Nel settembre
di un’estate ferma, sulle pendici dell’Etna, a Zafferana (zàfaran, la pianta
aromatica e colorante che ad altre aridità rimanda, al nudo e scabro Atlante, infestato
di scorpioni e di serpenti), in un
isolato e aereo alberghetto chiamato Airone, con un terrazzo sulla vasta e
scoscesa sciara di lava che si stende fino all’orizzonte, fino alla striscia di
un mare di cobalto – era il 1968 -, avevano portato, chissà perché, in
occasione di un convegno letterario, Ezra Pound. Portato è la parola giusta. Chè il bianco, diafano poeta, chiuso nella
invalicabile assenza e afasia, non sembrava più ormai che la vuota sagoma
dell’uomo sopravvissuto al suo disastro.
Un pomeriggio
come un mezzogiorno senza fine, in quell’ora sospesa su un mondo senza ombre
(“In alto immobile meriggio, / il meriggio in se stesso si pensa e si
conclude”: Valery, Il cimitero marino), nell’ora del sonno e del silenzio,
Pound, eludendo ogni vigilanza, scende dalla sua camera, attraversa il salone
dell’albergo immerso nella penombra, esce all’aria infuocata, alla luce
accecante del terrazzo. Si porta alla
balaustra, lì rimane rigido e immobile, nella contemplazione di quel nero mare,
di quel mondo folgorato, di quella distesa ferrosa e sonante come l’isola dei
morti della leopardiana Bratacomiomachia: “D’un metallo immortal massiccio e
grave/ … / nero assai più che per versate lave / non par da presso la montagna
etnea”. Contempla, Pound, quel caos primordiale, quel paesaggio di rovine
naturali che sono l’immagine delle sue rovine interne, del suo scacco storico
ed esistenziale. Lì, sulle pendici del
vulcano, nella desolazione dell’immenso Etna, è uguale in quel momento, “il
miglior fabbro”, il poeta ambizioso, velleitario, uguale almeno nell’orgoglioso
isolamento e nella solitudine, a quel fuggitivo da Agrigento, al poeta che si
consumò nel fuoco del cratere, a quell’Empedocle di Hölderlin a cui “nell’ora
lieta e sacra della morte / gli dèi sono apparsi senza velo”.
In quegli stessi giorni di
settembre, sulle falde dell’Etna, un altro poeta, e cineasta, Pasolini, girava
scene d’un film: in un luogo d’estremità ed aridità, un giovane imbarbarito
dopo la cancellazione d’una storia, la distruzione d’una civiltà, un estraneo a
ogni consorzio umano e a ogni pietà, uccideva l’incauto viandante e ne divorava
le carni: una metafora e insieme la premonizione di un’altra landa estrema,
desolata, una periferia vaga dove il poeta sarebbe stato assassinato, ridotto,
sotto il peso d’un moderno, metallico feticcio, a una poltiglia insanguinata.
L’Etna innevato e fumante, sorgente
dalla distesa azzurra delle acque, sullo sfondo dell’impareggiabile scenario
dell’antico teatro di Taormina, è apparso, così remoto e innocuo, un dio
possente ma benevolo, idilliaco. Il Bembo paragona le basse e fertili plaghe
del vulcano all’omerica Feacia: “Lì svariate specie di alberi, buone per dare
sia ombra che frutto, in questo tanto superiore a tutti gli altri alberi, che a
me par veramente s’addica a questo luogo ciò che Omero immaginò dei giardini di
Alcinoo…”
Ma in alto, sul vulcano, prossimi al suo orrido aspetto e alla minaccia del suo fuoco, diversi sono stati i sentimenti dei poeti. Davanti a tanta violenza e spaurente nudità, privati d’ogni schermo e illusione, vicini alla scaturigine del magma, sulla sponda del fiume incandescente, nella visione del caos dell’inizio e dell’esito finale, dell’indomabile, perenne cataclisma universale, il poeta si smarrisce e geme. Come gli alberi che, raggiunti dalla lenta e inesorabile colata incandescente, si torcono e lamentano prima d’incendiarsi e di ridursi in cenere.
Inedito 1968 Zafferana Etnea Premio Brancati anno 1968 nella foto si riconoscono gli scrittori Dacia Maraini, Pier Paolo Pasolini, Leonardo Sciascia e Alberto Moravia, Vincenzo Consolo . il Premio Brancati è stata una delle manifestazioni più importanti nel panorama letterario italiano. Fu istituito nel 1967 ad opera del Dott. Alfio Coco, sindaco di Zafferana Etnea per oltre 15 anni . Nel corso degli anni numerosi scrittori sono stati premiati ed hanno partecipato alla rassegna : Elsa Morante , Maria Luisa Spaziani , Ezra Pound , Cesare Zavattini , Ercole Patti, Lucio Piccolo di Calanovela , Jorge Amado, Giuseppe Bonaviri, Maria Occhipinti, Leonardo Sciascia e Vincenzo Consolo.
Il volto del Mediterraneo ha il sorriso di Consolo di Paolo Di Stefano
Èvero che, oggi più di ieri, non c’è da scommettere nulla sulla sopravvivenza degli scrittori (anche dei cosiddetti «classici») nella memoria collettiva di un Paese. Chissà quanti dei lettori forti, quelli cioè che leggono almeno un libro al mese, conoscono Vincenzo Consolo, nato nel 1933 a Sant’Agata di Militello, in provincia di Messina, e morto dieci anni fa a Milano. Eppure, Consolo è senza dubbio, come ha sancito la critica più attendibile, uno dei maggiori narratori del secondo Novecento: un Meridiano, curato da Gianni Turchetta nel 2015 e introdotto da Cesare Segre, raccoglie l’opera completa come si fa per gli autori entrati nel canone. Non è uno scrittore facile, Consolo, ma di quelli che hanno un riconoscimento sicuro non solo per la sua visione della storia (è soprattutto autore di romanzi storici, di cui però rifiutava la definizione di genere) ma anche grazie alla assoluta originalità dello stile con cui la storia viene raccontata e in qualche misura sfidata: una scelta «archeologica» che richiede una continua ricerca e una perenne voglia di sperimentare.
Quando gli si chiedeva dove si collocava idealmente come scrittore, Consolo rispondeva in prima battuta pensando al linguaggio e denunciando il rifiuto di uno stile comunicativo: pertanto tra i due filoni letterari definiti un po’ artificiosamente da Gianfranco Contini, quello monolinguista e quello espressionista, Consolo optava decisamente per il secondo, in parte verghiano, in parte gaddiano-barocco, ormai divenuto minoritario. Lui che era stato per una vita amico di Leonardo Sciascia diceva di porsi, per le scelte stilistiche, sulla sponda opposta: non solo rispetto a Sciascia (che a sua volta parlò scherzosamente di Consolo come di un parricida, sentendosi lui il padre), ma anche rispetto a Tomasi di Lampedusa, Moravia, Morante, Calvino. E riteneva fallita l’utopia unitaria del famoso «risciacquo in Arno» di Manzoni, che pure considerava un modello «sacramentale» per la capacità di mettere in scena la storia (quella secentesca) come metafora universale. Quell’utopia era fallita perché era naufragata, secondo Consolo, la società italiana moderna, da cui era nata una superlingua piatta, tecnologico-aziendale e mediatica, che faceva ribrezzo anche a Pasolini, per il quale l’omologazione linguistica (con il conseguente tramonto dei dialetti) era il segno più visibile di un nuovo fascismo.
Dunque, per Consolo l’opzione linguistica ha una valenza non estetica ma politica, di resistenza e di opposizione, che si traduce sulla pagina in una moltiplicazione di livelli, di generi, di registri, di stili, di voci: la sua è una lingua di lingue, cui si accompagna la pluralità dei punti di vista, una lingua ricchissima, un impasto di dialetti, preziosismi, arcaismi, echi dal greco, dal latino, dallo spagnolo, dal francese, dall’arabo, eccetera, il miscuglio dei depositi di civiltà sedimentati nella storia siciliana. Se per Consolo la letteratura è memoria dolorosa e irrisolta, essa è alimentata da una memoria linguistica altrettanto dolorosa, conflittuale e composita. Anche per questo, è giusto inserire Consolo dentro la vasta e plurima cultura mediterranea, come suggeriva il convegno milanese del 2019, di cui ora vengono pubblicati gli atti (Mimesis, pagine 233, e 20), a cura di Turchetta, sotto un titolo molto significativo: «Questo luogo d’incrocio d’ogni vento e assalto», tra virgolette perché così lo scrittore intendeva il Mediterraneo, ma anche la Sicilia, che ne era (ne è) la sintesi.
Inutile negarselo. Leggere il capolavoro di Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, non è una passeggiata in aperta campagna: è vero che si pone nel solco della narrativa sicula sui moti risorgimentali, dal Mastro-don Gesualdo di Verga a I vicerè di De Roberto al Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, quella narrativa che affronta il Risorgimento come un grumo di opportunismi, di miserie, di compromessi, di astuzie, di contraddizioni mai veramente superate. E però Consolo lo fa a modo suo, con tutta la diffidenza per le imposture della storia (si è parlato di anti-Gattopardo), facendo dialogare tra loro i documenti, frammentando i punti di vista e moltiplicando le voci. Del resto, non è una passeggiata neanche leggere Proust o Gadda o Faulkner o Céline o Joyce: ma ciò non toglie nulla alla loro grandezza e al piacere della lettura, anzi è una conquista di senso ad ogni frase. Scriveva giustamente qualche giorno fa Paolo Di Paolo sulla «Stampa» che la battuta di Valérie Perrin al Salone del Libro sulla noia che le procura la lettura della Recherche è una battuta irritante e populista: tesa solo a conquistarsi l’applauso del pubblico (arrivato puntualmente).
Il fatto è che la scrittura di Consolo viene fuori da un rovello morale e civile, non certo da una felicità narrativa spensierata. Ma i nodi e le interferenze inattese, simmetriche alle tragiche e spesso incomprensibili emergenze storiche, come ha scritto Cesare Segre, sono narrate in una prosa ritmica, «quasi colonna sonora di un viaggio nella storia che è anche, o soprattutto, giudizio sul tempo presente». Un «passo di danza», lo chiamava Consolo, che deriva anche dalla sensibilità lirica (accesa certamente dall’ammirazione per il poeta «barocco» Lucio Piccolo, il barone esoterico di Capo d’Orlando, cugino di Tomasi).
Musica della narrazione e implicito richiamo (per ipersensibilità etica) al presente sono la benzina dei suoi libri, si tratti dei romanzi, dal libro d’esordio La ferita dell’aprile (1963), romanzo di formazione autobiografico sul dopoguerra, si tratti di quel viaggio irreale nella Sicilia del Settecento che è Retablo (1987), fino a Nottetempo, casa per casa (1992) e a Lo spasimo di Palermo (1998). Si tratti dei saggi-racconti-reportage de Le pietre di Pantalica o de L’ulivo e l’olivastro o delle sequenze di quello specialissimo incrocio tra «operetta morale» e cuntu popolare (così Turchetta) che è Lunaria, definita dall’autore una «favola teatrale» (la magnifica trasposizione musicale di Etta Scollo è stata eseguita per i Concerti del Quirinale domenica scorsa e trasmessa da RadioRai3).
Il sorriso dolceamaro di Vincenzo assomigliava a quello dipinto da Antonello da Messina nella tavoletta che ispirò il suo capolavoro, ma si aggiungeva un che di dispettoso e di infantile, e soprattutto si accendeva o si oscurava, da lontano, al pensiero della Sicilia. L’ossessione di Consolo, come quella di tanti scrittori siciliani (tutti?), era la Sicilia, da cui partì verso Milano poco più che ragazzo prima per studiare, negli Anni 50, poi definitivamente nel 1968. I 58 elzeviri pubblicati sul «Corriere» non tradiscono la ferrea fedeltà verso la sua isola, a cominciare dal primo, datato 19 ottobre 1977, sulla «paralisi» della Sicilia paragonata alla malinconia di cui è vittima il «lupanariu», ovvero colui il quale è colpito dai malefici del lupo mannaro nelle notti di luna piena.
Ricordava, Consolo, che da studente dell’Università Cattolica, alloggiando in piazza Sant’Ambrogio, vedeva dalla sua finestra i minatori che dal vicino centro di smistamento immigrati, dopo la selezione medica, il casco e la lanterna in mano, salivano sui tram per prepararsi a partire, dalla Stazione Centrale, verso i bacini carboniferi del Belgio, e qualcuno certamente sarebbe andato a morire a Marcinelle o in altre miniere… Lo raccontò anche in un articolo del 1990 in cui recensiva i primi libri-testimonianza dei migranti africani che allora si chiamavano «extracomunitari» o «vu’ cumprà». Sono, è evidente, interventi sempre militanti, come quelli pubblicati per una vita in altri giornali: «L’Ora», «Il Messaggero», «La Stampa», «il Manifesto», «L’Espresso»…
Il 21 novembre 1989 gli toccò ricordare l’amico e maestro Leonardo, morto il giorno prima a Palermo. Cominciava evocando i luoghi reali e quelli immaginari dell’amico e accostandoli a quelli di Faulkner e di Camus: «Racalmuto, Regalpetra: la sua Yoknatapawpha, la sua Orano. La sua, di Leonardo Sciascia. Credo che non si possa capire questo straordinario uomo e questo grande scrittore, al di là o al di qua del più vasto teatro della Sicilia, dell’Italia o della civiltà mediterranea, senza questo piccolo mondo, questo suo piccolo paese di nascita e formazione, sperduto nella profonda Sicilia. Un paese “diverso”, singolare». Tutto diverso e singolare, in Sicilia, tutto sperduto e profondo.
In quel panorama saggistico così completo delle tendenze e delle aporie dello spirito del XX secolo che è Uomo senza qualità, Musil mette a fuoco la complessa, subdola, disperata problematica in cui lotta l’uomo contemporaneo. Dibattuto sempre tra due poli, l’uomo è condannato all’incertezza, ad una perenne insicurezza, che investe, ovviamente, anche la Storia, ormai talmente deprivata dell’ottimistica visione progressista di stampo positivista da portare Musil ad affermare che <<per cause ignote l’evoluzione raramente acquista di più di quanto non perde in deviamenti e distruzioni» (p. 280)1. Una visione realisticamente sconsolata di come stanno le cose nel XX secolo, quindi, contro cui Kurndera, Brodskij, Calvino, Todorov – tra i tanti – hanno ipotizzato una possibile via d’uscita. Una sorta di salvezza estetica contro il male del mondo, e della Storia: il male dell’indifferenza (contro cui si scagliava Gramsci con tutta l’indignazione di cui era capace), del potere che tutto eguaglia con la forza dell’ideologia, delle armi, del danaro. All’incertezza paralizzante individuata da Musil si oppone la saggezza dell’incertezza del romanzo, il rigore con cui la poesia oppone al buio o alla luce accecante delle certezze ufficiali le tracce più tenui, la differenza di minuscoli fatti o cose, come il topo bianco d’avorio in Dora Markus di Montale. La coscienza che emerge dalla letteratura – ovvero il fatto che il reale è un fascio di possibilità – è ciò che viene opposto alle macchine da guerra del potere. Di qui l’invito di Brodskij: Eppure dobbiamo parlare; e non solo perché la letteratura, come i poveri, è notoriamente portata a prendersi cura dei propri figli, ma più ancora per via di un’antica e forse infondata convinzione, secondo Ia quale se i padroni di questo
1 Robert Musil, L’uomo senza qualità, Torino, Einar-rdi,2 voll., 1996 e1997, ol. I, p. 280
mondo avessero letto un po’ di più, sarebbero un po’ meno gravi il malgoverno e le sofferenze che spingono milioni di persone a mettersi in viaggio. Poiché non sono molte le cose in cui riporre le nostre speranze di un mondo migliore, poiché tutto il resto sembra condannato a fallire in un modo o nell’altro, dobbiamo pur sempre ritenere che la letteratura, sia l’unica forma di assicurazione morale di cui una società può disporre; che essa sia I’antidoto permanente alla legge della jungla; che essa offra l’argomento migliore contro qualsiasi soluzione di massa che agisca sugli uomini con la delicatezza di una ruspa […] Dobbiamo parlare perchè dobbiamo dire e ripetere che la letteratura è una maestra di finesse umana, la più grande di tutte, sicuramente migliore di qualsiasi dottrina; dire e ripetere che, ostacolando l’esistenza naturale della letteratura e l’attitudine della gente a imparare le lezioni della letteratura, una società riduce il proprio potenziale, rallenta il ritmo della propria evoluzione e in definitiva, forse, mette in pericolo il suo stesso tessuto. Se questo significa che dobbiamo parlare cli noi, tanto meglio: non già per noi stessi, ma forse per la letteratura 2. La realtà estetica è, così, chiamata a ridefinire la realtà etica dell’uomo. Ed è proprio in questo senso, allora, che l’affermazione di Dostoevskij – «la bellezza salverà il mondo>> – va presa alla lettera. Consolo sapeva tutto questo. Sempre impegnato sia nel suo lavoro giornalistico sia in quello letterario, sapeva bene – sapeva sempre più – che (come aveva intuito Musil) non abbiamo punto d’appoggio, che danziamo tutti sull’orlo dell’abisso. Sapeva che il mondo con i suoi orrori – (guerre, fame, ingiustizie, razzismo, violenza, disperazione dei tanti, arroganza dei potenti) da lui inesaustivamente denunciati fino all’ultimo – deborda da tutte le parti. E, dunque, avvertiva (insierne a Kundera, Brodskij, Calvino Torodov’, Pasolini, etc.) che per un intellettuale è necessario opporsi con tutti i mezzi possibili, essere contro a tutto questo. Ma per fare diga all’orrore del mondo e di chi lo governa, ci vuole un impegno permanente, una capacità di sdegno sempre all’erta, un’arte – la scrittura – che abbia un metodo inesorabile che permetta di costruire un ponte sull’abisso sottostante. Ecco, quindi, delinearsi le componenti necessarie al suo scrivere storico-metaforico, sostanziato anche dalla sua frequentazione con i lavori del Gruppo 47, particolarmente con l'<<etica della memoria>> di Enzensberger a cui Consolo fa eco con la propria <<metrica della memoria>3:
2 Iosif Brodskil, Dail’esilio, Milano, Adelphi, 1988, p. 54. 3 Per il debito contratto con il Gruppo 47, in particolare con l’Enzesberger di Letteratura come storiografia, cfr. quanto dice Consolo in Fuga dall’Etna, La Sicilia e Milano, la memoria e la storiografia (Roma, Donzelli, 1993), alle pp. 33,48-49.
1) Demistificazione dell’idea ottocentesco-progressista della storia (quella, per capirci, del Manzoni e non solo)4. 2) Necessità di dare voce a chi non l’ha mai potuta avere. 3) Passione e impegno civili ad oltranza che portano a una coincidenza tra vita e scrittura. 4) Uso raffinato e ironico della grande sapienza storica, letteraria e linguistica che riguarda ogni sua scelta di stile e di lingua d’espressione determinandone la plurivocità.5 Consolo – rifacendosi alle parole di Sciascia nel racconto La sesta giornata – si ascrive a quella schiera di poeti che non capiscono come <<un testo possa splendere di verità e mancare di poesia>> e che intendono, invece, scrivere <<parole che vogliono farsi azione>> 6, rappresentando profondamente la storia e lo spirito del proprio tempo, partendo sempre da una precisa appartenenza e specificità storico-geografica perché, come ricorda Maria Attanasio – poetessa e scrittrice calatina che ha in Sciascia e Consolo due suoi maestri – ogni narrazione storica è sempre ad alto tasso autobiografico e non potrebbe essere altrimenti. Come in Sciascia, così in Consolo, parola e azione sono due facce della stessa medaglia. Scrittura e impegno etico e civile sono indissolubili l’una dall’altro. E se Sciascia afferma che solo nella storia la sua scrittura del mondo trova legittimazione e senso, Consolo ha sempre ripetuto: «Mi interessava il mondo storico sociale, non mi interessavano i problemi personali o le indagini psicologiche” Mi interessava raccontare la storia, la Sicilia>>. Detestava, inoltre, come sanno tutti quelli che lo hanno conosciuto, il romanzo giallo (fatta eccezione per i gialli civili di Sciascia ben lontani dal cosiddetto romanzo giallo con tanto di fine risolutiva) e l’autobiografismo (amava ripetere che proprio non si sapeva più che farsene dei troppi Proust di provincia …). Scrive, quindi, di storia e sulla storia, cercando – non senza valenze utopistiche – soluzioni non volte a cancellare la storiografia ufficiale. ma tali da affiancarle quella potenziale, mai scritta, mai 4 A questo proposito si veda il saggio di Renato Nisticò, Cochlìas legere. Letteraturae realtà nella narrativa di Vincenzo Consolo, in «Filologia antica e rnoderna >>, 4, 1992,pp 179.22). ‘ Per gli aspetti linguistico-stilistici e per il concetto di plurivocità, è d’obbligo il lavoro di Cesare Segre, La costruzione a chiocciola nel Sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo, in intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del novecento, Torino, Einaudi, 199i, pp. 71-86. ” Leonardo Sciascia, La sesta giornata, in «Officina>>,7,1956, pp.29L-298, p.297 . 7 Traggo questo concetto dai miei appunti presi durante una conversazione privata con Maria Attanasio. Di Maria Attanasio si veda Struttura-azione di poesia e narrativa nella scrittura di Vincenzo Consolo, in <<Quaderns d’ltalia, 10, 2005, pp. 19-30. tramandata, non riconosciuta, comunque e sempre passata sotto silenzio. Con sfida, nel Sorriso dell’ignoto marinaio (editio princeps 1976) delega nelle appendici i cosiddetti documenti ufficiali mentre costruisce i capitoli del libro su elementi verisimili, che ufficiali non hanno mai potuto essere. La storia, infatti, la scrivono sempre i vincitori mai i vinti, ed è proprio ai vinti – nel suo tentativo di riscattarli dall’immobile fatalismo a cui li aveva condannati Verga ed eternati Tomasi di Lampedusa – che Consolo dà la parola. Scrive di storia con forza e convinzione per cercare di fare breccia sulla crosta di parzialità, falsità, assolutismo di cui è fatta la storiografia ufficiale. Dietro quella crosta costruita sull’illusione del cammino progressivo della storia si nasconde la storia di chi non ha avuto i mezzi e gli strumenti per narrarla dal proprio punto di vista. Con il suo sguardo Consolo vuole andare aldilà di questa crosta cercando di rintracciare il nostro destino, cercando – forse – al di là di tante pretese certezze – qualcosa che giustifichi laicamente, come ebbe a dire il suo amato Leopardi, la <<nostra vita mortale». A proposito di Leopardi, Consolo in impietrata lava – uno degli ultimi testi da lui pubblicati e che è profondamente autobiografico – ricorda che è la poesia a salvare il poeta: <<E nel deserto della natura e della storia, unica consolazione si trova nell’odorata ginestra”, nella “social catena”, ne “l’onesto e il retto conversar cittadino”, nella “giustizia e nella pietade”>>, ribadendo che l’unica consolazione possibile va cercata <<nella religione della tradizione e della famiglia, nell’attaccamento tenace come quello delI’ ostrica allo scoglio, al paese natio>>. Il che illumina sia le ragioni di Leopardi che quelle di Consolo. Sempre nello stesso saggio, a proposito di Verga – che deluso, a Milano, a partire dal 1874 scrive sulla Sicilia in una maniera fino a quel momento a lui stesso sconosciuta (Consolo parla traslatamente di se stesso, del suo essere diventato scrittore di storia di Sicilia dopo avere lasciato l’isola nativa alla volta della città del Grande Nord dello Sviluppo Economico) – in seguito alla caduta di tutte le illusioni che questo esilio aveva comportato e alla necessità, attraverso la scrittura, di cercare di fare i conti con la storica collettività umana (di cui la Sicilia è emblema) per coglierne, al di là delle macerie di cui è disseminata, alcuni tra i suoi aspetti più vividi: Vincenzo Consolo, Impietrata luna, la matrigna natura in Leopardi e Verga, in «RISL», ed. Insula, 6. 20i0, pp.253A: p.28.
«Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia stare fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta d’addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca.>>
Queste parole, tratte dal racconto Comiso dalle Pietre di Pantalica, sono una dichiarazione di poetica. Rivelano il fondamento lacerante delia sua impostazione ontologica e letteraria: la memoria dall’esilio, l’evocazione da lontano della Sicilia. La vocazione di Consolo è precoce, dettata sia dalla posizione geografica (Sant’Agata di Militello sul versante tirrenico della Sicilia), sia dalla dichiarata volontà di schivare ogni mediterraneità, scegliendo subito l’impegno l’indagine della realtà, avevano fatto Levi, Silone, soprattutto Vittorini e Sciascia. Dopo l’università Cattolica, Milano divenne la mia città.10 Emblematico di quanto appena detto è il brano finale del racconto La casa di lcaro: E ora che sei migrato per sempre, caro Uccello, io rispondo a quella tua richiesta di fare tutto il possibile… E il possibile è questo, di ricordarti, dagli spazi chiusi di questa nostra frigida vita, con affetto e con rimpianto, dolce e feroce, cantore e predatore di memorie, di reliquie d’un mondo trapassato di fatica e dolore, vero, umano, per iI quale non nutrivi nostalgia, ma desiderio, apparenza di riscatto.11. Il primo libro, La ferita dell’aprile (1963), rispecchia quegli anni di impegno, giustifica la propensione verso la storia che è stata decisiva per la sua vita letteraria. E con il romanzo del 1976, Il sorriso dell’ignoto marinaio – con cui si apre la Trilogia – che il quarantatreenne scrittore fa affiorare sua critica corrosiva e irridente alla storia ufficiale proponendone una possibile alternativa: quella di una lettura polifonica dei fatti e degli eventi che accolga anche la voce di coloro a cui è sempre stato negato averne una. La sua storia è sempre stata quella degli esclusi, dei reietti. Quella, in termini gramsciani, dei subalterni. Non quella silenziosa e ras-
Vincenzo Consolo, incipit di Comiso, in Le pietre di Pantalica f 19BBl, Milano, Mondadori, 2001, pp. ll5-181, p, 175.ro Citazione dall’articolo di Alessandra Bonaccorsi, Vincenzo Consolo: un intellettuale immerso nella Storia, nella rivista on line «Sicilia&Donna>>, wvw,siciliaedonna.it, 29 gennaio 2012. 1r La casa di lcaro, in Le pietre di Pantalica, cit., pp. 119-127: p. 127 .
segnata dei protagonisti gattopardeschi, né quella trionfante dei vincitori, dei nobili, dei mafiosi: quella di Vincenzo Consolo è una storia ” altra” – di sofferenti e di sofferenze – contro la Storia di sempre, quella che viene ripetuta da “baroni, proprietari e allitterati con ognuno che viene qua a comandare, per avere grazia e giovamenti e soprattutto per fottere i villani” 12. Il Sorriso è il risultato di una speranza storica, della fiducia ancora riposta nella lotta di classe quale unico possibile strumento valido per cambiare il corso della Storia. Dopo il Sorriso si assiste progressivamente ad una metamorfosi, un cambio – in Consolo – che si manifesta attraverso il rintuzzamento di quella fiducia e di quel sorriso in Nottetempo, casa per casa (1992), fino al loro desolato spegnersi nell’afasia terminale dello Spasimo (1998). Nel Sorriso, Consolo si dedica alla non facile impresa di rappresentare il drammatico dilemma espresso da Marx nella Sacra famiglia: La classe possidente e la classe del proletariato rappresentano la stessa auto-estraneazione umana. Ma la prima classe si sente completamente a suo agio in questa auto-estraneazione, sa che essa costituisce la sua propria potenza ed ha in essa la parvenza di un’esistenza umana; la seconda, in tale estraneazione, si sente invece annientata, vede in essa la sua impotenza e comprende in essa la realtà di una – la sua – esistenza non umana. Per usare un’espressione di Hegel, essa è, nell’ abiezione, la ribellione contro questa abiezione, ribellione a cui essa è necessariamente spinta dalla contraddizione tra la sua natura umana con la situazione della sua vita, che è la negazione aperta, decisa, assoluta di questa natura. 13 C’è una pagina, all’ inizio del capitolo sesto del Sorriso – Lettera di Enrico Pirajno all’avvocato Giovanni Interdonato come preambolo a la memoria sui fatti d’ Alcara Li Fusi – che a questo proposito mi pare esemplare. Ricordo velocemente (giusto per contestualizzare pagina prescelta) che il romanzo – il cui ordito storico è costituito dalle vicende siciliane negli ultimi anni del dominio borbonico e, in particolare, dai tentativi di rivoluzione liberale e dalle rivolte contadine susseguitesi fino a poco dopo lo sbarco di
12 A. Bonaccorsi, Vincenzo Consolo: un intellettuale immerso nella Storia, cit. La Bonaccorsi a sua volta cita un passo di Consolo dalle Pietre di Pantalica.13 Friedrich Engels – Karl Marx, Die heilige Familie oder Kritik der kritischen Kritik.Gergen Bruno Bauer and Corsorten [1845], La Sacra famiglia ovvero Critica della critica critica. Contro Bruno Bauer e soci, traduzione e cura di Aldo Zanardo, Roma, Editori Riuniti,1967, p.97..
Garibaldi – culmina nella rivolta di Alcàra Li Fusi contro i feudatari del luogo nel maggio 1860. Vi assiste casualmente il protagonista del libro, il nobile Enrico Pirajno barone di Mandralisca – personaggio storico realmente esistito (1809- 1864) a cui si deve Il Museo Mandralisca di Cefalù, dove è conservato il Ritratto di Ignoto di Antonello da Messina a cui rimanda il titolo del romanzo di Consolo – erudito, archeologo, numismatico e famoso naturalista appassionato di malacologia nonché collezionista d’arte. deputato alla Camera dei Comuni nel 1848 e, dopo l’Unità, nel Primo Parlamento del Regno d’Italia. Uomo di idee liberali ma lontano fino a quel momento dall’’azione politica, non può esimersi, date le circostanze di cui è stato testimone, da due decisive riflessioni: I) la considerazione che la Storia è <<una scrittura continua di privilegiati>> 14 e che esiste, quindi, una storia dei vincitori e una dei vinti, scritta la prima mai scritta la seconda e II) che in questa drammatica dicotomia, perenne e a prima vista irresolubile, consiste la tragedia della Storia. Nell’atto di stendere una relazione sui fatti appena accaduti, e di stenderla come avrebbe fatto <<uno di quei quei rivoltosi protagonisti moschettati [fucilati] in Patti» 15 o << uno zappatore analfabeta come Peppe Sirna inteso Papa>>16, intuendo e avendo come già chiaramente presente tale versione in irriducibile opposizione a quella fatta di <<arringhe, memorie, scritte su gazzette e libelli che pendono dalla parte contraria agli imputati>> 17, appartenenti alla voce ufficiale della storia, confessa e ammette l’impossibilità dell’impresa: No, no. Ché per quanto l’ intenzione e il cuore sian disposti, troppi vizi ci nutriamo dentro, magagne, per nascita, cultura e per il censo,18. E di conseguenza questo “scarto di voce e di persona” (ovvero, per dirla con Marx, questo immedesimarsi nella classe del proletariato) gli appare un’azione scorretta, una cosa che non si fa, un’impostura.19
14 II sorriso dell’ ignoto marinaio (1976), Torino, Einaudi. 1999, p. 97. 15 15Ibid. 16 ibid. 17 ibid 18 ibid. 19 Ugo Dotti, Storia e memoria: Vincenzo Consolo,,<Marxismo oggi>>, sul sito on line www.marxismoggi.it, pp. 1-8, p. 1.
Ed allora, nella sua lettera all’avvocato <<illuminato>> Giovanni Interdonato (altra figura storica del romanzo, nominato nel 1865 Senatore del Regno d’Italia) che fa da preambolo alla memoria su fatti di Alcàra Li Fusi, scrive:
Ed è impostura mai sempre la scrittura di noi cosiddetti illuminati, maggiore forse di quella degli ottusi e oscurati da’ privilegi loro e passion di casta. Osserverete: ci son le istruzioni. Le dichiarazioni agli atti le testimonianze.,. E bene: chi verga quelle scritte, chi piega quelle voci e le raggela dentro i codici. le leggi della lingua? Uno scriba, un trascrittore, un cancelliere, Quando [invece] un immaginario meccanico istrumento tornerebbe al caso, che fermasse què discorsi al naturale, siccome il dagherrotipo fissa di noi le sembianze. Se pure, siffatta operazione sarebbe ancora ingiusta. Poi che noi non possediam la chiave, il cifrario atto a’ interpretare que’ discorsi. E cade acconcio in questo luogo riferire com’io ebbi la ventura di sentire un carcerato, al castello dei Granza Maniforti, nel paese di Sant’Agata, dire le ragioni nella parlata sua sanfratellana, lingua bellissima, romanza, o mediolatina, rimasta intatta per un millennio sano, incomprensibile a me, a tutti, comecché dotati d’un moderno codice volgare. S’aggiunga ch’oltre alla lingua, teniamo noi la chiave, il cifrario dell’essere, del sentire e risentire di tutta questa gente? Teniamo per sicuro il nostro codice, del nostro modo d’essere e parlare ch’abbiamo eletto a imperio a tutti quanti: il codice del dritto di proprietà e di possesso, il codice politico dell’acclamata libertà e unità d’Italia, il codice dell’eroismo come quello del condottiero Garibaldi [.,.], il codice della poesia e della scienza, il codice della giustizia o quello d’un utopia sublime e lontanissima .,. E dunque noi diciamo, Rivoluzione, diciam Libertà, Egualità, Democrazia, riempiamo d’esse fogli, gazzette, libri. lapidi, pandette, costituzioni, noi, che que’ valori abbiamo già conquisi e posseduti [.,.] E gli altri, che mai hanno raggiunto i dritti più sacri e elementari, la terra e il pane, la salute e l’amore, la pace, la gioia e l’istruzione, questi dico, e sono la più parte, perché devono intender quelle parole modo nostro? 20 La ricerca di una possibile veridicità dei fatti storici da parte di coloro che hanno potere di scrittura viene meno. E allora? Che resta da fare? Ben lontano dalla fatalistica accettazione dello status quo in cui sono condannati a mal convivere per sempre i <<galantuomini> e la <<povera gente>> che popolano 1a novella Libertà di Verga – relativa alla feroce rivolta di Bronte e a1la ancor più violenta repressione di Nino Bixio il 4 agosto 1860 -, Consolo è altamente conscio della natura umana delle due classi antagoniste. In lui, con Dotti. sono evidenti sia il riconoscimento di quanto sia stata giusta la cruda ribellione contadina, ma anche l’inattesa affermazione che la classe dei possidenti, mancando dei necessari “codici” interpretativi, 20 Il sorriso dell’ignoto marinaio, cit. pp. 97 -98. dovrebbe comunque astenersi dal giudicare un evento che ha in realtà appalesato l’ignominia umana della storia stessa. 21 E qui soccorre la proposta, dal sapore utopistico, di Consolo espressa, in quegli anni ancora soffusi di speranza, attraverso il suo barone di un secolo prima con un attacco di frase, che echeggia il <<“Verrà un giorno.,. “>> che Padre Cristoforo rivolge a Don Rodrigo nel VI capitolo dei Promessi sposi.:22 Ah, tempo verrà in cui da soli conquisteranno que’ valori, ed essi allora li chiameranno con parole nuove, vere per loro, e giocoforza anche per noi, vere perché i nomi saranno interamente riempiti dalle cose. 23 Si vagheggia di un futuro in cui il linguaggio, invece di essere l’ornamento retorico di una violenta ipocrisia storica, riconquisti urla precisa adesione al senso concreto delle cose e possa dare corpo alle voci fino ad allora silenziate e mute, rese abili finalmente a svelare l’autentico senso delia storia, con le sue infamie morali, politiche ed economiche. Una certa qualche speranza nel futuro, che poi sparirà dall’ opera di Consolo, si rintraccia nel fatto che quell’auspicato cambiamento trovi uno spiraglio per riproporsi non più nell’Occidente (dove la fiducia nella lotta di classe è spenta. divenuta fredda cenere), bensì in un più profondo e vitale Sud del mondo. C’è un racconto del 1985, raccolto ora in La mia isola è Las Vegas col titolo Porta Venezia, in cui Consolo parla del luogo da lui più amato a Milano, la zona, multietnica di Porta Venezia, dove a proposito della cospicua popolazione africana e asiatica che ci vive, leggiamo nell’incipit: <<“Incidono lo spazio” mi dicevo.
“Sono una perentoria affermazione dell’esistenza”>>. E ancora, poco più avanti nel testo: Erano, i marciapiedi di corso Buenos Aires, in questo tardo pomeriggio di sabato, tutta un’ondata di mediterraneità, di meridionalità, dentro cui m’immergevo e crogiolavo, con una sensazione di distensione. di riconciliazione. Io che non non sono nato in questa nordica metropoli, io trapiantato qui, come tanti, da un Sud dove la storia s’è conclusa, o come questi africani, da una terra d’esistenza (o negazione d’esistenza) dove la storia è appena o non è ancora cominciata; io che
21 Ugo dotti, Storia e memoria: Vincenzo Consolo, cit., p.2. 22 Alessandro Manzoni, I promessi sposi [1840-1842], Milano, Garzanti,l9B3,p.75. 23 Il sorriso dell’ignoto marinaio cit., p. 98. 24 Vincenzo Consolo, Porta Venezia, ora in mia isola è Las Vegas, (postumo) voluto da Consolo e a cura di Nicolò Messina, Milano, Mondadori, 2012,pp,111-116, Il racconto era uscito per la prima volta nel luglio 1985 ne<Il moderno» col titolo una sera mediterranea
sono di tante razze e che non appartengo a nessuna razza, frutto dell’estenuazione bizantina, del dissolvimento ebraico, della ritrattazione araba, del seppellimento etiope, io, da una svariata commistione nato per caso bianco con dentro mutilazioni e nostalgie. Mi crogiolavo e distendevo dento questa umanità come sulla spiaggia al primo, tiepido sole del mattino 25.
Nel 1985 la speranza riguardo alla Storia trapelava ancora. Non a caso, sempre nel 1985, Consolo può scrivere quel cunto di settecentesca ironia che è Lunaria che, insieme a Retablo (1987), costituisce un intermezzo, un momento di pausa e di riflessione riguardante (sempre da leggersi in chiave di metafora) il secolo dei lumi, con le sue contraddizioni, la sua guerra tra buio e ragione, seguendo i protagonisti nel loro progressivo rendersi conto dei perché del proprio vivere e del mondo, alla luce di una ragione difficilmente conquistata, se e quando conquistabile. E questo costituisce l’impegno di tutti i personaggi degli scritti di Consolo e, con loro, del loro autore che in essi rivive e tramite essi cerca di dare espressione all’uomo che si sforza di annientare la propria componente animalesca per diventare umano. Messaggio questo ben esemplificato nel titolo di un libro, tra i suoi più belli, che è L ‘olivo e l’olivastro (1994): l’umano e il bestiale, il coltivato e il selvatico: dicotomia di omerica, ulissica memoria. Con il passare del tempo e con quel che accade nell’oggi dello scrittore, sensibilissimo a rilevare i cambiamenti e i sismi della società (gli anni Novanta vedono la cancellazione di un’intera generazione politica, Tangentopoli, l’inchiesta Mani pulite, l’ascesa politica di Berlusconi e della Lega Nord in un ritorno al fascismo più becero), speranza e fiducia vacillano e cominciano a venir meno, soppiantate da rabbia, sdegno, impotenza senza scampo tranne – forse e sempre più in bilico – quello estetico da affidare nonostante tutto e contro qualsiasi tentazione di afasia e silenzio, alla scrittura. La Trilogia è come un’appassionata partitura in cui i tre movimenti – adagio, sostenuto, grave – sono ben distinti e si susseguono in un crescendo vorticoso (come l’immagine della chiocciola cara a Consolo) che svela, con sempre più sdegnato dolore, gli inganni, le crudezze, le insensatezze della storia: dalla cosiddetta Unità nel Sorriso nel 1976 (in realtà miope piemontizzazione della penisola), alle sopraffazioni e angherie del fascismo in Nottetempo (1992), ai crimini di uno Stato connivente con la Mafia nello Spasimo (1998)” 25 lvi, pp. 112-113.
Il 1992 è l’anno di Nottetempo. In questo romanzo Consolo, come suo solito, parla dell’oggi raccontando dell’ieri. Qui si tratta di un momento clou della storia siciliana e italiana nei primi anni Venti, quelli che hanno segnato l’avvento del fascismo e la notte della ragione. In un romanzo corale, attraverso l’evocazione di tanti destini individuali, lo scrittore coglie un’intera civiltà ormai sull’orlo dell’abisso, In questo libro Consolo tenta di realizzare quell’arduo proposito a cui accennavo poco fa dell’uomo che lotta per fare prevalere la sua umanità sull’animalità. Qualcuno ha suggerito che Nottetempo è un <<poema diviso in dodici canti>. In questi dodici canti il narratore svolge il tema di un uomo, Petro Marano che, atrocemente colpito da un’ignota offesa, si sforza facendo conto solo su se stesso per sottrarsi alla propria sventura, alla sua continua pena: la follia animalesca del padre (<<luponario>>, licantropo), la disgrazia mentale della sorella, la confusione babelica che corrompe anche il linguaggio e che <<stracangiava le parole, il senso loro 26>> onde <<il pane si faceva pena, la pasta peste, il miele fiele, la pace pece, il senno sonno…>>27. Il tutto ad echeggiare i tempi (passati e presenti) di perdita della ragione, buio dell’ignoranza, irrazionalità (v. il personaggio modellato su quello storico di Aleister Crorvley (1875 -1947), mago profeta e satanista di origine britannica), sopraffazioni, crimini e misfatti” Nel libro si cerca, con fatica e allentata speranza, di fare leva sulla ragione per vincere quello che ragione non è, quella <<bestia dentro l’uomo che si scatena e insorge, trascina nel marasma. La bestia trionfante di quel tremendo tempo, della storia, che partorisce orrori, sofferenze>>28. Alla fine del libro Consolo, con scoperta autoreferenzialità, riprende lo speranzoso proposito del Sorriso (quello veicolato dalla frase <<verrà un giorno in cui i nomi saranno riempiti dalle cose>>) e ne affida la (potenziale) realizzazione al disgraziato protagonista del libro che nella chiusa si smarca dalla nefasta influenza dell’’anarchia violenta e idealista di Paolo Schicchi, fugge in Tunisia, e cerca ragione nella scrittura: ultimo stadio prima dell’afasia e del silenzio. Ecco le parole conclusive di Nottetempo: Cominciava il giorno, il primo per Petro in Tunisia. Si rinnovò il libro dell’anarchico, aprì le mani e lo lasciò cadere in mare. Pensò al suo quaderno. Pensò che
26 Nottetempo casa per cassa (1992), Milano, Mondadori,2000, p, 140, 27 Ibid. 23 Nottetempo casa per casa, cit., p. 170.
ritrovata calma, trovate le parole, il tono, la cadenza, avrebbe raccontato, sciolto il grumo dentro. Avrebbe dato ragione, nome a tutto quel dolore.29 Pietro Marano, qui esplicitamente chiamato a ‘riempire i nomi con cose nuove’, porta a compimento la prima parte del suo compito (quella precedente la scrittura) nel momento in cui arriva a comprendere che l’unica salvezza possibile risiede nella fuga. Una fuga che è anche resurrezione: emigrazione a Tunisi, come un qualsiasi emigrante alla ricerca di <<lavoro, casa, di rispetto>>30. Ed è rispetto la parola chiave. Rispetto per se stesso, per gli altri, per gli uomini di senno che superano il sonno a cui i più sono costretti. Il risvegliarsi dal quel sonno non è stato facile, non allietato da nessun enfatico ‘sol dell’avvenire’. Il risveglio coincide con il distacco necessario autobiograficamente a chi scrive (a Dante in esilio, a Verga e Consolo a Milano) – avvenuto nottetempo, casa per casa – da un passato dolorosamente ma consapevolmente respinto, da una memoria a cui si dovrà tornare un giorno (con la scrittura) per calcolarne il peso e coglierne il significato. La speranza in una possibile polifonia della storia e sulla storia, vaga nel Sorriso, assai attenuata in Nottetempo, è fugata nello Spasimo (1998). Il libro è stato scritto in seguito all’offensiva della Mafia contro lo Stato culminata nelle stragi che videro nel 1992 la morte dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (alla cui esecuzione il narratore fa menzione alla fine del libro). Si tratta del testo più sofferto della Trilogia, e non a caso. È infatti quello che tratta di fatti contemporanei all’autore, ragione per cui gli viene a mancare a mancare – data la gravità dell’argomento trattato – il distacco. È il meno lineare dei libri di Consolo nell’ossessivo affollarsi di passato e presente, nella contrapposizione di storia e memoria, nel vano bisogno di conforto che il ricordo potrebbe offrire e che suscita, invece, un bruciante sentimento di patimento, di sofferenza, di spasimo appunto. Il sostantivo del titolo (oltre al dipinto di Raffaello e alla chiesa eponima palermitana a cui si riferisce), è allusivo allo strazio che da Palermo e dalia Sicilia si allarga e investe il mondo intero. Consolo fa scorrere il suo sguardo sempre più ferito e indifeso sulla società attuale in cui, sotto mentite e apparentemente benevole spoglie, domina sempre, e non solo subliminalmente, la violenza fascista avvallata dalla follia del libero mercato del capitalismo più selvaggio, che ha inondato il mondo con la sua spietata corruzione. Dopo la guerra, l’Italia del dopo-
2e Ivi, p. 171.3 lvi, p. 170.
guerra, quella del futuro… Ma, si chiede il narratore, cosa hanno fatto di effettivo le due generazioni che si sono succedute dal secondo dopoguerra? Quella del padre (protagonista del libro, scrittore) Gioacchino Martinez e quella del figlio Mauro? La prima s’è rinchiusa nell’inerte escapismo dell'<azzardo letterario>>31; la seconda mossa da quella che riteneva una «lucida ragione32>> si è data all’inconcludente violenza della lotta armata e del terrorismo. Ma è così che si costruisce una <<nuova società, una civile,
giusta convivenza>>33? Questa amara confessione, sottesa a tutte le ingarbugliate pagine del racconto, emerge finalmente nel capitolo conclusivo. Ma in quell’ultimo, XI capitolo, la catartica confessione
scritta del protagonista e indirizzata all’estraniato figlio, proprio quando sembra lasciare trapelare che, nonostante tutto e tutti, il lume della ragione possa forse ancora riaccendersi e mandare qualche favilla, viene bruscamente interrotta da una telefonata allarmata che impone al protagonista di scappare e, di lì a poco, esplode sotto casa sua la bomba che distrugge la vita del giudice (senza nome ma è Borsellino) e della sua scorta.
Se la lettera, in quanto scrittura, era ancora a sole poche righe dalla chiusa del libro l’unico salvagente possibile rimasto per aggrapparvicisi e cercare di non affogare, dopo l’esplosione rimane solo il silenzio. Storia e memoria sono morte. E con esse muoiono parola e scrittura e, quindi anche l’un tempo vagheggiata altra possibilità polifonica di scrivere la storia. Restano il silenzio e una cantilena popolare muta, un rituale senza più speranza che irride forse apotropaicamente, qualsiasi salvezza, dovuta alla ragione e all’umanità. Su queste ha prevalso l’animalità, l’olivastro ha estirpato l’olivo: Cercò di dire, ma dalle secche labbra non venne suono. Implorò muto. O gran mano di Diu, ca tantu pisi, cala, manu di Diu, fatti palisi! 34
Dopo due millenni di civiltà <<post Cristum natum i popolani si vedono ancora costretti a invocare l’appalesarsi della giustizia divina>>35: più sconsolata e sconsolante di così questa fine non poteva essere.
31 Lo Spasimo di Palermo, Milano, Mondadori, 1998, p.126. 32 Ibid. 33 Ibid. 34 Lo Spasimo di Palermo cit., p, 131 35 Ugo Dotti, Storia e memoria; Vincenzo Consolo, cit., p. 4,
La data di pubblicazione del libro, 1998, la dice lunga sull’atmosfera che si respirava in Italia se anche un giornalista-scrittore – lontano letterariamente da Consolo ma a lui vicino in quanto a impegno civile – come Enrico Deaglio, nel 1992, in uno dei suoi racconti quasi veri ambientato in Sicilia, Il figlio della professoressa Colomba, descrive il progressivo eclissarsi della forza innovativa che un suo personaggio eccentrico e solitario, l’anglo-americano Michael Stetson Morse, aveva deciso di devolvere al miglioramento delle condizioni di vita della popolazione del paese siculo scelto come sua patria adottiva. Ecco cosa gli fa dire il narratore ricorrendo, come farà anche Consolo alla fine dello Spasimo, all’espediente della lettera, indirizzata al fratello Richard e che sarà letta pubblicamente, senza essere ascoltata dai presenti, al proprio funerale dopo essere stato assassinato dalla Mafia:
[.,.] Come ben sai, la mia opera qui si è trasformata in un grande fallimento; ho tentato di promuovere un’istruzione e un’assistenza sanitaria moderna, ma mi sono dovuto arrendere; ancora adesso non riesco a capire perché: ci deve essere qualcosa di importante in questo posto che mi sfugge, perché ancora adesso sono convinto che basterebbe poco per trasformarlo in un paradiso. [.,.l Quando arrivai qui, deciso a starci fino alla fine della mia vita, ebbi un colloquio con il prete. [.,.] Mi ammonì che il Male, qui al sud. è talmente straripante e ostinato che pervade tutto e che uno come me non l’avrebbe mai potuto capire. [.,.] Qui ho visto tanta violenza, quotidiana, dura. Sono quindi stato spinto à indignarmi. Ma, con il passare degli anni e con il progressivo esaurimento dei miei tentativi, ho imparato a controllare la mia indignazione, cercando di concentrarla sugli aspetti più importanti, per scaricare su un punto solo la massima energia. Ma il solo risultato è che anch’io ho smesso di indignarmi. [.,.] Per questo, caro Richard, mi dedico ora alle piccole cose. Conchiglie, pesci, fossili. La spiaggia qui, dove mi reco ogni mattina, è sabbiosa e lunga tre miglia. [.,.] E’ un paesaggio spettacolare, credimi. […] il luogo è intatto e deserto, ma sui giornali ho ietto [.,.] che proprio qui è in progetto un grande insediamento turistico, con alberghi e un piccolo aeroporto. Se qualcuno riuscisse a impedirlo! Se se ne potesse parlare sui giornali! Ti allego un po’ di documentazione che ho raccolto”. Questo brano è intriso dei tristi loci communes di cui traboccano, da sempre ormai, le vicende giudiziarie italiane circa il potere mafioso: speculazione edilizia, appalti truccati, corruzione, spietato controllo e abuso del territorio, eliminazione fisica e vituperante del nemico. Colpisce, ed è per questo che l’ho riportato, che Deaglio faccia compiere al suo personaggio un percorso inverso a quello riservato da Consolo al protagonista del sorriso: dall’impegno alla collezione di conchiglie.
16 Enrico Deaglio, Il figlio della professoressa Colomba [1992], Palermo, Sellerio, 1996,pp. 105-108.
Nessuna speranza, per nessun autore italiano impegnato, esiste più negli anni Novanta subito prima e dopo la morte, nel1992, dr Falcone e Borsellino e delle loro scorte. Caterina, giovane eroina fuggita dalla Sicilia. parlando a Roma Dei loro paese natio al cugino Gerlando, che si appresta a divenire killer d’ultima generazione al fine di eliminare i colleghi di vecchia generazione, gli dice: La cosa tremenda è che non sarebbe finita mai. E così, improvvisamente. mi è sembrata la nostra Rocca di Loto. Un inferno perché tutti fanno sempre le stesse cose, dicono le stesse frasi. E si proteggono, l’un l’altro, perché questo inferno continui, perché non cambi mai, perché nessuno dall’esterno venga a turbarlo. Anche ora, che tutti si ammazzano .,. Sì, si ammazzano per qualche interesse. però non per cambiare qualcosa, ma per continuare ad essere così come sono sempre stati.37 Con una manovra paradossale, ma realistica, nel suo libro – che tratta di una generazione siciliana che, persino nel ribellismo giovanile, non ha alternative all’uso dei metodi mafiosi -, Deaglio annoda il fatalismo di Verga e di Tomasi di Lampedusa con la desolazione a cui per la sua strada è giunto Consolo, emblematizzandolo in un paese siciliano dove la modernizzazione passa stravolgendo tutto e non cambiando nulla. Nel 2002, in Catarsi, Consolo scrive parole che tornano retroattivamente all’explicit dello Spasimo e le affida ad Empedocle: Se le parole si fanno prive di verità, di dignità e di storia, prive di fuoco e di suono, se ci manca il contorto loro, non c’è che l’afasia. Non c’è che il buio della mente, la notte della vita 38 ,.. Avviandomi a concludere, mi pare si possa cogliere, nell’ultimo Consolo, un’ulteriore passo. Dalla dissoluzione di qualsiasi speranza storica sancita dallo Spasimo – che mette la parola fine al suo dialogo illuminato e razionale sulla Storia intrapreso anche sulla scia di Sciascia e con Sciascia -, all’abbracciare sempre più sfiduciato le ragioni di un male di vivere più universale, cosmico, a forte reminiscenza leopardiana e pirandelliana, meno storico (quantomeno non solo storico) che, però, lascia spazio al recupero
37 Ivi, pp. 95-96. 38 Vincenzo Consolo, Catarsi, in Oratorio, San Cesarino di Lecce, Manni,2002,p.25.
Dell’ importanza, malgrado tutto, dell’azione individuale affidata alla parola <<“scritta e pronunciata”>> 39. Sempre nel Prologo della sua opera teatrale tragica Catarsi (in cui, ricordo, è messo in scena il suicidio sull’Etna di un moderno Empedocle di Agrigento), Consolo, dice che la <<tragedia è la meno convenzionale, / la meno compromessa delle arti 40>> e che «[a]l di là è la musica. E al di là è il silenzio>>41. E, altrove – ne La Metrica della memoria 42, riflessione critica sulla sua stessa scrittura – ricorda di avere voluto scrivere questi versi incipitari di Catarsi Perché la tragedia, in forma teatrale o narrativa, in versi o in prosa, rappresenta l’esito ultimo di quella che posso chiamare la mia ideologia letteraria, l’espressione estrema della mia ricerca stilistica. Espressione, in Catarsi, in forma teatrale o poetica, in cui si ipotizza che la scrittura, la parola, tramite il gesto estremo del personaggio, si ponga al limite della pronunciabilità, tenda al suono, al silenzio.43 E questo si rinserra con la chiusa sul silenzio già esperita e sofferta dal narratore dello Spasimo (1998): generi diversi, esiti analoghi. Col silenzio Consolo si era già scontrato nel suo libro del 1994 L’olivo e I’ olivastro, il cui incipit non a caso recita: <<Ora non può Narrate 44>> e in cui vengono negate la finzione letteraria e l’invenzione del racconto” E, a proposito dell’Olivo e l’olivastro, ne La metrica della memoria, Consolo allude al narratore, all’ ànghelos che vede interrotto il dialogo con i suoi destinatari, scomparso lo <<spirito socratico>> 45, perché ormai la cavea è vuota, deserta. Sulla scena è rimasto solo il coro che in tono alto, Lirico, in una lingua non più comunicabile, commenta e lamenta la tragedia senza soluzione, la colpa, il dolore senza catarsi 46.
39 Vincenzo Consolo, citazione da Affabulazione di Pier Paolo Pasolini, nel Prologo di Catarsi, cit., p. 13. 40 Ibid. 41 Ibid. 42 Vincenzo Consolo, Per una metrica della memoria, ora la La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo, a cura di Giuliana Adamo, prefazione di Giulio Ferroni, San Cesario di Lecce, Manni,2006, (con un CD con la lettura di Consolo di brani tratti da varie sue opere), pp. 177 -189. Per la storia esterna del saggio di Consolo si rimanda alla mia nota con asterisco a fine dell’appena nominato libro, p. 188. 43 lvi, p. 178. 44 Vincenzo Consolo, L’olivo e l’olivastro 1994), Milano, Mondadori, 2000, p. 9. 45 Vincenzo, Consolo, Per una metrica della memoria, cit., p. 187. 46 Ibid.
Sempre più netto è il passaggio operato da Consolo, fin dai suoi esordi letterari, da scrittura della comunicazione a scrittura dell’espressione. L’unica, ormai, secondo lui, in cui possa scriversi un romanzo: Nelle mie narrazioni c’è sempre l’interruzione del racconto e il cambio della scrittura, il suo alzarci di tono, svolgersi in forma ritmica, lirico-poetica.47 Se l’atteggiamento nei confronti di parola e silenzio è andato peggiorando – culminando nella disperata chiusa dello Spasimo, che è un romanzo, nell’ultimo Consolo riemerge la speranza nella catarsi, nel potere consolatorio della parola, ma in un genere letterario diverso, quello teatrale di greca memoria con tanto di anghelos e coro. Eccolo, quindi, in Catarsi, affidare la deuteragonista di Empedocle, Pausania, la rivendicazione del ruolo del narratore: Io sono l’anghelos, il messaggero necessario, colui che narra, che riferisce in tono basso la tragedia. che dice l’indicibile, che rappresenta l’irrappresentabile. Io sono il coro, l’eco sonora del crudo, del muto evento, colui che piange, si lamenta in geometrica cadenza, come vuole il rito, Poiché solo nel rito, come quello teatrale, nelle frasi. nelle movenze stabilite è possibile dire del dolore, della colpa, è possibile che avvenga la catarsi.48 E, ancora, restituisce alla parola la sua funzione super partes et super omnes et omnia, oltre la Storia. È Empedocle a parlare: Chi è presso alla morte si fa profeta. Io vi dico: la sua poesia eretica, blasfema, com’è la poesia vera, in questo tempo uniforme e tondo come una sfera spenta, la sua esplosione, la sua voce di vento e acqua, di terra e fuoco, valicherà me, voi, la storia, dopo millenni illuminerà la terra come la luce d’una remota stella. Ultimo ma non meno importante, Consolo, oltre all’impegno letterario, ha da sempre portato avanti, con coerenza e coraggio quello dell’impegno giornalistico (tra i pochi in Italia, in un passato recente, a schierarsi pubblicamente contro l’ex governatore della regione Sicilia Totò Cuffaro, che ha passato anni in galera per associazione mafiosa) ” La sua ultima accorata difesa della forma teatrale tragica, lo porta a realizzare un testo composito e inatteso: l’atto unico intitolato Pio La Torre, orgoglio di Sicilia (2009), scritto su incarico del Centro di Studi ed Iniziative Culturali Pio La Torre, col pre-
47 Ivi, p, 187. 48 Catarsi, cit., p. 43. 49 lvi, p. 39.
ciso intento di destinarlo alle scuole. Il testo composito, dicevo, è a cavallo tra storiografia e teatro. Infatti, è in parte un obiettivo resoconto storico di alcuni dei fatti più significativi della storia siciliana a partire dal secondo dopoguerra (dalla lotta contro il feudo all’ industrializzazione, al boom economico, attraversando le successive fasi della migrazione dei siciliani e dei meridionali e il continuo conflitto con la Mafia, strumento di potere connivente con lo Stato). I resoconti storici sono affidati a tre voci narranti che offrono mirabilmente <<una drammatica sintesi della vita politica e sociale dell’Italia dal primo dopoguerra>>, come recita la nota introduttiva vergata da Vito Lo Monaco. Ma è anche un dialogo mimetico tra i personaggi coinvolti da cui emerge – con discrezione e grande efficacia – il loro vissuto, il loro credo, i loro valori pagati con il prezzo delle loro stesse vite. La storia del grande sindacalista comunista, successore del precedentemente assassinato Placido Rizzotto, che sarà assassinato a sua volta dalla Mafia insieme al suo amico-autista Rosario Di Salvo il 10 aprile 1982, si profila sullo sfondo della Storia d’Italia dal secondo dopoguerra ad oggi. Si ratta di uno scritto in cui Consolo con penna leggera e obiettivamente implacabile delinea, e fa rivivere, il travaglio e l’evoluzione del nostro Paese verso la modernità. Credo che un testo come questo, sia la fertile eredità lasciata da Consolo ai più giovani: un modello di scrittura della Storia – obiettivo, espresso con lingua e stile efficacemente comunicativi, che tenga conto del punto di vista delle vittime e di chi gli sopravvive. Un linguaggio diretto, lontano da quello dell’’espressione letteraria. Ecco perché questo suo ultimo tentativo di comunicare la storia potrebbe germogliare al contrario di quello letterario. Quest’ultimo è uno stile: individuale, unico ed irripetibile per definizione; l’altro suggerisce un metodo. Gli stili sono, e devono restare, inimitabili; i metodi si imparano e si applicano. Concludo lasciando la parola a Consolo, a futura memoria:
50 Vito Lo Monaco, nota editoriale a Vincenzo Consolo, Pio La Torre. Orgoglio di Sicilia, Palermo, Centro di Studi ed iniziative Culturali PioLaTorre,2009,pp.4 – 5,p.4.
L’atto unico è stato donato da Vincenzo Consolo al Centro Studi affinché fosse usato come strumento di memoria e di educazione civica. Io sono stato onorato, al di là di ogni retorica, quando il Centro Pio La Torre mi ha incaricato di scrivere quest’atto unico, destinato alle scuole, [e di essere qui,] oggi, in questa sede così importante qual è il carcere dei Pagliarelli. Ecco io dico che la storia di Pio La Torre è la storia di tanti altri che sono la nobiltà di Sicilia. Io non credo ai signori gattopardi. Mi ha molto irritato da sempre la frase di Lampedusa <<Noi fummo i leoni, i gattopardi e dopo di noi vennero le iene e gli sciacalletti. Questi signori che abitavano nei loro palazzi, questi feudatari, sapevano benissimo chi erano le iene e gli sciacalletti. Erano i gabellotti, i soprastanti. Erano quelli che sfruttavano il lavoro dei braccianti e dei contadini, dove è nata La Mafia, e che poi portavano i profitti nei palazzi dei signori nobili palermitani. Io credo che la vera nobiltà di Sicilia sia, appunto, rappresentata da quei braccianti, da quei contadini, da quei sindacalisti come Pio La Torre. Figura di grande nobiltà è quella di Francesca Serio, la madre di Turiddu Carnevale, di cui ci parla Carlo Levi ne Le parole sono pietre. E si potrebbero fare tantissimi altri nomi, una lista enorme di persone che hanno sacrificato la vita per ii riscatto della loro dignità, per avere riconosciuti i loro diritti. E poi, oltre i braccianti, i contadini, i sindacalisti, sono stati anche i magistrati e le forze dell’ordine ad avere sacrificato la vita per il riscatto di questa nostra terra. Io ho avuto l’onore di conoscere alcuni di questi magistrati. Ho conosciuto Falcone. Ho conosciuto Gian Giacomo Ciacco Montaldo. E pensare alle loro figure… veramente quella è la vera nobiltà di Sicilia: i braccianti. i sindacalisti, i contadini, i magistrati e le forze dell’ordine che hanno pagato con la vita per il riscatto di questa nostra terra.51
51 Trascrizione mia dell’intervento orale tenuto da Vincenzo Consolo in occasione della rappresentazione del suo atto unico Pia La Torre, orgoglio di Sicilia, avvenuta sabato 17 aprile 2010 al teatro della casa circondariale Pagliarelli a Palermo. (v. on line: www.piolatorre.it /video). Mia la responsabilità dell’interpunzione e della paragrafatura.
da Strumenti critici/ a. XXXI, n. 2, maggio – agosto 2016
Questa è una foto del 2007, in occasione della (terza!) venuta in Collegio Nuovo – Fondazione Sandra e Enea Mattei, per un incontro aperto al pubblico, dello scrittore Vincenzo Consolo. E la nostra Alunna, Giuliana Adamo, era con lui e Cesare Segre, a presentare la raccolta di saggi, da lei curata per Manni Editori, dedicata allo scrittore.
Un archivio monumentale. Per raccontare la fine della civiltà agricola, gli scempi edilizi, le feste patronali. E quella celebre foto che ritrae Bufalino, Consolo e Sciascia (foto di Giuseppe Leone) di Concetto Prestifilippo
29 GIUGNO 2021
«Caro Andreose, mi permetta di segnalarle un fotografo con bottega a Ragusa che sembra scivolato da una pagina di Brancati». Giuseppe Leone è il nome del fotografo citato. La bizzarra lettera di patronage reca la firma di Leonardo Sciascia. Destinatario della missiva, Mario Andreose, direttore editoriale della Bompiani. Milano, era il 1986. Seguì una serie di elegantissimi libri fotografici di grande successo. Dopo trentacinque anni, Andreose ha inviato la stessa eccentrica fideiussione a Elisabetta Sgarbi. Questa volta l’invito trova realizzazione nella mostra fotografica “Metafore”, appena inaugurata a Bergamo presso la galleria Ceribelli, evento inserito nel palinsesto delle manifestazioni di “Milanesiana 2021”. «Non andrò mai più in Sicilia», scrive nella sua introduzione al catalogo della mostra Elisabetta Sgarbi. Un proposito doloroso legato alla scomparsa dei suoi amici Claudio Perroni e Franco Battiato. Mentre si arrovellava tra questi pensieri, è giunta la proposta della retrospettiva. «La mia adesione è stata istantanea, la mostra fotografica di Giuseppe Leone è stato un rimbalzo nel passato», sottolinea lei con trasporto: «A lui mi legano i primi ricordi da giovane editor, quando Mario Andreose, direttore dell’allora gruppo editoriale Fabbri Bompiani, mi portava in Sicilia, per sedurre i due massimi scrittori siciliani: Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino».
Giuseppe Leone, 84 anni, custodisce nel suo archivio più di 500 mila scatti, sessanta i libri fotografici con testi firmati dai grandi autori della letteratura del Novecento. Trovarlo è semplicissimo. Chiedi informazioni nel centro storico di Ragusa e tutti rispondono con un’esclamazione: «Ah, Peppino», e indicano il suo studio-galleria che troneggia sulla salita di corso Vittorio Veneto a pochi metri della cattedrale di San Giovanni Battista, la chiesa dove per quasi sessanta anni fu maestro d’organo il padre. Voleva fare il pittore ma si ritrovò a fare il ragazzo di bottega nello studio del fotografo Antoci. Giusto il tempo di apprendere l’arte della foto di studio e di comprare una prima macchina fotografica a soffietto, una Voigtlander Bessa 6×9. La stessa macchina che gli consentì, appena sedicenne, di immortalare uno dei suoi più celebri scatti: un treno che attraversa ansimante il ponte della vallata San Leonardo e Ragusa Ibla sullo sfondo.
A dispetto della sua età, il dopo Covid per il fotografo siciliano è un tripudio di iniziative. Oltre l’esposizione bergamasca, a Ragusa è stata inaugurata una mostra dedicata agli scrittori Gesualdo Bufalino, Vincenzo Consolo e Leonardo Sciascia. In Campania, a luglio, si inaugura una mostra dedicata alle meraviglie della Costiera amalfitana. In autunno è prevista l’uscita del libro “La Sicilia passeggiata” con un testo di Vincenzo Consolo, curato dal critico letterario Gianni Turchetta. Altri due libri in uscita per il prossimo Natale.
Leone è un bracconiere di epifanie. Nel corso di quasi settanta anni di attività ha percorso in lunga e largo la Sicilia. Non c’è villaggio dell’entroterra o paesino della costa che non abbia fotografato, prima che uno dei due sparisse, definitivamente, per dirla con le parole del suo grande amico, lo scrittore Vincenzo Consolo. Scattando, senza sosta, ha messo in salvo, condotto a riva i relitti di un naufragio culturale. Immagini che testimoniano una trasformazione sociale epocale, la fine della civiltà contadina. Alberga ormai solo in questo mezzo milione di fotogrammi la Sicilia della grande emigrazione. Tra il 1960 e il 1970, 700 mila siciliani lasciarono l’isola. Duecentomila nella sola Germania. Il treno del Sud, che di solare aveva solo il nome, era una tradotta con tanfo di creolina. Scaricava nelle gelide stazioni padane eserciti di braccianti trasformati in operai utili al nascente triangolo industriale del nord. Seguendo il monito inascoltato di Pier Paolo Pasolini, Leone ha continuato a fermare questi attimi. Mentre l’Italia si omologava inesorabilmente, ha registrato l’abbandono delle campagne, lo spopolamento dei centri storici, lo stravolgimento del paesaggio, la distruzione del patrimonio archeologico, la sistematica spoliazione delle chiese, la speculazione edilizia, il deturpamento delle coste, l’imbarbarimento dei costumi. Un casellario fotografico che vale un intero museo antropologico. Nei suoi classificatori albergano le sequenze delle feste patronali, quelle delle confraternite dolenti e degli incappucciati spagnoleggianti. Il mare vagheggiato immortalato guadagnando promontori sospesi. Svelato il fasto d’antan varcando la soglia di palazzi nobiliari. Mostrato le ritualità dei contadini scapicollando per colline ineffabili. Rianimato l’atmosfera sospesa delle botteghe artigianali. Catturato scorci sconosciuti agguattato nei conventi e nelle chiese. I suoi scatti sono stati pubblicati sulle copertine delle riviste più prestigiose. Ha ritratto i grandi intellettuali e gli artisti più affermati. Fotografie che continuano a disvelare la Sicilia bramata dai viaggiatori del Grand Tour. Vengono a intervistarlo le troupe delle Bbc, giungono collezionisti da tutto il mondo, grandi couturier come Dolce & Gabbana utilizzano le sue foto per le loro campagne pubblicitarie mondiali, ma la Sicilia non ha mai trovato il tempo di dedicargli un’antologica.
L a sua carriera muove dall’incontro di due straordinari artisti, Leonardo Sciascia ed Enzo Sellerio. Fu una strana coincidenza. Una di quelle stranezze misteriose che Sciascia amava tanto. Il loro primo incontro ebbe come scenario la sede palermitana della casa editrice Sellerio. Leone aveva chiuso l’impaginazione del suo primo libro “La pietra vissuta”. Enzo Sellerio, maestro di tutti i maestri della fotografia siciliana, gli chiese di seguirlo, voleva presentargli una persona. Il fotografo di Ragusa si trovò al cospetto di Sciascia, seduto su un divano mentre fumava l’eterna sigaretta. A colpirlo fu l’immediata domanda del maestro di Regalpetra che gli chiese se conoscesse la prefettura di Ragusa. Leone, intimorito, rispose ingenuamente di sì. Sciascia rincalzò, divertito, spiegando che il riferimento era alle tempere realizzate da Duilio Cambellotti. Pitture che adornavano il palazzo della prefettura. Lo scrittore aveva già in mente un lavoro dedicato a una pagina rimossa della storia italiana. Paradossalmente quella sua prima domanda, dopo qualche anno, si trasformò nel loro ultimo libro: “Invenzioni di una prefettura”, edito da Bompiani. Il libro fu pubblicato proprio dal direttore editoriale Mario Andreose, dopo la bizzarra lettera di presentazione sciasciana. A Ragusa, Sciascia riuscì a visitare i saloni della prefettura. Le pareti erano state foderate, per anni, da teloni scuri che coprivano le pitture di Cambellotti. Fu dunque un autentico disvelamento. Realizzarono un libro autenticamente sciasciano. Contraddistinto dalla sua cifra stilistica: la spasmodica ricerca della verità. Anche la verità scomoda, come quella del regime fascista.
Dunque misteriosamente, la prima cosa che Sciascia aveva chiesto a Leone, fu l’ultimo libro della loro lunga collaborazione. Dopo il primo incontro palermitano, i due entrarono subito in sintonia. Sciascia si recò a Ragusa, più volte. Batterono la Sicilia in lungo e largo per mostre, convegni, feste di piazza. Ma in tanti anni di amicizia, il fotografo non osò mai dare del tu all’autore del “Giorno della civetta”. Sciascia è stato una persona determinante, per la carriera di Leone. Le sue parole, le sue indicazioni, gli hanno aperto orizzonti inesplorati, conferendo metodo al suo lavoro di fotografo. Il loro primo libro fu “La Contea di Modica”. In quell’occasione, ricorda Leone, ebbe modo di conoscere il grande valore dell’uomo e dello scrittore. Quando gli chiese, intimidito, come procedere, Sciascia gli rispose che dovevamo agire in piena autonomia. Al fotografo lasciava l’autonomia di sviluppare il suo racconto per immagini, Sciascia avrebbe tratteggiato la sua narrazione con le parole. Quando Sciascia arrivava a Ragusa, non mancava l’appuntamento a Scicli, nello studio del pittore Piero Guccione che lo scrittore stimava e apprezzava per la sua maestria e per il suo riserbo, una taciturna discrezione che sembrava accomunarli. La conversazione con Leone è un continuo affastellarsi di aneddoti legati al carosello di ritratti che affollano le pareti del suo studio. Osserva le immagini che tratteggiano i volti di Enzo Sellerio, Danilo Dolci, Ignazio Buttitta, Franco Battiato, Piero Guccione, Elvira Sellerio e mille altri artisti. Ma una spicca su tutte.
Una fotografia che ormai diventata una foto simbolo, quella che ritrae i tre scrittori Gesualdo Bufalino, Vincenzo Consolo e Leonardo Sciascia. Un frammento in bianco e nero dell’intensa intimità che si registrava in contrada Noce, la tenuta estiva di Leonardo Sciascia. Lo scatto è del 1982 e segna non solo la fine del Novecento letterario, ma anche il tramonto della cultura eccentrica. Quella incarnata da tre intellettuali che operarono lontano dai centri del potere della cultura ufficiale. Scrittori di provincia ma non provinciali. Artisti di levatura europea, nati in tre minuscoli paesi siciliani: Racalmuto, Sant’Agata di Militello e Comiso. Ad organizzare il rendez-vous a Racalmuto fu Aldo Scimè, intellettuale e giornalista della Rai. Una circostanza memorabile, per il tenore della conversazione e per gli argomenti trattati, permeato da un clima di meravigliosa complicità. La risata immortalata nella sequenza fotografica smonta anche un altro abusato assunto, quello che vedeva i tre grandi autori siciliani tratteggiati come tristi e inguaribili pessimisti. A scatenare l’incontenibile e fragorosa risata fu il riferimento ad altri due grandi autori isolani: Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Lucio Piccolo. Sciascia raccontò del loro arrivo a Milano, invitati dall’organizzatore del premio San Pellegrino, Eugenio Montale. Il poeta aveva convocato i due cugini siciliani che accompagnati da un valletto, si presentarono infagottati in pesanti pastrani, bizzarri come Totò e Peppino nella celebre sequenza cinematografica. Mentre Sciascia raccontava l’episodio e si appalesò la scena dei due cugini a Milano curiosamente intabarrati, scoppiò la fragorosa risata dei tre scrittori, eternizzata dal bianco e nero della sequenza fotografica.
A conclusione della lunga conversazione, Giuseppe Leone racconta un episodio accaduto alla fine degli anni Ottanta, l’arrivo in Sicilia proprio del direttore editoriale della Bompiani Mario Andreose, personaggio dal quale muove questa conversazione. Uomo elegante, colto e raffinato, si ritrovò smarrito al cospetto delle complessità della Sicilia. Leone e Andreose partono alla volta di Racalmuto. Ad attenderli lo scrittore e la moglie Maria. Nel caldo di un’estate siciliana infuocata, non vengono risparmiati all’inappuntabile intellettuale veneto, ragù ribollenti e succulenti manicaretti. Con lo stesso smarrimento che attanagliava il buon Chevalley tra le pagine de “Il Gattopardo”, Andreose rivolgendosi di soppiatto al vicino Leone, chiese furtivamente se il numero delle portate fosse destinato ad aumentare. Ricevuto, per tutta risposta, che si era solo all’inizio, allentò con discrezione il nodo della cravatta, estraendo un fazzoletto dal taschino della giacca, asciugando con altrettanta discrezione la fronte dalle minuscole gocce di sudore che imperlavano la sua fronte.
Questa è una serata nobile. Nobile perché è assolutamente gratuita, fatta non tanto in omaggio a me, quanto in omaggio della memoria. Lo scrittore infatti è un custode di memoria.
Molte volte, ad esempio, ci si è chiesti che cosa
significhi la parola Omero. La parola “omeros”, nel greco antico, si
traduce in italiano con la parola “ostaggio”.
E ci si è chiesti il perché di questo significato.
Ostaggio di chi?
Ebbene il poeta, quello che noi chiamiamo Omero,
naturalmente è ostaggio della memoria, della tradizione.
LO SCRITTORE E’ PORTATORE DI
MEMORIA
Tutti gli scrittori dovrebbero essere ostaggi della memoria;
i veri scrittori cioè sono coloro che assolvono al compito di tramandare una
memoria, che è poi memoria collettiva e realtà storica; coloro che esprimono,
secondo la propria sensibilità e le proprie idee, una testimonianza della
memoria, per tramandarla ai loro contemporanei e, se possibile, anche ai posteri.
Un custode di memoria ha l’obbligo di conservarla e di
servirla.
Coloro che scrivono senza essere
portatori di memoria appartengono a un’altra area, quella
del1a comunicazione.
I sapientissimi Greci dissero che Mnemosyne era la madre
delle Muse, e da lei derivano le altre arti: la Poesia e anche la Musica. Quindi
dopo aver ascoltato questa bellissima musica, posso solo dire delle parole
raccontare, narrare, secondo la mia inclinazione e il mio mestiere.
PAESTUM E NAPOLI:
LA BELLEZZA DEL PAESAGGIO
Vorrei partire da Goethe, e raccontare un aneddoto: Egli
si trova a Napoli durante il suo viaggio in Italia e vuole andare a visitare
Paestum. Ci va insieme a un suo amico pittore, che lo accompagna durante il viaggio
che, vero fotografo dell’epoca, ha il compito di prendere degli appunti, da
trasformare poi in incisioni e quindi in illustrazioni a corredo del libro sul
viaggio in Italia.
Arrivano a Paestum con un barroccio, che portava a
cassetta il barrocciaio con un suo nipote, un ragazzotto. Durante il ritorno,
alla vista di Napoli il fanciullo comincia a gridare in modo sconsiderato. I
due viaggiatori se ne preoccupano e gli chiedono: – Cosa hai da urlare? –
Il ragazzotto risponde nel modo più candido e più
allegro: – E’ il mio Paese. Non vedete
Signurì? Quello è il mio Paese. Guardate quant’è bello! –
Questo è un episodio straordinario, perché il ragazzino,
cresciuto tra tanta bellezza com’era allora il golfo di Napoli, avendo visitato
con quegli illustri personaggi la città di Paestum, si accorge che anche il suo
Paese è bello. E quindi gioisce e lo vuole mostrare ai viaggiatori: non c’è
solo Paestum, m a c’è anche Napoli.
E’ un episodio significativo anche nel senso che i viaggiatori
stranieri sono quelli che ci hanno fatto vedere l ‘ “invisibile”.
ITALIA TERRA PRIVILEGIATA
Noi Italiani, da sempre siamo fortunati, perché siamo
nati in una terra estremamente ricca e bella, dal punto di vista storico e da
quello naturale.
Però, vivendo tra tanta bellezza, abbiamo finito per non
vederla più, e sono stati quei viaggiatori, a partire da Montaigne nel ‘500,
per arrivare sino agli ultimi viaggiatori dell’ ‘800 (i nomi sono tantissimi),
che ci hanno fatto scoprire il nostro Paese. Ci hanno fatto vedere quale
preziosa eredità noi avevamo ricevuto dai nostri antenati.
Ci sono pagine di viaggiatori stranieri straordinarie, notazioni
interessanti su questa bellissima Italia.
E’ stato Moravia, grande conoscitore di Paesi ad avere
tracciato una sorta di classifica dei Paesi più belli del mondo. Lui diceva che
i Paesi sono belli quando alla natura uniscono anche la cultura. Allora al primo
posto, naturalmente, metteva l ‘Italia, al secondo, se non vado errato, il
Messico, al terzo la Spagna, al quarto la Grecia, e così via.
Quindi il nostro Paese era straordinariamente
“donato”, “munificato”.
LA SICILIA TERRA DI BELLEZZA E DI
CIVILTÀ
E la Sicilia, già in epoca preistorica, era di
eccezionale bellezza. Poi è stata arricchita da tutte le civiltà, che qui sono
passate per conquistare l ‘isola, m a anche per lasciare i segni della loro
cultura.
Ci sono stati si grandi predatori, come i Romani, ma
anche loro hanno lasciato qualcosa. I Bizantini, oppure, andando indietro, i
Fenici, i Greci. Poi la civiltà musulmana.
Sciascia dice che il modo di essere dei Siciliani, l
‘identità della Sicilia, incomincia proprio con la civilizzazione araba. Quindi
da quel momento, possiamo dirci Siciliani, dopo cioè le ruberie dei Romani e il
depauperamento bizantino.
Con gli Arabi
l’isola impoverita ha conosciuto un grande
rinascimento, durante il quale si è avuto il miracolo dei
sincretismi di religione, di cultura, di lingua.
Palermo, nel primo periodo normanno di Guglielmo il
Buono, era diventata una delle terre emblematiche, dove le varie civiltà, le
varie religioni, le varie lingue convivevano in una splendida armonia, in uno
scambio di cultura e di dono reciproco. Perciò Palermo era diventata forse la
città più bella, competeva con Cordova in Spagna, ed era una città di grandi
commerci, di grandi industrie, anche di grandi traffici. Essa era la tappa
obbligata per tutti i Musulmani andalusi, che dovevano fare il pellegrinaggio
alla Mecca.
C’erano a Palermo trecento moschee, c’erano altrettante
giudecche, perché vi era anche l ‘elemento ebraico, accanto alle popolazioni
più varie. C’erano barbari, spagnoli, africani, tutti con le loro usanze. Ma
tutto questo si era amalgamato e aveva formato una grande civiltà.
In più c’era lo sfondo di quella meravigliosa valle in cui
era stata costruita Palermo, che i Fenici chiamarono “Ziz” (fiore).
LA CONCA D’ORO
E’ un luogo a ridosso di una catena di montagne che lo
preserva dai venti africani, e che si stende sul mare in un clima di
eccezionale mitezza, che ha permesso il formarsi di quella famosa plaga che si
chiama la “Conca d’Oro”.
Qui furono costruiti quei meravigliosi gioielli che furono le ville, prima dei Mussulmani e poi dei Normanni. Le Ville di “delizie” come la grande Cuba, la piccola Cuba, la Zisa, la Favara, che erano tutti luoghi di villeggiatura.
Palermo era il simbolo di quello che è stata la Sicilia
fino a non molti anni fa. Era una delle terre più belle della terra più bella
del mondo, che era l ‘Italia.
LE CAUSE DELL’ ODIERNO DEGRADO
Questa terra hanno finito per distruggerla. Benché noi
abbiamo imparato dai viaggiatori stranieri a vedere l ‘invisibile e ad
apprezzare questo luogo, questa dimora vitale, tuttavia ci siamo comportati
anche come altri stranieri, che non erano più intellettuali, ma conquistatori
che depredavano e portavano via. Si pensi alle depredazioni che hanno fatto i
Tedeschi, gli Inglesi, i Francesi in Egitto o in Grecia. Tutto quello che hanno
portato nelle loro nazioni, depauperando queste terre di testimonianze della
loro civiltà e di grandi monumenti.
Ecco, noi ci siamo trasformati nella nostra terra in
predatori.
La ricchezza che avevamo abbiamo finito per rapinarla, a
volte anche per trasferirla altrove, come certi quadri, o certe colonne, e a
volte perfino semplicemente per distruggerla sconsideratamente.
Hanno distrutto l’ambiente, hanno distrutto i monumenti.
Tutto questo è avvenuto durante la guerra, con i bombardamenti,
ed è continuato nel dopoguerra, ma io credo che la distruzione principale è
avvenuta negli anni ’50 – ’60, con il cosiddetto miracolo economico, quando si
cominciò a ricostruire e si costruì nel modo più anarchico e più insensato,
senza alcun rispetto per l’ambiente in cui le nuove costruzioni nascevano.
Giustissima la ricostruzione, però è stata fatta nel modo
più avvilente e di conseguenza è stato distrutto quello che costituiva la
“bellezza”.
LA BELLEZZA COME CATEGORIA ETICA
La bellezza non è una categoria estetica, bensì morale. Non
è
bello cioè quello che appaga soltanto il nostro senso estetico,
ma è bello quello che soprattutto appaga anche la nostra anima.
Pirandello diceva che noi siamo quello che vediamo nei
primi anni della nostra vita. Se abbiamo avuto la fortuna di vedere luoghi
belli, io credo che la nostra crescita, il nostro sviluppo morale ed
intellettuale sarà diverso da quello di un bambino che nasce in un luogo con un
orizzonte devastato, orrendo e brutto.
Questi segni esterni fatalmente si proiettano nel nostro
interno e uccidono la nostra memoria.
Ci sono tantissimi scrittori che hanno parlato appunto
della bellezza come moralità, ma c’è soprattutto uno scrittore che voglio
ricordare particolarmente, che è Vittorini.
L’UTOPIA D I VITTORINI
Vittorini, nel libro
postumo che si intitola “Le città del mondo”, fa equivalere la
bellezza all’armonia sociale, intesa come base della democrazia, dove ognuno ha
rispetto dell’altro. Ne libro parla del viaggio che fanno alcune coppie di una
Sicilia in movimento, quando sembrava che l ‘isola dovesse togliersi di dosso
quella condanna del fato, di memoria verghiana. Vittorini, che era un
“antiverghiano” e che pensava che la Sicilia dovesse scuotersi da
questa condanna del destino e che dovesse prendere un atteggiamento attivo nei
confronti della storia, scrive questo libro alla fine degli anni ’50 (senza
riuscire a finirlo), dove c’è una Sicilia che parte per diversi itinerari di
vita. C’è ad esempio una ragazza che scappa da Milazzo, dei ragazzini che
scappano dalle Madonie, e partono senza una meta precisa, comunque
rappresentando una Sicilia che non sta pili seduta all’ombra a sonnecchiare, ma
è una Sicilia in attesa di un evento straordinario.
In quegli anni era stato scoperto il petrolio e s’erano
accese tante speranze. Vittorini aveva visto da vicino l’esperienza olivettiana,
di quel grande industriale e insieme sociologo, Adriano Olivetti, imprenditore
illuminato, che aveva creato un’industria a misura d ‘uomo. Vittorini s’era
entusiasmato di questa idea, che sembrava realizzare un sogno straordinario e
quindi aveva pensato che in Sicilia potesse avvenire qualcosa di simile. Che
cioè si sarebbe potuto lasciare alle spalle il vecchio mondo contadino, di
rassegnazione, di pena, d’ignoranza, di malattie, e finalmente con la
industrializzazione si potesse fare diventare il Siciliano protagonista della
storia.
Ma senza l
‘avvilimento, senza quella schiavitù che di solito l’industria comporta nei
confronti dei lavoratori. Lo sfruttamento, l’alienazione, quello che aveva
analizzato un signore, che Tomasi di Lampedusa chiama: “un ebreuccio di cui non ricordo il nome”, e che noi
invece ricordiamo benissimo e si chiama Carlo Marx.
Vittorini pensava nella sua utopia che ci potesse essere,
al di là del conflitto tra capitale e lavoro, un tipo di industria illuminata, dove
l ‘operaio, il bracciante, il lavoratore non venisse oppresso e non venisse
sfruttato. Utopia che si è infranta contro gli scogli della storia.
IL SICILIANO PROTAGONISTA DELLA
STORIA
Questa immagine vittoriniana di una Sicilia che rinasce,
di quella che Lui chiamò la Lombardia siciliana, lo portò a disegnare una sua
geografia lombarda in terra di Sicilia, rifacendosi appunto agli eredi degli
antichi insediamenti lombardi qui in Sicilia.
Parlava dei paesi di lingua lombarda, come San Fratello, Nicosia, Aidone,
comunità che si formarono con la conquista dei Normanni dopo la dominazione
araba.
Egli diceva che le città belle, come Caltagirone, come
Noto, creano armonia sociale, creano fantasia e mettono l’uomo in un
atteggiamento attivo e non più passivo nei confronti della storia. L’uomo deve
diventare protagonista.
Ora l ‘utopia economicista o politica di Vittorini io credo
che si sia infranta completamente, visti i risultati delle esperienze del
petrolio a Gela o ad Augusta. Resiste invece la sua idea dei luoghi belli che formano
l’uomo, lo migliorano e lo arricchiscono, mentre i luoghi brutti mortificano l
‘uomo, lo portano verso la malinconia, la depressione e a volte anche verso una
ribellione sconsiderata ed irrazionale, che degenera nella violenza.
LA DENUNZIA DELLE DISTRUZ IONI
La storia siciliana degli ultimi cinquant’anni di distruzione
dissennata ha avuto inizio con l ‘abbandono delle campagne e la trasformazione
dei nostri paesini e delle nostre città. Allora vi sono stati uomini che hanno
cominciato a denunciare queste perdite, non tanto come distruzioni materiali,
quanto per i riflessi morali e sociali che determinavano sulle persone e sulle
popolazioni.
Voglio ricordare Antonio Cederna, un urbanista che per
anni cd anni è stato un a voce clamante nel deserto, inascoltata, che ha
parlato e ha scritto prima sulle pagine de “Il Mondo”, poi su quelle
di “Repubblica”, delle devastazioni, dei gravi stupri (mi si perdoni
la parola forte), che avvenivano sul territorio del nostro Paese.
Voglio ricordare un poeta come Pasolini, che con le sue
bellissime metafore, come “La scomparsa delle lucciole”, voleva
simbolicamente segnalare questo mutamento nella Società.
Voglio ricordare un poeta come Andrea Zanzotto, che
lamentava l’”avvelenamento” dell’Eden veneto dove lui abitava, quando
i contadini hanno iniziato a mischiare veleni chimici alle sementi introducendo
una terribile alterazione ecologica.
Poi anche uno scrittore come Guido Ceronetti, che ha
scritto due libri che sono un po’ la continuazione del libro di Guido Piovene
“Viaggio in Italia”.
Però al tempo di Piovene, come al tempo del viaggio di un
altro scrittore, Riccardo Bacchelli (narrato in “Lo sa il tonno”),
ancora le perdite e le distruzioni non erano avvenute, e quindi loro scoprivano
soltanto le bellezze dei luoghi che vedevano per la prima volta.
Pensiamo ai luoghi più belli e più simbolici del cuore d ‘Italia,
quelli che pochi giorni fa hanno subito nell’Umbria e nelle Marche un terremoto
catastrofico. Pensiamo ai luoghi che abbiamo perso, alle ferite arrecate a
monumenti come la Basilica di S. Francesco, che sono delle ferite emblematiche
che in un certo senso ci dicono del nostro continuo scadimento.
In questo caso è stata la natura a determinare la distruzione,
ma in altri casi sono gli uomini ad apportare queste ferite.
Torniamo a Ceronetti che, con il precedente di Piovene,
ha scritto due libri, uno intitolato “Un viaggio in Italia” e l
‘altro “Albergo Italia”.
QUANDO LA DENUNZIA E’ REAZIONARIA
Ceronetti è un uomo singolare, di vastissima cultura, che
conosce l’ebraico, ma è un uomo che pensa che la soluzione per questo mondo di
oggi non sia altro che l’apocalisse, che finalmente potrà cancellare tutto per
ricominciare daccapo.
Egli compie il suo viaggio in Italia partendo dal veneto,
Torino, Milano, Roma, arrivando anche nei paesi più sperduti, sino in Sicilia,
dove visita Siracusa, Acitrezza, Noto, Palermo. In termini molto violenti, da
invettiva, registra le brutture che incontra, ma il suo discorso, proprio per
le sue concezioni così radicali ed apocalittiche, così tese ad aspirazione
metafisica, a volte diventa reazionario.
Io credo che quando si denunziano i mali della Società,
pur nell’invettiva, occorre sempre affermare che tutto si può rimediare, perché
la storia la fanno gli uomini e non c’è bisogno di aspettare l’azzeramento
totale, che postula pure l ‘offesa della vita.
Ceronetti arriva anche a declinare temi razzistici. C’è
una descrizione nel suo viaggio dell’incontro che ha in treno con un gruppo di
emigrati arabi. Li guarda, devo dire, con molto disprezzo. Arriva a usare
espressioni razzistiche quando afferma che dove loro passano infettano tutto,
rovinano e degradano tutto, dando la colpa a questo estraneo che viene nel
nostro contesto e sembra essere la causa prima del nostro degrado.
IL MIRACOLO ECONOMICO
E L’ORIGINE DELLO SVILUPPO
DISTORTO
In Ceronetti c’è un punto di vista discutibile. Lo
scrittore infatti viene da Torino e scrive sulla “Stampa”, che è di
proprietà del Sig. Agnelli. Nei suoi libri non mette mai in discussione queste
matrici prime dei mali italiani. Insomma, questo Paese è stato disegnato su
misura per le automobili e tutto il resto è avvenuto di conseguenza. Una certa
industrializzazione ha portato lavoro, è vero, ma non si è mai studiato se
potevano esserci delle altre dimensioni e direzioni dello sviluppo.
Con il miracolo
economico italiano si è distrutto quella che era la cultura contadina e si è
puntato solo sulla industrializzazione. Questo intendo quando affermo che il Paese
è stato disegnato su misura per l ‘industria FIAT, con tutto il processo di
emigrazione interna e di spostamento, che hanno chiamato “esodo”, di
masse di braccianti meridionali verso il nord. Ne è scaturito un processo massiccio
di inurbamento con costruzioni caotiche, veloci, repentine, per dare alloggi
nelle periferie delle città industriali. Anonime, atroci, definite dormitori, che
sono luoghi senza anima.
DEGRADO AMBIENTALE E DECADIMENTO
MORALE
E’ inutile meravigliarsi se in simili luoghi i giovani
possono avere problemi di ordine psichico, se possono scegliere di uccidersi
con una iniezione procurata dai trafficanti di droga, o di compiere atti
irrazionali e violenti.
L’ambiente degradato porta alla distruzione dell’uomo,
porta al degrado morale.
Per finire questa mia conversazione un po’ vagante di qua
e di là,
voglio leggere un pensiero di un famoso etologo, Konrad
Lorenz, contenuto negli “Otto peccati capitali della nostra civiltà“:.. Il senso estetico e quello morale
sono evidentemente strettamente collegati,
e gli uomini che sono costretti a vivere nelle condizioni sopra descritte vanno
chiaramente incontro all’atrofia di entrambi. Sia la bellezza della natura sia
quella dell’ambiente culturale, creato dall’uomo, sono manifestamente
necessarie per mantenere l’uomo psichicamente e spiritualmente sano. La totale
cecità psichica di fronte alla bellezza in tutte le sue forme, che oggi dilaga ovunque
così rapidamente, costituisce una malattia mentale che non va sottovalutata, se
non altro, perché va di pari passo verso tutto ciò che è moralmente
condannabile. “
Se noi perdiamo la nostra sensibilità verso la bellezza
perdiamo anche la sensibilità verso tutto quanto è orrore e azione ingiusta
dell’uomo, la violenza, l’ingiustizia, perdiamo la capacità di reagire contro
le offese arrecate alla civiltà stessa.
PER LA DIFESA DELLA BELLEZZA
Volevo ricordare un ‘iniziativa che, a un certo momento,
ho deciso di prendere insieme ad altri tre intellettuali, come il sen. dei
Verdi Luigi Manconi, la poetessa Viviane Lamarque e il giornalista Vittorio
Emiliani.
Ci siamo fatti promotori della difesa della bellezza, o
di quello che rimane della bellezza in questo Paese, invitando altri
intellettuali ad aderire. Subito hanno aderito cento altri intellettuali
italiani, per cercare di salvare la bellezza residua della nostra terra.
Ho cercato di spiegare il valore della bellezza, che non
è un fatto estetico, ma un fatto etico ed è anche un debito di eredità verso le
generazioni che verranno. Si è incominciato a fare qualcosa, ci siamo riuniti
la prima volta a Roma, si sta scrivendo un programma, si dovranno scegliere tre
monumenti emblematici dell’Italia settentrionale, dell’Italia centrale e
dell’Italia meridionale.
Ognuno di noi dovrà perorare la causa di un monumento
storico.
Per quanto mi riguarda ho scelto Noto, che è un paese che
sta crollando. Non è crollata solo la cupola della cattedrale, ma sta crollando
l’intero paese, pur essendo sotto la protezione dell’UNESCO. Finora non si è
fatto niente, sono stati messi soltanto tubi Innocenti a puntellare i monumenti.
Se Noto crollasse sparirebbe uno dei segni, non solo
artistici, ma anche storici di quella che era stata la progettazione ex novo di
quella insigne città.
PER IL RECUPERO DEI LUOGHI BELLI
I primi segni di ripresa
di un percorso valido si sono avuti da parte del Governo italiano e da parte
delle Amministrazioni comunali, con la demolizione di due mostri che erano
stati costruiti: uno al la periferia di Napoli che chiamano “Le Vele”
e poi un albergo abusivo sulla costa amalfitana.
Dunque ci sono già i segni del ripristino. Siamo stati
depauperati del paesaggio. Adesso è ora che si distruggano quei mostri, draghi
che bisogna abbattere.
Spero che si possa andare avanti in questo progetto di
eliminazione di orrori, per rendere più vivibile questo nostro paesaggio,
questo nostro ambiente.
Cercare di far rinascere la Conca d ‘Oro, cercare di far
rinascere la Piana di Milazzo, per quanto compatibilmente oggi si possa fare,
cercare di recuperare dei beni che c’erano e che abbiamo perduto.
Credo che questo sia compito di noi oggi riuniti in
questo scorcio del secondo millennio, e faccio questo augurio a mc stesso, di
poter vedere il paesaggio in qualche modo ricompensato, e a noi stessi di
essere in qualche modo ricompensati delle terribili perdite che abbiamo
sofferto.
SIAMO FIGLI DELLA CULTURA
La Legambiente è nata con questo scopo per la salvaguardia
del mondo, della natura e anche dei monumenti. I suoi aderenti sono un poco
come dei soldati che si impegnano contro i tentativi di perpetuare le offese.
Considero questa bella serata come omaggio a Omero, poeta
della memoria. Ho avuto la sorte di vivere a cavallo tra la civiltà contadina e
la civiltà industriale, che ho visto nascere, e poi tra due luoghi estremi come
la Sicilia e Milano, sono stato testimone di una grande trasformazione e quindi
ho cercato di conservare la mia memoria e di trasferirla agli altri che mi
leggono o mi leggeranno.
Reputo questo omaggio a me, come un omaggio alla memoria e
ai suoi custodi, siano essi scrittori, musicisti, o chiunque non abbia il vuoto
dietro le spalle.
Noi non siamo figli di nessuno. Noi siamo figli della
Cultura e ci portiamo dentro dei segni. Cerchiamo dunque di non farci cancellare questi segni dai barbari, dagli
imbecilli o dai violenti.
1. Ripensare i luoghi in forma di idillio. Il
dramma di Ulisse e di Ifigenia.
Senza la letteratura
Itaca sarebbe semplicemente una piccola isola greca nel Mediterraneo. Invece
Omero, la tradizione, le invenzioni letterarie l’hanno resa il luogo per
eccellenza delle radici e della memoria, la patria ritrovata dopo un lungo
viaggio: l’hanno trasformata in simbolo[1].
Ulisse in viaggio,
intento ad affrontare pericoli, mostri e tempeste, porta con sé l’immagine di
Itaca luogo del cuore, patria perfetta, a cui desidera a tutti i costi tornare.
Una polarità netta si crea tra il mondo minaccioso – e avventuroso – e il
nucleo accogliente e protettivo della patria e della casa. Eppure Ulisse, una
volta sbarcato, è costretto a interrogarsi subito sull’identità della terra,
sullo scarto tra il sogno che ha cullato durante la lunga distanza e la realtà[2].
Molte cose infatti sono cambiate: lui non è più lo stesso e Itaca è mutata, non
solo per i soprusi dei Proci, ma anche perché il tempo ha segnato la sua
geografia a tal punto da conferirle un paesaggio nuovo, diverso. Per queste
ragioni, e non solo per l’intervento di Atena, Ulisse si guarda intorno e,
smarrito, si pone la domanda: «Dove sono capitato?». Sebbene il finale dell’Odissea
risulti confortante – l’eroe ottiene di nuovo il suo ruolo di re dopo la
sconfitta dei Proci e l’intesa del talamo con Penelope – sorge il dubbio che
l’Itaca ritrovata sia un po’ deludente rispetto al sogno e alla nostalgia.
Perché altrimenti Ulisse sceglierebbe, come insegna l’altra tradizione, di
ripartire? Non dovrebbe godersi la terra tanto amata? Il fatto è che, come
scrive Jankelevitch, la nostalgia, per l’esule – per qualunque esule –, è
insanabile, inestinguibile[3].
Già nel momento del primo distacco dalla patria ha inizio un cambiamento, nel
luogo e nell’individuo, che non permette di colmare la distanza, in alcun modo,
neppure nell’opportunità di un ritorno.
Ifigenia a sua volta,
la sfortunata figlia di Agamennone, salva ma costretta all’esilio tra i feroci
Tauri autori di sacrifici umani, non fa altro che sognare la sua Argo: una
reggia preziosa, in cui è stata bambina, principessa, ma ormai, senza che lei
lo sappia, luogo insanguinato dagli omicidi, la morte del padre per mano di sua
madre, quella di sua madre per mano di suo fratello. La Tauride – anche in
questo caso la responsabilità è della letteratura – assume la connotazione di
una terra selvaggia, priva di ogni forma di civiltà: la dolente sacerdotessa
greca, pur investita dell’autorità religiosa, non può far altro che sciogliere
il suo canto d’esilio, insieme alle schiave sue compagne. È la trama dell’Ifigenia
in Tauride euripidea: l’autore antico ha composto una tragedia che recita
il dramma della nostalgia, la stessa di Ulisse. La città lontana di Argo, nella
mente di chi vive l’esilio, ovvero la protagonista e, con lei, il coro, assume
i tratti di uno spazio desiderato e armonioso, un territorio caro, in cui
rispecchiarsi e ritrovarsi: è emblema della Grecia della civiltà. Eppure, come
dicevo, la terra lontana non è affatto così come l’esule se la dipinge e, anche
di fronte al lieto fine, mentre Ifigenia e il fratello ritrovato salpano dalla
Tauride ostile e si allontanano dai sacrifici, c’è da augurarsi che non ci sia
nessun ritorno a casa. Ritrovare Argo infatti non è possibile e il ritorno può
essere estremamente traumatico.
Il mito e la letteratura,
proponendo una caratteristica veste per certi luoghi reali, li trasformano in
simboli, metafore efficaci anche per la contemporaneità e per il nostro modo di
vivere gli spazi.
Ne sa qualcosa Vincenzo
Consolo che in tutta la sua opera pone l’accento sul suo esilio nel Nord e
sull’irredimibile nostalgia per la Sicilia lontana, patria del ricordo, e
perciò idealizzata nella distanza, come in un’odissea contemporanea, tra le
nebbie di una Milano grigia che ha più di un tratto in comune con la Tauride
euripidea. L’olivo e l’olivastro (1994) e poi anche Lo Spasimo di
Palermo (1998) descrivono un ritorno doloroso che ha i tratti di un incauto
procedere tra le rovine di una patria in fiamme. Nel primo libro, che reca già
nel titolo l’omaggio e la simbolizzazione degli spazi omerici – nell’Odissea
olivo e olivastro segnano lo spazio del naufragio di Ulisse sulla costa dei
Feaci – al giovane migrante siciliano che, fuggito dal terremoto di Gibellina –
ecco Enea che abbandona un’Ilio compromessa – prova a ritornare dopo tanti
anni, il nóstos è negato: Itaca non c’è più, fuor di metafora, perché la
vecchia città è scomparsa sotto il sudario di cemento del Cretto di Burri, e la
nuova, con la Stella texana che segna l’ingresso nel Belice, è, per dirla con
le parole di Consolo, «costruita dai Proci»[4],
non ha insomma molto a che fare con la tanto sospirata patria delle radici. Nel
secondo, poi, veramente amaro è il ritorno del protagonista, lo scrittore Chino
Martinez, a Palermo: la città degli anni Novanta, già compromessa dalla ferocia
della speculazione edilizia, dal sacco che ha cementificato la Conca d’oro,
deve fare i conti con la violenza mafiosa, esemplificata dalla drammatica
esplosione finale in via d’Astorga che allude in maniera netta alla strage di
via d’Amelio. A queste opere possono essere aggiunte moltissime pagine, come il
testo eponimo di Le pietre di Pantalica, che piange il degrado –
culturale, ambientale – dello scenario della bianca Siracusa, chiamando in
causa i simboli della tragedia euripidea[5],
tradotta tra l’altro proprio da Consolo con Del Corno[6],
che è messa in scena nel teatro antico. L’autore fa del suo vissuto il motore
dell’invenzione narrativa: la sua personale prospettiva interpreta gli spazi e
li reinventa sul piano letterario. In questo processo Itaca e Argo rimandano a
un mondo che non c’è più: un universo intatto, in armonia, cancellato da una
modernità incivile e snaturante, e divenuto un perenne labirinto fitto di
mostri e pericoli, una Tauride in cui si sacrificano gli innocenti. Nella
prospettiva consoliana allora non è solo la Milano affarista ad assumere i
tratti di luogo ostile: l’osservazione dell’intero spazio della contemporaneità
– l’Italia, il Mediterraneo con i suoi naufraghi e ogni luogo in cui il
migrante è perseguitato, ferito, il paesaggio mortificato dagli incendi,
dall’industrializzazione, da un turismo becero e superficiale – denuncia una
perdita irreparabile in termini di valori e identità[7].
La polarità non è più, o comunque non solo, tra lo spazio fisico dell’esilio e
la terra delle radici, ma tra lo spazio del presente, omologante e svilente, e
quello del passato, in cui è ancora possibile un equilibrio.
Eppure, affrontato il
rischio della rottura dell’idillio, si può scoprire che Itaca non è del tutto
allo sfacelo e che sulle colonne di Argo si può ricostruire. Conviene però
prendere coscienza del punto a cui siamo arrivati. Conviene ripartire dalle
radici, ritrovare angoli vivi del paesaggio, lasciarsi ispirare da quanto di
buono essi comunicano. Il che non vuol dire smettere di vedere le criticità di
ciò che è stato: significa valorizzare ciò che può essere valorizzato e trovare
una nuova via alternativa all’omologazione e allo sfruttamento.
La vera letteratura ha
questo di utile, ci svela a noi stessi, e le pagine di Consolo parlano a tutti
e di tutti, toccano le corde del legame doloroso o vivificante che abbiamo con
gli spazi e tentano di fare chiarezza su questioni grandi e urgenti: invitano
cioè ad una consapevolezza ambientale nel senso più ampio dell’espressione come
unica strada non solo per non perdere il luogo, ma anche per non perdere noi
stessi.
Trovo illuminante la sua
riflessione sulla Sicilia e sul Mediterraneo: nell’amarezza di fronte allo
scempio, di fronte ai facili stereotipi che semplificano lo spazio, lo
appiattiscono – il seducente paradiso a buon mercato da una parte, il degrado,
i sotterfugi dall’altro –, avvallati in maniera semplicistica da un certo tipo
di informazione e da un certo tipo di politica, l’autore rivendica il valore
della complessità. Lo spazio ha molte facce, molte sfumature, la bellezza ha
una sua indubbia fragilità.
Nella sua
rappresentazione dello spazio individuiamo la valorizzazione di alcune isole di
sopravvivenza: gli Iblei con l’arte intatta degli apicoltori e i Nebrodi coi
pascoli verdissimi non sono semplice idillio, Itaca e Argo del ricordo in cui
sarebbe meglio non tornare mai, ma un esempio di risposta concreta alla crisi
del paesaggio e dell’identità contemporanea. Descrivendo la miracolosa armonia
tra uomo e natura, la ricchezza ambientale – piante, animali –, tradizioni
gastronomiche e saperi antichi, che caratterizzano queste oasi di
sopravvivenza, Consolo valorizza una Sicilia quasi arcaica. In ciò non rifiuta
il progresso in sé, piuttosto evidenzia la necessità che esso non faccia
perdere all’uomo la sua identità storica e culturale, come è invece accaduto
nel caso della violenta industrializzazione dell’isola. Mette cioè in evidenza
che i luoghi non sono uno sfondo e che, se smettono di essere quello che sono –
fagocitati dall’omologazione, da interessi economici, dalla costruzione di
barriere –, inevitabili e funeste sono le conseguenze anche sugli esseri umani.
Così strettamente interrelate sono l’identità degli uomini e quella degli
spazi.
La sua opera invita
dunque – e in ciò risiede, secondo me, la grande attualità del messaggio
consoliano – a conservare le radici, a prendercene cura, perché solo nella
salvaguardia di ciò che è rimasto possiamo sperare di non perdere noi stessi.
Il passato – come
insegnava anche Pasolini nella sua strenua definizione dell’ambiente storico e
umano come territorio composito e stratificato nel tempo, insieme universo
linguistico, identità dei luoghi, creazione artistica – può non essere un
ricordo perduto: può anzi configurarsi come forza a cui attingere.
Mi piace pensare che nei
versi di Accordi,con l’ignoto tu, Consolo alluda ad un’identità
sua e di tutti i figli del Mediterraneo, un’identità nata da una relazione
vecchia di secoli con la terra, le piante, i muri a secco, con i paesaggi:
tolto tutto questo, cosa saremmo?
Solo se ripartiamo da
questo, allora, da ‘Itaca’, attraverso un cammino, senz’altro faticoso,
difficile, di consapevolezza degli spazi e della nostra relazione con essi, possiamo
avere qualche opportunità di sopravvivere anche noi. Possiamo avere qualche
speranza, se non per domani, almeno per dopodomani.
[1]A. Montandon,
Itaque au fil du temps, in B. Westphal (a cura di), Le rivage des
mythes. Une géocritique mediterranéenne. Le lieu et son mythe, Pulim, Limoges 2001, pp. 18-36.
[3]V.
Jankélévitch, L’irréversible et la nostalgie, Flammarion, Paris 1983,
pp. 370-371.
[4]V.
Consolo, L’olivo e l’olivastro, in Id., L’opera completa, a cura e con un
saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre,
Mondadori, Milano 2015, p. 869.
[5]V.
Consolo, Le pietre di Pantalica, in Id., Le pietre di Pantalica,
in Id., L’opera completa, cit., pp. 615-621.
[6]Ifigenia
fra i Tauri, trad. di Vincenzo Consolo e Dario Del Corno,
Istituto Nazionale del Dramma Antico -XXVII ciclo di spettacoli classici (27
maggio-4 luglio 1982), INDA, Siracusa 1982.
[7]«Non si
ritorna più nei luoghi da cui si è partiti, perché quelli non sono più i luoghi
che noi abbiamo lasciato. Non si è più di nessun luogo», V. Consolo, Fuga
dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Donzelli, Roma
1993, p. 69. Dello stesso tono sono le affermazioni di Consolo nell’intervista
con D. Calcaterra: «Una volta che si è partiti i ritorni sono impossibili.
Qualsiasi ritorno, anche quello di Odisseo, dopo l’allontanamento, non riesce a
colmare il distacco […] Nell’assenza si è consumato un duplice mutamento:
dell’individuo e del luogo d’origine. Si prova una gran pena quando non
riconosci più la tua terra, e la metamorfosi acquista la drammatica cifra
dell’inesorabile degrado, della perdita, dello smarrimento. Ogni ritorno è
dunque dolore. […] Oggi siamo tutti degli Ulissidi, degli erranti,
espropriati del proprio luogo della memoria. Viviamo nell’indefinito, senza
sicuri punti di riferimento, senza segni, intorno a noi c’è un mare da cui non
s’intravede alcun approdo possibile, e d’altra parte non vediamo più la sponda
da cui siamo partiti. Il destino dell’uomo contemporaneo è quello dell’errante,
che ha perso la propria identità, la propria patria» (D. Calcaterra, Vincenzo
Consolo, le parole, il tono, la cadenza, Prova d’autore, Catania 2007, pp.
20-22).
[8]P.P.
Pasolini, 10 giugno 1962, in Poesie mondane, in Poesia in
forma di rosa, in Id., Tutte le poesie, a cura di W. Siti, 2 voll.,
Mondadori, Milano 2003, I, p. 1099.
[9]Accordi. Poesie inedite, a cura di Claudio Masetta Milone e F. Zuccarello , Zuccarello editore, Sant’Agata di Militello 2015. pubblicato “La macchina sognante” (28 dicembre 2020)
Questo saggio intende analizzare il romanzo di Vincenzo
Consolo Nottetempo, casa per casa (1992) utilizzando il motivo della fine del
mondo come chiave interpretativa dell’opera ed elemento unificante i diversi
piani su cui la narrativa si sviluppa. Se da una parte La nascita della
tragedia di Friedrich Nietzsche costituisce un modello intellettuale di
riferimento e di confronto per il romanzo consoliano, dall’altra le
considerazioni dell’antropologo Ernesto De Martino sull’apocalisse ci
permetteranno di proporre Nottetempo come una risposta psicologica, culturale e
letteraria al rischio della “fine” esperito in questi tre diversi ambiti. Nel volume postumo che raccoglie gli appunti
preparatori all’opera rimasta incompiuta La fine del mondo, De Martino
approccia il tema dell’apocalisse derivando una connessione tra il senso di
fine del mondo vissuto nel disagio psicologico individuale e le grandi
apocalissi culturali elaborate dalle società o da singoli attori collettivi
operanti in esse. Anticipando i temi di questa ricerca in un articolo comparso
un anno prima della morte dell’antropologo su Nuovi argomenti, egli chiariva il
nesso tra apocalisse individuale e apocalisse collettiva nei seguenti termini:
“i caratteri esterni delle apocalissi psicologiche sembrano riprodursi anche in
quelle culturali, dato che anche le apocalissi culturali racchiudono l’annunzio
di catastrofi imminenti, il rifiuto radicale dell’ordine mondano attuale, la
tensione estrema dell’attesa angosciosa e l’euforico abbandono alle
immaginazioni di qualche privatissimo paradiso irrompente nel mondo” (De
Martino, 1964:111). Il compito delle apocalissi culturali sarà allora proprio
quello di scongiurare la fine, costituendosi come difesa e reintegrazione del
rischio della fine esperito nell’apocalisse psicopatologica: esse, cioè, hanno
il compito di rivalorizzare a livello collettivo e condiviso ciò che nella
crisi personale diventa perdita di senso, incapacità di dare valore e incapacità
di operare nel mondo quotidiano, decretandone così la sua fine. Tuttavia,
avverte De Martino, “se il dramma delle apocalissi culturali acquista rilievo
come esorcismo solenne, sempre rinnovato, contro l’estrema insidia delle
apocalissi psicopatologiche, è anche vero che questo esorcismo può riuscire in
varia misura, e di fatto può sbilanciarsi sempre di nuovo verso la crisi
radicale” (De Martino, 1964:113). Anche le apocalissi culturali, dunque,
possono incorrere nel rischio di essere “nuda crisi” senza possibilità di
rinnovamento, “senza escaton”, rischio che De Martino intravedeva
nell’apocalisse dell’occidente contemporaneo che “conosce il tema della fine al
di fuori di qualsiasi ordine religioso di salvezza, e cioè come disperata
catastrofe del mondano, del domestico, dell’appaesato, del significante e
dell’operabile” (De Martino, 2002:470). Il doppio piano della crisi
psicopatologica individuale e della crisi esperita dalla società nel suo
insieme è colta da Consolo in Nottetempo attraverso il dispiegamento di una
fantasmagoria di personaggi reali e fittizi e attraverso l’ambientazione
storica. Il contesto storico nel quale tali personaggi operano (i primordi del
Fascismo), infatti, è rappresentato e
interpretato secondo i modi di una apocalisse storica che rischia di essere
“nuda crisi”, catastrofe senza rinnovamento. Essa, inoltre, fa eco e diventa
metafora per il presente: l’inizio del Ventennio fascista, infatti, diventa
anche il mezzo per parlare dell’inizio della Seconda Repubblica1 – l’anno
di
*
1 Lo stesso autore, chiarendo come il passato
sia una metafora per il presente, evidenzia il carattere “apocalittico” di tale
passato e tale presente: “Dopo il Sorriso, ho continuato a scrivere romanzi
storici […]. L’ultimo, Nottetempo, casa per casa, è ambientato negli anni
**
pubblicazione del libro si colloca proprio nel passaggio tra la fine di un mondo e l’inizio di una nuova era per la società italiana, nonché pare profeticamente avvertire la crisi culturale che sarà presto inaugurata dall’ascesa di Berlusconi al potere. Come De Martino, Consolo avverte nel presente il senso di una fine che non prevede un nuovo inizio, mentre individua nel passato eventi apocalittici che hanno segnato un rinnovamento: ne è esempio concreto la rinascita della Val di Noto attraverso il barocco dopo il terremoto del 16932. Con Nottetempo siamo, dunque, nella Cefalù dei primi anni Venti e un uomo corre forsennatamente nella notte, in preda al “male catubbo”, una forma di depressione in cui l’interpretazione popolare riconosce il licantropismo 3, o “male di luna”, come aveva già mirabilmente descritto Pirandello in una sua omonima novella. Veniamo in seguito a sapere che egli è il padre di una famiglia tormentata dal male interiore, per cui il licantropismo cui è soggetto non può essere spiegato solamente con una diagnosi scientifica, ma ha ragioni ben più profonde. La moglie (“troppo presto assente”) è morta e le due figlie sono affette da problemi psicologici: l’una, Lucia (“che sola e orgogliosa se n’andava per altra strada”), è mentalmente instabile e verrà rinchiusa in una clinica, l’altra, Serafina (“torbida, di pietra”, 106), vive in uno stato catatonico. Petro, il figlio eventi,
, che mi sembrano terribilmente somiglianti a questi che
stiamo vivendo, anni di crisi ideologica e politica, di neo-metafisiche, di
chiusure particolaristiche, di scontri etnici, di teocrazie, integralismi […]
Il Sorriso e Nottetempo formano un dittico. […] Nel primo ho voluto insomma
raccontare la nascita di un’utopia politica, della speranza di un nuovo assetto
sociale; nel secondo, il crollo di quella speranza, la follia degli uomini e la
follia della storia, il dolore e la fuga” (Consolo, 1993:47-48). 2 Nel capitoletto La rinascita del Val di Noto
compreso in Di qua del faro, Consolo descrive il terremoto che distrusse la Sicilia
orientale alla fine del ’600 proprio usando il termine “apocalisse” e
riconoscendo nell’arte barocca un valore escatologico: “E però il Barocco non è
stato solamente il frutto di una coincidenza storica. Quello stile fantasioso e
affollato, tortuoso e abbondante è, nella Sicilia dei continui terremoti della
natura, degli infiniti rivolgimenti storici, del rischio quotidiano della
perdita d’identità, come un’esigenza dell’anima contro lo smarrimento della
solitudine, dell’indistinto, del deserto, contro la vertigine del nulla”
(Consolo, 2001a:99). 3 Spiega Consolo:
“Il padre si ammala di depressione, che nel mondo contadino arcaico viene
chiamata licantropia. Questo fenomeno è stato studiato dalla principessa di
Lampedusa, che era una psicanalista che ha associato la licantropia alla depressione:
nel mondo rurale questi poveretti che soffrivano terribilmente, uscivano fuori
di casa, magari urlavano e venivano scambiati per lupi mannari” (Consolo,
2001b). protagonista del romanzo, è affetto dalla malinconia, da una tristezza
le cui origini egli stesso rintraccia in un tempo primordiale, un tempo perso
nel tempo, di cui il nome della famiglia, Marano4, ne è spia: “‘Da quale
offesa, sacrilegio viene questa sentenza atroce, questa malasorte?’ si chiedeva
Petro. Forse, pensava, da una colpa antica, immemorabile. Da quel cognome suo
forse di rinnegato, di marrano di Spagna o di Sicilia, che significava eredità
di ànsime, malinconie, rimorsi dentro nelle vene” (42). E più oltre riflette
ancora che quel dolore sembra essere sorto “da qualcosa che aveva preceduto la
sua, la nascita degli altri” (106). La famiglia del protagonista e Petro stesso
rappresentano così un articolato inventario dell’apocalisse psicopatologica:
ognuno, chiuso nella propria incomunicabile individualità, esperisce solitariamente
il “delirio di fine del mondo”, cioè la perdita della “normalità” del mondo e
della possibilità dell’intersoggettività
dei valori che lo rendono un mondo possibile e umano. Del male che affligge la famiglia, tuttavia,
si intravede anche una motivazione più contingente e precisa in quel
cambiamento di status, peraltro non giustificato dalle convenzioni sociali, che
verghianamente aleggia sulla famiglia come una rovina: il padre ha ricevuto
infatti l’eredità di un signore locale che ha preferito beneficiare la famiglia
Marano piuttosto che suo nipote, il barone Don Nenè, legittimo erede. La
menzione di questo avanzamento sociale, all’origine anche dell’inimicizia fra
Petro e Don Nenè, viene lasciata cadere qua e là nel romanzo come fosse la
colpa da cui discende tutto il male che gravita sulla famiglia. La ragione
dell’impossibilità del matrimonio fra Lucia e Janu è quella verghiana5 che
impedisce
*
4 “Ho adottato questo nome perché ha due
significati per me. Marano significa marrano, cioè è l’ebreo costretto a
rinnegare la sua religione e a cristianizzarsi, perché in Sicilia con la
cacciata degli Ebrei nel 1492 – così come in Spagna, – ci furono quelli che
andarono via ma anche quelli che rimasero e furono costretti a convertirsi. È
stata una forma di violenza. Ho dato il nome di Marano a questa famiglia con
questa memoria di violenza iniziale e poi per rendere omaggio allo scrittore
Jovine che chiama il suo personaggio principale Marano ne Le terre del
sacramento, quindi è un omaggio a una certa letteratura” (Consolo, 2001b).
5 E Verga, non a caso, costituisce
modello forte e necessario per Consolo, non solo a livello tematico in quanto
“cantore” degli umili e ultimi, ma anche a livello stilistico in quanto
sperimentatore: “La mia opzione è stata sulla scrittura espressiva che aveva
come archetipo un mio conterraneo, Giovanni Verga, che è stato il primo grande
rivoluzionario stilistico nella letteratura moderna. Da lui si passava,
attraverso altri scrittori, come Gadda e
**
inizialmente ad Alfio Mosca di prendere in moglie la Mena.
Lucia si innamorerà poi di un uomo il cui mancato ritorno dalla guerra le
procurerà la ferita fondamentale che la porterà alla pazzia; Petro riflette
allora che Janu “quell’uomo buono, schietto, avrebbe forse rasserenato la
sorella […], cambiato la sua sorte, e provò pena per lui, per Lucia, rabbia
per quell’assurdo vallone che s’era aperto fra loro due” (63). Ma su questo
motivo verghiano della condizione di classe si innesta quello della roba inteso
come voracità di accumulo sconsiderato di beni; si instaura il dubbio che la
vera causa della perdita della ragione, il dolore che porta alla
pietrificazione, possa trovarsi in quell’accumulo, in quella roba: “Petro si diceva
come sarebbe stato meglio per Serafina, per Lucia, non aver avuto nulla, essere
incerte nella roba, ma salde nella persona, nel volere, coscienti e attive”
(114). Si intravede qui, solo accennata, anche una critica al capitalismo
sfrenato e al consumismo, che è in definitiva accumulo di roba per la roba,
senza altra finalità. La condizione psicopatologica individuale, dunque, prende
forma e mette radice anche in una condizione di “malattia” più generale della
società feticizzata, che per questa ragione non è più in grado di generare
valori umani ma si accascia su se stessa senza rinnovamento e nuovo
significato. Accanto ai Marano, compare poi tutta una sfilza di personaggi che
ruotano attorno all’arrivo a Cefalù di un individuo alquanto eccentrico e realmente
esistito, il satanista inglese Alastair Crowley, il quale si insedia in una
villa poco fuori paese e lì celebra i propri riti coinvolgendo diverse persone.
Le proteste contadine e le azioni degli squadristi fascisti, infine, connotano
il clima storico e sociale all’interno del quale le vicende si muovono.
Pasolini” (Consolo,
2001b). Lo stesso concetto è ribadito qualche anno dopo in un’altra intervista:
“in generale mi sono sempre mosso nel solco gaddiano (solco tracciato per
primo, nella letteratura italiana moderna, da Verga)” (Ciccarelli, 2006:96). Si
veda anche il commento di Ferroni: “Il suo espressionismo tutto siciliano parte
da Verga, dal serrato confronto con lo scrittore verista con il parlato e con
la tradizione letteraria, e giunge come a rendere più densa e aggrovigliata la
miscela verghiana” (Adamo, 2007:7). Infine, si legga anche il capitolo
“Verghiana” in Di qua dal faro.
I tempi dell’apocalisse consoliana: moto e impetramento
Il senso della fine del mondo, cioè la caduta o perdita di
questo mondo possibile, si manifesta nel romanzo attraverso due movimenti tra
loro opposti che si estremizzano senza armonia: da una parte un moto vano e
dall’altra una stasi pietrificata. De Martino individua in questi due poli due
segni uguali e contrari della fine del mondo:
Il mondo che diventa “immobile”, il divenire che perde la
sua “fluidità”, la vita che si devalorizza costituiscono un momento vissuto
dell’ethos del trascendimento che muta di segno: l’altro momento è l’universo
in tensione, la onniallusività dei vari ambiti in cerca di semanticità, la
forza che travaglia questi ambiti e li sospinge ad andare oltre i loro limiti
in modo irrelato, e che li fa partecipare caoticamente a tutto il reale e a
tutto il possibile, senza sosta e senza offrire mai un appiglio operativo
efficace. La polarità di immobilità e tensione, di rigidezza e forza
onniallusiva, di crollo degli appigli operativi e di irrelata scarica
psicomotoria, porta il segno dell’alterità radicale e dell’essere-agito-da,
cioè il segno dell’alienazione nel senso patologico del termine: in tutti i
vissuti cui dà luogo, si manifesta infatti il diventar altro proprio di ciò che
sta alla radice dell’io e del mondo, l’annientarsi dell’energia valorizzante
delle presenza, il non poter emergere come presenza al mondo e l’esperire la
catastrofica demondanizzazione del mondo, il suo “finire”. (De Martino,
2002:631)
Tutti i personaggi di Nottetempo sono tesi ora verso un polo
ora verso l’altro, manifestando e vivendo in maniera diversa il disagio della
catastrofe imminente. Il movimento cui si abbandonano alcuni personaggi, tra
cui in primo luogo il satanista inglese – e che a livello sociale richiama
anche l’imperativo all’azione degli squadristi fascisti – diventa un’agitarsi
vano e inconcludente, un muoversi legato al caos e irrelato al mondo degli
oggetti, dunque privo di significato e incapace di crearne. Questo agitarsi
vano è anche un modo per nascondere e non dover fermarsi a fissare il dolore
che permea l’esistenza umana; infatti, fissare questo dolore può portare alla
pietrificazione, alla stasi completa, se non si riesce ad elaborare tale
sofferenza in maniera produttiva. Osservare questa profonda realtà in un
momento in cui l’individuo o la società nella sua interezza non riescono a
creare valore e significato per tale sofferenza può essere tanto rischioso
quanto guardare negli occhi la Gorgone: è un atto che conduce alla
pietrificazione, la stasi, che racchiude in sé tutto ciò che è mancante di
movimento, ma anche assenza di parola, impossibilità del dire, del
rappresentare e del comunicare. A questa condizione dell’esistenza umana
corrisponde in Consolo quella narrativa, sospesa tra il rischio di dire troppo
dicendo nulla – il vuoto della retorica6 – e la pagina bianca, il non scrivere
e il non dire. Nei poli dell’apocalisse
consoliana possiamo riconoscere una degenerazione dei due impulsi che concorrono
a formare la tragedia greca così come è descritta dal filosofo tedesco
Friedrich Nietzsche in La nascita della tragedia greca: il dionisiaco e
l’apollineo. Il dionisiaco, che dà origine al coro della tragedia, è l’ebbrezza
estatica in cui grazie all’annullamento della soggettività l’uomo può entrare
in contatto con l’“unità originaria” del tutto e riconciliarsi con la natura; è
movimento, danza, musica, scatenamento degli istinti e delle pulsioni vitali.
L’apollineo, invece, è contemplazione, sogno, creazione di immagini,
rappresentazione; nella tragedia è l’“oggettivazione dello stato dionisiaco”
(Nietzsche, 2003:122) del coro, dunque la scena, il dramma. Nell’apollineo si
intravede la qualità statica della contemplazione, di immagini nelle quali si
riduce l’azione; una staticità che Nietzsche definisce come “silenziosa
bonaccia della contemplazione apollinea” (Nietzsche, 2003:103). L’interazione e
l’equilibrio tra l’apollineo e il dionisiaco è ciò che dona forma alla tragedia
greca; Consolo, tuttavia, vede nella modernità la perdita di questo equilibrio
e la perdita della forza creatrice dei due impulsi nietzschiani: il dionisiaco
diventa disumanità, movimento falso, scatenamento di istinti bestiali che
invece di connettere l’uomo con una supposta unità originaria, lo
*
6 “La rottura del rapporto tra intellettuale e
società ha lasciato un vuoto di cui si è impadronita una comunicazione che è
sempre impostura; è la voce del più forte, la verità falsata del potere”
(Consolo in Papa, 2003:193).
**
disconnette dall’umano, dalla comunità e non lo lega né alla
dimensione del divino, né alla dimensione di una realtà o verità profonda; e
l’apollineo è pura stasi, è l’essere intrappolati nella contemplazione di
immagini di dolore. Questi due impulsi generano in Consolo un presente
caratterizzato da una tragedia degenerata, priva di catarsi, priva di
conclusione; egli stesso lo spiega a commento della propria opera: “l’anghelos,
il narratore, non appare più sulla scena poiché ormai la cavea è vuota,
deserta. Sulla scena è rimasto solo il coro, il poeta, che in tono alto,
lirico, in una lingua non più comunicabile, commenta e lamenta la tragedia
senza soluzione, la colpa, il dolore senza catarsi” (Consolo 1996:258). In un’opera successiva, L’olivo e l’olivastro
(1994), lo scrittore individuerà nella metafora dell’“olivo”, l’albero
innestato, l’albero che nasce dalla cultura e dalla civiltà, e
dell’“olivastro”, l’albero selvatico, un’altra metafora per esprimere il senso
di perdita dell’armonia di due opposti impulsi che, come l’apollineo e il
dionisiaco, dovrebbero formare il senso e il valore della civiltà, di un mondo
umanamente abitabile: “spuntano da uno stesso tronco questi due simboli del
selvatico e del coltivato, del bestiale e dell’umano, spuntano come presagio di
una biforcazione di sentiero o di destino, della perdita di sé,
dell’annientamento dentro la natura e della salvezza in seno a un consorzio
civile, una cultura” (Consolo, 2012a:13-14). Essi “non si combattono: al
contrario, si completano. Essi si uniscono in lui [in Ulisse] armoniosamente
come il ceppo materno e il ceppo paterno” (Consolo, 1999:25). Ma il dramma
della modernità, ciò che porta la civiltà occidentale a vivere la propria
apocalisse, è il sopravvento dell’olivastro sull’olivo: “Ecco, nell’odissea
moderna è avvenuta la separazione tra il selvatico e il coltivato. L’olivastro
ha invaso il campo” (Consolo, 1999:25). Come l’apollineo e il dionisiaco hanno
perso la loro forma rendendo la tragedia moderna priva di catarsi, così l’olivo
e l’olivastro non coesistono più armonicamente nel tronco della civiltà
portando questa verso il suo tramonto.
Primo tempo: il movimento artificioso
In Nottetempo, come già accennato, il polo del movimento è
rappresentato in primo luogo dall’inglese satanista e reso con particolare
efficacia in un capitolo, La Grande Bestia 666, che reca significativamente in
esergo una citazione dall’apocalisse di Giovanni. Aleister Crowley inscena un
allucinante e allucinato rito orgiastico che dovrebbe in qualche modo rifarsi
all’Arcadia greca, riproporne i miti, riconnettersi con un mondo antico e
aureo, ma che nella realtà non è che una degradata imitazione di forme vuote e,
soprattutto, una degradata riproduzione di un rito dionisiaco in cui l’ebrezza,
la musica, la danza dovrebbero portare alla visione estatica. Il capitolo
principia, infatti, con la descrizione di un ballo, che ci immette subito nella
sfera del movimento senza arresto, nonché nel regno dionisiaco. È Aleister,
immedesimato in una ballerina, a compiere prodezze sostenuto “nella felice
trascendenza dai vapori d’oppio, d’etere, di hashish, di cocaina” (85). Il
ritmo diventa sempre più incalzante, i lunghi elenchi che riempiono la pagina
riproducono il “suono della vibrante cetra, dei cembali tinnanti,
dell’acciarino acuto, del timpano profondo” (83) con cui si apre il capitolo;
si veda, a titolo di esempio, questa lista di nomi che connotano l’essenza
fittizia di Aleister, senza sosta, in un ritmo incalzante che toglie il fiato
alla lettura: In lui c’era stato il tebano Ankh-f-n-Khonsu, Ko Hsuan discepolo
di Lao-Tze, Alessandro VI Borgia, Cagliostoro, un giovane morto impiccato, il
mago nero Heinrich Van Dorn, Padre Ivan il bibliotecario, un ermafrodita
deforme, il medium dalle orecchie mozze Edward Kelley, il dottor John Dee,
l’evocatore d’Apollonio di Tyana, il gran cabalista Eliphas Levi, in lui, il
gentiluomo di Cambridge, Aleister MacGregor, Laird di Boleskine, principe Chioa
Khan, conte Vladimir Svareff, Sir Alastor de Kerval, in lui, la Grande Bestia
Selvaggia, To Mega Thérion 666, Il Vagabondo della Desolazione, Aleister
Crowley (dàttilo e trochèo). (84)
È un elenco dal ritmo vorticoso, che confonde in una sorta
di ubriacatura di parole: Consolo rende in tal modo, con un linguaggio che si
fa nietzscheanamente metafora del suono7, il senso di un vano agitarsi. Questo
moto, sostenuto dall’uso delle droghe, si connota come anormale e nella
collezione di identità in cui di volta in volta Aleister Crowley si identifica
possiamo vedere un sintomo di schizofrenia e psicopatologia connessa a uno
stato epilettico, analizzando il quale De Martino individua il principio del
moto distorto come una delle sue caratteristiche: “in tutto sta in primo piano
l’elemento del moto: l’alterazione del movimento, la perdita dell’equilibrio,
lo scuotimento della sicurezza e della tranquillità nel mondo delle cose,
conducono alla conclusione: il mondo crolla, sprofonda” (De Martino 2002:38). Ma quando Janu, “this sicilian caprone” (80)
– il satiro – rifiuta di prendere parte al rito, di consumare l’orgia, e
scappa, il movimento vorticoso si arresta; il cielo di carta pirandellianamente
si squarcia e la messa in scena rivela il proprio carattere fittizio, scoprendo
per un attimo la falsità della vita stessa che il rito attraverso il vortice
del ballo cercava di occultare: “Declamò ancora più forte la danzatrice in
terra. Restò immobile. Attese. S’era interrotta ogni musica, ogni nota, sospeso
ogni sussurro, fiato, il silenzio freddo era calato nella sala” (88). È
l’assenza di movimento e di parola a rivelare la realtà, a svelarla:
Sentì ch’era sopraggiunto quel momento, quell’attimo
tremendo in cui cadeva dal mondo ogni velario, illusione, inganno, si
frantumava ogni finzione, fantasia, s’inceneriva ogni estro, entusiasmo,
desiderio, la realtà si rivelava nuda, in tutta l’insopportabile evidenza, cava
si faceva la testa, arido il cuore. […] Guardava il mondo in quello stato, si
guardava intorno, e ogni cosa gli appariva squallida, perduta. (89)
7 Il linguaggio, secondo il filosofo tedesco,
nasce da un impulso nervoso che si trasferisce in immagine e poi in suono. Il
linguaggio della poesia del canto popolare è quello che meglio di qualunque
altro riesce “nella imitazione della musica” (Nietzsche, 2003:101).
È il momento drammatico della rivelazione. Il rischio è la
stasi, ma Aleister la scongiura chiedendo che gli venga data altra droga per
ridiscendere nella condizione di trance e ricreare un mondo fittizio. Il
capitolo, tuttavia, si chiude bruscamente con un altro svelamento, un altro
squarcio che irrompe in questa realtà: l’annuncio che l’infante, il figlio di
Aleister, è morto. Segue “tutto un trambusto, un irrompere all’aperto, un
correre nella notte” (99), ma ovviamente invano, perché la stasi suprema, la
morte, si è già impossessata della piccola Poupée. Nella scomparsa dell’infante è da leggersi,
metaforicamente, la morte di ogni speranza e del futuro. È anche presagio della
futura “apocalisse” che si abbatterà un ventennio dopo su tutta l’Europa nella
forma della Seconda Guerra Mondiale causata dai fascismi. Aleister, infatti,
rappresenta anche l’irrazionalità e la bestialità del fascismo, se è vero che
intorno a lui si convogliano personaggi simpatizzanti e legati al fascismo,
come il barone Nenè e la sua cricca, e che lo stesso inglese viene nominato
come Superuomo, “colui che aveva varcato ogni confine, violato ogni legge, che
aveva osato l’inosabile, lui, la Grande Bestia dell’Apocalisse” (90). Ed egli,
nel tentativo di ricreare un mondo antico attraverso una messa in scena
irrazionale, si fa simulacro del progetto di Mussolini e del Duce stesso, di
colui che ha “varcato ogni confine” umano, reale e metaforico. Per Consolo
apocalisse è anche questa: l’andar oltre il limite, il troppo, il movimento che
travalica il confine, come l’ultimo viaggio dell’Ulisse dantesco oltre le
colonne d’Ercole. In molti, infatti, hanno riconosciuto nei personaggi dello
scrittore siciliano dei moderni Ulisse condannati a una continua peregrinazione
dove non esiste l’Itaca a cui tornare8 – tema d’altronde, quello della perdita
di Itaca, comune a molta letteratura moderna italiana, per cui il ritorno è
sempre impossibile, a iniziare dal ‘Ntoni verghiano. E proprio i personaggi del
romanzo di Aci Trezza sono descritti da Consolo in
8 Si veda su tutti l’articolo di Massimo
Lollini “La testimonianza di Vincenzo Consolo, moderno Odisseo.” Italica 82.1
(Spring 2005), in cui l’autore analizza le varie figure ulissiache di Consolo,
tra cui il personaggio inglese Alastair, il barone Nenè e Petro di Nottetempo.
Lollini arriva a far coincidere la figura di Ulisse con quella di Consolo
stesso, testimone dello spaesamento e del peregrinamento dell’uomo moderno,
descritto “in toni che a tratti si fanno apocalittici” (38), soprattutto quando
lo sguardo cade sulle odierne devastazioni che occorrono lungo il Mediterraneo.
L’olivo e l’olivastro come in continua preda di un
movimento, una frenesia che ha esplicitamente i caratteri dell’apocalisse: “[il
popolo di formiche] visse in quell’apocalisse del movimento rapido, nella
vitalità guizzante, nella ferocia del possesso, nel tetro accumulo, nel tumore
divorante” (Consolo, 2012a:40). L’Ulisse consoliano è privo di connotazioni
romantiche ed eroiche, divenendo anzi spesso simbolo non solo dello spaesamento
dell’uomo moderno ma anche della sua folle ricerca di un superamento dell’umano
e dei suoi limiti contingenti: “Il soggetto etico di cui i romanzi di Consolo
si fanno portavoce […] insiste sull’importanza di una riflessione sui limiti
stessi della scrittura, che poi sono i limiti della civiltà, del tentativo di
apprezzare e definire i contorni di una cultura della finitudine umana”
(Lollini, 2005:34). Il movimento e il
dionisiaco degenerato si connotano, perciò, in termini distruttivi e
apocalittici quando significano tentativo di superamento dell’umano, che è
anche sempre violenza disumana, bestiale. Il varcare le colonne d’Ercole si
pone dunque per Consolo entro una dimensione etica che non riguarda più
solamente l’individuo e il suo singolare confronto con la divinità, con
l’oltre, ma riguarda l’individuo in quanto parte di una comunità9: questo
Ulisse moderno senza possibilità di ritorno non è un eroe solitario in lotta
contro forze superiori, ma è uomo le cui scelte e le cui azioni sono e si
iscrivono sempre entro una dimensione etica che riguarda tutta la comunità
circostante. In questo vediamo delinearsi la responsabilità del satanista
inglese Alaister che non può essere circoscritta geograficamente e
temporalmente all’interno di ciò che avviene nella villa a Santa Barbara, la
villa appartata che egli sceglie come dimora. Alaister diventa emblema e
portavoce di un modello di ricerca che sfocia nel disumano e che ha come
vittima il più piccolo, nonché futuro, della comunità. La vittima, tuttavia,
non è prevista dal rito e perciò non è sacrificale; essa, rimanendo legati al significato
etimologico del termine, non entra nel regno del sacro e non si connette con
una spiritualità superiore, ma rimane ancorata al senso profano, alla
materialità terrena, non assume nessun valore superiore.
9 Così, d’altra parte, lo intende anche Dante,
collocando Ulisse nell’inferno non già perché ha sfidato gli dei, quanto
piuttosto perché si è allontanato dalla comunità degli uomini, trascinando alla
rovina anche i suoi compagni.
Diventa una morte disumana, legata al superamento del
limite, e non una morte sacra, una morte che può trascendere nel significato.
Secondo tempo: l’incedere umano
È, dunque, attraverso il recupero del senso dell’umano che
il movimento può ritrovare il suo giusto ritmo, la sua misura, e non eccedere
verso il limite dell’apocalittico, che è superamento dell’umano. Un passo del
capitolo successivo a La Grande Bestia 666 collega le tematiche del movimento
apocalittico e della stasi con la ricerca di una dimensione umana che possa
scongiurare i due estremi. La riflessione avviene in occasione dell’incontro
tra Petro e Janu, che per tanti mesi era scomparso e ora appare cambiato:
Pensò Petro a come si può cangiare in poco tempo, al tempo
che scorre, precipita e niente lascia uguale. Che solo la disgrazia, la pena
grave blocca il movimento, il cuore la memoria, come una bufera immota, un
terremoto fermo, una paura assidua che rode, dissecca, spegne volere gioia. E
sbianca e invecchia, mentre che dentro la ferita è aperta, ferma a quel
momento, nella sfasatura, nella disarmonia mostruosa. Una suprema forza
misericordia immensa potrebbe forse sciogliere lo scempio, far procedere il
tempo umanamente. (105, corsivo mio)
Petro, dunque, minacciato costantemente come i suoi
familiari dal pericolo dell’arresto del tempo, dell’immobilità, scorge dentro
sé una via diversa da quella del satanista inglese o del fascismo: movimento
sì, movimento che significa vita, ma che “proceda umanamente”. Appare evidente
il contrasto con il movimento vorticoso, ossessivo, ritmico e in definitiva
artificiale che ha animato il rito delle pagine precedenti. Solo nel tempo
umano c’è la possibilità di salvarsi dall’apocalisse. È questo il tempo della
memoria, il tempo che può essere articolato dalla coscienza umana, il tempo
entro cui può risiedere l’umano. È perciò anche progetto di scavo, archeologia del tempo, del passato da
cui recuperare frantumi, frammenti di umanità, come nota Bouchard: “Consolo
allows the ruins of the past to haunt the surface of his narratives with the
intent of making current the wounds and the lacerations of history. Since these
are wounds and lacerations that can no longer be abreacted by a successful work
of mourning, they give rise to an interminable writing of melancholy that
displaces the ontological certainty of our reality while pointing towards a
better future that can only be built out of the memory traces of the past”
(Bouchard, 2005:17).
Terzo tempo: “il male di pietra”
Il tempo che scorre umanamente è costantemente minacciato
dall’altra possibilità: dall’arresto. È questa la metafora più efficace e
pregnante in Consolo, poiché è il rischio che egli stesso in quanto scrittore –
e in quanto uomo – corre, è il pericolo che costantemente gravita sulla sua
scrittura e che ritorna quasi ossessivamente da una pagina all’altra: è il
pericolo che incombe su chi acquista la consapevolezza della realtà, chi sente
la sofferenza declinata sia come male di vivere dell’uomo sia nella sua
contingenza come male dell’epoca contemporanea. Consolo, rifiutando l’uso di un
linguaggio comune troppo abusato e vuoto, cioè la parola che danza ma non dice,
cede inevitabilmente il passo alla pietrificazione, alla stasi della parola. Ed
è dunque su questo punto che si arrovella, è questo il cruccio della sua
scrittura nonché quasi il paradosso dell’urgenza del dire in un mondo dove non
è più possibile dire. È questa la degenerazione apollinea di una
rappresentazione, qui propriamente intesa come drama, che si pietrifica in
un’unica immagine di sofferenza. Ben giustamente Arqués cita Calvino e il suo
saggio sulla leggerezza a proposito di Consolo, ma lo fa per stabilire un
parallelo tra la narrazione storica dello scrittore siciliano e Perseo, o,
meglio, tra la realtà presente e la Gorgone, che non può essere guardata negli
occhi, pena la pietrificazione. La metafora, tuttavia, acquista maggior
pertinenza se nella figura della Gorgone non proiettiamo semplicemente il
presente, ma il dolore, la realtà profonda che soggiace a ogni esistenza, quel
male di vivere che non può essere nominato se non con una descrizione e che a
seconda di chi parla e del momento può assumere forme diverse, ma che è anche
sostrato universale che accomuna l’uomo di tutte le epoche e i luoghi. È quel
senso di verità e dolore che, appunto, se viene fissato direttamente, scoperto
e guardato nella sua cruda interezza pietrifica, proprio come il mostro
mitologico. Calvino userà allora la leggerezza come specchio per guardare
quella pesantezza dell’esistere; Consolo, invece, sa che anche il linguaggio è
costantemente minacciato dal vano agitarsi di parole e perciò sente di non
poter più praticare una lingua troppo tarata da forme vuote; correrà perciò
sempre il rischio, come i suoi personaggi, di pietrificarsi fissando la medusa.
In Nottetempo il personaggio cui è assegnata la sfida di trovare la giusta
misura, il tempo umano, è Petro, che nel nome porta chiaramente il significato
di quel cadere nella contemplazione del male d’esistere. Il primo capitolo, nel
quale si svolge l’inseguimento notturno di Petro nei confronti del padre
affetto dal “male catubbo”, stabilisce il campo semantico entro cui ci dobbiamo
confrontare: il licantropismo, fenomeno dell’uomo tramutato in lupo, ci pone
nel regno delle metamorfosi. Qui il riferimento classico è ovviamente Ovidio10,
di cui la studiosa Galvagno riconosce una caratteristica fondamentale: “La
métamorphose ovidienne, soit humaine, animale, végétale, liquide ou minérale (y
compris les catastérismes), présuppose comme son moyau le plus intime une
pétrification, une immebolité, une fixité de l’être métamorphosé” (Galvagno,
2007:179). Ora tale tratto della pietrificazione dell’essere sarebbe presente,
secondo la studiosa, nella scrittura di Consolo – e abbiamo già citato, non
casualmente, il mito di Perseo. Tutto in
Nottetempo sembra essere sull’orlo della pietrificazione: personaggi, azioni,
eventi, il tempo, la scrittura. Pietrificazione
10 Esistono differenti possibilità di
interpretazione e stratificazioni di significato nella figura dell’uomo
trasformato in lupo, nonché naturalmente differenti storie e tradizioni e
appropriazioni di tali tradizioni da parte della letteratura, ma vale forse qui la pena ricordare il
racconto che fa Ovidio di Licàone, trasformato in lupo da Giove perché
progettava di uccidere il dio. Giove
racconta: “[…] io con fuoco vendicatore faccio crollare quella casa
indegna del suo padrone. Lui fugge, atterrito, e raggiunti i silenzi della
campagna si mette a ululare: invano si sforza di emettere parole” (Ovidio,
1994:15). E dopo Giove invocherà l’apocalisse: la distruzione del genere umano,
perché indegno, corrotto e criminale. Si legga, per confronto, il passo di
Consolo: “Si spalancò la porta d’una casa e un ululare profondo, come di dolore
crudo e senza scampo, il dolore del tempo, squarciò il silenzio di tutta la
campagna” (6). E subito dopo l’episodio del lupo mannaro, comparirà sulla scena
il satanista Aleister. richiama sia la stasi, l’assenza di movimento, di
parola, sia il senso del peso, come aveva rilevato Calvino: la pesantezza
dell’essere. E infatti chi si pietrifica è chi fissa, immobile, e contempla
tale pesantezza, diventando egli stesso o ella stessa di pietra, avvertendo su
di sé tutta la pesantezza del male e sprofondando nel silenzio. Il silenzio e
l’impossibilità dell’esprimersi si associano all’assenza di movimento, alla
pietrificazione, divenendo l’uno spia dell’altro. Fanno da contraltare le urla
disumane, suoni che spesso non si articolano in parole intellegibili (come gli
ululati del lupo mannaro) e che esprimono al pari del silenzio il dolore umano;
molte volte l’urlo e il silenzio si ritrovano insieme come due espressioni
dello stesso concetto di sofferenza. Molti sono gli esempi sparsi nel testo che
esprimono il senso della stasi e/o del silenzio; si leggano questi: “il confine
del dolore fermo, del vuoto immoto” (9), “ma là era silenzio e stasi, era
riposo” (9), “Guardava il silenzio sulle case, ad ogni strada, piano, baglio,
il silenzio al meriggio” (13), “nella sublime assenza, nella carenza di
ragione” (37), “‘Uuuhhh…’ ululò prostrato a terra ‘uuhh… uhm… um…
mmm… mmm… mmm…’” (38, e questa volta è Petro che emette suoni
incomprensibili), “nell’attasso del cuore, canto del pendolo bloccato” (42),
“nella segreta sua torre d’urla, di lamento” (51), “Siamo un ribollìo celato
d’emozioni, un rattenuto pianto” (66), “E tu, e noi chi siamo? Figure
emergenti, palpiti, graffi indecifrati. Parola, sussurro, accenno, passo nel
silenzio” (67), “la pena grave blocca il movimento” (103), “Serafina torbida,
di pietra” (106), “la pietra del dolore” (135). Sono tutte espressioni di
sofferenza e legate alla consapevolezza della sofferenza, alla sua contemplazione
che sottrae l’azione e la parola. Già nel Sorriso dell’ignoto marinaio (1976)
era presente l’idea della pietrificazione come espressione del male, essa però
era legata a una contingenza – i cavatori di pomice – che diventava metafora per una sofferenza
più generale, quella degli ultimi: “‘Male di pietra’ continuò il marinaio ‘È un
cavatore di pomice di Lipari. Ce ne sono a centinaia come lui in quell’isola.
Non arrivano neanche ai quarant’anni’” (Consolo, 2010:8). Ma successivamente in
L’olivo e l’olivastro la metafora “male di pietra” si approfondisce e diventa
l’ossessione costante con cui dire la sofferenza umana. Nelle pagine iniziali
ritornano i cavatori come a stabilire quel paragone, fondare quella metafora
della pietra che poi diventa il nucleo lessicale fondamentale per esprimere il
dolore: “[…] entrò nelle caverne della pomice, parlò con i cavatori
silicotici […] Erano secchi e grigi i cavatori, avevano denti corrosi dalla
polvere, prendevano anelettici, cardiotonici: cresceva dentro loro poco a poco
una corazza di pietra, il cuore s’ingrossava, si smorzava il fiato, si
spegneva” (Consolo, 2012a:26-27). E qui in questo testo allora abbondano non
tanto – o non solo – espressioni diverse che indicano l’impossibilità del dire
e del fare, quanto piuttosto in maniera più specifica lemmi legati alla radice
“pietra”: “Che arrestò al suo accadere, pietrificò illusioni, speranze, rese di
lava la vita” (34), “un vecchio poeta afasico, irrigidito nel giovanile errore,
pietrificato nella follia ribelle” (36), “Una barca di pietra, la pietra in cui
si mutò la barca feacica che aveva portato in patria l’eroe punito, l’eroe
assolto dopo il lungo racconto–che in pietra si muti la barca, si saldi al
fondale prima d’ogni ritorno, poiché nel ritorno, così nel racconto, consiste
lo strazio” (39), “si pietrifica per il dolore, perde vigore e ragione” (41),
“la Catania pietrosa e inospitale” (52), “la ferma maschera, quasi impietrita
del nobile vegliardo” (59), “la loro tragedia s’è svolta in un attimo lasciando
impietriti” (125). La pietrificazione è legata all’esperienza personale, alla
scrittura, ma anche alla società. In un articolo pubblicato sul Corriere della
Sera nel 1977, Paesaggio metafisico di una folla pietrificata, e che O’Connell
riconosce come uno degli avantesti di Nottetempo per quell’incipit del tutto
simile, Consolo attribuisce alla Sicilia, che sta sempre in rapporto
sineddotico con la società, quell’impulso alla pietrificazione come forma
generale e risposta alla consapevolezza del male: “c’è una depressione più
inclemente e disumana di questa, ed è quella che non arriva all’estremo
livello, ma si ferma al di qua, a un passo dall’insopportabilità. È lo stadio
che blocca la vita, la congela, la pietrifica” (Consolo 1977:1). E la Sicilia
sembra, per lo scrittore, bloccata “in questo limbo, in questa metafisica
paralisi”, unica reazione con cui ha controbattuto il movimento artificiale,
del quale ne diviene simbolo l’autostrada, “moderno feticcio dell’accelerazione
spasmodica”. E pure qui la contrapposizione si ritrova anche sul piano della
comunicazione, poiché in questa Sicilia “sequestrata e pietrificata” chi ha
cercato “di fare e di dire”, cioè di cambiare la situazione, è stato costretto
al silenzio e sulla lunga tradizione letteraria isolana, da Verga a Sciascia,
ora domina “la parola vuota, l’inutile incanto, la retorica” (Consolo, 1977:1).
In questo precedente di Nottetempo c’è dunque l’esplicitazione di come la
metafora dell’impetramento e del movimento, del silenzio e della “vuota parola”,
che permea il romanzo sia da leggersi anche sempre come condizione sociale
oltreché intellettuale ed esistenziale. Queste considerazioni ci riportano a De
Martino e all’associazione tra l’apocalisse psicopatologica e quella culturale.
Se gli stati epilettici e la schizofrenia sono caratterizzati da un senso di
moto che in ultima analisi veicola il senso della fine del mondo, lo stato
catatonico è l’insania che al contrario si lega all’assenza di movimento e
diventa negazione del tempo e della storia, cioè ancora del mondo: “Tutte le
cose sono diventate immobili, in uno stato senza tempo. Il corpo risponde a
questo mondo non muovendosi più: il catatonico sta fermo e dritto come una
statua in un museo di curiosità, mentre per noi, non catatonici, il mondo parla
così chiaramente di movimento, è così visibilmente in “moto”, che possiamo
rispondere al suo appello solo con i movimenti del nostro corpo” (De Martino,
2002:57). Se per il non catatonico il mondo può procedere secondo un tempo che
è umano, il catatonico bloccandosi come una statua rifiuta tale tempo e porta
il mondo al suo precipitare. In Petro e nella famiglia Marano l’arresto e la
catatonia concretizzano la metafora di “folla pietrificata” in una società
sull’orlo dell’apocalisse.
La torre dell’urlo e del silenzio
Le sorelle di Petro, come abbiamo già accennato, sono chiuse
e sprofondate nell’impetramento dell’anima e del corpo. Serafina, col nome
programmatico di chi non appartiene a questo mondo e di chi ha una pace che non
è terrestre, è immobile in uno stato quasi catatonico, persa in vagheggiamenti
religiosi che non hanno più alcun referente nel contingente: “E Serafina,
ch’aveva preso prima il ruolo della madre e poi s’era seduta, fatta muta ogni
giorno, immobile, di pietra, dentro nella scranna, il solo movimento delle dita
che sgranano il rosario di poste innumerevoli, di meccaniche preghiere senza
sosta” (42). Serafina nella storia non c’è, è personaggio serrato in questa impossibilità
di essere e di comunicare; è solamente evocata e l’unica volta che compare è
un’immagine di chiusa pazzia: “Era prona la sorella, ai piedi del comò
acconciato come altare, pieno il marmo di fiori ceri avanti a quadri,
immaginette, duplicati nello specchio. Faceva un canto mesto, come un lamento”
(158); ma naturalmente le sue parole sono inintelligibili. L’altra sorella, invece, Lucia, cade in una
pazzia che prima ancora di essere assenza e distanza è urlo innaturale, parole
sconclusionate11, perse in un passato disordinato e non recuperabile. In Lucia,
infatti, si racchiude anche il tema fondamentale del recupero del passato, ma
un recupero che fallisce, poiché il disordine dei frammenti rimane un disordine
che non è in grado di tracciare nessuna via, per quanto precaria e labile. Il
ricordo delle ferite che riemerge in lei è un ricordo che riproduce
meccanicamente il trauma ma non lo supera mai; si legga la scena fondamentale
dove, dopo l’“oltraggio” subìto dalla famiglia Marano a causa dell’antagonismo
fra Petro e Don Nenè, Lucia farnetica pezzi di frasi che riportano alla luce un
passato non attinente all’evento appena accaduto e incapaci di produrre
conoscenza, comunicazione o presa sulla realtà: “‘Ah, tana di cani corsi, di
mastini […]’ riprese a dire la sorella ‘Ah, quanto piangere di madri,
d’innocenti […] Attento, Petro, non uscire!’ […] ‘Che fa Janu, non viene?
Dobbiamo andare o no alla mandra, a mangiare la ricotta? […] Si fece tardi
ormai […] No, no, aiuto! […]’ e indietreggiò, si portò le mani alle
orecchie” (158). Lucia, in un certo
senso, è andata oltre il limite umano, ha varcato un confine oltre il quale
l’uomo non può accedere rimanendo uomo, tanto che Petro osserva parlando all’amico
Janu: “Né io né tu possiamo più raggiungerla” (68). Ella rappresenta attraverso
l’urlo e il movimento irragionevole ciò che Serafina rappresenta attraverso la
stasi e il silenzio. Lucia, al contrario della sorella, è visibile, agisce, ha
una personalità forte e inquieta, va per la campagna con il fratello Petro e
l’amico Janu, è promessa sposa; ma il giovane che ha chiesto la sua mano non
torna dalla guerra. In quel dolore Lucia si chiude, si
*
11 Ancora con De Martino possiamo leggere: “In
generale il dominio della follia diventa comprensibile come caduta dell’ethos
del trascendimento, della presentificazione valorizzante, e come costruzione di
difesa fittizia che accentuano il recedere verso l’incomunicabile, il privato,
il senza-valore-intersoggettivo” (De Martino, 2002:85).
**
pietrifica, ma esplode in urlo piuttosto che cadere nel
silenzio, esplode in suoni che non possono articolare e razionalizzare quel
dolore: “Finché un giorno, un mezzogiorno che Petro tornava dalla scuola, non
si mise a urlare disperata dal balcone, a dire che dappertutto, dietro gli
ulivi le rocce il muro la torre la sipale, c’erano uomini nascosti che volevano
rapirla, farla perdere, rovinare” (46). E poco oltre: “Lanciò improvviso un
urlo e scappò via, si mise a correre, correre per il sentiero, come presa da
frenesia, da tormenti” (47). È la fuga di Lucia oltre il limite dell’umano,
eppure anch’ella è figura statica, immobile, figura che s’impetra nel dolore e
lo fissa perdendo la capacità di vedere altro e cioè anche la capacità di
creare e vedere altre visioni apollinee: rimane una sola visione senza drama e
in essa Lucia si ferma. Così ecco che anche il suo nome acquista pregnanza, nel
momento in cui il testo ci ripete insistentemente nello stretto volgere di un
paragrafo che Lucia – che vuol dire luce ma che è anche patrona dei non vedenti
e degli oculisti – non vede più, è diventata cieca nella fissità: “La portò via
da casa […] perché si dissolvesse in lei l’idea fissa. […] Ma era come lei
non vedesse […] era come se avesse gli occhi sempre altrove, fissi dentro un
pozzo” (47) – dove quel “pozzo” sta per la profondità del dolore. Lucia è anche
figura pietrificata in quel suo guardarsi continuamente allo specchio, atto
autoriflessivo che non comunica con il mondo esterno ma ricade sulla persona
medesima; ella fissa se stessa e la sofferenza che ha guardato con i propri
occhi ora riflessi allo specchio. Atto solipsistico e chiuso, come chiusa è lei
nella propria camera: “E stava ore e ore chiusa nella stanza, avanti alla
toletta a pettinarsi, in incantesimo, il guardo trasognato, perso nel guardo
suo di fronte dentro lo specchio” (46).
La sofferenza familiare si racchiude metaforicamente nella concretezza
della “torre”, ovviamente fatta in pietra (“la sua voce roca sembrava vorticare
per le pietre della torre” 37), che assurge a simbolo di chiusura e solitudine
– torre è quel tipo di edificio caratterizzato da una dimensione in altezza
nettamente maggiore rispetto alla dimensione della base e che dunque si isola
rispetto alle costruzioni circostanti; torre per antonomasia è quella di
Babele, dove regna il caos, il disordine e la confusione, principio delle
lingue diverse che impedirono all’uomo di comunicare l’uno con l’altro12. Nella
torre dove sono chiusi i membri della famiglia Marano la comunicazione non è
possibile, le parole non assumono un significato che possa essere compreso
dagli altri, decifrato: “‘Pietà, pietà’ implorò in quella solitudine sicura,
dentro quel rifugio della torre, quel segreto oratorio d’urla, pianto, sfogo”
(38). L’urlo è il simbolo di questo dolore, sfogo inarticolato, contraltare del
silenzio: “nella segreta sua torre d’urla” (51), “E nella torre ora, dopo le
urla, il pianto”. L’urlo, come il
silenzio, è una comunicazione bloccata. Petro allora si rende conto che è
necessario recuperare le parole per uscire dalla torre. È questo un momento
fondamentale del testo, che è sia riflessione sulla sofferenza umana sia sulla
scrittura cui è affidato il compito di esprimere tale sofferenza. Nottetempo è
allora anche e “innanzitutto la storia di una vocazione alla scrittura”
(Traina, 2001:92). Il tentativo di uscire dalla torre di pietra e scongiurare
l’afasia si pone come uno dei temi centrali del testo. Attraverso questo percorso
del protagonista, si assiste anche alla lotta che lo stesso Consolo conduce per
non cadere nell’impetramento della scrittura, nell’impossibilità del dire, del
parlare, nell’apocalisse della parola.
Afasia
Nottetempo è anche romanzo autobiografico, non tanto perché
ci siano elementi biografici dello scrittore che possano essere riconosciuti
nella vicenda di Petro, quanto piuttosto perché la storia di Petro, la sua
uscita dalla torre, è anche il viaggio intellettuale dello scrittore Consolo.
Riconosciuta l’oppressione del silenzio familiare e dell’esilio dalla ragione e
dalla parola delle due sorelle, nel protagonista del romanzo nasce il desiderio
di uscire dalla torre ricomponendo un linguaggio attraverso cui poter di nuovo
comunicare una realtà, riconnettersi con essa:
*
12 “Ma il Signore scese a vedere la città e la
torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: ‘Ecco, essi sono un
solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e
ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo
dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua
dell’altro’” (Genesi 11:5-7).
**
Sentì come ogni volta di giungere a un limite, a una soglia
estrema. Ove gli era dato ancora d’arrestarsi, ritornare indietro, di tenere
vivo nella notte il lume, nella bufera. E s’aggrappò alle parole, ai nomi di
cose vere, visibili, concrete. Scandì a voce alta: “Terra. Pietra. Sènia. Casa.
Forno. Pane. Ulivo. Carrubo. Sommacco. Capra. Sale. Asino. Rocca. Tempio.
Cisterna. Mura. Ficodindia. Pino. Palma. Castello. Cielo. Corvo. Gazza.
Colomba. Fringuello. Nuvola. Sole. Arcobaleno […]” scandì come a voler
rinominare il mondo, ricreare il mondo. (38-39)
Questo elenco precede quello che poi ritroveremo nelle
pagine dedicate al rito satanico di Alaister e si pone su uno stesso piano di
complementarietà: come quello nasceva dal movimento artificioso del dionisiaco
degenerato, questo nasce dall’impetramento afasico dell’apollineo degenerato.
In entrambi la parola è mimesi del gesto: lì c’è la ricreazione del movimento,
in cui il segno della virgola dà il senso del ritmo della danza e della musica,
qui c’è la riproduzione della stasi, marcata dal punto che segue ogni parola e
che indica la pausa, una cesura di tempo e di spazio, la difficoltà
dell’esprimere una parola dietro l’altra, l’inarticolazione di un discorso. E
se là il vortice delle parole serviva a confondere, ad allontanare dalla
realtà, qui c’è l’avvicinamento, o per lo meno il tentativo di avvicinarsi a
qualcosa che si è perso da tempo – o mai avuto. È un elenco di parole semplici,
in cui tuttavia si può riconoscere una catena logica di riferimenti che dalla
terra vanno al cielo, dalla “pietra” al senso di libertà del volo degli uccelli
e alla luce del sole. Attraverso questo “rinominare il mondo” Petro cerca di
riattivare un legame con la realtà, o, per dirla ancora con Nietzsche, cerca
parole che non esprimono altro che “relazioni delle cose con gli uomini”
(Nietzsche, 1964:359); cerca dunque di ritrovare questa relazione con le
cose. Nel processo dell’elencare
riemerge una realtà frantumata, che si dà appunto solo in frammenti; ed è solo
così, in quei frantumi testimoniati dall’accumulo di lemmi che si può cogliere
una realtà la cui unità, come il discorso, come il narrare, non può essere (ri)composta. Anche la scrittura, infatti, si
arresta, si blocca sull’orlo dell’impossibilità di esprimere, di connettere
parole con realtà; così fallisce il tentativo di Petro: “cercò di scrivere nel
suo quaderno – ma intinge la penna nell’inchiostro secco, nel catrame del
vetro, nei pori della lava, nei grumi dell’ossidiana, cosparge il foglio di
polvere, di cenere, un soffio, e si rivela il nulla, l’assenza di ogni segno,
rivela l’impotenza, l’incapacità di dire, di raccontare la vita, il patimento”
(53). Petro è come l’uomo dionisiaco
descritto da Nietzsche: simile a lui cerca la salvezza nell’arte, cerca
un’“illusione” che lo salvi dallo sguardo che ha gettato sull’orrore delle
cose; egli ha la conoscenza del dolore e rischia per via di essa di rimanere
pietrificato, di perdere la volontà dell’azione e dire “no” alla vita. “In
questo senso” dice Nietzsche “l’uomo dionisiaco è simile ad Amleto: entrambi
una volta hanno gettato uno sguardo vero nell’essenza delle cose, hanno
conosciuto, e agire li nausea; poiché la loro azione non può cambiare niente
nell’essenza eterna delle cose, essi sentono come ridicolo o infame che venga
loro chiesto di rimettere in sesto il mondo uscito fuori dai cardini” (113).
Consolo, attraverso il personaggio di Petro, ci descrive allora il viaggio
verso l’esaltazione dionisiaca, che qui altro non è che volontà e capacità di
esserci ancora, di agire in questo mondo – e di scrivere, di dire. Assistiamo
così all’uscita metaforica di Petro dalla torre, alla sua presa di coscienza
politica (che passa tramite lo sputo al barone, l’amicizia con il Miceli, la
partecipazione alle manifestazioni di piazza, l’“oltraggio” subito e infine
l’attentato perpetrato) e alla promessa, a fine romanzo, di una nuova scrittura
attraverso cui sciogliere il grumo del dolore: “Pensò al suo quaderno. Pensò
che ritrovata calma, trovate le parole, il tono, la cadenza, avrebbe racconto,
sciolto il grumo dentro. Avrebbe dato ragione, nome a tutto quel dolore”
(171). Questa scrittura, sappiamo, sarà
il rifiuto delle parole cerimoniose e della falsa retorica, si distanzierà
tanto dal libro dell’anarchico lasciato cadere in mare quanto dalle “parole
rare e abbaglianti” di D’annunzio o quelle “roboanti” (112) di Rapisardi. La
vicenda di Petro si conclude perciò in quella dei satiri del coro, nel recupero
attraverso la scrittura di un dionisiaco non degenerato: Nella coscienza di una
verità, ormai contemplata, l’uomo adesso vede dappertutto soltanto l’orrore o
l’assurdità dell’essere […]. Qui, in questo supremo pericolo della volontà,
si avvicina, come maga che salva e risana, l’arte: soltanto essa può piegare
quei pensieri nauseati per l’orrore o l’assurdità dell’esistenza in
rappresentazioni con cui si possa vivere. (Nietzsche, 2003:114)
Questo è anche il percorso intrapreso dal Consolo scrittore,
che approda alla tragedia di Catarsi (1989) come simbolo di un modo di
scrivere; dice nel saggio Per una metrica della parola: “La tragedia
rappresenta l’esito ultimo della mia ideologia letteraria, l’espressione
estrema della mia ricerca stilistica. Un esito, come si vede, in forma teatrale
e poetica, in cui si ipotizza che la scrittura, la parola, tramite il gesto
estremo del personaggio, si ponga al limite dell’intellegibilità, tenda al
suono, al silenzio” (Consolo, 2002:250).
Come ultima possibilità in una società dalla lingua corrotta e
degradata, dallo sfaldamento della comunicazione, dalla rottura del rapporto
tra scrittore e suo pubblico, suo referente in tale società, come ultima
risorsa prima di cadere nell’afasia, nel silenzio, c’è il recupero dello
spirito dionisiaco (e apollineo) che si esprime più compiutamente nel coro
della tragedia, come si verifica nel Prologo a Catarsi:
La tragedia è la meno convenzionale, la meno compromessa delle arti, la parola
poetica e teatrale, la parola in gloria
raddoppiata, la parola scritta e pronunciata. Al di là è la musica. E al di là
è il silenzio. Il silenzio tra uno strepito e l’altro del vento, tra un boato e
l’altro del vulcano. Al di là è il gesto. O il grigio scoramento, il crepuscolo, il brivido del freddo, l’ala
del pipistrello; è il dolore nero, senza
scampo, l’abisso smisurato; è l’arresto oppositivo, l’impietrimento. (Consolo,
2002:13)
Allora in Nottetempo dobbiamo leggere questo approdo al
canto del coro della tragedia, approdo di Petro dietro cui non sarà difficile
riconoscere il percorso della scrittura e della poetica di Consolo stesso, teso
tra il rifiuto della parola vuota e l’attrazione per quel silenzio che
racchiude tutto il dolore. Petro è
dunque il personaggio che incrocia tutti e tre i piani tematici su cui si
dispone il romanzo e su cui si dispiega il senso dell’apocalisse: quello esistenziale,
quello storico-culturale e quello della scrittura. A livello narrativo egli
funziona come elemento unificatore di questi piani e, a livello contenutistico,
si configura come chiave per trascendere il pericolo dell’apocalisse nel valore
che possa rinnovare i mondi (quello interiore, quello sociale e quello
letterario) infondendo loro nuovo significato. Più che romanzo “apocalittico”,
dunque, Nottetempo è romanzo del “rischio della fine” e dell’inserimento di
tale rischio in un’ottica che ne accenni e ne indichi il superamento e la reintegrazione.
Bibliografia
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Papa, E. 2003 Vincenzo Consolo. Belfagor 58.2:179-98. Pirandello, L. 1990 Novelle per un anno. Milano: Mondadori. Traina, G. 2001 Vincenzo Consolo. Fiesole (FI): Cadmo.
Abstract This essay aims to analyse the novel, Nottetempo, casa per casa (1992), by Vincenzo Consolo, considering the motif of the end of the world as a central and unifying element of the different levels on which the narrative unfolds. While The Birth of Tragedy by Friedrich Nietzsche is the intellectual reference for the novel, the considerations by the anthropologist Ernesto De Martino on the apocalypse allows us to interpret Nottetempo as a response to the psychological, cultural and literary risk of the “end” experienced in these three different areas.
Italian Studies in Southern Africa/Studi d’Italianistica nell’Africa Australe Vol 27 No 2 (2014)
Questi versi, strofe o frasi, sono tratte dal Prologo della mia opera teatrale intitolata Catarsi, in cui é messo in scena il suicidio sull’ Etna di un moderno Empedocle.
Ho voluto iniziare con questi versi perché la tragedia, in forma teatrale o narrativa, in versi o in prosa, rappresenta l’esito ultimo di quella che posso chiamare la mia ideologia letteraria, l’espressione estrema della mia ricerca stilistica. Espressione, in Catarsi, in forma teatrale o poetica, in cui si ipotizza che la scrittura, la parola, tramite il gesto estremo del personaggio, si ponga al limite della pronunciabilità, tenda al suono, al silenzio.
[…] Empedocle:
La tragedia comincia nel fuoco più alto (2)
In questa nuda e pura, terrifica natura,
in questa scena mirabile e smarrente,
ogni parola, accento é misera convenzione,
rito, finzione, rappresentazione teatrale.
Un testo, questo, dal linguaggio di voluta comunicabilità,privo di innesti dialettali, lontano dal pastiche espressionistico praticato nelle mie opere narrative, intenzionalmente alto, in qualche modo declamatorio, puntellato da rimandi impliciti e da esplicite citazioni di testi classici: da Hölderlin, naturalmente, ai frammenti di Perì Phùseos e di Katharmoì di Empedocle.
Per spiegare questo esito, devo partire dall’ esordio, dalla mia scelta di campo letterario, dalla prima impostazione stilistica. E il discorso cade fatalmente sulla scrittura, sulla lingua.
La lingua italiana, sin dalla sua nascita, sappiamo, é stata, come dice Roland Barthes, “molto parlata”, nel senso che molto si é scritto su di essa. A partire dal suo grande creatore, da Dante, con il De vulgari eloquentia. Il quale, oltre ad essere un saggio di poetica personale, é il primo trattato di linguistica italiana. “Chiamiamo lingua volgare” dice “quella lingua che i bambini imparano ad usare da chi li circonda quando cominciano ad articolare i suoni […] Abbiamo poi un’altra lingua di secondo grado, che i Romani chiamarono ‘grammatica’ (lingua letteraria regolata)”. E afferma, con un bell’ossimoro: “Harum quoque duarum nobilior est vulgaris” (Di queste due lingue la più nobile é la volgare). Da Dante dunque a Lodovico Castelvetro, ad Annibal Caro, e giù fino a Leopardi, a Manzoni, a De Amicis, fino a Pasolini. Molti scrittori insomma hanno parlato di questo strumento, della lingua che erano costretti ad usare.
Mi voglio soffermare su Leopardi, sulle riflessioni che il poeta fa sulla società, sulla letteratura e sulla lingua italiana in quel gran mare che é lo Zibaldone. Leopardi confronta la lingua italiana con la lingua francese, stabilisce un continuo parallelo fra le due lingue, così apparentemente prossime e insieme così lontane. Lontane al punto, afferma tra gli altri Luca Serianni (3), che per un adolescente italiano la lingua di Dante o del Novellino è ancora in gran parte comprensibile, mentre per il suo coetaneo francese La Chanson de Roland é un testo straniero, da affrontare con tanto di vocabolario.
Ma torniamo al nostro Leopardi. Il francese, egli dice, tende all’ unicità, mentre l’italiano é un complesso di lingue piuttosto che una lingua sola, potendo essa variare secondo i vari soggetti e stili e caratteri degli scrittori, per cui diversi stili sembrano quasi diverse lingue; il francese invece, sin dall’epoca di Luigi XIV, si é geometrizzato, é diventato lingua unica. E cita, Leopardi, Fénelon, il quale definisce la lingua francese una “processione di collegiali”.Diciamo qui tra parentesi che alla frase di Fénelon deve aver pensato Ernest Renan nell’affermare: “Il francese non sarà mai una lingua dell’assurdo: e neanche sarà mai una lingua reazionaria. Non si riesce a immaginare una vera e propria reazione che abbia per strumento il francese”. Ma a Renan ribatte Roland Barthes: “L’errore di Renan non era errore strutturale ma storico; egli credeva che il francese, plasmato dalla ragione, conducesse necessariamente all’espressione di una ragione politica la quale nel suo spirito non poteva che essere democratica”. E concludeva: “La lingua non é né reazionaria né progressista: essa é semplicemente fascista; il fascismo infatti, non é impedire di dire, ma obbligare a dire”. Non capisco questo radicalismo linguistico di Barthes, espresso nella lezione inaugurale al Collège de France, ma chiudendo la lunga parentesi, ritorno ancora a Leopardi, alla sua idea del francese geometrizzato. E non posso non esclamare:”Beati i francesi con la loro lingua unica, geometrica e cartesiana! Che é segno, quella lingua, dell’esistenza e della compiutezza di una società civile (“Oggi so che alla Francia mi lega soltanto l’amore per la lingua francese” scriveva Jean Genet durante il suo vagabondare per l’Europa) (4). Il complesso di lingue che é (o che é stato, fino agli anni Sessanta, fino all’analisi della trasformazione di questa lingua che ne fa Pasolini), l’italiano é di segno opposto: segno vale a dire dell’assenza o incompiutezza di una società civile italiana.
Lo Zibaldone, dicevo. Leopardi afferma che la lingua italiana, il toscano vale a dire, raggiunge la sua massima eleganza nel Cinquecento. Finisce questa eleganza, questa centralità toscana, con la Controriforma, con l’esplosione di quel leibniziano cataclisma armonico, di quell’ anarchia equilibrata che va sotto il nome di Barocco. Per Croce però il Barocco non nasce dalla Controriforma, ma da una concomitante decadenza, dall’ affievolirsi di quell’ entusiasmo morale, di quello spirito del Rinascimento che aveva illuminato l’Europa. Era stata Firenze dunque centro di quella lingua attica, di quell’italiano platonico, di quella scrittura borghese, laica, elegante dei poeti, dei filosofi, degli scienziati a cui ogni scrittore, da ogni corte o convento, da ogni accademia o piazza, da ogni centro o periferia aspirava. Ma questa lingua dell’Ariosto e del Tasso, del Machiavelli e del Guicciardini, nel tempo si irrigidisce, si fa aulica, perde contatto col suo fondo popolare, si geometrizza, perde in estensione. Leopardi ammira la perfezione stilistica raggiunta dagli scrittori del nostro Secolo d’Oro, ma predilige l’immensità, la varietà, la vertiginosa libertà espressiva di uno scrittore secentesco, barocco, del gesuita Daniello Bartoli, l’autore della Istoria della Compagnia di Gesù. Dice: “Il padre Daniello Bartoli é il Dante della prosa italiana. Il suo stile, in ciò che spetta alla lingua, é tutto risalti e rilievi”. Risalti e rilievi come quelli del Resegone, che Manzoni ironizza ironizzando il Seicento, il tempo della disgregazione, del marasma sociale. Ironizza prima esplicitamente trascrivendo nell’introduzione del suo grande romanzo il “dilavato e graffiato autografo” dell’anonimo secentista, inzeppato “d’idiotismi lombardi”, di “declamazioni ampollose”, di “solecismi pedestri” e seminato qua e là da qualche eleganza spagnola. (L’espediente del documento dell’anonimo secentesco pensiamo derivi al Manzoni da Cervantes, dal Don Chisciotte, dal sedicente manoscritto dell’arabo Cide Hamete Berengeli). E ironizza ancora nascostamente parodiando nell’incipit, in “Quel ramo del lago di Como”, un brano del Bartoli riguardante l’India, la regione del Gange, riportando così il disordine lombardo all’ordine, alla geometria fiorentina. Che era per Manzoni l’aspirazione all’ordine, all’armonia sociale, a un illuministico, cristiano Paese, di cui la lingua, comune e comunicativa, doveva essere espressione. Utopia mai realizzatasi, si sa. E dunque la moderna storia letteraria italiana, con le rivoluzioni linguistiche degli Scapigliati, di Verga e dei Veristi, con il preziosismo decadente di D’Annunzio, con la esplosione polifonica del “barocco” Gadda e degli altri sperimentalisti, da una parte, con lo sviluppo della “complessa” semplicità leopardiana dei rondisti e degli ermetici, con l’asciutta, scabra lingua di Montale, dall’altra, é la storia del convivere e dell’alternarsi della lingua rinascimentale e illuministica e della linea barocca e sperimentale. É la storia di speranza e di fiducia degli scrittori in una società civile; la storia di sfiducia nella società, di distacco da essa, di malinconia, di disperazione.
Da tali altezze scendendo al mio caso, a quel che ho potuto o saputo fare, posso dire questo. Ho mosso i miei primi passi in campo letterario (e questo risale al 1963) nel momento in cui si concludeva in Italia la stagione del Neorealismo e stava per affacciarsi all’ orizzonte quel movimento avanguardistico che va sotto il nome di Gruppo ‘63. Il quale, come tutte le avanguardie, opponendosi alle linee letterarie che erano in quel momento praticate, dalla neo-realistica, alla illuministica e razionalistica, alla sperimentalistica, programmava l’azzeramento d’ogni linguaggio che proveniva dalla tradizione e proponeva un nuovo, artificiale linguaggio di difficile praticabilità. L’operazione non era nuova, naturalmente, era già stata fatta dal Futurismo, dal suo fondatore Marinetti, il quale aveva dettato il decalogo della nuova scrittura.
1) Bisogna distruggere la sintassi, disponendo i sostantivi a caso, come nascono.
2) Si deve usare il verbo all’ infinito.
3) Si deve abolire l’aggettivo.
4) Si deve abolire l’avverbio…Etc…Etc…
Questa ideologia linguistica o stilistica marinettiana riproponeva uno dei teorici del Gruppo ’63, affermando che bisognava praticare il “disordine sintattico e semantico come rispecchiamento del disordine della società”. Credo che si fosse nel campo della indecifrabilità, della pseudo-afasia, speculare alla indecifrabilità linguistica e alla pseudo-afasia del potere.
Dicevo che ho mosso i primi passi in quel clima letterario e insieme in quel clima politico in cui un partito di maggioranza, la Democrazia Cristiana, dal ’48 ininterrottamente al potere, aveva cambiato profondamente l’assetto sociale e culturale del nostro Paese, aveva cambiato la nostra lingua.
Pasolini (sulla rivista Rinascita – dicembre ’64 – quindi in Empirismo eretico) aveva pubblicato il saggio dal titolo Nuove questioni linguistiche in cui sosteneva che, con il neo-capitalismo, l’asse linguistico italiano s’era spostato dal centro meridione, da una realtà burocratica e contadino-dialettale, al centro settentrione, a una realtà piccolo-borghese aziendale e tecnologica. E analizzava un brano del discorso di un uomo politico emblematico, Aldo Moro (ucciso a Roma nel ’78, come sappiamo, da quei piccolo-borghesi criminali, mascherati da rivoluzionari, che sono stati i componenti delle Brigate Rosse), discorso pronunciato nel momento significativo dell’inaugurazione dell’Autostrada del Sole, autostrada che univa per la prima volta l’Italia dal Piemonte alla Sicilia. Diceva Moro: “ La produttività degli investimenti del piano autostradale dipende dunque dal loro coordinamento in una programmazione delle infrastrutture di trasporto, che tenda a risolvere gli squilibri, ad eliminare le strozzature, a ridurre gli sperperi della concorrenza fra diversi mezzi di trasporto, a dare vita insomma ad un sistema integrato su scala nazionale”. E Pasolini concludeva dunque nel suo saggio: “Perciò in qualche modo, con qualche titubanza, e non senza emozione, mi sento autorizzato ad annunciare che è nato l’italiano come lingua nazionale” (si noti in questa frase l’amara ironia pasoliniana). Non era certo, questo italiano per la prima volta nazionale, uguale al francese unico e geometrizzato di cui parlava Leopardi, ma una sorta di sotto o extra-lingua, una astorica, rigida, incolore koinè.Sono passati più di quarant’anni dal 1964 e lascio immaginare la situazione linguistica italiana di oggi, dell’italiano strumentale e di quello letterario.
Esordivo in quel tempo, insieme a Luigi Meneghello, Lucio Mastronardi, Stefano D’Arrigo con La ferita dell’aprile, titolo di eco eliotiana. Un racconto in una prima persona mai più ripresa, una sorta di Telemachia o romanzo di formazione. Mi ponevo con esso subito, un po’ istintivamente e un po’ consapevolmente, sul crinale della sperimentazione, mettendo in campo una scrittura fortemente segnata dall’ impasto linguistico, dal recupero non solo degli stilemi e del glossario popolari e dialettali, ma anche, dato l’argomento, di un gergo adolescenziale. Gergo quanto mai parodistico, sarcastico, quanto mai oppositivo a un ipotetico codice linguistico nazionale, a una lingua paterna, comunicabile. E organizzavo insieme la scrittura su una scansione metrica, su un ritmo, con il gioco delle rime e delle assonanze. Prendeva così il racconto, nella sua ritrazione linguistica, nella sua inarticolazione sintattica, nella sua cadenza, la forma in qualche modo di un poemetto narrativo. C’era certo, dietro il libro, la lezione di Gadda e di Pasolini, c’era l’ineludibile matrice verghiana, ma c’era l’evidente polemica sociale, la diffidenza nei confronti del contesto storico, della sua lingua.
Tredici anni sono trascorsi tra il primo e il secondo libro. Un tempo lungo che poteva anche significare dimissione dalla pratica letteraria. Un tempo che ha coinciso – mi si permetta di dirlo – con la mia vicenda personale, con il mio trasferimento, nel ’68, dalla Sicilia a Milano. In questa città provai spaesamento per la nuova realtà, urbana e industriale, in cui mi trovai immerso, realtà di cui mi mancava memoria e linguaggio; per l’acceso clima politico, per i duri conflitti sociali di quegli anni. Fu un tempo quello di studio e di riflessione su quella realtà e sul dibattito politico e culturale che allora si svolgeva. Frutto di tutto questo fu la pubblicazione, nel 1976, del romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio.
Un romanzo storico-metaforico, ambientato in Sicilia intorno al 1860, che voleva chiaramente rappresentare il grande rinnovamento, l’utopia politica e sociale che nel Sessantotto si vagheggiava in Italia e altrove, che nel nostro Paese doveva frantumarsi a causa dei suoi esiti tragici, disastrosi. L’ambientazione storica e il ripartire dal luogo della mia memoria mi permetteva di raggiungere maggiore consapevolezza della mia scelta di campo letterario, scelta contenutistica e stilistica. La sperimentazione linguistica, per l’adozione della terza persona, si svolgeva ora sul piano dell’ironia e del discorso indiretto libero. L’esito era quindi la “plurivocità” ben individuata da Cesare Segre. In cui era incluso il linguaggio alto del protagonista, un erudito dell’800, e la lingua dei contadini, la cui estremità era rappresentata da un antico dialetto, il gallo-italico o mediolatino, che si parlava in Sicilia in isole linguistiche dell’azione del romanzo. La sperimentazione, nel romanzo, era anche sul piano della struttura. I cui jati, le cui fratture erano riempite da inserti storiografici, da documenti, la cui funzione era quella di connettere i vari lacerti narrativi. Mi veniva questo dalle sollecitazioni del Gruppo ’47 di Enzerberger, per le sue teorie di Letteratura come storiografia. Anche qui c’é la messa in crisi del genere romanzo, c’é ancora la polemica della scrittura narrativa nei confronti della società. Società di cui fa parte la cosiddetta industria culturale che mercifica e distrugge il romanzo.
Nei miei successivi romanzi perseguo e approfondisco sempre di più la sperimentazione linguistica. In essi c’é la messa in crisi del genere romanzo, e c’é ancora, come dicevo sopra, la polemica nei confronti della società. Società in cui, con la rivoluzione tecnologica, con l’invasione dei mezzi di comunicazione di massa, l’autore non riesce più a individuare il lettore. Italo Calvino, scrittore quanto mai razionalista o illuminista, estremamente comunicativo, al pari di Moravia, di Bassani, di Primo Levi, di Sciascia, e di altri di quella generazione, Calvino, nel contesto di una inchiesta, alla domanda, a quale tipo di lettore egli pensasse scrivendo, rispondeva: “A un lettore che la sa più lunga di me”. Non credo che Calvino, in questo nostro presente, potrebbe ancora rispondere in quel modo, oggi in cui non è immaginabile un lettore più o meno letterariamente avveduto, più o meno
colto dell’autore.
Viene quindi la pubblicazione di
Lunaria (1985), un racconto, una favola dialogata, che fatalmente prende forma
teatrale.La favola, ambientata in un vago Settecento, alla corte di un viceré spagnolo di Sicilia, si ispirava a un frammento lirico di Leopardi, Lo spavento notturno,e ad una prosa di Lucio Piccolo, L’esequie della luna. La metafora della caduta della luna significava la caduta della poesia, della cultura nel nostro contesto. L’epoca e il tema favolistico, mi facevano approdare a soluzioni di apparente puro significante, come questa:
Lena lennicula
Lemma lavicula,
làmula,
lèmura,
màmula.
Létula,
màlia,
Mah.
Della stessa epoca e dello stesso clima quai favolistico è anche Retablo. E’ un viaggio nella Sicilia classica, una metafora della ricerca al di là della ideologia, della completa dimensione umana, della perduta eredità umanistica. Per i rimandi, le citazioni eplicite e no, per la struttura, il risultato del racconto è di un ipertesto letterario o di un palinsesto.
Nottetempo, casa per casa è ancora una narrazione scandita come un poema. Dico narrazione nel modo in cui è stata definita da Walter Benjamin. Il quale in Angelus Novus, nel saggio su Nicola Leskov, fa una netta distinzione tra romanzo e narrazione.
La storia di Nottetempo, casa per casa é ambientata negli anni Venti, nel momento del fascismo in Italia. Vi si parla della follia privata, individuale, dolorosa, innocente, e della follia pubblica, la follia della società, della storia. Personaggio simbolico é il satanista Aleister Crowley, che incarna il decadentismo estremo della cultura europea di quegli anni, di nuove metafisiche, di misticismi di segno nero o bianco. Il protagonista del racconto, Petro Marano, è un piccolo intellettuale socialista, é costretto all’esilio, a rifugiarsi in Tunisia. Il racconto termina con questa frase: “Pensò che ritrovata calma, trovate le parole, il tono, la cadenza, avrebbe raccontato, sciolto il grumo dentro. Avrebbe dato ragione, nome a tutto quel dolore.”
Il libro successivo L’olivo e l’olivastro, inizia con questa frase: “Ora non può narrare. Quanto preme e travaglia arresta il tempo, il labbro, spinge contro il muro alto, nel cerchio breve, scioglie il lamento, il pianto”. Qui è negata la finzione letteraria, l’invenzione del racconto. Il libro è un viaggio nella realtà contingente e nella memoria. E’ il ritorno di un Ulisse a Itaca, dove non trova che distruzione, violenza, barbarie.
Ma devo ora tornare all’inizio di questa conversazione. Tornare alla tragedia Catarsi, in cui , l’antagonista di Empedocle, Pausania, così recita:
– Io sono il messaggero, l’anghelos, sono
il vostro medium, colui a cui è affidato
il dovere del racconto, colui che conosce
i nessi, la sintassi, le ambiguità,
le astuzie della prosa, del linguaggio….
Cambia tono, diviene recitativo, enfatico.
PAUSANIA – E un mattino d’agosto lasciammo la dimora alta e luminosa, lasciammo i templi, le piazze, le arnie e le vigne, abbandonammo la patria nostra, la superba Agrigento che s’alza sopra il fiume…Spogli ed esposti, solitari, per boschi e per deserti giungemmo all’oriente, all’altro mare di quest’isola vasta, alla montagna immensa, presso la scaturigine del fuoco, del fragore, della minaccia…
Empedocle lo interrompe con un ghigno sarcastico.
EMPEDOCLE – Che menzogna, che recita, che insopportabile linguaggio! E’ proprio il degno figlio di questo orrendo tempo, di questo abominevole contesto, di questo falso teatro compromesso, di quest’era soddisfatta, di questa società compatta, priva di tradimento, d’eresia, priva di poesia. Figlio di questo mondo degli avvisi, del messaggio tondo, dei segni fitti del vuoto…Dietro il velo grasso delle sue parole di melassa, io potrei scoprire l’oscena ricchezza della mia città, la sua violenza, la sua volgarità, gli intrighi, gli abusi, i misfatti, le stragi d’innocenza, d’onore, di memoria, la morte quotidiana imbellettata come le parole morte di questo misero ragazzo, di questo triste opportunista…
Ecco, ne L’olivo e l’olivastro l’ánghelos, il narratore, non appare più sulla scena poiché ormai la cavea è vuota, deserta. Sulla scena è rimasto solo il coro che in tono lirico, in una lingua non più comunicabile, commenta e lamenta la tragedia senza soluzione, la colpa, il dolore senza catarsi. Avviene qui la ritrazione invece che l’irruzione dello spirito socratico, quello che Nietzsche, ne La nascita della tragedia vede nel passaggio dall’antica tragedia di Eschilo e di Sofocle alla moderna tragedia di Euripide. Lo spirito socratico è il ragionamento, la filosofia, è la riflessione che l’autore del romanzo fa sulla vicenda che sta narrando: è quindi, come quello dell’ánghelos o messaggero con lo spettatore, il dialogo con il lettore. La ritrazione, la scomparsa dello spirito socratico é l’interruzione del dialogo con il lettore; é lo spostamento della scrittura dalla comunicazione all’espressione.
Nelle mie narrazioni c’é sempre l’interruzione del racconto e il cambio della scrittura, il suo alzarsi di tono, svolgersi in forma ritmica, lirico-poetica. Sono questi per me le parti corali o i cantica latini.
Eric Auerbach, nel suo saggio sul Don Chisciotte, contenuto in Mimesis, scrive: “Cervantes (…) é (anche) un continuatore della grande tradizione epico-retorica, per la quale anche la prosa é un’arte, retta da proprie leggi. Non appena si tratti di grandi sentimenti e di passioni o anche di grandi avvenimenti, compare questo alto stile con tutti i suoi artifici”.
I grandi avvenimenti di cui parla Auerbach (e i sentimenti che essi provocano) con sistono per me, in questo nostro tempo, in questo nostro contesto occidentale, nella cancellazione della memoria,e quindi della continua minaccia della cancellzione della letteratura, soprattutto di quella forma letteraria dialogante che é il romanzo. Il quale credo che oggi possa trovare una sua salvezza o plausibilità in una forma monologante, in una forma poetica.
Poesia che é memoria, e soprattutto memoria letteraria.
Questo ho cercato di fare nello Spasimo di Palermo, terzo tempo, con il Sorrisodell’ignoto marinaio e Nottetempo,casa per casa, di una trilogia. “Ostinata narrazione poetica, in cui il raccontare é in ogni momento ricerca di senso, un interrogazione sul valore della realtà e dell’esistenza…” (Giulio Ferroni)
Nello Spasimo vi si narra ancora di un viaggio di ritorno, di un nòstos in un’Itaca dove non é che smarrimento, violenza e dolore, “..una landa ingrata, / dove si trovano strage e livore” dice Empedocle nel Poema lustrale.
Questa é la nostra Itaca d’oggi, la matrigna terra della giustizia negata, della memoria cancellata, dell’intelligenza offuscata, della bellezza e della poesia oltraggiate, delle passioni incenerite.
Vincenzo Consolo
Pasolini P.P. Affabulazione – 1966 – prefazione di G.D. Bonino TO Einaudi 1992
Hölderlin F. Sul tragico –1795-1804 – prefazione R.Bodei Mi Feltrinelli 1994
3) Serianni L. Viaggiatori, musicisti, poeti, MI Garzanti 2002
Se c’è uno scrittore che ha passato tutta la sua vita a combattere sul fronte dell’impegno etico-civile e su quello della sperimentazione linguistica, questo è Vincenzo Consolo. «Il maggiore scrittore italiano della sua generazione» l’ha definito Cesare Segre, tenendo presente che la sua generazione è quella che viene dopo Sciascia, Pasolini, Volponi e Calvino, e cioè quella degli anni Trenta (Consolo è nato a Sant’Agata di Militello nel 1933 ed è morto a Milano nel 2012) che ha attraversato le turbolenze della neoavanguardia con totale simpatia o con totale disgusto. Consolo non si è allineato né con gli uni né con gli altri: grazie a un suo speciale e inesausto sperimentalismo, sempre in lotta contro la lingua del suo tempo e contro la lingua vittoriosa della storia; insofferente e pessimista rispetto alle magnifiche sorti agognate dalle ideologie progressiste. Arrivato a Milano negli anni 50 per studiare, attratto dalle sirene vittoriniane, Consolo abita fino alla fine nella metropoli lombarda (con crescente irritazione che culmina negli anni 90) ma non smette di tormentarsi sul destino della sua Sicilia. E anzi la sua narrativa rappresenta quasi programmaticamente (e ostinatamente) le varie fasi della storia sicula, dall’antichità greca (Le pietre di Pantalica) alla dominazione spagnola (Lunaria), al Settecento illuminista (Retablo), alla pessima realizzazione unitaria (Il sorriso dell’ignoto marinaio), all’irrazionalismo prefascista (Nottetempo, casa per casa), al secondo dopoguerra, fino alla contemporaneità della cronaca mafiosa (L’olivo e l’olivastro), comprese le «memorie degli innocenti sopraffatti dai delinquenti» (Lo spasimo di Palermo).
La scrittura di Consolo vive di molteplici paradossi, come non cessa di sottolineare Gianni Turchetta, curatore dello splendido Meridiano, coordinatore del convegno milanese e autore del saggio introduttivo delle «Carte raccontate», il fascicolo appena pubblicato dalla Fondazione Mondadori: «Per Consolo la “letteratura” è il luogo dove il linguaggio viene sospinto fino alle sue estreme possibilità, sottoposto a una pressione senza compromessi, con una tensione che è al tempo stesso formale e morale (…). D’altro canto, Consolo non smette di ricordare quanto le parole siano mancanti rispetto alla realtà». In questa contraddizione irresoluta è il tragico della narrativa di Consolo, che si rispecchia nel rigore tormentoso del lavoro materiale sul testo, dove ogni parola e ogni giro sintattico sono il risultato di scavi filologici e, si direbbe, archeologici, sprofondamenti negli strati della memoria storica, con le sue cicatrici, e della memoria linguistica. In un burrascoso incontro al Teatro Studio di Milano (un entusiasmante tutti contro tutti), organizzato nel marzo 2002 dalla Fondazione del Corriere, con Emilio Tadini, Tiziano Scarpa e Laura Pariani, Consolo disse: «Se stabiliamo che la letteratura è memoria – e la letteratura è memoria altrimenti sarebbe soltanto comunicazione cronistica, giornalismo – allora diventa anche memoria linguistica. Io credo che l’impegno di chi scrive sia quello di far emergere continuamente la memoria». Memoria è anche memoria linguistica: il che significa affidare alla letteratura il compito di resistere al linguaggio «fascistissimo» dell’omologazione. Una visione pasoliniana. Anche per questo è affascinante (e non di rado perturbante) seguire da vicino lo scrittore lungo le vie accidentate che conducono alla pubblicazione delle sue opere: attraverso cui si intuisce come «dato fondativo» della scrittura di Consolo quella che lo stesso Turchetta definisce «la ridiscussione e perfino l’aperta negazione della forma romanzo, in quanto portatrice di un’illusoria continuità narrativa, che mistifica la complessità del reale». E già a partire da La ferita dell’aprile (1963) – il sorprendente libro d’esordio che restituisce le lotte politiche del secondo dopoguerra narrate in prima persona dall’allievo di un istituto religioso di paese – si intravede uno sviluppo che porta dalle soluzioni più piane delle prime redazioni verso una crescente deformazione espressionistica e un arricchimento stilistico. Un processo che troverà una vera maturazione ne Il sorriso dell’ignoto marinaio, ambientato ai tempi della spedizione dei Mille e articolato su più livelli: il capolavoro del 1976 il cui titolo si deve a un misterioso ritratto d’uomo di Antonello da Messina (che per una felice coincidenza è in mostra in questi giorni nella rassegna di Palazzo Reale), un dipinto ricevuto in dono a Lipari dal protagonista, il barone di Mandralisca. Una gestazione sofferta (e fondata su una lunga preparazione documentaria) che procede per faticose fasi di scrittura e riscrittura, ripensamenti e blocchi che in quegli anni vennero superati grazie al sostegno della moglie Caterina Pilenga e alle sollecitazioni di amici fedeli come Corrado Stajano. E nel segno dell’amicizia è anche il lungo rapporto – di totale ammirazione – con il «maestro» Sciascia: ora testimoniato dalla corrispondenza (1963-1988), edita da Archinto a cura di Rosalba Galvagno. La preziosa biblioteca consoliana e l’archivio – con le varie redazioni dei romanzi e i rispettivi materiali di ricerca – sono stati affidati alla Fondazione Mondadori che negli ultimi due anni ha completato la catalogazione e la descrizione. Con un rigore e una passione che Consolo, principe di rigore e di passione, avrebbe certamente approvato.
Paolo Di Stefano 4 marzo 2019 (Corriere della Sera)
Un volume della Fondazione Mondadori curato da Gianni Turchetta e un epistolario edito da Archinto. E a Milano il 6 e 7 marzo un convegno sullo scrittore
Il volume «E questa storia che m’intestardo a scrivere. Vincenzo Consolo e il dovere della scrittura», a cura di Gianni Turchetta, nella collana «Carte raccontate» (Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, pp. 52, euro 12, disponibile dal 6 marzo)
Il volume «Essere o no scrittore. Lettere 1963-1988», di Vincenzo Consolo e Leonardo Sciascia (Archinto, pp. 84, euro 14)
Vincenzo Consolo, Sicilia paseada, traducción y edición de Miguel Á. Cuevas, Granada, Ediciones Traspiés, 2016
Una pagina di Consolo dedicata a Comiso, patria di Bufalino e già location dei missili Cruise, inizia così:
“Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. // Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta d’addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca” (V. Consolo, Comiso, in Le pietre di Pantalica (1988); ora in L’opera completa, Milano, Arnoldo Mondadori, 2015, p. 632).
In una circostanza, tuttavia, Consolo preferì la Sicilia passeggiata. In occasione del Premio Italia 1990, tenutosi a Palermo, la RAI affidò a lui, programmista RAI e scrittore di fama, e a Cesare De Seta, storico dell’urbanistica e del territorio, l’incarico di curare per la Nuova ERI un volume-omaggio, da destinare alle autorità e ai delegati dei trentasei Paesi invitati alla manifestazione. Un’edizione di lusso in formato quarto, Sicilia Teatro del Mondo, sponsorizzata da Banco di Sicilia e Sicilcassa, con versione inglese e francese del testo, stampata in milleduecento esemplari di cui cento “al nome”. Oggi il volume è una rarità bibliografica. A Consolo fu affidata la parte periegetica, intitolata Kore risorgente, illustrata con immagini di Giuseppe Leone. È la narrazione di un viaggio ideale tra mito e storia nelle due Sicilie, intese non in senso borbonico ma come due facce della stessa isola, l’orientale e l’occidentale. La seconda parte del volume, affidata a Cesare De Seta, presenta e illustra un Atlante del 1686, conservata in copia anonima nella Biblioteca Nacional di Madrid e in copia mutila presso il Ministero degli Esteri spagnolo: il Teatro Geográfico Antiguo y Moderno del Reyno de Sicilia. La denominazione del codice, commissionato dal viceré Carlos de Bonavides, richiama il famoso auto sacramental di Calderón de la Barca e dà il titolo all’intero volume, in cui il mito ha una parte di rilievo.
Le due sezioni furono edite distintamente dalla Nuova ERI l’anno dopo. Kore risorgente ebbe per nuovo titolo La Sicilia passeggiata, ispirato all’idea di un gesuita del Seicento, Francesco Ambrogio Maja, il cui manoscritto rimasto inedito – Isola di Sicilia passeggiata – era stato pubblicato a Palermo nel 1985 da Salvo Di Matteo per Giada editore. Nella Nota introduttiva, Consolo motiva la sua scelta: questo titolo “… più lieve, più svariante, più illusorio, infine più sognante” gli consente di tenersi alla larga da un banale Viaggio in Sicilia.
Sicilia passeggiata è stato ottimamente tradotto in lingua spagnola da Miguel Ángel Cuevas, con il ricorso a un’immagine di copertina più graffiante – uno splendido panorama della città di Ragusa – rispetto alle scontate cupole arabo-normanne di Palermo. Tra Consolo e Cuevas, fin dai tempi de La ferita dell’aprile, si era stabilito un rapporto molto cordiale, lo stesso che legò João Guimarães Rosa a Edoardo Bizzarri, traduttore italiano di Grande Sertão: Veredas. Tanto è vero che nell’edizione dei Meridiani compare questa postilla, voluta da Consolo: “Ringrazio Miguel Ángel Cuevas, curatore della traduzione spagnola, per le puntuali segnalazioni che si sono rivelate preziose nell’allestimento di questa nuova edizione della Ferita dell’aprile”.
Il taglio ‘passeggiato’ e non ‘smaniato’ di Kore risorgente dipende, com’è naturale, dal progetto editoriale e dai destinatari del volume. Inizia dal primo approdo dei coloni greci, a Naxos presso l’odierna Taormina, e di colonia in colonia procede fino alla necropoli preistorica di Pantàlica, luogo di “ombre trasvolate verso la notte”. Una volta Consolo si distese, quasi si immerse, in una di quelle grotte scavate nella roccia, volendo quasi fondersi in un rapporto panico e magico con il luogo, come aveva fatto a suo tempo l’archeologo roveretano Paolo Orsi, e in tempo di guerra Ungaretti in una dolina del Carso. L’itinerario prosegue nel Val di Noto, una delle tre partizioni storiche dell’isola in epoca araba, con Val Demone e Val di Mazara, un’area martoriata nei secoli da tremendi terremoti, il più spaventoso dei quali nel gennaio 1693. Da queste distruzioni, tuttavia, come nel 1755 accadde alla Lisbona di Pombal, il territorio e la sua gente si ripresero nel giro di pochi anni, con la fioritura di un barocco architettonico senza uguali. Consolo narra anche le feste religiose di quest’area, come quella in onore della Madonna delle Milizie, la Santa Madre guerriera di Scicli, in sella a un focoso cavallo, armata di spada e corazza, versione femminile del Santiago Matamoros di Compostela. Siracusa, vagheggiata come seconda patria da Consolo ragazzo, è al centro di un’attenzione speciale. Quando la passeggiata punta su Enna, si parla di Demetra e Kore, non ancora riemerse e risorte a Morgantina dopo il furto di alcuni clandestini, giusto negli anni di Kore risorgente. Le opere, uscite illegalmente dall’Italia, migrate attraverso e finite dopo la vendita in mano a personaggi eccellenti degli Stati Uniti, grazie alla tenacia di due archeologhe siciliane, sono trionfalmente rientrate alcuni anni fa per essere esposte nel Museo di Aidone. A Demetra e Kore si è aggiunta ora una testa di Ade, identificata e rivendicata grazie a un ricciolo blu conservato nei magazzini del Museo di Aidone, che combacia perfettamente con la capigliatura della testa. Il gruppo madre-figlia-genero si è così ricomposto, ma Kore, simbolo della primavera che torna, doppiamente risorgente, è il simbolo consoliano di una Sicilia che si riscatta agli occhi del mondo grazie ai suoi figli migliori.
Dal regno desolato del latifondo, punteggiato un tempo da miniere di zolfo e oggi conquistato per buona parte all’agricoltura razionale, la passeggiata continua nella parte occidentale dell’isola, dalla Agrigento della Valle dei Templi e di Pirandello, a Selinunte, a Segesta, al golfo di Imera, a Solunto, a Palermo, a Marsala, a Mozia, a Trapani, alle Egadi, luoghi questi ultimi celebrati in Retablo e illustrati da Consolo attraverso la corrispondenza immaginaria che il pittore milanese Fabrizio Clerici, controfigura del Clerici novecentesco, indirizza alla donna amata, poi andata sposa a Cesare Beccaria. Con in più le tonnare, i raìs, i loro sottoposti e la “camera della morte”, dove i tonni, intercettati nel pieno della loro migrazione da oriente a occidente, sono arpionati ed estratti dall’acqua con autentici corpo a corpo tra uomo e animale.
Ciò che mi ha incuriosito, come siciliano residente nell’entroterra di Cefalù da qualche anno, è l’assenza totale, in questa passeggiata, di riferimenti geografici, storici ed emotivi a questa cittadina tanto celebrata da Consolo, suo luogo di villeggiatura nell’adolescenza. Da qui è partito il suo Grand Tourletterario di Sicilia, durato una vita. In compenso Cefalù, con la sua Rocca e i suoi bastioni, compare in una delle tavole dell’Atlante di Bonavides, pubblicate in Sicilia teatro del mondo. Sembra quasi che Consolo, che era di Sant’Agata Militello, abbia trascurato di passeggiare tra le bellezze e i monumenti della sua cittadina del cuore, che considerava “sua” per esserne divenuto cittadino onorario (cfr. Note e notizie su Nottetempo, casa per casa, in L’opera completa, p. 1389: “Questo è un libro […] molto legato alla mia città, Cefalù”). Cefalù non rientra nella passeggiata forse anche per quell’inconfessato vezzo dei viaggiatori, che descrivono un bel luogo ma tacciono di proposito sulle locande in cui hanno mangiato meglio, sull’altura o la torre da cui hanno goduto il panorama più bello. Eppure, per Consolo, Cefalù segna il confine tra Sicilia punico-fenicia e Sicilia greca. È la terra, si aggiunga, in cui HERAKLES convive con l’Eracle dei Fenici, MELKART: se letti dai rispettivi alfabeti, sinistrorso il fenicio, destrorso il greco arcaico, i due nomi sono bifronti, quasi palindromi. La ragione del silenzio di Consolo risiede nella legittima riservatezza di autore di un romanzo in via di gestazione: Nottetempo, casa per casa. Di quella gente, di quelle case, Consolo non parla. Cefalù è terra di passeggiate e smanie aristocratiche, diurne e notturne, dove i baroni non sono tutti uguali: da una parte, l’apollineo Enrico Pirajno di Mandralisca del Sorriso dell’ignoto marinaio; dall’altra, i baroni smaniosi di Nottetempo casa per casa, dietro i quali si celano personaggi ancora ben presenti nel Gran Teatro della Memoria cefaludese, o cefalutana che dir si voglia.
Miguel Ángel Cuevas, poeta e docente di Filologia italiana all’Università di Siviglia, traduttore appassionato di altri grandi nomi della letteratura italiana come Pirandello, Pasolini, Tomasi di Lampedusa, si è dedicato intensamente a Consolo, privilegiando in quest’ultimo caso il rapporto tra arti visuali e scrittura. Ha trascritto e sapientemente ‘montato’ in Conversación en Sevilla, titolo vittoriniano (La Carboneria, 2014), il risultato di alcune giornate di studio celebrative del settantesimo compleanno di Consolo.
In questa Sicilia paesada c’è molto di Vincenzo Consolo, artista raffinato e proteiforme: scrittore, viaggiatore, filologo, programmista, sceneggiatore, giornalista, “orafo della parola”, come qualcuno lo ha definito. Come Vincenzo, anche Miguel Ángel, innamorato della Sicilia, è raffinato e proteiforme nel suo abbinare la docenza universitaria all’attività di poeta autotradotto, viaggiatore, editor e scrittore. Ben venga dunque la sua traduzione, prezioso contributo allo sviluppo dei buoni rapporti culturali tra Sicilia e Spagna attraverso l’opera consoliana, che all’Università di Valencia – dove di recente il volume è stato presentato in occasione di una giornata di studi sul Novecento letterario italiano – si studia e commenta da tempo, grazie a Nicolò Messina e a Irene Romera Pintor.