confronti della storia, lirico nei confronti della natura; una dimensione, quest’ultima, vissuta quasi con un senso di imbarazzo dalla coscienza etica e ideologica dell’autore, che ne teme la smemorante e avvolgente bellezza fuori dalla storia» (p. 21).
[23] V. Consolo, Retablo cit. p. 382.          
[24] Ivi, p. 400. [25] Ivi, p. 415.
[26] Ivi, pp. 442-443. Per i rimandi montaliani mi permetto di rimandare a quanto ho già scritto in A. Macori, Tra modernismo e postmoderno. Echi montaliani in Retablo, in «Mosaico italiano», n. 213, agosto 2022, pp. 12-15. [27] V. Consolo, Retablo cit., p. 369.
[28] «L’idea del Nome della rosa mi venne quasi per caso e mi piacque perché la rosa è una figura simbolica così densa di significati da non averne quasi più nessuno: rosa mistica, e rosa ha vissuto quel che vivono le rose, la guerra delle due rose, una rosa è una rosa è una rosa è una rosa, i rosacroce, grazie delle magnifiche rose, rosa fresca aulentissima» (U. Eco, Postille al nome della rosa, Bompiani, Milano 2010, p. 508).
[29] S. Gentili, Letteratura, storia e realtà. Conversazione con Vincenzo Consolo cit., p. 72.
[30] F. Bertoni, Realismo e letteratura. Una storia possibile, Einaudi, Torino 2007, p. 17.
[31] P. Pellini, Realismo e sperimentalismo, Il modernismo italiano, a cura di M. Tortora, Carocci, Roma 2018, p., 138.
[32] G. Traina, Vincenzo Consolo cit. p. 79.
[33] V. Consolo, Retablo cit. p. 399.
[34] G. Turchetta, Vincenzo Consolo, in Il romanzo in Italia. vol. IV – Il secondo Novecento, a cura di G. Alfano, F. de Cristofaro, Carocci, Roma 2018, p. 356.
[35] «Perché viaggiamo, perché veniamo fino in questa isola remota, marginale? Diciamo per vedere le vestigia, i resti del passato, della cultura nostra e civiltate, ma la causa vera è lo scontento del tempo che viviamo, della nostra vita, di noi, e il bisogno di staccarsene, morirne, e vivere nel sogno d’ère trapassate, antiche, che nella lontananza ci figuriamo d’oro, poetiche, come sempre è nell’irrealtà dei sogni, sogni, intendo, come sostanza dei nostri desideri. Mai sempre tuttavia il viaggio, come distacco, come lontananza dalla realtà che ci appartiene è un sognare. E sognare è vieppiù lo scrivere, lo scriver memorando del passato come sospensione de presente, del viver quotidiano» (V. Consolo, Retablo cit., p. 413).
[36] G. Turchetta, Il luogo della vita: una lettura di ‘Retablo’, in Visitare la letteratura. Studi per Nicola Merola, a cura di G. Lo Castro, E. Porciani, C. Verbaro, ETS, Pisa 2014, p. 650.
[37] «Ah, doña Teresa, cos’è mai questa febbre malsana dell’innamoramento, quest’insania, questo furore che riduce l’uomo, come quel paladin famoso a nuda e pura bestia, privato vale a dire del cervello, che come colombella o essenza sublimata se n’è volato al cielo, alle silenti valli della luna! Io avvertii il male al suo apparire, come s’avverte il sole al primo rosseggiar dell’aurora, e assunsi subito il mio contravveleno del viaggio, laonde posso serenamente stendere per voi le note che qui stendo, e nel contempo parlare serenamente dell’amore. Siete felice voi, o mia signora, siete felice?» (V. Consolo, Retablo cit., p. 393).

[38] S. Gentili, Letteratura, storia e realtà. Conversazione con Vincenzo Consolo cit., p. 73.
[39] G. Turchetta, Da un luogo bellissimo e tremendo, in V. Consolo, L’opera completa cit., p. XXIX.
[40] V. Consolo, Retablo cit., p. 453.
[41] Ivi, p. 473.
[42] G. Turchetta, La letteratura come nostalgia della vita. ‘Retablo’ di Vincenzo Consolo, in Sguardi sull’Asia e altri scritti in onore di Alessandra Cristina Lavagino, a cura di C. Bulfoni, E. Lupano, B. Mottura, LED, Milano 2017, p. 349.

[43] M. Martinengo, Quando teoria e prassi non vanno all’unisono. Sperimentazione formale e impegno civile nell’opera di consolo, in «L’Ellisse», XV, 2020, 2, p. 134.
[44] G. Adamo, Ricordo di Vincenzo Consolo, in «Italica», Winter 2012, Vol. 89, n. 4, p. V.
[45] Ibidem
[46] F. Fortini, Traducendo Brecht, in Una volta per sempre [1963], ora in F. Fortini, Opere, Mondadori, Milano 2014, p. 238.

La Sicilia tra mito e storia. Da Sant’Agata a Cefalù. La Gnoseologia dei luoghi nell’opera di Vincenzo Consolo

L’illusione di Consolo tra metafora e realtà

                                           di Sebastiano Burgaretta

C’è un libro di Vincenzo Consolo, La Sicilia passeggiata, che, sebbene si presenti come opera minore, legata a un evento occasionale[1], riveste, come ha recentemente evidenziato Miguel Ángel Cuevas[2], un ruolo importante nel rapporto tra Consolo e la Sicilia, e, aggiungo io, per estensione, tra Consolo e l’Italia, Consolo e il mondo, in particolare per ciò che attiene al bacino del Mediterraneo. Il ruolo di questo libro è lo stesso che è narrato e descritto anche nelle due opere che – a parte il racconto La grande vacanza orientale-occidentale[3]si configurano come viaggio dello scrittore nell’isola. Scrive, infatti, Cuevas nella sua introduzione all’edizione spagnola: La Sicilia passeggiata è in effetti, per quanto opera minore, un testo centrale, e non solo né principalmente sul piano cronologico, fra le altre opere narrative: fra il sollievo erudito, il balsamo sentimentale di Retablo e l’insanabile frattura, le contemporanee lande desolate dell’Olivo e l’olivastro[4]. È vero, infatti, che nelle opere di Consolo si registra una tensione costante tra la volontà di intonare uno scongiuro propiziatorio e quella di svelare le atrocità. Nella Sicilia passeggiata è la prima pulsione a vincere[5]. Anche Giuseppe Traina, già nel 2001, scriveva che il testo si potrebbe per certi versi considerare un incunabulo del viaggio in Sicilia compiuto poi in L’olivo e l’olivastro ma fin dal titolo rasserenante, dimostra – anche rispetto agli esiti di Retablo e Le pietre di Pantalica – una disposizione d’animo meno direttamente coinvolta negli scempi dell’attualità[6]. La descrizione procede dritta, schivando le angustie dell’attualità, le ferocie mafiose palermitane, le chimeriche disgregazioni siracusane, e si svolge scioltamente, ha scritto Salvatore Mazzarella, con tono sereno e disteso, onirico[7]. È lo stesso Consolo, del resto, a precisare nella nota introduttiva all’edizione del 1991, che il libro era nato da una commissione e da una illusione…L’illusione mia, di mostrare – agli stranieri soprattutto! –, contro quella negativa e sconveniente che la cronaca ogni giorno ci consegna, una immagine positiva della Sicilia. Ho ripercorso così brevemente…una Sicilia onirica, illusoria. Nell’illusione anche, prendendo a metafora il mito di Persefone o Kore, che questa terra, la sua storia, possa, in una prossima desiderata primavera, risorgere dalle tenebre dell’attuale inverno, dal fondo dell’inferno[8].

Intenzionalmente e significativamente perciò egli intitolò il testo, nella prima edizione, Kore risorgente. L’illusione suscitata nello scrittore da un fatto occasionale e documentata nel libro è in realtà l’aspirazione costante, dolorosa che Consolo si portò dentro sino alla fine; il desiderio, mai appagato, di vedere una buona volta in Sicilia l’ulivo crescere e fruttificare in pace senza le briglie soffocatrici dell’olivastro, di vedere la positività soppiantare la negatività, il bene trionfare sul male. Quella di Consolo era una tensione dolorosa, che angustiava l’uomo e che si trasferiva tormentosamente nelle pagine delle sue opere con sempre maggiore intensità[9]. I suoi frequenti e attivissimi ritorni nell’isola ne sono stati la spia evidente, come egli stesso lasciò chiaramente intendere nelle pagine delle Pietre di Pantalica: Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e rigirare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca[10].

Una tensione dolorosa che era figlia dell’amore viscerale che lo scrittore aveva per la Sicilia e la sua storia culturale, memoriale e linguistica. Una storia che non perdeva occasione di rivisitare e documentalmente illustrare sotto vari aspetti, tematiche e tradizioni etnoantropologiche, cui prestava profonda attenzione. E io conservo tanti bei ricordi di escursioni qua e là per l’isola. Mi ha fatto visitare con la sua sapiente guida, Palermo, i Nebrodi, Alcara Li Fusi, i resti archeologici di Apollonia, il bosco della Miraglia con i luoghi descritti e i linguaggi dei quali gli fu maestra la piccola Amalia[11], Cefalù, la stessa Sant’Agata Militello, Villa Piccolo a Capo d’Orlando, Santo Stefano di Camastra, e poi ancora insieme Siracusa, Sortino, Palazzolo Acreide, Cittadella dei Maccari, Eloro, Vendicari, Cava d’Ispica, Noto, Serravento, Testa dell’Acqua, Cava Grande del Cassibile, tutta la Montagna d’Avola con la delizia delle sue erbe aromatiche, alcuni di questi luoghi anche ripetutamente. Era questa la Sicilia, terra geograficamente e storicamente crocevia al centro di quel Mediterraneo che Consolo amava e proponeva nel bene e nella positività, senza tuttavia che il suo amore per l’isola facesse velo alle realtà negative e atroci di cui è lontana portatrice, come invece qualche benpensante in Sicilia gli rimproverava, tutt’altro anzi, perché non smise mai di denunciare i mali di cui soffre la Sicilia.

Lo scrittore aveva chiara consapevolezza del positivo portato storico-culturale e memoriale della gente dell’isola e ne ha dato prova in molti testi di natura saggistica pubblicati nel corso degli anni e poi riuniti in volumi, il più ricco dei quali è Di qua dal Faro. In questo sono confluiti, per esempio, con il titolo Uomini e paesi dello zolfo, lo scritto Un uomo di alta dignità, che era stato pubblicato coma saggio introduttivo al volume curato da Aurelio Grimaldi ‘Nfernu veru[12], La pesca del tonno, già uscito con Sellerio[13], Vedute dello Stretto di Messina, anch’esso già uscito da Sellerio[14], I pupi[15], argomento, questo, del quale si occupò più volte[16], La rinascita del Val di Noto, già uscito da Bompiani[17]. Tutti questi saggi sono incursioni in e approfondimenti di alcuni aspetti della storia e della cultura della Sicilia, che hanno la loro centralità nella matrice mediterranea della civiltà e dell’evoluzione culturale dell’isola. Sono scritti solo apparentemente d’occasione, perché lo scrittore è capace, ogni volta, di trasformarli e funzionalizzarli positivamente all’interno della sua ricerca – amorosa illusione – storico-memoriale[18] e, perché no, anche linguistica, stando ai documenti in essi studiati e citati, e ciò anche a non voler considerare il valore fondante che la lingua e la scrittura verticale, figlie della memoria storico-culturale, hanno in tutta l’opera di Consolo. Nella nota conclusiva del volume Di qua dal Faro lo scrittore dichiara: La scelta (dei testi) è dettata dalla coerenza e dalla sequenza degli argomenti tra loro. Utile, questa scelta, a dare ancora una mia idea della Sicilia[19]. È la Sicilia dell’olivo non sopraffatto dall’olivastro, la Sicilia che fa dire allo scrittore, per bocca del pescatore messinese Placido Alessi: Ora mi pare d’essere, ridotto qui tra Pace e Paradiso, come trapassato, in Contemplazione, statico e affisso a un’eterna luce, o vagante, privo di peso, memoria e intento, sopra cieli, lungo viali interminati e vani, scale, fra mezzo a chiese, palazzi di nuvole e di raggi. Mi pare (vecchiaia puttana!) ora che ho l’agio e il tempo di lasciarmi andare al vizio antico, antico quanto la mia vita e pure avanti, di distaccarmi d’ogni reale vero e di sognare[20]. È la Sicilia degli amici costanti lungo il tempo, che offrono conforto, quando si sente smarrito[21]. La Sicilia nella quale gli può succedere d’esser in un luogo in disparte, lontano dagli uomini che mangiano pane, lontano dai Ciclopi, d’essere ai confini del mondo, in un’isola di sopravvivenza d’una umana misura ormai perduta[22]. Una terra in disparte, come quella che nell’isola di Scheria permette al re Alcinoo di coltivare, lontano dall’incivile convivenza in una terra in disparte, ai confini del mondo, oltre all’accoglienza di chi ha bisogno, anche l’esercizio della ragione, l’amore per il canto, la poesia[23]. In altri termini la Sicilia che porta i segni della sua antica civiltà e che è da sempre crocevia e ponte per uomini in viaggio e cammino all’interno del Mediterraneo, la Sicilia incrocio e centro d’ogni antica navigazione dell’uomo[24].

Di qua da Faro è il chiaro segnale del rovesciamento della prospettiva dalla quale i Borboni guardavano – da Napoli – al Faro e allo Stretto che separa la Sicilia dal continente. Consolo guarda, posto “di qua dal Faro”, facendo della Sicilia ciò che essa è realmente stata in passato, collocata com’è al centro del Mediterraneo: l’asse dal quale ruotare lo sguardo a 360 gradi, alla ricerca di quei contatti e di quelle aperture che la storia non ha lesinato agli abitanti dell’isola e che oggi si rendono necessari alla sopravvivenza di una civiltà, giunta “alla fine”, come quella del mondo occidentale. Anche in tempi epocali di “fine”, sembra voler dire lo scrittore, la Sicilia forse non ha esaurito il suo ruolo storico[25]. E noi oggi siamo testimoni dell’avverarsi di questo intimo desiderio dello scrittore. Stiamo, infatti, assistendo, in questi anni, a una sorta di rinnovata funzione mediatrice della Sicilia al centro del Mediterraneo. L’isola sta ridiventando quella che è già “in costrutto”: ponte reale, oltre che, poi anche, metaforico e letterario[26]. Questo, di fatto, ci insegna, che lo vogliamo o no, il fenomeno epocale dei drammatici sbarchi nell’isola. Questo ci è testimoniato dai tanti segnali positivi di ricerca scientifica e di collaborazione culturale presenti nell’isola. Penso, per esempio, al ruolo che da tanti anni riveste la Fondazione delle Orestiadi, messa su da quel Ludovico Corrao che Consolo omaggio in Retablo, penso al lavoro proficuo e mirato della casa editrice messinese Mesogea, con la quale lo scrittore collaborò, penso all’attività dell’Istituto Euro arabo di Mazara del Vallo, che in particolare con la rivista bimestrale “Dialoghi mediterranei”, grazie al lavoro del suo fondatore Antonino Cusumano spesso ricordato da Consolo, contribuisce all’arricchimento del patrimonio  culturale e scientifico dei paesi mediterranei “considerati nella propria unità e diversità”, aprendo spazi e occasioni di riflessione su argomenti strettamente legati all’incontro dei vari popoli dell’area mediterranea sui diversi aspetti relativi ai rapporti intrattenuti nel passato, nel presente e in prospettiva, tra la Sicilia, l’Italia e l’Europa, da un lato, e il mondo arabo-islamico, dall’altro[27]. Il segreto del felice modello Mazara, che resiste al virus del razzismo, è costituito dal lavoro e dalla cultura, un modello, ha dichiarato il vescovo della città, Domenico Mogavero, nato su quello della Tunisia, quando ad andare lì erano i siciliani. E qui c’è tolleranza, anche fra le religioni. Un clima che ormai non fa più notizia ma che forse è il momento che torni a fare notizia[28]. E qui è il ruolo degli intellettuali chiamati a dover intervenire, come Consolo non mancava di sottolineare già in una intervista del lontano 1992: Penso a quando, nel 1968, i primi tunisini sbarcavano a Trapani. Nessuno si accorgeva della presenza dei tunisini quando sui pescherecci o nelle vigne servivano le loro braccia. Ma nei momenti di crisi, nei momenti in cui i lavoratori locali sentivano la concorrenza dei tunisini, si scatenava una vera e propria caccia all’immigrato, cui partecipavano “onesti cittadini”, per ripulire la città da discriminazioni razziali… C’è nei letterati come una cautela, una reticenza, perché “l’impegno” era prima connotato come schieramento politico a sinistra. Oggi, di fronte a episodi di razzismo, nessuno interviene. Ci sono piuttosto interventi al contrario, di rifiuto del “diverso”[29]. Non perdeva occasione di denunciare la latitanza degli intellettuali davanti a certe emergenze sociali. Oggi gli intellettuali sono pressoché distanti dall’impegno sociale; la parola stessa “impegno” è ormai tabù, quasi scandalosa dichiarava a Domenico Calcaterra[30]. E a Roberto Andò: Piango la scomparsa delle eccentricità letterarie[31]. Non mancò di intervenire energicamente e anche con una punta di ironia Consolo, accendendo peraltro un vivace dibattito sulla stampa del tempo[32], nel 2004, alla notizia che una deputata dell’Udc aveva proposto una legge regionale che istituisse un museo dei migranti a Lampedusa. In anni nei quali si consumava, come ancora oggi si consuma, la tragedia di tanti immigrati morti nelle acque del Mediterraneo, Consolo bollò come retorica e ipocrita quella proposta: Cosa ci metterebbe dentro quel museo di Lampedusa la signora deputata dell’Udc? Ci metterebbe tibie incrociate e teschi? … È retorica pensare a un museo nel momento in cui il dramma dell’immigrazione terzomondista nel nostro crasso e ameno Paese è in attoUn monumento piuttosto a quella giovane madre africana, alla madre africana che affida alle acque il corpicino del figlio morto sulla carretta del mare durante il tragico viaggio della speranza[33].

È altra, invece, non quella della retorica di circostanza, la Sicilia amata, agognata, cercata da Vincenzo Consolo. È la Sicilia di cui egli ha ripetutamente scandagliato la storica matrice mediterranea, identificandone la vocazione geografica e storica di mesogea, di terra di mezzo, il cui accesso non va negato a nessuno. Ecco quanto ebbe a dichiarare Consolo sulla centralità della Sicilia nel lontano dicembre del 1988: Questa regione è la più periferica e insieme è al centro del Mediterraneo. Anche per Goethe è una terra miracolosa: qui si sono incrociati tutti gli eventi. Si sono svolte qui tragedie e cose sublimi. Il susseguirsi dei popoli ha portato una grande infelicità sociale e insieme una grande ricchezza culturale[34]. Rifacendosi, come già Sciascia, al pensiero di Américo Castro, Consolo, nei suoi scritti, è più volte tornato a parlare della vocazione storica alla convivenza tra popoli diversi sperimentata nell’isola in età medievale. Soprattutto fu sotto la dominazione araba che si registrarono, scrive, lo spirito di tolleranza e la convivenza fra popoli di cultura, razza, religione diverse. Questa tolleranza, questo sincretismo culturale erediteranno poi i Normanni, sotto i quali si realizza veramente la società ideale, quella società in cui ogni cultura, ogni etnia vive nel rispetto di quella degli altri[35]. La Sicilia, insomma, che, al di là delle metafore di ascendenza omerica, ci porta alla realtà variegata del suo cammino storico. La Sicilia che coltivava buoni rapporti col Maghreb. Citando Francesco Gabrieli, Consolo evidenzia i rapporti della Tunisia con la Sicilia, così vicine le due, geograficamente e culturalmente, così uguali. E ricordava Gabrieli che, già sul finire della dominazione araba in Sicilia, il grande letterato tunisino Ibn Rashîq faceva in tempo a venire a chiudere la sua vita a Mazara, mentre sull’opposta sponda tunisina, a Monastir, s’innalzava un mausoleo al giureconsulto mazarese, all’Imàam al Màzari[36].

L’incanto della tolleranza e della convivenza civile fu rotto poi dai cristiani: Culminò, l’intolleranza, con i re cattolici di Spagna, con la cacciata dall’Isola, nel 1492, dei Mori e degli Ebrei. Decadde Palermo, decadde la Sicilia, da quella sua età dell’oro, da quel momento unico e irripetibile di equilibrio ateniese, di composta e alta civiltà, dal momento in cui si entrò nell’età dei conflitti e si piombò in quella paralisi culturale, e insieme sociale, storica, che, al di là dei tre secoli che Américo Castro attribuisce alla Spagna, è durata in Sicilia sino a ieri, dura sino ad oggi[37]. E il Mediterraneo divenne mare che conobbe migrazioni e spostamenti di popoli con ogni tipo di boat people, antico e moderno, dai settemila cavalieri di Gerusalemme, che cacciati da tutti i porti, ha scritto Francesco Merlo, errarono dal 1522 al 1530, alla famosa Exodus con a bordo 4515 profughi ebrei scampati ai campi di concentramento nazisti. E fino alla nave Diciotti[38]. S’era rotto l’incanto, s’erano guastati i civili rapporti tra la Sicilia e i paesi del Maghreb. Il ponte sul Canale di Sicilia, ponte umano già rappresentato dal Boccaccio nella seconda novella della giornata quinta del Decamerone, quella di Gostanza che ama Martuccio, ebbe a subire scossoni e colpi che non sono finiti più, nel corso dei secoli, fino ai nostri giorni. Le cronache, ha scritto Consolo due anni prima di morire, ci dicono di disperati che cercano di raggiungere l’isola di Lampedusa. Disperati che partono soprattutto dalla Libia, ma anche dalla Tunisia e dal Marocco…Il governo italiano intanto non fa altro che promulgare leggi xenofobe, razzistiche, di vero spirito fascistico. Di fronte a episodi di contenzione di questi disperati in gabbie infuocate, di ribellioni, di fughe, scontri con le forze dell’ordine, scioperi della fame, gesti di autolesionismo e di tentai suicidi, di gravi episodi di razzismo e di norme italiane altrettanto razzistiche si rimane esterrefatti. Ci ritornano allora le parole di Braudel[39] riferite a un’epoca passata: “In tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato, e vi conosce le miserie, gli errori e le santità degli universi concentrazionari[40]. A questo ponte distrutto e alla sua storia, in particolare quella dei primi anni del XX secolo, che vide una folta immigrazione di siciliani in Tunisia, Consolo ha dedicato un capitolo intero, riprendendo un articolo pubblicato già sul “Messaggero”[41]; e ha dedicato anche il testo di una conferenza tenuta, col titolo I muri d’Europa, agli studenti dell’Università di Milano nella sede di via della Passione nel 2006 e successivamente ripresa al Palazzo Ducale di Genova, nel giugno del 2009, nell’ambito degli incontri della manifestazione “Mediterranea”[42] E la Tunisia, oltre che terra amata dallo scrittore, nel suo immaginario letterario è diventata anche terra d’esilio per siciliani amanti della libertà, come l’anarchico Paolo Schicchi e il protagonista di Nottetempo, casa per casa, Pietro Marano[43].

Purtroppo il veleno che aveva intossicato le acque del Mediterraneo s’era diffuso per osmosi all’intero mondo e dall’Egeo era giunto fino alle acque della costa somala – amara ironia degli stravolgimenti della storia – su di una nave greca, il cui capitano, in anni recenti, ha fatto gettare in mare un gruppo di giovani clandestini neri scoperti a bordo dell’imbarcazione; tragico e profetico prologo consoliano, nel 1988, di quello che sarebbe stato, ed è ancora oggi, il destino di tanti infelici che vogliono fuggire dalla guerra e dalla fame e s’avventurano, in mano a criminali speculatori, nelle acque del Mediterraneo, dove in gran parte lasciano la vita e il corpo in quello che è diventato un cimitero subacqueo, da Mare Bianco, che era, mare nero. Consolo prefigura tutto ciò nel racconto che significativamente chiude Le pietre di Pantalica, quello che nell’endiade del titolo ho sempre pensato reca un cordiale omaggio a Basilio Reale[44], amico e mentore di Vincenzo Consolo, che lo scrittore mi fece conoscere un’estate a Capo d’Orlando. Al disincanto dello scrittore verso il degrado della civiltà contemporanea presente in questo libro aveva fatto riferimento Flora Di Legami nella sua monografia dedicata a Consolo[45]. Della cancellazione dei buoni rapporti tra popoli all’interno del Mediterraneo Consolo avrebbe scritto poi nello Spasimo di Palermo[46], puntualizzando poi in un’intervista: Con la citazione dell’Algeria, prendendo spunto dalla moschea che c’è a Parigi e dalla sosta che fa il protagonista nel giardino della moschea, ho voluto dire della distruzione della civiltà mediterranea, della cancellazione della nostra cultura, che avviene in modo anche visibile e atroce, come appunto in Algeria o nella ex-Jugoslavia[47].

Sono stato personalmente privilegiato testimone[48] di questo suo disincanto, dell’amarezza che ne inficiava l’animo, della sua ansia di vita nuova per la Sicilia, della sua attesa speranzosa di una primavera, per così dire, “cerealicola” e “floreale” nella terra di Kore e nell’Italia tutta, attesa speranzosa che purtroppo puntualmente abortiva nella delusione, sino a fargli scrivere, in una pagina dell’Olivo e l’olivastro, davanti a Palermo, centro aggregante e sintesi della Sicilia della storia, contrapposta a quella appagante del  mito e del canto poetico: Via via, lontano da quella città che ha disprezzato probità e intelligenza, memoria, eredità di storia, arte, ha ucciso i deboli e i giusti[49]. La stessa Palermo, contraddittoria e infelice di cui parla nel racconto Il boato di Santa Rosalia[50].

Purtroppo, come per Sciascia la linea della palma s’era spostata a nord[51], così per Consolo, e in verità per tutti, i miasmi socio-antropologici e politici, e dunque sostanzialmente culturali, di Palermo e della Sicilia si erano propagati in tutto il paese, raggiungendo quella Milano che, per Consolo, anni prima, era stata il punto di un approdo culturale liberante e potenzialmente fecondo. Scoraggiato dichiara, in occasione dell’uscita dello Spasimo di Palermo: Sciascia si riferiva solo alla mafia, mentre io sento questo spasimo (in progressione, da Palermo alla Sicilia, al mondo) come distruzione della civiltà, come passaggio epocale, perché questa grande rivoluzione tecnologica che ci schiaccia e ci annulla è il mondo della sottocultura, dello spettacolo, della canzonetta, dove nessuno è se non appare[52]. Conseguenza ne fu che, sul piano creativo, lo scrittore si ritrovò senza il tessuto memoriale del luogo e perciò afasico, mentre, sul piano personale e civile, si ritrovò davanti agli stessi mali sociali e politici che soffocavano la Sicilia. Percepiva Milano e il suo decadimento culturale e civile come la proiezione geometrica dei mali siciliani nell’Italia tutta, di cui Milano era stata il cuore pulsante, giusta la storica tradizione degli illuministi lombardi di ogni tempo, da Beccaria a Manzoni a Dossi, fino all’amato Vittorini, a Sereni e al lui caro Leonardo Mondadori.

Crimine organizzato, mala politica, nuovi fascismi rampanti, forme variegate di irrazionalismo caratterizzano il panorama nel quale l’ombra della Sicilia si è estesa a tutta la nazione. In Nottetempo, casa per casa tutto ciò è evidenziato in modo chiarissimo, ed è lo stesso Consolo a dichiarare in un’intervista: La questione dell’irrazionalismo delle neometafisiche sembra essere di grande attualità. In un periodo di crisi delle ideologie e delle relative estetiche, questo ritorno all’irrazionale non lascia prefigurare nulla di buono[53]. E in un’altra intervista, con riferimento alla metafora del presente insita nella storicità d’inizio Novecento di Nottetempo, casa per casa, dichiara: Un’alienazione dolorosa percorre quegli anni: sono tempi di sradicamento…Nel quotidiano smarrimento trionfano gli squadristi, i più umani soccombono al carnefice, i politici rincorrono utopie…Oggi l’Italia ha subito tali scosse in termini di classe, cultura, politica ed economia da ricordare quella del ’20. Ciò si traduce, ripeto, in perdita di sé, incapacità di sopportazione del reale, che genera nevrosi e barbarie[54]. Scrisse al riguardo Oreste del Buono: Vincenzo Consolo sa che quanto avviene in Sicilia, avviene anche a Milano, avviene in tutto il mondo. Lui scrive della Sicilia, perché ci è nato e perché a Sicilia è così bella, eccessiva ed esemplare anche nell’orrore[55]. Consolo stesso dichiara nel 1988: Non è migliorata Milano. Qui tutto è merce, denaro, falsi valori. Milano ha grandi responsabilità. Da Milano partono i messaggi. Milano è un pezzo d’America. Ci sono i giornali, c’è la televisione, uno strumento con cui si persuadono le masse[56]. E oggi noi possiamo aggiungere: c’è la rete telematica, che consente a chicchessia di lasciarsi piacevolmente persuadere dal primo villan che parteggiando viene e che perciò stesso diviene un Marcello[57]. Conferma tutto quanto Lo spasimo di Palermo, che Massimo Onofri definì tutto il romanzo della Sicilia, dell’Italia – tra Milano e Palermo – degli ultimi cinquant’anni: a complicare di un capitolo nuovo quella controstoria d’Italia letteraria e civile che ci ha affidato tanta letteratura siciliana[58]. Luca Canali, definendo l’ultimo romanzo di Consolo il più bello forse, e il più compatto dei libri dello scrittore di Sant’Agata Militello, riscontrò in esso il quadro “nero” della società italiana (da Palermo a Milano)[59]. È poi lo stesso scrittore a dichiarare: È un libro estremo, è l’esito o l’esodo di tutto il mio percorso letterario…Questo libro riassume la storia di un uomo nell’arco di cinquant’anni, a partire dal dopoguerra con l’orrore dei bombardamenti, la violenza dei tedeschi, dei razzisti, e arriva sino ai giorni nostri, nel ’92… Ho guardato a questo cinquantennio come a una perdita, a un’età di orrori, di dolore, un cinquantennio anche di violenza dalle forze che non amano la civiltà, che agiscono solo per i propri interessi. Parlo delle responsabilità di chi ha amministrato, di chi ha diretto i fili della nostra vita e ha deciso per la nostra vita. E quindi parlo di Milano, parlo di Palermo, parlo di Parigi, di questo nostro contesto[60]. Per bocca del protagonista, Chino Martinez, lo scrittore consuma tutta la sua delusione nei riguardi della scrittura e in particolare del romanzo, genere letterario ormai inadeguato di fronte alla realtà di degradazione in cui versa la società. Sono vari i luoghi del libro significativi al riguardo: Non scrivo più nemmeno dediche[61]; sai bene che non sono più uno scrittore, se mai lo sono stato[62]; ho assoluta ripugnanza, in questo stordimento, nell’angoscia mia e generale[63]; sarebbe riuscito forse a scrivere d’una realtà storica…fuori da ogni invenzione, finzione letteraria. Aborriva il romanzo, genere questo scaduto corrotto, impraticabile. Se mai ne aveva scritti erano i suoi in una diversa lingua, dissonante, in una furia verbale ch’era finita in urlo, s’era dissolta nel silenzio[64].

Quello dello Spasimo di Palermo è un urlo d’amore che porta Consolo a fare finalmente i conti con Milano, divenuta metafora dell’Italia intera e perciò oggetto di ricerca poetico-creativa, come lo era stata la Sicilia. E attraverso la città lombarda, che già fu antitesi al marasma, cerchia di rigore, civile convivenza[65], lo scrittore, servendosi di Chino Martinez, fa i conti con l’Italia del nostro tempo, confessandosi in una sorta di esame di coscienza storico-generazionale (è debolezza d’un vecchio, desiderio estremo…[66]), nel quale non può non sentirsi coinvolto ogni lettore sensibile e attento. La Milano con cui si confronta l’alter ego di Consolo è quella dell’omologazione e della corruzione: Illusione infranta, amara realtà, scacco pubblico e privato, castello rovinato, sommerso dall’acque infette… palazzo della vergogna, duomo del profitto, basilica del fanatismo e dell’intolleranza, banca dell’avventura e dell’assassinio, fiera della sartoria mortuaria…stadio della merce e del messaggio, video dell’idiozia e della volgarità[67]. Non è più la Milano di Vittorini, nella quale il giovane scrittore aveva sperato più di trent’anni prima. È invece la Milano della logica dell’avere e non dell’essere, arrasso dalla quale era fuggito Fabrizio Clerici, il protagonista di Retablo. Oggi la Milano dei miei sogni, delle mie aspettative è una città irriconoscibile, per dirla con Rushdie. Una città centrale della menzogna[68]. Una Milano omologata a Palermo, alla Sicilia, all’Italia tutta, quella che non ha potuto conciliare a sé lo spirito critico e irrequieto, si direbbe pasoliniano, “irriducibile all’utile” di Vincenzo Consolo. Tutto il Paese ridotto ad un unicum di corruzione e di degrado: In questo Paese, in quest’accozzaglia d’assolvenza, dove lo stato è occupato da cosche o segrete sette di Dévorants…dove tutti ci impegnamo, governo e cittadini, ad eludere le leggi, a delinquere, e il giudice che applica le leggi ci appare come un Judex, un giustiziere insopportabile, da escludere, rimuovere. O da uccidere[69]. L’impossibilità di scrivere un romanzo storico-metaforico su Milano, sperimentata o patita per anni dallo scrittore, si è mutata nella realtà di un rapporto d’amore sofferto — Addio ai luoghi del dolore e dell’affetto[70] –, maturato e approdato compiutamente alla pagina, pur nei modi dell’invettiva pasoliniana, soltanto quando la città lombarda è diventata come tutte le altre città e, in virtù dei suoi mezzi produttivi, forse peggiore delle altre. Di un Paese tale ormai Milano, più che Palermo, è divenuta metafora. Ecco perché, non essendo stato Consolo ad “andare” a Milano, è stata questa, ormai irrimediabilmente mutata, ad “andare” da lui. Da questa odiosamata Milano lo scrittore, attraverso il protagonista del romanzo, dolorosamente si congeda, invocando la compagnia e l’assistenza degli spiriti magni che fecero grande la città e che da tempo costantemente lo confortano[71].

Ebbero un bel dire quanti si indignarono davanti alla dichiarazione, che Consolo fece sulle pagine del “Messaggero”[72], di voler lasciare Milano in caso di vittoria della Lega di Bossi alle elezioni amministrative del 20 giugno 1993. Una dichiarazione che… potrà apparire a chi legge…insensata, carica di esibizionismo, di prevenzione e presunzione, inopportunamente provocatoria, ma credo che essa possa trovare una sua motivazione e legittimità nel fatto che altri intellettuali milanesi – editori, scrittori, giornalisti ben più autorevoli e famosi di me – hanno dichiarato la loro simpatia e adesione politica allo schieramento della Lega Nord e quindi, implicitamente, la loro soddisfazione e felicità nel trovarsi a vivere in una Milano amministrata da domani dai leghisti[73]. Dichiarava che se ne andava specificando: Me ne andrò, voglio chiarire, non in quanto militante dell’altro schieramento politico…ma in quanto cittadino di Milano, in quanto lavoratore, in quanto, è la parola che si usa, un intellettuale[74]. E ancora precisava, data l’omologazione socio-culturale e civile del Paese tutto: Non si è più di nessun luogo. E, d’altra parte, credo che oggi non si possa più fuggire da nessun luogo, penso che siamo prigionieri, a Milano, a Roma, a Palermo, della stessa realtà, affetti tutti dallo stesso male. La mia dichiarazione di lasciare Milano era un gesto simbolico di protesta[75]. Il gesto, è chiaro, di un uomo libero, di uno abilitato a scrivere: Solo pochi scrittori, solo pochi isolati, “non protetti”, hanno sentito il dovere morale di parlare, di battersi per la verità e la giustizia…Lo scrittore rimane solo. Quando Zola affermava reiteratamente “sono uno scrittore libero”, “sono uno scrittore solo” affermava. O solo perché libero[76].

La libertà e il coraggio di elevare una simile protesta, che irritò e inquietò tanta gente[77], gli venivano dall’essere, nonostante egli se ne schermisse, un seguace degli scrittori-intellettuali che osavano partecipare alla vita del Paese con la scrittura cosiddetta d’intervento; dall’essere una persona nella quale non c’era separazione fra l’uomo e lo scrittore, una persona che, nonostante la forza, e in virtù anzi, dei suoi mezzi linguistici, meditava e pesava bene le parole, prima di parlare e scrivere. Una persona che, davanti a quella che i benpensanti gli rimproveravano come una contraddizione evidente la sua scrittura e i suoi interventi pubblici, da una parte, e l’essere pubblicato dalla casa editrice acquisita dal fondatore di Forza Italia, dall’altra, ebbe a confidarmi testualmente: Jano, bisogna imparare a sapere sputare nel piatto in cui si mangia, se si vuole conservare la libertà personale. Questo era Consolo. E a proposito di “contraddizioni” rinfacciate a grandi scrittori, non posso qui sottacere quanto testualmente mi disse, durante una sua visita ad Avola, a una mia esplicita domanda circa il suo “contraddisse e si contraddisse”, Leonardo Sciascia: Dissi questa battuta per gli stupidi[78], per coloro, insomma, che non sanno cogliere la portata, a volte profetica, di determinate dichiarazioni e che si soffermano a guardare non la luna ma il dito che la indica, spesso con esiti di insipienza socio-culturale che porta alla miopia politica e apre strade a scenari regressivi di demagogia, populismi, razzismi e titillamenti di pancia delle cosiddette masse, come quelli che sono sotto gli occhi e sulla pelle di tutti nell’Europa di oggi.

La battuta dello scrittore di Racalmuto mi riportò alla mente il saggio di Miguel De Unamuno Sobre la consecuencia la sinceridad, col quale il filosofo e scrittore basco nel 1906 combatteva contro l’ipocrisia e il perbenismo utilitario di certi intellettuali del suo tempo. Essere coerente, scriveva il pensatore basco, suole significare, la maggior parte delle volte, essere ipocrita. E questo arriva ad avvelenare le sorgenti stesse della vita morale intima[79]…È ridicolo, sommamente ridicolo, chiedere coerenza a un pensatore puro[80]. E ancora nel saggio Mi religión affermava: Il mio più grande impegno è inquietare il mio prossimo[81], la mia religione, insomma, è inquietare gli altri. Nella determinazione di Sciascia e di Consolo ravviso lo stile e la determinazione dell’intellettuale puro che fu Unamuno. E un intellettuale vero non può non essere un pensatore puro. Sciascia e Consolo lo furono entrambi ed entrambi ne pagarono il prezzo. Consolo, ha scritto Concetto Prestifilippo, non esercitava diplomazie linguistiche. Non operava concessioni. Non salvava potentati. Non blandiva accademie. I suoi interventi potevano irritare, non essere condivisi ma erano sempre onesti, veri[82]. Consolo era un irregolare, non era irreggimentabile, era un eccentrico. Non gli hanno perdonato la sistematica diserzione delle adunate, delle parate. Un conto che ha pagato caro a Milano e anche in Sicilia[83]. Un intellettuale contro. Questo è stato il suo paradigma esistenziale[84]. Le parole che chiudono Fuga dall’Etna sono emblematiche a tale riguardo: La mia ideologia o se volete la mia utopia consiste nell’oppormi al potere, nel combattere con l’arma della scrittura, che è come la fionda di David, o meglio come la lancia di Don Chisciotte, le ingiustizie, le sopraffazioni, le violenze, i mali e gli orrori del nostro tempo[85].

Con Lo Spasimo di Palermo, ultima opera fondamentale, che chiude la trilogia aperta da Nottetempo, casa per casa, passando per L’olivo e l’olivastro, la furia verbale ch’era finita in urlo, come s’è detto, s’era dissolta nel silenzio[86], un silenzio che fu al tempo stesso metafisico e reale. Ma poiché anche il silenzio è dolore[87], pur non credendo più nel romanzo, Consolo non rinuncia tuttavia alla scrittura e alla denuncia di uomo libero e solo. Ha giustamente osservato Massimo Onofri che l’afasia cui ci si riferisce non ha né una valenza psicologica né estetica, ma solo storica ed antropologica. Anzi: è proprio a questo livello che la ricerca di Consolo e la sua storia di scrittore sembrano caricarsi di futuro[88] Se il narratore tacque, l’uomo che nel suo intimo coltivava, contro ogni evidenza – spes contra spem – la speranza nella linfa nuova che dal Mediterraneo sarebbe venuta all’Italia e all’Europa intera, non cessava di intervenire in pubblico. La speranza non bisogna mai perderla, aveva dichiarato in un’intervista, io credo nella forza della storia. Malgrado i momenti bui, la storia si schiarisce. Viene la luce. Citando il poeta spagnolo Machado: desperados, esperamos, todavía[89].

Sperava, Consolo, sperava, per esempio, nelle nuove energie vitali che, in tempi di decadimento e di barbarie come quelli che registra attualmente la società del mondo occidentale, sarebbe venuta a noi dai paesi del Maghreb, a rinvigorire e temprare le nostre membra esauste e svigorite dagli eccessi dell’opulenza e dell’irrazionalità. In più d’una occasione ebbe ad auspicare che entro pochi anni i figli e i nipoti degli immigrati di questi nostri anni avrebbero potuto scrivere la loro letteratura, che sarebbe stata anche la nostra. Cosa che realmente si sta verificando da qualche tempo a questa parte. Riferendosi a Ben Jelloun, così annotava lo scrittore: E noi aspettiamo in Italia una voce come la sua che venga dal Maghreb, a far esplodere la nostra lingua, che venga ad arricchire il nostro romanzo[90]. In una intervista a Gianni Bonina Consolo dichiarava: Nel nostro contesto le voci nuove possono essere quelle di quanti arrivano qui e diventano, se non in questa generazione forse nella prossima, italianofoni, portando fantasia e immaginazione, come è successo in Francia e in Inghilterra. Speriamo che i figli dei nostri clandestini possano arrivare ad esprimersi e diventare scrittori e poeti, arricchendo così la nostra letteratura. Nella quale vedo un prosciugamento senza rimedio[91]. Alla luce di queste affermazioni, come non pensare al lavoro svolto in anni recenti in Italia dal giovane scrittore congolese Jadelin Mabiala Gamgbo, autore del romanzo Rometta e Giulieo e, insieme con Piersandro Pallavicini, curatore dell’antologia L’Africa secondo noi[92], nonché a quello di tanti altri autori immigrati?[93] Allora, possiamo arguire, sarà salva la nostra società, perché sarà garantita la salvezza di una memoria storica di ampia matrice mediterranea che oggi traballa e rischia di essere cancellata definitivamente. La nostra società tutta ha bisogno di nuova linfa culturale, senza preclusioni di ordine storico né geografico né etnico. È una prospettiva nuova, oggi per molti scandalosa, sulla quale è necessario riflettere, per sottrarsi ai condizionamenti dell’unidimensionalità alla quale ci costringe la realtà del mondo contemporaneo. Si tratta di una proiezione razionale dell’ethos profondo dello scrittore, che in Di qua dal Faro è calibrata in modi e termini non metaforici, come nelle opere narrative, ma comunicativi, quelli propri della scrittura d’intervento. Ne viene fuori un sostanziale atto di fiducia nelle possibilità dell’uomo, quasi una sorta di profezia che supera di fatto, lungo il percorso di un “orizzonte colloquiale”, come l’ha definito Giulio Ferroni, i tratti, per così dire, pessimistici che porta con sé il tono alto, elaborato, solenne, talora tragico, di quell’articolato e sofferto poema narrativo che è tutta l’opera narrativa di Consolo[94]. A ragione Gianni Turchetta, a conclusione del suo saggio introduttivo al Meridiano Mondadori con l’opera omnia dello scrittore, ha sottolineato che il disincanto e le delusioni non hanno impedito a Consolo di coltivare l’intensità del suo amore per il mondo…Il progressivo incupirsi della sua visione non deve indurci a sottovalutare un altro aspetto fondamentale delle sue scritture: l’instancabile, attentissima, partecipe valorizzazione degli infiniti aspetti del mondo, e più ancora dei soggetti che lo abitano, che giorno per giorno lo fabbricano[95].

Sperava Consolo, sperava e credeva nella poesia, per lui la forma più alta di espressione creativa, quella cui era maggiormente votato e con cui – quasi antico aedo, erede anche della memoria popolare della gente di Sicilia – chiude Lo Spasimo di Palermo, in un disperato urlo catartico, a somiglianza dell’Empedocle della sua pièce Catarsi, con una preghiera, quella preghiera alla quale egli, in Chino Martinez[96], alla fine approda, realizzando un passo avanti rispetto allo Sciascia, che, alla fine del Cavaliere e la morte, s’era fermato muto davanti alla soglia del mistero del tempo[97]. Sperava Consolo, sperava e confidava nei giovani, come dimostra il sostegno dato negli anni a tanti di loro, fra cui Aurelio Grimaldi, Roberto Andò, Roberto Saviano e altri. E nella società di oggi sono i giovani a dare i segnali forti del cambiamento. Quando mai era successo che un italiano figlio di immigrati magrebini riempisse il Forum di Assago, strapieno di giovani, come ha fatto l’estate scorsa il rapper, figlio di tunisini, Ghali Andouni?[98] E come non segnalare, a proposito di giovani artisti legati all’immigrazione magrebina, i nomi della cantautrice italiana ma di origine marocchina Malika Ayane e quello dell’italo-egiziano Alessandro Mahmood[99], che, segno dei tempi nuovi, ha vinto il festival di Sanremo 2019, con tutto lo strascico di polemiche che in ambito politico e mediatico ne è seguito[100] e a conferma, come ha sottolineato più d’uno e come sosteneva Consolo, che l’incontro di culture differenti genera bellezza; nomi, tutti questi, di giovani tra i tanti in cui sperava Consolo. E sappiamo tutti quanta influenza abbia il mondo della musica e dello spettacolo in genere nell’incontro tra i giovani di ogni latitudine, oltre ogni limite e pregiudizio culturale.

Sperava Consolo, e alimentava la speranza degli altri. Voglio ricordare, al riguardo, il mio ultimo incontro con lui, nell’aprile del 2011, nella sua casa di Sant’Agata Militello. Ero andato a trovarlo insieme con Nino De Vita, ed egli, che recava evidenti nel fisico i segni della malattia che lo stava divorando, ci parlava del suo romanzo in programma, ambientato, precisava, nel Seicento e al quale, ripeteva, stava lavorando, come mi aveva in precedenza anche per telefono più volte confermato. E io, forse più per sostenerlo che per intimo convincimento, pensando oltretutto ai tempi lunghi della gestazione dei suoi romanzi, lo incoraggiavo e lo spronavo, come avevo sempre fatto con lui nel corso degli anni. E lui: Sì, Jano, scriverò, scriverò… Illusione che tra metafora e realtà lo accompagnò sino alla fine per la fiducia che egli aveva nella scrittura, in virtù della testimonianza civile di cui per lui la scrittura letteraria era portatrice. E un sospetto, in verità, mi portai dentro alla fine di quell’incontro: che fosse stato lui a sostenere e confortare me con la naturale empatia, con la pietas umana e l’amicizia che mi aveva sempre dimostrato e confermato nel corso degli anni, al punto di non vergognarsi di versare lacrime, in mia presenza, accarezzando le pietre dell’antica Eloro, come stesse accarezzando delle persone, di quelle che, ebbe a dirmi, andando poi via dal sito archeologico e chiedendomi sommessamente scusa, erano passate e vissute tra quelle antiche pietre[101].

 

[1] Il libro, col titolo Sicilia teatro del mondo, e corredato di foto di Giuseppe Leone, fu pubblicato nel 1990 in occasione della 42° sessione del “Premio Italia” della RAI, che si tenne in Sicilia. L’anno successivo l’opera fu pubblicata in edizione economica col titolo La Sicilia passeggiata.

[2] Cfr. V. Consolo, Sicilia paseada, Ediciones Taspiés, Granada 2016, pp. 9-14.

[3] Il racconto è stato pubblicato in trentaduesimo a Napoli nel 2001 dalle Edizioni Dante e Descartes.

[4] V. Consolo, Op. cit., p. 12.

[5] Ivi, p. 13.

[6] G. Traina, Vincenzo Consolo, Cadmo, Fiesole 2001, p. 32.

[7] S. Mazzarella, Dell’olivo e dell’olivastro, ossia d’un viaggiatore, in “Nuove Effemeridi” a. VIII, n. 29, p.58.

[8] V. Consolo, La Sicilia passeggiata, ERI, Torino 1991, p. 5.

[9] Cfr. S. Burgaretta, L’illusione di Consolo e la Sicilia paseada, in “Notabilis”. A. IX, n. 3, maggio-giugno 2018, pp. 26-28.

[10] V. Consolo, Le pietre di Pantalica, Mondadori, Milano 1988, p. 179.

[11] Ivi, pp. 154 ss.

[12] AA. VV. ‘Nfernu veru. Uomini e immagini dei paesi dello zolfo, Edizioni Lavoro, Roma 1985.

[13] V. Consolo, La pesca del tonno in Sicilia, Sellerio, Palermo 1986.

[14] V. Consolo, Vedute dello Stretto di Messina, Sellerio, Palermo 1986. Sull’attenzione dello scrittore allo Stretto di Messina cfr. V. Consolo – N. Rubino, Fra contemplazione e paradiso. Suggestioni dello Stretto, Sicania, Messina 1988.

[15] Era uscito sul “Messaggero” del 30 novembre 1993.

[16] Cfr. V. Consolo, Così la Sicilia ingrata tradì il paladino Mimmo, in “Il Messaggero”, 8 gennaio 1995; Idem, Retablo siciliano, in S. Burgaretta, Retablo siciliano. I colori dell’epos nella Casa-museo “Antonino Uccello”, catalogo dell’omonima mostra tenutasi al Museo Teatrale alla Scala. Museo Teatrale alla Scala, Milano 1997, pp. 17-20.

[17] V. Consolo, La rinascita del Val di Noto, Bompiani, Milano 1991.

[18] Cfr. M. A. Cuevas, Introdución, in V. Consolo, A este lado del Faro, Editorial Parténope, Valencia 2008, p. 10.

[19] V. Consolo, Di qua dal Faro, Mondadori, Milano, p. 283.

[20] V. Consolo-N. Rubino, Op cit., p. 7.

[21] V. Consolo, L’olivo e l’olivastro, Arnoldo Mondadori, Milano 1994, p. 106.

[22] Ivi, p. 113.

[23] Ivi, p. 18.

[24] V. Consolo, Di qua dal Faro, cit., p. 39.

[25] Cfr. S. Burgaretta, I saggi di Consolo, un commento ai suoi romanzi; in “Stilos”, 23 novembre 1999.

[26] Cfr. S. Burgaretta, La parola che salva, in “Annali 12”, a. XX, 2003, Centro Studi Feliciano Rossitto, Ragusa 2004, pp. 298-299; Idem, Il beato Antonio Etiope, profeta dell’accoglienza, nel rinnovato culto degli avolesi, in Idem, Uomini e santi, vol. I, Armando Siciliano Editore, Messina-Civitanova Marche 2019, pp. 102 ss.

[27] M. D’Anna, I “dialoghi mediterranei”, in “La Sicilia”, 13 settembre 2018.

[28] G. Amato, Attenti al rischio intolleranza; il virus sta sconvolgendo la natura del popolo siciliano, in “la Repubblica”, 21 agosto 2018.

[29] V. Consolo – L. Manconi, Perché non ha senso essere razzisti, in “Sette” del “Corriere della sera”, 26 novembre 1992, p. 38.

[31] R. Andò, Vincenzo Consolo: la follia, l’indignazione, la scrittura, in “Nuove Effemeridi”, cit., p. 12.

[32] V. Consolo, Ai disperati non servono musei, in “la Repubblica”, edizione di Palermo, 22 agosto 2004.

[33] Cfr. A. Cusumano, I migranti senza valigie nelle stanze della memoria, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 35, gennaio 2019.

[34] G. Giordano, “Il libro? Deve ferire”, in “Giornale di Sicilia”, 24 dicembre 1988.

[35] V. Consolo, Di qua dal Faro, cit., p.213.

[36] Ivi, p. 215.

[37] Ivi, p. 239.

[38] F. Merlo, La nave della resistenza, in “la Repubblica”, 23 agosto 2018.

[39] F. Braudel, Civiltà e Imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, vol. I, Einaudi, Torino 1976, pp. 921-922

[40] V. Consolo, Il Mediterraneo tra illusione e conflitto nella storia e in letteratura, in G. Interlandi (a c d), La salute mentale nelle terre di mezzo. Per costruire insieme politiche di inclusione nel Mediterraneo, in “Fogli d’informazione”, terza serie, nn. 13-14, gennaio-giugno 2010, p. 7.

[41] V. Consolo, Di qua dal Faro, cit., pp. 217-222; cfr, inoltre, A. Campisi – F. Pisanelli, Memorie e racconti del Mediterraneo: l’emigrazione siciliana in Tunisia tra il XIX e il XX secolo, Mc éditions, Tunisi 2015, A. Campisi, Il pericolo è alle “nostre porte”. L’invasione siciliana in Tunisia tra il XIX e il XX secolo, in “Dialoghi mediterranei”, www.istitutoeuroarabo.it, n. 33, settembre 2018.

[42] Cfr. I muri d’Europa, in  www.nuovosoldo.it

[43] Cfr. V. Consolo, Nottetempo, casa per casa, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1992, pp.173-175; cfr. G. Traina, Op. cit., p. 33.

[44] V. Consolo, Memoriale di Basilio Archita, in Idem, Le pietre di Pantalica, cit., pp. 187-195. Il racconto, ispirato a un fatto di cronaca, era già uscito, quattro anni prima, con il titolo E il capitano ordinò: buttateli agli squali! In “L’Espresso”, 3 giugno 1984, pp. 55-64.

[45] F. Di Legami, Vincenzo Consolo, Pungitopo, Marina di Patti 1990, p. 43.

[46] V. Consolo, Lo spasimo di Palermo, Mondadori, Milano 1998, pp. 40-41.

[47] G. Bonina, In nome della nostra legge, in “La Sicilia”, 27 settembre 1998.

[48] Cfr. S. Burgaretta, L’illusione di Consolo, art. cit.

[49] V. Consolo, L’olivo e l’olivastro, Op. cit., p. 125.

[50] V. Consolo, Il boato di Santa Rosalia, in “L’Unità”, 6 agosto 1998.

[51] L. Sciascia, La palma va a nord, Gammalibri, Milano 1982.

[52] G. Bonina, Art. cit.

[53] G. Marrone, Consolo risveglia l’eco di parole dimenticate, in “L’Ora”, 14 aprile 1992.

[54] C. Medail, C’era il diavolo a Cefalù. Ma poi arrivò Mussolini, in “Il Corriere della sera”, 21 marzo 1992.

[55] O. del Buono, Sicilia con furore, in “Panorama”, 16 ottobre 1988, p. 137.

[56] A. Rossi, Il “contastorie” del bel tempo che fu, in “Grazia”, 30 ottobre 1988, p. 97.

[57] D. Alighieri, Purgatorio, VI, vv. 125-126.

[58] M. Onofri, I miracoli della poesia, in “Diario della settimana”, 7 ottobre 1998.

[59] L. Canali, Che schiaffo la furia civile di Consolo, in “L’Unità”, 7 ottobre 1988.

[60] Dalla registrazione del discorso che Consolo tenne ad Avola l’11 dicembre 1998, in occasione della presentazione, da me organizzata, dello Spasimo di Palermo. Cfr. anche L. Faraci, Ho scritto il romanzo per narrare le nostre perdite, in “La Sicilia”, 13 dicembre 1998.

[61] V. Consolo, Lo spasimo di Palermo, cit., p. 37.

[62] Ivi, p. 91.

[63] Ivi, p.88.

[64] Ivi, p. 105.

[65] Ivi, p. 91.

[66] Ivi, pp. 127-128.

[67] Ibidem.

[68] C. Prestifilippo, Parole contro il potere. Vincenzo Consolo, ritratti e lezioni civili, Navarra Editore, Marsala, 2013, p.69.

[69] Ivi, pp.129-130.

[70] Ivi, p. 93.

[71] Cfr. S. Burgaretta, Il Gran Lombardo schiavo dell’utile, in “la Sicilia”, 10 dicembre 1998.

[72] V. Consolo, Tu non mi avrai, città dei leghisti, in “Il Messaggero”, 20 giugno 1993.

[73] V. Consolo, Fuga dall’Etna, Donzelli Editore, Roma 1993, p. 5.

[74] Ivi, p. 4.

[75] Ivi, pp.68-69.

[76] V. Consolo, Di qua dal Faro, cit., p. 197.

[77] V. Consolo. Fuga dall’Etna, cit., p. 69.

[78] Cfr. S. Burgaretta, La nota dissonante, in “Il Giornale di Scicli”, 9 febbraio 2003.

[79] M. De Unamuno, Ensayos, tomo I, Aguilar, Madrid 1966, p. 849.

[80] Ivi, p. 855.

[81] M. De Unamuno, Ensayos, tomo II, Aguilar, Madrid 1966, p. 373.

[82] C. Prestifilippo, Op. cit., p.8.

[83] Ivi, p.12.

[84] Ivi, p. 13.

[85] V. Consolo, Fuga dall’Etna, cit., p.70.

[86] Cfr. la nota n. 59.

[87] Cfr. l’epigrafe in esergo con la citazione dal Prometeo incatenato di Eschilo.

[88] M. Onofri, Nel magma italiano: considerazioni su Consolo scrittore politico e sperimentale, in A A. V V. Per Vincenzo Consolo, a cura di Enzo Papa, Manni, San Cesario di Lecce 2004, p. 66.

[89] C. Prestifilippo, Op. cit, p. 27.

[90] V. Consolo, Di qua dal Faro, cit., p. 235.

[91] G. Bonina, Art. cit.

[92] AA. VV. , L’Africa secondo noi, a cura di P. Pallavicini e J.M. Gangbo, Edizioni dell’Arco, Pavia 2002.

[93] C’è da segnalare che da una ventina d’anni si va sviluppando in Italia una letteratura che è opera di immigrati che scrivono adottando la lingua italiana. Tra di essi sono Pap Khouma, Saidou Moussa Ba, Mohamed Bouchane, Mbacke Gadji, Amara Lakhous, Igiaba Scego e altri.

[94] Cfr. S. Burgaretta, I saggi di Consolo, un commento ai suoi romanzi, in “Stilos”, art. cit.

[95] G. Turchetta, Da un luogo bellissimo e tremendo, in V. Consolo, L’opera completa, Mondadori, Milano 2015, p. LXXIV.

[96] V. Consolo, Lo spasimo di Palermo, cit., p. 131.

[97] L. Sciascia, Il cavaliere e la morte, Adelphi, Milano 1988, pp. 90-91.

[98] Cfr. L. Bolognini, Ghali:“Dovrei esser pieno di amici, invece ne ho persi la metà, in “la Repubblica”, 11 settembre 2018, p. 35; G. Castaldo, Lasciatemi cantare, sono un italiano di nome Ghali, in “ la Repubblica”, 29 dicembre 2018, p. 34.

[99] Cfr. C. Moretti, Mahmood”Faccio Morocco pop nel segno di mio padre”, in “la Repubblica”, 6 febbraio 2019, p. 32.

[100] Cfr., fra l’altro, A. Laffranchi, Mahmood: italiano al 100°/° cresciuto in periferia tra i cantautori di mamma e la musica araba di papà, in “Corriere della Sera”, 11 febbraio 2019, p. 13; R. Franco, Sanremo, polemiche e veleni sulla finale. E la politica “sale” sul palco dell’Ariston, Ivi, p. 12; S. Fumarola, Sanremo, Mahmood l’italiano trionfo che spacca la politica, in “la Repubblica”, 12 febbraio 2019, p. 2; L. Bolognini, Nella periferia di Mahmood “È il mio mondo, io resto qui”, in “la Repubblica”, 18 febbraio 2019, p. 18.  

[101] Cfr. S. Burgaretta, Alle soglie del témenos, in M. Maugeri (a c d), Letteratitudine 3, LiberAria Editrice, Bari 2017, p. 350; Idem, L’illusione di Consolo e la Sicilia paseada, cit., p. 28.



foto di Claudio Masetta Milone

Milano, 6 – 7 marzo 2019
Università degli Studi
Sala Napoleonica via Sant’Antonio 10/12

Nello scriptorium barocco di Vincenzo Consolo: riprese e ribaltamenti letterari in Retablo

Nicola Izzo

Negli anni Ottanta, la produzione di Consolo è contraddistinta dalla stilizzazione barocca, che raggiunge il suo culmine con Retablo (1987), opera-laboratorio e straordinario compendio letterario. Tale studio si concentra sulla pratica di riscrittura espletata dall’autore siciliano, che, quale il Pierre Menard autore del Chisciotte borgesiano, ricrea e rivisita testi importanti della letteratura italiana (Leopardi, Ariosto) ed europea (Goethe, Jaufré Rudel, Eliot).

Parole chiave:Consolo , Retablo , Leopardi , Ariosto , Genette , intertestualità , palinsesto , parodia , ribaltamento

1 Retablo è un che si contraddistingue per la sua fitta stratificazione linguistica e letteraria, che va a termine – declinandosi attraverso un’abile e ricercata commistione di prosa e lirismo, raffinato pastiche espressionistico di toni e stili un vero e proprio palinsesto, che richiama quanto teorizzato da Gerard Genette a proposito della letteratura della seconda metà del Novecento (Genette 1982). L’intento di tale studio è pertanto di penetrare tra i vari livelli dell’opera, alla ricerca dei numerosi riferimenti intertestuali presenti, estrinsecandone in modo speciale i giochi di parodie e ribaltamenti operati da Consolo.
A ciò va premio che la struttura di Retablo ricalca quella dell’omonimo polittico e che la comp (…)

2 Il primo obiettivo è quello di analizzare il modo in cui i personaggi dell’opera interagiscono all’interno del microcosmo consolano. La passione che lega frate Isidoro a Rosalia e il sentimento di Fabrizio Clerici sono manifestazioni di due opposte concezioni amorose, che rimandano a topoi medievali attestati repertorio della letteratura.
3 Per quanto riguarda Isidoro: «Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, ro (…)
Alle prime intense parole d’ordine di utilizzatore», non notare quanto esse presentino le medesime caratteristiche li forma che Guiette identificava nel modello utilizzato, riconoscevi «la supremazia dell’ordine estetico utilizzato per il suo valore incantatorio» e sublimato « ove «il linguaggio verrà utilizzato per suo valore incantatorio» e sublimato « dalla sua collocazione, dal suo volume, dall’uso che ne viene fatto» (Guiette 1990: 140).
4 La vexata quaestio sul nome del giullare autore dell’opera è tuttavia risolta più avanti da Conso (…)
Il racconto di Isidoro e Rosalia è affiancabile al contrasto di Cielo o Ciullo d’Alcamo, Rosa fresca aulentissima , breve composizione che il De Sanctis identificava come il primo testo della letteratura italiana (De Sanctis 1981: 59) e che rielaborava il modello della pastorella (sottogenere della lirica medievale che Bec inserimento nel registro popolareggiante) (Formisano 1990: 123) attraverso la «rottura del contrasto un po’ meccanico fra il portatore delle convenzioni cortesi e la detentrice dell’istintiva diffidenza e riottosità dell’ambiente plebeo» ( Pasquini 1987: 119).
5 Alcune concordanze possono anche il gioco evidenziabili e confermerebbero letterario operato dallo scrittore siciliano:
Ahi, non abènto , e majormente ora ch’uscii di Vicarìa (Consolo 1987: 19).
Per te non ajo abènto notte e dia (Rosa fresca aulentissima, str. I, v. 4).

O ancora:
[…] la quale m’illudeva che, giunti a un numero bastevole di onze , smesso il saio, avrei impalmato la figlia sua adorata Rosaliuzza (Consolo 1987: 23).
Intendi bene ciò che bol[io] dire?
men’este di mill’ onze lo tuo abere (Rosa fresca aulentissima, str. XVIII, vv. 4-5).
Il rivolgersi in prima persona al proprio amato scandendone il nome in funzione vocativa richiamerebbe una certa teatralità, non estranea all’ambito giullaresco e popolaresco (Apollonio 1981: 107-109); tuttavia, alle prime intense evocazioni dei due incipit di Oratorio e Veritas , vi sono due cesure orientate ad includere le due opposte della versione vicenda che deve l’ini afflato lirico-sentimentale a una struttura dal respiro diegetico più ampio, la cui vivacità e concretezza ricondurrebbero alla tradizione dei fabliaux .

6 Un modesto chierico e un’umile popolana si configurano come due protagonisti ideali di un ipotetico fabliau , dacché, come afferma Charmaine Lee «i frequentatori di questi luoghi ci vengono descritti con abbondanza di dettagli, e quasi con una sorta di compiacimento nel ritrarre gli aspetti più bassi della realtà» ( Lee 1976: 27) . E racconto senso di concretezza si declina nell’accezione tutta erotica dell’amore che congiunge i due protagonisti.
5 Cfr. «[…] la narrativa dei fabliaux , sbrigativa e salace, imperniata su personaggi della borghesi (…)

7 Considerata la coscienza tabuizzata medievale, l’oscenità andava infatti a costituire un serbatoio rilevante di temi per i fabliaux ; seppure tale licenziosità non fosse affatto l’esito di menti pretestuosamente lubriche, bensì espressione di un carnevalesco e faceto senso del contrario che si risolveva nella parodia del modello di riferimento, ovvero quel fin’amor cortese che plasmava il modello curiale e che in Retablo è riconoscibile nel racconto di Fabrizio intorno al quale ruota il secondo capitolo dell’opera, Peregrinazione 5 .

8 Questo senso del contrario è rilevabile anche attraverso la maniera in cui Isidoro e Rosalia utilizza l’immaginario religioso. Le fattezze di Rosalia nella mente d’Isidoro si ricollegano alla statua dell’omonima Santa (Consolo 1987: 19), così come l’aspetto del fraticello viene da lei giudicato «torvo, nero come un san Calogero» (Consolo 1987: 194) paragonato al giovane «biondo e rizzuto come un San Giovanni» (Consolo 1987: 194) di cui ella s’infatua all’inizio del racconto. Tale operazione di sniženie bachtiniano, di iconoclastico abbassamento sul piano materiale e corporeo di figure spirituali (invero giocato al limite della blasfemia), porta con sé una non trascurabile carica di irriverenza; e al devotamente suscettibile uditorio medievale non poteva che destare il riso (o quantomeno suscitarne lo scandalo) (Bachtin 1979: 25).

9 L’amore che lega Rosalia ed Isidoro è un sentimento denso di passione e di sensualità, che, come canta Ariosto, «guarda e involva e stempre/ogni nostro disegno razionale» (Ariosto 1976: XIII, 20) e che alla fine conduce all ‘insania il protagonista. Tale immagine di follia amorosa – «questo furore che riduce l’uomo, come quel paladin famoso, a nuda e pura bestia, privato vale a dire del cervello» (Consolo 1987: 58) – non può che rievocare le mirabolanti vicende dell’Orlando Furioso, verso cui lo scioglimento di alcuni nodi intertestuali riconduce il lettore di Retablo.
10 Già lo stesso elegiaco lamento di Isidoro, che occupa le pagine iniziali di Oratorio , rende assimilabile la percezione del proprio sentimento a quell’effetto insieme inebriante e stuporoso cantato dall’Ariosto:

[…] libame oppioso, licore affatturato, letale pozione (Consolo 1987: 17).

«e questo hanno causato due fontane
che di effetto liquore
ambe in Ardenna, e non sono lontane:
d’amoroso disio l’una empie core;
che bee de l’altra, senza amor rimane» (Ariosto 1976: I, 78).

6 Ma anche Ariosto 1976: X, 46: «il suo amore ha dagli altri differenza:/speme o timor negli altri (…)Passione che logora e consuma, provocando quel «duol che sempre il rode e lima» (Ariosto 1976: I, 41) 6 , ea cui Consolo in Retablo conferisce maggiore carnalità rispetto all’accezione intellettuale ariostesca:
lima che sordamente mi corrose l’ossa (Consolo 1987: 18).
che ‘l poco ingegno ad o ad o mi lima (Ariosto 1976: I, 2).
Tale poche erotismo viene riassunto nelle righe che narrano della ben celata dote del fraticello,
[…] e t’appressasti a me che già dormivo, ah Isidoro, Dio benedica, io subito m’accorsi che la bellezza tua stava nascosta. Bella, la verità (Consolo 1987: 194). E che rievocano parodisticamente uno dei più salaci episodi ariosteschi, quello di Bradamante, Ricciardetto e Fiordispina.

E se non fosse che senza dimora

Vi potete chiarir, non credereste:

e qual nell’altro sesso, in questo ancora

ho le mie voglie ad ubbidirvi preste.

Commandate lor pur, che fieno o ora

e sempre mai per voi vigile e deste.

Così le dissi; e feci ch’ella istessa

Trovò con man la veritade espressa (Ariosto 1976: XXV, 65)

11 La voluttuosa follia di Isidoro, in cui convivono illusione e eros, è al centro anche di Peregrinazione , secondo capitolo di Retablo in cui – invertendo lo schema diegetico ariostesco in cui un chierico, Turpino, narrava la furia del cavaliere Orlando – il cavaliere Fabrizio narra le penose conseguenze della passione del fraticello «che per amor venne in furore e matto» (Ariosto 1976: I, 2)
[…] divenne matto: crollato in terra, si contorse, schiumò, lacerossi gli abiti, la faccia, quindi nel vico si diede a piangere, a urlare come un forsennato (Consolo 1987: 186).

E poi si squarciò i panni, e mostrò ignudo

l’ispido ventre e tutto ‘l petto e ‘l tergo;

e cominciò la gran follia, sì orrenda,

che de la più non sarà mai ch’intenda. (Ariosto 1976: XXIII, 133)
D’altronde al lettore colto di Retablo non sarà sfuggito che il racconto di Fabrizio Clerici si avvicina per rutilante vitalismo, visività e inventiva all’opera ariostesca, ovvero a quell’ideale di rappresentazione della vita «nella sua più reale consistenza e nelle sue fughe fantastiche e irreali» (Consolo 1987: 63).

12 Il viaggio di Fabrizio in Sicilia presenta, attraverso efficaci immagini e ironici capovolgimenti, una realtà in cui il confine con la menzogna risulta labile, ove ci si imbatte in «venditori d’incanti e illusioni» (Consolo 1987: 63), in retablos de las maravillas che trasportano in lontani castelli d’Atlante in cui «a tutti par che quella cosa sia,/ che più ciascun brama e desia» (Ariosto 1976: XII, 20), attraverso una lunga e immaginifica sequela di visioni in cui sfilano anche io potenziale:
Ecco che in mezzo a voi passa, sul suo destrier bianco e lo stendardo in mano del Redentore nostro Gesù Cristo, seguito da’ chiari e baldi, dai più arditi cavalèr normanni, il Conte magno, Roggiero d’Altavilla, il grande condottiero che l ‘isola liberò dal giogo saracino […] (Consolo 1987: 65).
A tal proposito, è d’uopo rimarcare che Consolo, richiamando il poema ariostesco, ne dissolve il proposito encomiastico in un ironico rovesciamento di prospettiva, in linea con i suoi propositi critici ed estetico-ideologici. L’autore di Retablo è stato uno scrittore permanentemente protetto alla ricerca della verità, in lotta contro le falsificazioni imposte dai poteri costituiti, rappresentati un tempo proprio da quella cavalleria cantata da Ludovico Ariosto, e di cui con sarcasmo egli mette in dubbio i valori, come è evidenziabile in questo passaggio: «voglia il cielo che in fatto d’armi, di violenze e guerre, valga comunque e sempre la finzione» (Consolo 1987: 112).
13 Valori dissolti in una dimensione etica che appare infatti contraddittoria, ambigua, manipolata. Sa lo scrittore siciliano che l’asservimento è costume troppo frequent, come deplorava già San Giovanni ad Astolfo riconoscendo «la giù ruffiani, adulatori, / buffon, cinedi, accusatori, e quelli/che viveno alle corti e che vi sono/più grati assai che ‘il virtuoso e ‘l buono» (Ariosto 1976: XXXV, 20) e come Fabrizio stigmatizza nella sua invettiva a mo’ di serventese, scagliandosi contro «l’impostore, il bauscia, ciarlatan» (Consolo 1987: 128).
14 In Retablo , Consolo si confronta soprattutto con il tema metaletterario della mistificazione artistica ad uso del potere, rappresentato da «il falso artista, el teatrant vacant e pien de vanitaa» e dal «poeta dalla putrida grascia brianzola» (Consolo 1987: 128), domanda che già Ariosto aveva posto cinque secoli o sono:

Non fu sì santo né benigno Augusto

Come la tuba di Virgilio suona.

L’aver avuto in poesia buon gusto

La proscrizion iniqua gli perdona (Ariosto 1976: XXXV, 26)
Chiedendosi se in «questo che tutti chiamano il teatro del gran mondo, vale sovente la rappresentazione, la maschera, il romore vuoto che la sostanza vera della realtate» (Consolo 1987: 112).

15 Come accennato in precedenza, al sentimento segnato dalla carnalità e dalla sensualità di Isidoro si contrappone l’aureo amore ideale di Fabrizio, narratoci da lui stesso in Peregrinazione.
7 Albertocchi (2005: 95-111) dedica un esauriente articolo alla reale figura storica di Teresa Blas (…)

16 Già in epigrafe Consolo consegna al lettore attento e meticoloso la chiave per aprire il portello centrale di Retablo, dove ci viene narrato il sentimento di Fabrizio Clerici per la contessina Teresa Blasco 7:

Avendo gran disio,

dipinsi una figura

bella, a voi somigliante.

Come in questa canzonetta Jacopo da Lentini rielabora e adatta al proprio substrato culturale stilemi e temi della lirica trobadorica provenzale, l’autore di Retablo svolge in questo capitolo – riprendendolo e proponendone un’ironica lettura in prospettiva postmoderna – il leitmotiv del fin’amor , l’amore inteso come suprema forma di affinamento spirituale. Fin’amor che contrapponendosi al fals’amor , l’amore nel senso carnale che lega Isidoro a Rosalia, va a formare una struttura a chiasmo in cui le due coppie – Isidoro e Rosalia, Fabrizio e Teresa – si pongono l’una al polo contrario dell’altra.

17 In Retablo sono presenti quei già largamente attestati nella retorica mediolatina che tutti i simboli devono riconoscersi subito quali importanti punti di riferimento per l’interpretazione artistica e il cui ricorso implicava, per i poeti, collocarsi nell’alveo di una tradizione consolidata e insieme approfondirla (Di Girolamo 1989: 36).
8 Per il lessico specifico trobadorico, oltre ai già citati testi di Formisano e Di Girolamo, si ri (…)
9 È Fabrizia Ramondino, estimatrice e critica della prima ora di Retablo , a suggerire, nella sua re (…)
10 Questi versi e quelli successivi sono ripresi da Roncaglia 1961: 304-307.

18 Sin dalla dedicatoria il cavaliere Fabrizio pone in risalto la sottomissione alla sua domna 8 , doña Teresa, raffigurata come sublime figura («donna bella e sagace, amica mia, che un padre di Spagna e una madre di Sicilia ornaro di virtù speciali», Ret .:33) attorniata da una turba di savai , uomini vili («sciocchi e muffi e mercantili», Ret .: 33). E, mentre procede egli nella sua quête 9 cavalleresca, il pittore milanese vagheggia della propria amata, la cui dimensione platonica viene caricata da Consolo nei suoi tratti d’irraggiung. irraggiungibilità che si collega al tema della distanza (e quan me sui partitz de lai/remembram, d’un amor de lonh ) 10 che nel fitto repertorio della letteratura provenzale è trattato da Jaufré Rudel.
11 Si rimanda per un rapido sunto ancora a Di Girolamo 1989: 63, e approfonditi da Picone 1979. Si c (…)12 Ibidem.

19 Quelle che rimangono ad oggi alcune delle più interessanti interpretazioni date all’ amor del lonh rudeliano 11 sono sovrapponibili al sentimento di Fabrizio ea «quel volontario vallo», «gelida distanza» (Consolo 1987: 76) che pone egli tra sé e la sua dama. L ‘amor de lonh di Fabrizio Clerici traduce in concreto quel sottile senso di angoscia compendiato nel paradosso cristiano di un «reale irreale» (il mondo invisibile esiste mentre quello visibile non ha nessuna esistenza) 12, come del resto conferme le sue inquietudini metafisiche («cos’è mai questa terribile, meravigliosa e oscura vita, questo duro enigma che l’uomo sempre ha declinato in mito, in racconto favoloso, […]?», (Consolo 1987: 134)). Da qui laperegrinazione come forma di affinamento spirituale.

20 Tuttavia, questo esemplare riconducibile al filone dell’amor cortese viene anch’esso capovolto in Retablo . Come è narrato nella sua vida , Jaufré Rudel dirigeva il suo amore verso la Contessa di Tripoli, donna che non aveva mai visto, ma di cui aveva ascoltato la descrizione, procedendo dunque dall’ideale al concreto. Al contrario, Fabrizio vagola alla ricerca di un’astrazione da ricondurre al concreto modello di partenza, di un «frammentario brano di poesia o d’un eccelso modello di beltà» (Consolo 1987: 77). Questo di Fabrizio è un amore dunque perfettamente intellettualistico, totalmente contemplativo, e che nulla concede al desiderio de «le carni ascose immaginate» (Consolo 1987: 172).

21 Tale eccesso di mezura – per usare un efficace ossimoro – non porta ad alcuno forma di elevazione e perfezione spirituale quale prevista dal fin’amor . Il nostro protagonista, alla fine della sua peregrinazione, si ritroverà più smarrito di prima e l’unico cambiamento inferto alla sua condizione di partenza sarà la notizia del matrimonio tra la sua amata Teresa Blasco e il Marchese Cesare Beccaria.

22 In Retablo, nel finale, si verifica anche questo estremo ribaltamento dello schema di riferimento: il protagonista non accetterà il «compromesso» che è posto alla base del fin’amor : all’ amor del lonh preferirà un’errabonda solitudine e alla servitium amoris un prematuro comiat : «Ora addio, donna bella e sagace, che foste amica mia. Addio Teresa Blasco, addio marchesina Beccaria» (Consolo 1987: 189).
13 Dietro i personaggi del Cavaliere Fabrizio e del suo servo Isidoro che compiono il loro Grand Tou (…)

23 Siamo giunti in questo modo alla fine del percorso compiuto dai protagonisti, percorso che presenta molti tratti assimilabili alla tradizione della narrativa picaresca 13. Tuttavia, poiché poiché Consolo rovescia anche la struttura del Bildungsroman , Fabrizio, alla fine del suo cammino, non avrà raggiunto né una crescita interiore, né tantomeno una calma accettazione del presente, ma vivrà per sempre con quello che definisce un «dolore senza nome» (Consolo 1987: 140).

24 Questo senso di ineluttabilità non è soltanto un’angoscia individuale, ma in Retablo si collega alla concezione postmoderna della Storia, («[…] noi naufraghi di una storia infranta», (Consolo 1987: 146)), di cui è andata persa l ‘idea di causalità. Ed è in questa atmosfera rarefatta di disincanto che riecheggiano i versi del Leopardi, la cui memoria letteraria è importante anche per l’analisi dell’altra grande opera barocca di Consolo, Lunaria (Consolo 1985 e 1996) , pubblicata due anni prima di Retablo . Il dialogo col poeta di Recanati non è solo poetico, ma anche filosofico, in quanto il pessimismo di Fabrizio Clerici è assimilabile a quello che pervade i Canti leopardiani.

25 Inequivocabili sono le concordanze con L’infinito :
sedendo e mirando , e ascoltando… (Consolo 1987 : 101)
14 Si veda Leopardi 2007 (qui e di seguito, per tutte le citazioni leopardiane).
Ma sedendo e mirando … (L’Infinito , v. 4) 14

26 E con La Ginestra :
O secol nostro superbo di conquiste e di scienza, secolo illuso, sciocco e involuto!» (Consolo 1987: 128)
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco (La Ginestra, vv. 52-53)
15 È doveroso qui richiamare Alejo Carpentier e il suo El Siglo de Las Luces, romanzo storico pubbli (…)

Il pessimismo storico di Leopardi viene da Consolo tradotto nello scetticismo antilluministico di Fabrizio Clerici («peggiori di quanto noi pensiamo sono i tempi che viviamo!»; Consolo 1987: 42) che porta questi ad allontanarsi dalla Milano illustri dove intellettuali come i fratelli Verri e Cesare Beccaria, l’autore del saggio Dei delitti e delle pene, che diffondendo le nuove idee del Secolo dei Lumi 15.

27 La critica antistoricistica postmoderna si esprime in Retablo attraverso la caduta del mito del progresso. E, riflesso nella finzione romanzesca settecentesca, è riconoscibile il giudizio che dà l’autore agli anni Ottanta del Novecento, anni in cui alla composizione letteraria egli affianca la pratica giornalistica. La Milano tanto odiata da Fabrizio Clerici è la stessa città contro cui l’autore scaglia la propria invettiva. Erano quelli gli anni del governo socialista di Bettino Craxi (che darà vita dieci anni dopo allo scandalo di Tangentopoli) e in cui in Italia c’era una diffusa idea di benessere. Consolo, da grande intellettuale, individua proprio in quel periodo la nascita del degrado sociale e culturale italiano, e non esita a condannarlo dalle pagine del suo romanzo:
Arrasso, arrasso, mia nobile signora, arrasso dalla Milano attiva, mercatora, dalla stupida e volgare mia città che ha fede solo nel danee, ove impera e trionfa l’impostore, il bauscia, il ciarlatan, il falso artista, el teatrant vacant e pien de vanitaa, il governante ladro, il prete trafficone, il gazzettier potente, il fanatico credente e il poeta della putrica grascia brianzola. Arrasso dalla mia terra e dal mio tempo, via, via, lontan! (Consolo 1987: 128)
Al tema storico di Retablo si coniuga anche il tema metafisico del Tempo. Uno dei temi più ricorrenti nell’opera di Consolo è proprio il «male di vivere», la profonda consapevolezza della caducità delle cose. Le rovine di antiche civiltà presenti durante la Peregrinazione dei nostri protagonisti ci vengono come destino «simboli indecifrati ed allarmanti» (Consolo 1987: 42), manifestazioni della contingenza che domina il destino dell’Uomo.

28 Fabrizio si reca tra gli antichi templi siciliani per abbandonare il concetto di Tempo escatologico e tornare al Tempo classico e circolare del mito e finalmente ritrovare ristoro dalle proprie angosce nella «stasi metafisica» (Consolo 1987: 40).
16 Il viaggio del grande autore di tedesco si svolge tuttavia nel 1787, circa un ventennio dopo quel (…)

29 Il tour siciliano di Fabrizio avviene nella stessa epoca in cui si colloca un altro importante resoconto di viaggio, quasi parallelo al tour del nostro protagonista, quello di Goethe in Sicilia 16 , parte centrale del suo tour italico alla ricerca delle radici culturali e civili dell’ Occidente. Il grande poeta – che all’epoca aveva trentasette anni, nel pieno del suo fulgore artistico – arriva in Sicilia dopo averto le raffinate suggestioni di Venezia, l’eleganza colorata rinascimentale di Ferrara, la maestosità di Roma, la confusa e vivacità di Napoli , ed aver goduto sia dei diversi paesaggi culturali sia dei vasti campionari minerali, vegetali e paesaggistici offerti dalla penisola.

30 Alle tre pomeridiane del 2 aprile, allo sguardo estasiato del poeta tedesco, si offrì «il più ridente dei panorami», Palermo:
La città, situata ai piedi d’alte montagne, guarda verso nord; su di essa, conforme all’ora del giorno, splendeva il sole, al cui riverbero tutte le facciate in ombra delle case ci apparivano chiare. A destra il Monte Pellegrino con la sua elegante linea in piena luce, a sinistra la lunga distesa della costa, rotta da baie, penisolette, promontori. Nuovo fascino aggiungevano al quadro certi slanciati alberi dal delicato color verde, le cui cime, illuminate di luce riflessa, ondeggiavano come grandi sciami di lucciole vegetali davanti alle case buie. (Goethe 1983: 255-257)
Il medesimo spettacolo si offre a Fabrizio, assalito sul ponte nave dalle prime impressioni antelucane di una Palermo immersa nell’incantevole aria mattutina e inondata di luce:
[…] in oscillìo lieve di cime, arbori, guglie e campanili, in sfavillìo di smalti, cornici e fastigi valenciani, matronali cupole, terrazze con giare e vasi, in latteggiar purissimo de’ marmi nelle porte, colonne e monumenti, in rosseggiar d ‘antemurali, lanterne, forti e di castell’a mare, in barbaglìo di vetri de’ palagi, e d’oro e specchi di carrozze che lontano correvano le strade. (Consolo 1987: 35)
17 Cfr. Capponi P., «Della luce e della visibilità, considerazioni in margine all’opera di Vincenzo (…)
Gli effetti di luce e di riverbero su cui indugiano le consoliane fanno parte di quella «retorica della luce» 17 descritto da Paola Capponi, e in cui pagine va considerata la stessa esperienza biografica dello scrittore. La polarizzazione su cui è incentrata tale riflessione si basa ancora su due coppie disposte a chiasmo: una che si muove sul piano orizzontale e diatopico – la Milano di Fabrizio Clerici e dell’ emigréVincenzo Consolo contrapposta ai luoghi natii dello scrittore siciliano – e l’altra di ordine verticale e diacronico – che si muove tra il grigio presente lombardo e le atmosfere mediterranee del suo passato: «Di luce in luce, donna Teresita, di oro in oro. » (Consolo 1987: 34). E la memoria influenza così la percezione dei fenomeni esterni, come viene espresso in queste righe:
«E sognare è viepiù lo scrivere, lo scriver memorando del passato come sospensione del presente, del viver quotidiano. E un sognare infine, in suprema forma, è lo scriver d’un viaggio, e d’un viaggio nella terra del passato» (Consolo 1987: 95).

31 Ma ciò si verifica soltanto in quella metaforica camera oscura ove acquistano forma le reminiscenze dell’autore. Infatti nella dimensione reale e presente, come ha modo di testimoniare il milanese Fabrizio ad Alcamo, ove vige un iniquo sistema di poteri, lo splendore isolano si effonde anche sulla miseria ed ha forza abbacinante, dissimulatoria:
Ma fu quello come il segnale d’un assalto nella guerra, la guerra intendo, antica e vana, contra il nemico della fama. Che non si scorge qui, di primo acchitto, come da noi ne’ nebbiosi e gelati inverni nella campagna bassa o su per le valli sopra i laghi o sotto le gran montagne delle Alpi, ovvero meglio in alcuni quartieri popolosi e infetti di Milano, per la chiarità del cielo e pei colori, per la natura benevola e accogliente […] (Consolo 1987: 69).
Anche Goethe, perso nelle sue ricognizioni artistiche e scientifiche, ha modo di assistere, proprio ad Alcamo, al penoso spettacolo di questa «guerra tra poveri»:
Qualche cane ingoiava avido le pelli di salame che noi gettavamo; un piccolo mendicante cacciò via i cani, divorò di buon appetito le bucce delle nostre mele e venne a sua volta messo in fuga dal vecchio accattone. La gelosia di mestiere è di casa ovunque. (Goethe 1983: 297)
e di misurare la propria indignazione sulle problematiche sociali dell’isola, di biasimarne l’ambiguo e corrotto sistema di poteri che fa perno sulla religiosità cristiana,
[…] l’intera cristianità, che da milleottocento anni asside il suo dominio, la sua pompa ei suoi solenni tripudi sulla miseria dei propri fondatori e dei più zelanti seguaci (Goethe 1983: 264)
e di cui siamo efficaci ragguaglio anche in Retablo.
E il Soldano in pompa magna, quale sindaco della civitate, in uno con i decurioni, e con gli amici, seguito da cavalieri e da pedoni, in quella festa della patrona santa, fece la visita e l’omaggio a tutti i conventi, ritiri , orfanotrofi, spedali, chiese, collegi, monasteri e compagnie. E in ognuno, in sale, refettori o sacrestie, era ogni volta un ricevimento con dolciumi e creme, rosoli, caffè e cioccolata (Consolo 1987: 60).
La Sicilia si offre quale realtà composita, come egli ha modo di notare appena sbarcatovi in ​​quel di Palermo «assai facile da osservarsi superficialmente ma difficile da conoscere» (Goethe 1983: 255); un metaforico vasto retablo, meraviglioso e vivace, che può rivelare una miserrima realtà.

32 Tuttavia è da notare che l’animo, seppur sensibile, del grande autore del Werther, non sembra turbarsi intimamente, come accade invece a Fabrizio Clerici. Ciò è giustificabile con la semplice constatazione che, mentre il viaggio di Goethe in Sicilia in uno dei tanti tour che uomini di alta cultura compivano in quel tempo per gustare gli splendori naturali dell’isola e immergersi nelle sue anticheggianti suggestioni, dietro
Il viaggio letterario del lombardo Fabrizio Clerici si cela il nóstos di Vincenzo Consolo e il lamento per la sua terra ferita intride di sé le pagine dell’opera:
Dietro la croce e la Compagnia, venia la gente più miserevole, la più lacera, malata e infelice. Ed era, così ammassata, così livida, come la teoria d’un oltretomba, una processione d’ombre, d’umanità priva di vita e di colore (Consolo 1987: 184).
L’autore siciliano sa che dietro alle mirabolanti facciate come quelle architettoniche di Trapani, dietro alle bellezze fastose, si cela una realtà di brutture, su cui si spande un mirabolante, quanto ingannevole, velo:
Mai vid’io insieme tanto orrore, tanto strazio. L’altra faccia, il rovescio o forse la verità più chiara e netta di questa nostra vita. Che nascondiamo ognora con l’illusione, i velami, gli oblii, le facciate come quelle teatrali de’ palazzi della rua Nuova e della Grande, ch’io avea visto e ammirato la sera avanti, della gente lussuosa, spensierata che là vi dimorava (Consolo 1987: 184).
La prosa consolaana rivela, attraverso la sua efficace espressività, una tensione maggiore, un più acuto sguardo, laddove Goethe sembra solo intento a gratificare la propria algida curiosità di visitatore, come accade tra le rovine della terremotata Messina. Nell’autore tedesco sembra che l’itinerario siciliano produca nulla più di un vacuo corroboramento del suo gusto estetizzante e razionale. Laddove Fabrizio sembra inquietarsi, sconfortarsi sempre più per il desengaño che ad ogni piè sospinto sembra squarciare il velo di maraviglia che ammanta l’isola, il poeta tedesco sembra esaltarsi:
l’esaltazione poetica che provavo su questo suolo supremamente classico faceva sì che di tutto quanto apprendevo, vedevo, osservavo, incontravo, m’impossessassi per custodirlo in una riserva di felicità (Goethe 1983: 333).
Eppure sia Clerici che Goethe giungono in Sicilia con un bagaglio estetico e culturale similitudine. Goethiana infatti è l’intenzione di risalita alle origini, storiche e culturali in prima istanza, ma anche naturali, a cui Fabrizio aggiunge un ulteriore fattore sentimentale:
[…] mi pare di viaggiare alla ricerca degli stampi o matrici del vostro meraviglioso sembiante, della grazia che dagli avoli del corno di Sicilia ereditaste, in tanto che viaggio in cerca delle tracce d’ogni più antica civiltate. (Consolo 1987: 77).
Mentre la ricerca del poeta tedesco sembra focalizzarsi su una più asettica analisi biologica, ovvero uno studio sull’ Urpflanze , la pianta originaria che egli stesso aveva teorizzato:
Di fronte a tante forme nuove o rinnovate si ridestò in me la vecchia idea fissa se non sia possibile scoprire fra quell’abbondanza la pianta originaria (Goethe 1983: 295).
Ma soprattutto il poeta dell’ Italienische Reise e il pittore di Retablo – dalla predilezione artistica tuttavia analoga a quella del compagno di viaggio di Goethe, il pittore Christoph Heinrich Kniep – sono accomunati dal medesimo punto di riferimento artistico: quel canone neoclassico ed ellenizzante, winkelmanniano , ravvisabile nell’opera di Consolo nell’episodio della statua moziese:
Più che un umano atleta trionfante, un dio mi parve, un Apolline, dalle forme classiche, ideali, di quelle tanto amate dal Winkelmano.(Consolo 1987: 159)
e rintracciabile più volte nelle proprie di Goethe. Tuttavia equilibrio il poeta tedesco vi dimostra un più legame, rivelando una maggior aderenza a quell’ sintesi d’armonia, compostezza e razionalità mediato dal von Riedesel: «[…] alludo all’eccellente von Riedesel, il cuicino custodisco in seno come breviario o talismano.» (Goethe 1983: 307). Mentre, per quanto riguarda il protagonista dell’opera di Consolo, nel gusto della descrizione-elencazione sono ravvisabili influssi barocchi.

33 Efficace, a tal proposito, è il raffronto che può essere operato attraverso le opposte rappresentazioni del tempio di Segesta, al centro di una delle scene più suggestive di Retablo, ove si palesa la differenza sostanziale di atteggiamento dei due viaggiatori:
Le colonne sono tutte ritte; due, ch’erano cadute, sono state risollevate di recente. Se rivela o no uno zoccolo è difficile definire, e non esiste un disegno che c’illumini al riguardo […]. Un architetto potrebbe risolvere la questione (Goethe 1983: 306).

Il diametro di tutte le colonne è di 6 piedi, quattro pollici, sei linee; l’altezza di 28 piedi, e sei pollici… E potrei viepiù continuare se non temessi di tediarvi con altezze e larghezze e volumi, con piedi e pollici e linee (Consolo 1987: 97)
Laddove Goethe rivolge la sua attenzione alla semplice ricognizione tecnico-strutturale, il pittore milanese si lascia rapire dalla fascinazione «del tempio che vorrei ritrarre in modo distanziato, come fosse una realtà che poggia sopra un altro pianoforte, in un’aura irreale o trasognata» (Consolo 1987: 109); e alle speculazioni estetico-architettoniche goethiane si contrappongono le riflessioni di carattere metafisico del protagonista consolano:
[…] Come porta o passaggio concepire verso l’ignoto, verso l’eternitate e l’infinito. (Consolo 1987: 99)
Goethe, come ci suggerisce lo stesso Consolo, giunge in Sicilia, questa realtà eterogenea e prismatica, cercando non di raccontarla, bensì di «misurarla», con la capziosa – o piuttosto presuntuosa – crede di decifrare il mistero siciliano:
Sono, ripetiamo, queste certezze riposte nella bellezza, nell’ordine, nell’armonia, nella cognizione e classificazione della natura, gli argini, le barriere contro l’indistinto, il caos, l’imprevedibile, il disordine. Contro l’infinito (Consolo 2001: 246).
A differenza di Goethe, Fabrizio riesce a spogliarsi dei suoi oberanti metri illuministici e riesce ad abbandonare gli stereotipi estetizzanti e classicheggianti legati al mito siciliano. Le antiche vestigia così alimentano le sue inquietudini in quanto tracce degli orrori alla storia dell’Uomo che «vive sopravvivendo sordo, cieco e indifferente su una distesa di struttura e di dolore, calpesta inconsciamente chi soccombe» (Consolo 1987: 151). Nel viaggio storico del poeta tedesco invece non vi è traccia di tali riflessioni, da cui, anzi, sembra rifuggire:
Non bastava, osservai, che di tempo in tempo le sementi venivaro, se non da elefanti, calpestate da cavalli e uomini? Che bisogno c’era di ridestare bruscamente dal suo sogno di pace la fantasia risuscitando tali frastuoni? (Goethe 1983: 259)
Clerici si arrenderà al mistero siciliano, alla sua ricchezza ed al suo fascino, contrariamente al poeta tedesco che schiavo della sua razionale riluttanza di non varcare, nel viaggio a ritroso verso l’antichità della storia, verso l’origine della civiltà, la soglia dell’ignoto, di non inoltrarsi nell’oscura e indecifrabile eternità; di non smarrirsi, immerso in una natura troppo evidente e prorompente, nell’indistinto, nel caos infinito. (Consolo 2001: 244)
18 «Misera. La seule ha scelto qui nous console de nos misères est le divertissement, et cependant c’est (…)

34 Come è stato scritto da Genette «une dialettique perplexe de la veille et du rêve, du réel et de l’imaginaire, de la sagesse et de la folie, traverse toute la pensée baroque» (Genette 1996: 18). Opera barocca per eccellenza, Retablo gioca sull’oscillazione tra i temi della maravilla ed il desengaño , della verità e della mistificazione, tra le percezioni sensibili della superficie dei fenomeni e l’abisso dell’esistenza, tra le visioni che il mondo propone ei riflessi capovolti di esse. I protagonisti consoliani si trovano quindi «a passare dal sogno e dall’incanto al risveglio più lucido», e ciò lungo il corso di un divertissement letterario, che – collegandosi e capovolgendo un celebre pensiero di Blaise Pascal 18– non spinge alla distrazione dalle domande dell’interiorità, ma ne esprime attraverso un’intensa sensibilità stilistica, dacché come affermare ancora Genette «l’univers baroque est ce sophisme pathétique où le tourment de la vision se résout – et s ‘achève – en bonheur d’expression».
O mia Medusa, mia Sfinge, mia Europa, mia Persefone, mio ​​sogno e mio pensiero, cos’è mai questa terribile, meravigliosa e oscura vita, questo duro enigma che l’uomo sempre ha declinato in mito, in racconto favoloso, leggendario, per cercar di rispecchiarla, di decifrarla per allusione, per metafora? (Consolo 1987:135)

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APPUNTI

2 A ciò va premesso che la struttura di Retablo ricalca quella dell’omonimo polittico e che la comprensione e decodifica del racconto di Isidoro e Rosalia – senza dimenticare la predella situata nell’esatta metà dell’opera – presuppone una lettura unitaria laddove essa si presenta scissa in due capitoli: Oratorio e Veritas, e presentanti ciascuno il relativo punto di vista narrativo.
3 Per quanto riguarda Isidoro: «Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha róso, il mio cervello s’è mangiato.» (Consolo 1987: 17-18). A queste parole nella risposta quelle di Rosalia, su parte finale dell’opera: «Isidoro, dono dell’alma e gioia delle carni, spirito di miele, verdello della state, suggello d’oro, candela della Pasqua, battaglio d’ogni festa […]» (Consolo 1987: 193).
4 La vexata quaestio sul nome del giullare autore dell’opera è tuttavia risolta più avanti da Consolo a favore della seconda ipotesi quando introdurrà, ammantata da una notevole ironia, la sedicente Accademia poetica de Ciulli Ardenti. A tal proposito, è interessante notare che anche Dario Fo si è soffermato su Rosa fresca aulentissima, identificando il nome esatto dell’autore in Ciullo e scartando l’invalso Cielo, risultato questo di una mistificazione culturale a scopo censorio (ciulloindica anche membro il maschile). È quanto meno ipotizzabile che Consolo conosca l’altro e più scurrile significato della parola, tant’è che sembra giocarci col lettore in queste righe: «di Ciullo intenno, chiaro al monno intero, e surtutto per nui de l’Accademia ardente che al nome suo s’appenne» (Consolo 1987: 54).
5 Cfr. «[…] la narrativa dei fabliaux , sbrigativa e salace, imperniata su personaggi della borghesia, del clero, del contado, o anche dell’aristocrazia, ma in una chiave beffarda che sembra antitetica a quella del romanzo o del lai » (Rutebeuf 2007 : 13).
6 Ma anche Ariosto 1976 : X, 46: «il suo amore ha dagli altri differenza:/speme o timor negli altri il cor ti lima».
7 Albertocchi (2005: 95-111) dedica un esauriente articolo alla reale figura storica di Teresa Blasco, rivelandone, attraverso i documenti dell’epoca, le vicende – invero scabrose – che la videro protagonista nella Milano dei Lumi, e che la allontanano notevolmente dalla figura di donna vereconda tratteggiata nel diario di viaggio di Fabrizio.
8 Per il lessico specifico trobadorico, oltre ai già citati testi di Formisano e Di Girolamo, si rimanda al più agevole glossario posto a margine di Cataldi 2006: 226-229.
9 È Fabri Ramondino, estimatrice e critica della prima ora di Retablo, a suggerire, nella sua recensione all’opera inclusa nel numero del 3 novembre 1987 de «Il Mattino», che il romanzo è costruito secondo lo schema della quête dei cavalieri erranti: l’orazione, la peregrinazione e la verità ritrovata.
10 Questi versi e quelli successivi sono ripresi da Roncaglia 1961: 304-307.
11 Si rimanda per un rapido sunto ancora a Di Girolamo 1989: 63, e approfonditi da Picone 1979. Si consiglia inoltre la lettura dell’introduzione dell’edizione curata da Chiarini 2003.
12 Ibidem.
13 Dietro i personaggi del Cavaliere Fabrizio e del suo servo Isidoro che compiono il loro Grand Tour siciliano sono intravedibili le sagome dei personaggi di Jacques le fataliste.
14 Si veda Leopardi 2007 (qui e di seguito, per tutte le citazioni leopardiane).
15 È doveroso qui richiamare Alejo Carpentier e il suo El Siglo de Las Luces, romanzo storico pubblicato nel 1962, e che ha sviluppato, per temi e atmosfere, Vincenzo Consolo.
16 Il viaggio del grande autore di tedesco si svolge tuttavia nel 1787, circa un ventennio dopo quello del protagonista di Retablo.
17 Cfr. Capponi P., «Della luce e della visibilità, considerazioni in margine all’opera di Vincenzo Consolo», in: AA.VV. 2005.
18 «Misera. La seule ha scelto qui nous console de nos misères est le divertissement, et cependant c’est la plus grande de nos misères. Car c’est cela qui nous empêche principalement de songer à nous, et qui nous fait perdre insensiblement. Sans cela, nous serions dans l’ennui, et cet ennui nous pousserait à chercher un moyen plus solide d’en sortir. Mais le divertissement nous amuse, et nous fait arriver insensiblement à la mort .» (Pascal 1971: I, 268).
Nicola Izzo , “Nello scriptorium barocco di Vincenzo Consolo: riprese e ribaltamenti letterari in Retablo ” ,  reCHERches , 21 | 2018, 113-128.

Nicola Izzo

Université Jean Monnet, Saint-Étienne

Un’immagine ipnotizzante a forma di chiocciola



 La polivalenza della forma, del genere e del linguaggio testimoniano la volontà di resistere, tra l’altro, contro reificazioni di senso. La forma elicoidale delle lumache illustra in modo convincente il carattere indefinito delle potenzialità allegoriche nascoste nei testi consoliani. Nel romanzo Sorriso dell’ignoto marinaio questo segno è stato posto ad emblema della bellezza della natura, dell’enigma della storia e dell’oscurità umana60. Le contaminazioni “storiche” di Consolo sono stratificate a più livelli. Esattamente come il simbolo della chiocciola (o spirale degli eventi) che è il culmine del libro Il sorriso dell’ignoto marinaio61. La figura della chiocciola costituisce, come anche quella dell’“ignoto marinaio”, una specie di Leitmotiv; è la metafora dell’ingiustizia sociale dovuta alla distanza fra i privilegiati della classe colta (ai quali appartiene anche il barone Mandralisca che nelle sue ricerche scientifiche si occupa proprio di chiocciole)
 59 R. Andò: Vincenzo Consolo…, p. 10. 60 Cfr. F. Di Legami: L’intellettuale al caffé. Incontri con testimoni e interpreti del nostro tempo. Interviste a Leonardo Sciascia, Vincenzo Consolo, Gesualdo Bufalino, Ignazio Buttita, dal programma radiofonico di Loredana Cacicia e Sergio Palumbo, prodotto e trasmesso da Rai Sicilia nel 1991. Palermo, Officine Grafiche Riunite, 2013, p. 53. 61 Cfr. A. Giuliani: Edonismo…
e la gente senza cultura e senza voce, e alla distanza fra la classe dei possidenti e quelli che, come i contadini d’Alcàra, si sono mossi “per una causa vera, concreta, corporale: la terra” (SIM, 93). Alla fine del testo Mandralisca s’immagina una nuova scrittura storiografica, una riscrittura che procede dal fondo della chiocciola: “conoscere com’è la storia che vorticando dal profondo viene” (SIM, 112). Sotto il segno della chiocciola si condensano più livelli: a chiocciola è l’architettura del carcere in cui si conclude il racconto, architettura che riproduce “il vorticare” della storia; a chiocciola ossia a spirale è la lettura delle scritte che ne tempestano le pareti. Ma il termine “chiocciola”, in cui si condensa tutta la passione di ricercatore del barone Mandralisca, la sua scienza, viene finalmente degradato a esprimere l’astrazione degli “ideali” di fronte alla spinta concreta della rivolta popolana: “una lumaca!”. Alla chiusa del romanzo la figura fisica, il simbolo, la struttura linguistica e narrativa, coincidono con un effetto intenso e felice; quanto basta per sigillare l’intelligenza e la validità di un libro 62. Anche i pensieri nel Sorriso dell’ignoto marinaio sono raffigurati in una inarrestabile scesa spiraliforme dal palazzo del barone Mandralisca e dalla buona società in cui si congiura contro i Borboni (primo e secondo capitolo) all’eremo di Santo Nicolò, fino ai villici e ai braccianti di Alcara Li Fusi (terzo e quinto capitolo); le volute diventano gironi infernali con la strage dei borghesi perpetrata ad Alcàra (settimo capitolo). Questa discesa è anche linguistica: al sommo c’è il linguaggio vivido e barocco dei primi capitoli; negli inferi (nono e ultimo capitolo) le scritte compendiarie dei prigionieri, emerse dall’odio, dal rimorso, dalla nostalgia di libertà. Ulla Musarra-Schrøder scopre anche che il dialetto siciliano è sommariamente italianizzato; e quello gallo-romanzo di San Fratello, nella scritta XII, prende già movenze di canto. Ma questi due estremi linguistici e le realizzazioni intermedie non si sovrappongono a strati, bensì si alternano o si mescolano, sempre secondo uno schema elicoidale63. 62
Cfr. G. Gramigna: Un barocco… 63 Cfr. U. Musarra-Schrøder: I procedimenti di riscrittura nel romanzo contemporaneo italiano…, pp. 560—563. 112 Capitolo III:
L’idea della struttura per frammenti Secondo Sebastiano Addamo il simbolo della lumaca64 va analizzato nel modo in cui risulta più utile ai fini dell’interpretazione. Soggettivamente, cioè rispetto al personaggio maggiore del romanzo, il barone Enrico Pirajno de Mandralisca, la lumaca può rappresentare la classica attività dell’intellettuale tradizionale. Ma oggettivamente è ben altro, dato che il medesimo barone Pirajno paragona le lumache da un lato al carcere, che è un simbolo del potere, e, dall’altro, alla proprietà, che è il potere medesimo, e sotto tale aspetto la proprietà viene infatti definita come “la più grossa, mostruosa, divoratrice lumaca che sempre s’è aggirata strisciando per il mondo”65. Il sesto capitolo del romanzo è tutto attraversato dalla metafora della chiocciola, metafora plurima che designa successivamente i privilegi della cultura, l’ingiustizia del potere, e la proprietà come usurpazione 66. La metafora realizza una sorta di autocritica, dato che di chiocciole si occupa principalmente Mandralisca nelle sue ricerche scientifiche; diventa poi schema descrittivo, nel capitolo ottavo, quando si parla del carcere di Sant’Agata di Militello, in cui sono rinchiusi i colpevoli dell’eccidio di Alcàra. E proprio alla fine del capitolo, che è anche l’ultimo da attribuire ufficialmente al narratore (dato che il nono raccoglie senza commenti le scritte dei prigionieri) troviamo una sezione dei sotterranei a chiocciola nel castello, con un’ulteriore metafora: 64 Consolo ha attribuito il ruolo plurisignificante alla chiocciola nelle sue narrazioni, servendosi anche dei motivi della spirale o del labirinto. Senz’altro si può interpretare la presenza della chiocciola secondo la chiave proposta da Mircea Eliade sempre dove Consolo parla della fine, della morte, della devastazione o della metamorfosi: le civiltà antiche riconoscevano nelle lumache il simbolo del concepimento, della gravidanza e del parto. Similmente, i cinesi, associano i molluschi con la morte, e con i rituali funebri che dovrebbero garantire la forza e la resistenza dell’uomo nella sua futura vita cosmica.
Cfr. M. Eliade: Obrazy i symbole. Warszawa, Wydawnictwo KR, 1998, pp. 156—159. 65 S. Addamo: Linguaggio e barocco in Vincenzo Consolo. In: Idem: Oltre le figure. Palermo, Sellerio, 1989, pp. 121—125. 66
Il concetto di “fortezza — labirinto” prende avvio dalle teorie sviluppate sia da Kerényi che da Eliade e riguardanti il fenomeno della costruzione a chiocciola come archetipo biologico di origine e di percezione. Un’immagine ipnotizzante a forma di chiocciola  Ma ora noi leggiamo questa chiocciola per doveroso compito, con amarezza e insieme con speranza, nel senso d’interpretare questi segni loquenti sopra il muro d’antica pena e quindi di riurto: conoscere com’è la storia che vorticando dal profondo viene; immaginare anche quella che si farà nell’avvenire. SIM, 139 Lo schema elicoidale della chiocciola può servire bene per analizzare il romanzo, come ci autorizza a fare Consolo, citando all’inizio di questo capitolo ottavo una frase di Filippo Buonanni, da Ricreatione dell’Occhio e della Mente nell’Osseruation’ delle Chiocciole (Roma, 1681)67: […] sempre più vi accorgerete, che Iddio, compreso sotto il vocabolo di Natura, in ogni suo lavoro Geometrizza, come dicean gli Antichi, onde possano con ugual fatica, e diletto nella semplice voluta d’una Chiocciola raffigurarsi i Pensieri. Alla metafora quindi dell’ironico sorriso, effigiato nel quadro di Antonello da Messina, si associa, opposta e complementare l’immagine della lumaca, emblema di un percorso oscuro in cui si trovano sofferenze e dolori non testimoniati. “V’è una inarrestabile discesa spiraliforme — ha scritto Segre — dal palazzo del barone Mandralisca e dalla buona società in cui i congiura contro i Borboni all’eremo di Santo Nicolò, alla combriccola di Santa Marecùma, sino ai villici e braccianti di Alcara Li Fusi; le volute diventano gironi infernali con la strage di borghesi perpetrata ad Alcara, e bolgia ancora più fonda quando nelle carceri sotterranee di Sant’Agata vengono racchiusi i colpevoli”68. Anche se presentato in modo molto dettagliato, questo luogo di isolamento rappresenta uno di tanti luoghi opachi, utopici e incantati. 67
Cfr. C. Segre: Intrecci di voci…, p. 81. 68 F. Di Legami: Vincenzo Consolo…, p. 26.

L’allontanamento Il viaggio o la fuga?

Il tema del viaggio è un contenuto della realtà extratestuale e dell’immaginario (tanto dell’autore quanto del lettore) che ritorna in opere diverse: si ripete dunque in forme riconoscibili pur articolandosi ogni volta in modi irripetibili all’interno di costruzioni dotate ognuna di una propria individualità. Questo contenuto può riguardare personaggi, passioni, ambienti, eventi, immagini1 . Il viaggio è un evento. In genere si tratta di un accadimento che coinvolge due o più persone: dopo un percorso (di una di esse o di tutte, non importa), esse entrano in contatto fra loro in modo volontario o involontario, programmato in partenza o del tutto casuale2 . Nel 1993 Consolo ammette: I poli poi, per ragioni di vita e per scelta ideologica, si sono allontanati, sono diventati Palermo e Milano. E questi due poli mi hanno fatto essere, oltre che laconico, scrittore scisso, dalla doppia anima, dal doppio accento. Ma forse no, forse allo storicismo del vecchio mondo palermitano ho sostituito lo storicismo dell’attuale mondo milanese3 . I lettori entrano nel mondo della narrazione consoliana attratti non da questa frase tradizionale “C’era una volta” ma tramite un procedimento ben diverso e cioè l’uso della congiunzione che apre la storia. E la chiarìa scialba all’oriente, di là di Sant’Oliva e della Ferla, dall’imo sconfinato della terra sorgeva nel vasto cielo, si spandeva — ogni astro, ogni tempo rinasce alle scadenze, agli effimeri, ai perenti si negano i ritorni, siamo figli del Crudele, pazienza. N, 5 E poi il tempo apre immensi spazi, indifferenti, accresce le distanze, separa, costringe ai commiati — le braccia lungo i fianchi, l’ombra prolissa, procede nel silenzio, crede che un altro gli cammini accanto. SP, 11 Quando la voce del narratore inizia in questo modo, non è difficile, come sostiene Remo Ceserani, “sospendere la sua vita normale, abbandonare il mondo in cui scorre la sua vita e trasferirsi, se si sente attirato dalla voce del narratore e dall’interesse delle vicende narrate […]”4 . Il lettore subito sin dall’inizio ha impressione di affrontare la continuazione della storia già raccontata. Consolo riesce a trasformare il passato, anche quello lontano, in una realtà somigliante agli eventi presenti. Il ciclo della narrativa consoliana ammette la rappresentazione della Sicilia in varie fasi della sua storia. L’azione del romanzo Nottetempo3, casa per casa si svolge a Cefalù, negli anni del sorgere del fascismo. Non è racconto di viaggio, o guida, tuttavia con un viaggio si onclude. Qui Petro vive una sua educazione sentimentale, politica, letteraria, scontando sulla propria pelle lo sforzo del rapporto con una realtà che sfugge ad ogni razionalità, che si lascia dominare da quella “bestia trionfante” che stravolge quel mondo, che sembra fargli perdere antichi equilibri e antichi profumi, e trova nel fascismo la sua più compiuta incarnazione5 . C’è il risentimento verso una patria perduta e le persone che non si accorgono della perdita. E qui non si parla solo di un confine siciliano, ma di un oggi che comprende anche altri luoghi. Certo, il discorso della lingua è chiaro. Consolo ha sempre cercato di scrivere in un’altra lingua ed è quello che ha sempre irritato i critici, il fatto di “uscire dai codici, di disobbedire ai codici”6 .
Il viaggio di Nottetempo, casa per casa, è la fuga di Petro da un mondo nel quale egli vede la civiltà in via di travolgimento e per il quale avverte ormai odio, al punto da fargli maturare una condizione che egli non sa se, ed eventualmente quando, vorrà modificare, e quando eventualmente (“Non so adesso” dice, quasi come Fabrizio Clerici diceva dell’itinerario che avrebbe potuto prendere l’ulteriore sua peregrinazione) perché le ragioni dell’odio sono per lui diverse da quelle che muovono l’anarchico Schicchi, non politiche in senso stretto, non di fazione: e tali ha scelto di mantenerle “in attesa che passi la bufera”, senza fraintendimenti e perciò nello stesso esilio vivendo scostato da Schicchi, nella cui prassi riconosce la stessa matrice che ha causato la sua partenza, “la bestia dentro l’uomo che si scatena ed insorge, trascina nel marasma, la bestia trionfante di quel tremendo tempo, della storia, che partorisce orrori, sofferenze” (N, 170)7 . La partenza di Petro assume un valore emblematico, e in realtà, diventa aterritoriale. 5  Il romanzo Nottetempo, casa per casa contiene il numero maggiore di elementi raffiguranti la nozione di allontanamento: l’allusione all’inespresso, alla ritrazione, al rischio dell’afasia, del silenzio. Pervenuto in prossimità di Tunisi, rimasto solo sul ponte del piroscafo, Petro lascia cadere in mare un libro che l’anarchico gli aveva posto in mano per alimento politico, e pensa ad un suo quaderno, sentendo che, “ritrovata calma, trovate le parole, il tono, la cadenza, avrebbe raccontato, sciolto il grumo dentro, avrebbe dato ragione, nome a tutto quel dolore” (N, 171): un quaderno perciò egli porta con sé quale viatico dell’esilio, dove potrà da lontano nominare il dolore, e perciò — comprendendolo — risolverlo, e questo è tutto il corredo che la sua scelta presuppone8 . Il protagonista di Nottetempo, casa per casa è un esiliato che rompe a un tratto la condizione di esilio attraverso la scrittura, diversamente dagli altri, dal padre, ad esempio, che non può farlo. Il libro si apre con una scena notturna in cui si disegna la figura oggi rara della malinconia, desueta almeno, in cui la depressione si svela nel rapporto con la luna piena: quella del licantropo. La cultura popolare ci ha tramandato vari frammenti intessuti su questa figura, dominata da un dolore insopportabile che equivale ad un esilio. Come dice l’epigrafe della Kristeva posta all’inizio del libro, quel dolore equivale a vivere sotto un sole nero, che può anche stare per l’immagine della luna. È un tentativo di liberazione dell’angoscia attraverso l’animalità, la fuga, la corsa9 . La coscienza del dolore proprio e altrui indica una prospettiva che rende possibile la riflessione su un altra persona. La sofferenza non è qualcosa di peggiore che richiede il rimandere nascosti. Al contrario, è necessario prenderla in considerazione quando si vogliono determinare i limiti del potere umano. Consolo, indicando la sofferenza come l’esperienza fondamentale dell’esistenza, non si discosta dal discorso sempre più urgente sulla condizione degli emarginati nel mondo postmoderno. Così Petro fugge, come Consolo, e “spariva la sua terra mentre egli se ne andava (N, 168). Petro è spinto da una parte dalla forza irrazionale di un fascismo che prometteva giustizia e riscossa, specchietti delle allodole delle dittature incipienti, dall’altra è attratto da quel socialismo-anarchico la cui contestazione, però, gli appare violenta e drasticamente tragica. Decide per una ”fuga”, che non è disimpegno, ma scelta chiara, il che illustra la scena finale: “si ritrovò il libro dell’anarchico, aprì le mani e lo lasciò cadere in mare” (N, 171). La marginalità del gesto, tuttavia, non gli scongiura la necessità della fuga da Cefalù, dalla città che aveva amato nelle cose e nelle persone, e che ora gli era caduta dal cuore “per quello ch’era avvenuto, il sopravvenuto, il dominio che aveva presa la peggiore gente, la più infame, l’ignoranza, la violenza, la caduta d’ogni usanza, rispetto, pietà…” (N, 166); e perciò egli si spinge all’esilio in Tunisia, dove si reca partendo nottetempo da Palermo, su di un vapore che pure nasconde il capo anarchico Paolo Schicchi (altro personaggio reale)10. Anche Consolo, quando si è trasferito a Milano aveva intenzione di raccontare quella Milano dei contadini siciliani che diventano operai. Ben presto capì che per farlo aveva bisogno della distanza della metafora storica. È quello che Cesare Segre acutamente ha sottolineato come peculiarità del suo modo di scrivere: “è il distanziamento, il bisogno di distanziarsi, anche geograficamente”11. Il motivo del viaggio, nel primo lavoro: La ferita dell’aprile, si svolge sul doppio versante del riportarsi all’indietro dell’io narrante al tempo della propria adolescenza, e di un attraversamento di diversi piani linguistici alla ricerca di uno stile che si conquista una propria misura espressiva12. E per restituire alla storia il misterioso e l’ignorato che è nell’uomo e nella collettività, Consolo sceglie fin da questo primo romanzo la dimensione della memoria e l’idea del viaggio13. Il labirinto evidenzia cioè nella sua stessa forma figurale, in quanto metafora assoluta che si sostanzia di un retroterra religioso e mitologico, la struttura del congetturare dialettico, di quel mirare alla fine 10 del processo ermeneutico come al proprio fine, implicito nel viaggioverso-il-centro e nel viaggio-di-ritorno di Teseo come in tutte le successive varianti del mitologema14. In appendice ai capitoli di più acuminato spessore del suo romanzo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Consolo ha inserito, infatti, un ventaglio di documenti storici che fanno corpo organico con la narrazione, esplicitando ciò che essa lascia nel margine dell’intuitivo. Aldo M. Morace sostiene che così viene spezzata l’unità tipica del racconto storico, ma anche la finzione narrativa stessa, in modo da chiamare in causa il lettore, secondo l’esigenza brechtiana dello straniamento e secondo la suggestione adorniana circa la necessità, per l’opera d’arte, di portare impresse nelle proprie strutture formali le stigmate della negatività rinunciando alla forma compatta ed armoniosa che attesterebbe la conciliazione con la società esistente15. Se il romanzo, e in particolare il romanzo storico si esprime attraverso le tensioni formali, come sostiene Flora Di Legami16, la prosa di Consolo corrisponde pienamente a questa immagine. L’autore introduce, trasformato, il topos ottocentesco del manoscritto: esso non è più l’espediente narrativo su cui costruire la trama del romanzo, ma un documento immaginario capace di suffragare, con la sua verosimiglianza linguistica, l’effettualità degli avvenimenti narrati. E così il Mandralisca, mosso dall’ansia di verificare le affermazioni dell’Interdonato, compie un viaggio in alcuni paesi del messinese, che gli farà conoscere le condizioni di miseria e sfruttamento in cui versano i contadini, ma soprattutto lo porterà ad essere testimone diretto dell’insurrezione di Alcara contro i Borboni nel maggio 1860. Quello del Mandralisca risulta un viaggio di tipo vittoriniano, di progressiva maturazione e di crescita etico-politica, ma anche di discesa del nostro tempo. Interviste a Leonardo Sciascia, Vincenzo Consolo, Gesualdo Bufalino, Ignazio Buttita, dal programma radiofonico di Loredana Cacicia e Sergio Palumbo, prodotto e trasmesso da Rai Sicilia nel 1991. Palermo, Officine Grafiche Riunite, 2013, p. 52. L’intellettuale al caffé. Incontri con testimoni e interpreti all’interno delle contraddizioni della storia e della ragione, di cui sperimenta l’impotenza operativa17. Nel contesto della dominazione anche fisica delle nuove forze — come prova di contrapposizione ad esse — appare anche il problema delle riflessioni morali che espongono solo la dimensione degli abusi. Consolo la rievoca tramite l’introduzione della situazione di caos: accanto alle forze naziste spuntano le proteste degli operai, crescono l’incitazione intorno alla Targa Florio e infine la sconfitta degli anarchisti. Questo caos viene preceduto nella narrazione dal segnale riferito alla follia della famiglia Marano, il che suggerisce la conseguente spirale della perdita di senno. Solo la ragione si oppone al regime, al male atavico dell’uomo, alla distruzione della memoria e dei valori della terra e della società18: Ora sembrava che un terremoto grande avesse creato una frattura, aperto un vallo fra gli uomini e il tempo, la realtà, che una smania, un assillo generale, spingesse ognuno nella sfasatura, nella confusione, nell’insania. E corrompeva il linguaggio, stracangiava le parole, il senso loro, il pane si faceva pena, la pasta peste, la pace pece, il senno sonno. N, 140 Il linguaggio, trasgressivo e straniato, arcaicizzante e artificioso, nasce da una spinta molto forte, così da richiedere una strategia di difesa e di allontanamento, e una immersione nella vita “nel suo infinito variare”. È un linguaggio che diviene canto, sonante e alto, fatto di cadenze e ritmi poetici (per esempio, di ben individuabili, ossessivamente presenti, endecasillabi: “E la chia-rì-a scial-ba all’- or-ien-te / di là di Sant’-O-li-ve-del-la Fer-la”)19. Consolo ha spesso affermato di sentirsi parte di una linea della letteratura italiana che proviene dalla Sicilia e che comprende Verga, Pirandello, Vittorini, Brancati, Tomasi di Lampedusa, Sciascia, ma nello stesso tempo ribadisce17 la provenienza da una zona periferica d’Italia. La sua narrazione diventa la testimonianza della credenza nella possibilità dei contributi innovativi alla cultura da quella isolana20. L’abbandono della predominanza del senso della vista a favore dell’abilità del parlare implica la riduzione della distanza rispetto all’oggetto dell’analisi. La facoltà di parlare richiede la mancanza di dominazione e indica invece l’impegno dei processi cognitivi nelle differenti prospettive degli interlocutori. La Sicilia attraversata da Clerici è quella storica del primo Settecento, afflitta da povertà, ignoranza e violenza; e tuttavia i vari paesi diventano contrade dell’anima dove pensieri ed emozioni balzano in primo piano, e i personaggi incontrati hanno sempre consistenza reale e favolosa, come i ladri delle terme segestane. Sono luoghi in cui il narratore sospende il tempo della narrazione per abbandonarsi all’incanto del mondo favoloso e lontano. Lo spazio sociale con i suoi conflitti non è, in questo romanzo, il centro palpitante; lo percorre invece una vibrata inquietudine ed un febbrile desiderio di lontananza21. Nel romanzo Lo spasimo di Palermo l’autore legge una vicenda personale e collettiva, partendo da un tempo che apre immensi spazi. In principio è la lontananza, la terra straniera e il distacco che “costringe ai commiati”22. Nel caso del protagonista del romanzo menzionato, lo scrittore Gioacchino Martinez, cupo e angosciato eroe che vuole rappresentare la realtà senza incanto, che era quello di un sogno infantile, e smuovere altri ricordi. Sono proprio i ricordi che lo devastano e nello stesso tempo lo mantengono in vita: il protagonista torna in Sicilia, da dove se ne era fuggito, per l’impossibilità di opporsi alla violenza, all’ingiustizia. È un affondo nel rammarico, nei dolori della memoria: l’adolescenza nel dopoguerra siciliano, l’amato zio studioso di botanica, l’adorata Lucia che poi sposerà e perderà con strazio, il rifugio in una Milano ritenuta proba, antitesi al ma

rasma 20, gli anni del terrorismo e la pena per il figlio compromesso. Piero Gelli parla direttamente del risveglio di un’illusione: la città civile di Porta, Verri e Beccaria, di Gadda e Montale non esiste più, sommersa dalle acque infette dell’intolleranza e dalla melma della corruzione23. Se si prende per esempio la descrizione dell’albergo che sebbene non sia un luogo sotterraneo, rivela tutta la sua angustia: “La dixième muse era il nome dell’albergo. L’angusto ingresso, il buio corridoio…” (SP, 11). Spostandosi all’indietro nei ricordi assomigliava ai rifugi antiaerei o alle cantine. Dopo il bombardamento all’oratorio Chino ”tornò affannato nell’androne, attraversò il cavedio, discese nel catoio” (SP, 16). È significativo anche che cupi, nascosti ed in profondità siano i luoghi in cui si consuma la relazione fra il padre di Gioacchino e la siracusana. Quindi colpa e menzogna da cui Chino fugge sempre, in modo antonimico, seguendo il percorso contrario, verso la luce e la superficie. È la fuga da una realtà che non vuole conoscere. Una tana sarà anche il luogo prediletto dal ragazzo per i suoi giochi e le sue fughe: “Corse al marabutto, al rifugio incognito e sepolto dal terriccio” (SP, 19). A un certo momento del libro il protagonista parla così: “Non so adesso… Adesso odio il paese, l’isola, odio questa nazione disonorata, il governo criminale, la gentaglia che lo vuole… odio finanche la lingua che si parla”. Mai come adesso la scrittura si ritaglia come il luogo di una distanza difficilmente colmabile in cui non ci sono luoghi cui dedicare una presunta fedeltà: “Dietro queste parole scopertamente riferite all’oggi c’è il risentimento personale di chi scrive verso un luogo che ha dovuto lasciare”24. Una soluzione più simile al concetto di viaggio si può da ricavare nel romanzo Retablo. La seconda sezione del libro, quella centrale o la più distesa, è il diario di viaggio che Clerici scrive per Teresa Blasco, la donna amata, da cui cerca di allontanarsi compiendo la sua “peregrinazione” attraverso la Sicilia. È solo attraverso il “collaudato23 contravveleno della distanza”, infatti, che Clerici riesce a ritrovare quell’“aura irreale o trasognata” che gli consente di dedicarsi alla scrittura e alla pittura (R, 87). E per ottenere il necessario  estraniamento, analogo a quello operato dallo scrittore di Sant’Agata di Militello con il trasferimento a Milano, fungono spesso da testimoni o il cavaliere e l’artista lombardo Clerici, o il mistificatore inglese: Crowley. Lo stile barocco, fitto di sicilianismi, fornisce il coinvolgente e inconfondibile colore locale25.

Title: Rompere il silenzio : i romanzi di Vincenzo Consolo Author: Aneta Chmiel Citation style: Chmiel Aneta. (2015). Rompere il silenzio : i romanzi di Vincenzo Consolo. Katowice : Wydawnictwo Uniwersytetu Śląskiego.

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1  F. Orlando: Costanti tematiche, varianti estetiche e precedenti storici. In: M. Praz: La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica. Firenze, Sansoni, 2003 [1996], p. VII. 2  R. Luperini: L’incontro e il caso. Narrazioni moderne e destino dell’uomo occidentale. Roma—Bari, Editori Laterza, 2007, pp. 4—8. 168 Capitolo V: L’allontanamento V. Consolo: La poesia e la storia. In: Gli spazi della diversita. Atti del Convegno Internazionale. Rinnovamento del codice narrativo in Italia dal 1945 al 1992. Leuven —Louvain-la Neuve—Namur—Bruxelles, 3—8 maggio 1993. Vol. 2. A cura di S. Vanvolsem, F. Musarra, B. Van den Bossche. Roma, Bulzoni, 1995, pp. 583— 586.4  A. Bernardelli, R. Ceserani: Il testo narrativo. Istruzioni per la lettura e l’interpretazione. Bologna, Il Mulino, 2013, p. 135. Il viaggio o la fuga? 169 G. Ferroni: La sconfitta della notte. “L’Unità” 1992, il 27 aprile. 6  R. Andò: Vincenzo Consolo: La follia, l’indignazione, la scrittura. “Nuove Effemeridi” 1995, n. 29, p. 11. 7  S. Mazzarella: Dell’olivo e dell’olivastro, ossia d’un viaggiatore. “Nuove Effemeridi” 1995, n. 29, p. 63. 170 Capitolo V: ” (N, 168). Petro è spinto da una parte dalla for8  Ibidem, pp. 63—64. 9  R. Andò: Vincenzo Consolo…, pp. 8—9. S. Mazzarella: Dell’olivo e dell’olivastro…, pp. 62—63. 11 V. Consolo: Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia. Roma, Donzelli editore, pp. 9—10. 12 F. Di Legami: Vincenzo Consolo. La figura e l’opera. Marina di Patti, Pungitopo, 1990, p. 12. 13 Ibidem, pp. 7—9. 172 Capitolo V: , 14 Cfr. K. Kerényi: Nel labirinto. Torino, Bollati Boringhieri, 1983, p. 9. 15 Cfr. A.M. Morace: Orbite novecentesche. Napoli, Edizioni Scolastiche Italiane, 2001, pp. 212—213. 16 Cfr. F. Di Legami: Cfr. F. Di Legami: Vincenzo Consolo…, pp. 24—25. 18 Cfr. C. Ternullo: Vincenzo Consolo: dalla Ferita allo Spasimo. Catania, Prova d’Autore, 1998, p. 58. 19 R. Ceserani: Vincenzo Consolo. “Retablo”. “Belfagor” 1988, anno XLIII, Leo S. Olschki, Firenze, pp. 233 — 234. 174 Capitolo V: L’allontanamento cfr. A. Bartalucci: L’orrore e l’attesa. Intervista a Vincenzo Consolo. “Allegoria. Rivista quadrimestrale” 2000, anno XII, nn. 34—35, gennaio—agosto, 21 Cfr. F. Di Legami: Vincenzo Consolo…, p. 40. 22 G. Amoroso: Il notaio della Via Lattea. Narrativa italiana 1996—1998. Caltanisetta—Roma, Salvatore Sciascia Editore, 2000, p. 464. Cfr. P. Gelli: Epitaffio per un Inferno. La rabbia e la speranza di Consolo. “L’Unità” 1998, il 12 ottobre, p. 3. 24 R. Andò: Vincenzo Consolo…, p. 11.