Di Ada Bellanova, laureata in lettere classiche e insegnante di liceo, conoscevo la prima tesi di dottorato (sulla presenza dei classici greci e latini nell’opera di Borges) e avevo letto con interesse i racconti L’invasione degli omini in frac (e altre piccole nostalgie) (Siena, Pascal, 2010), Le mal du pays (vincitore del Concorso Scrivere Altrove – Associazione MaiTardi Nuto Revelli) e il romanzo Papamusc’ (Arcidosso, Effigi, 2016); mi trovo ora a sfogliarne la ponderosa monografia Un eccezionale baedeker: la rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo (rielaborazione della seconda tesi di dottorato discussa presso l’Université di Lausanne), accolta nella collana «Punti di vista. Testi e studi di letteratura italiana contemporanea» di Mimesis (2021), prova in cui la vocazione narrativa si sposa felicemente con l’attitudine allo studio assiduo e ponderato.
Narrativo ne è certamente l’incipit («Quando, alcuni anni fa, sono andata nella Sicilia occidentale per la prima volta, Retablo è stato il mio eccezionale baedeker»); narrativo è senz’altro l’avvio delle Conclusioni («Chiusi i libri, riposti gli articoli, resta un nastro di immagini, ‘fotografie’ accostate e sovrapposte: boschi, strade, aranceti, giardini, profili di palme e castelli, spiagge e isole, chiese e dimore di santi, rovine e musei, città che non esistono più e altre che restano eterne, altre ancora “invisibili” o chiuse l’una nell’altra in mirabile convivenza»); narrativi sono certi slanci esegetici, come la rêverie sulla pianta secentesca del Passafiume collocata di fronte all’Ignoto di Antonello da Messina, «quasi che lo sguardo penetrante del ritratto sia impegnato a scrutare e sorvegliare costantemente il microcosmo in cui è stato collocato»; ma rigorosa, oculatissima e ben documentata è l’indagine, suggerita dalla ragguardevole presenza, nell’opera di Consolo, di «indicazioni toponomastiche, direzionali, localizzative», dalla «segnalazione ricorrente di aree territoriali, contrade, vie, piazze, edifici», dall’«insistenza e l’accuratezza nel nominare i luoghi»: fenomeni ricondotti al «piacere precocemente sperimentato nella scoperta della stessa Sicilia, quando da ragazzino, al seguito del padre, imparava la novità e la varietà del paesaggio, pur segnato dalle macerie della guerra, al di là dei ristretti confini della natia Sant’Agata di Militello».
Sulla scorta di testi come Maps of the imagination: the writer as cartographer, di Peter Turchi, e con una preventiva discussione delle prospettive teoriche fiorite dallo spatial turn (geocritica, geopoetica, geotematica, ecocritica) e delle proposte della narratologia cognitivista, l’autrice cerca di definire il «principio territoriale» della scrittura di Consolo, di individuarne le cartografie (le mappe che orientano le sue esplorazioni e le mappe, reali o immaginarie, che lui stesso costruisce), distinguendovi in via preliminare due caratteri precipui: la natura ‘palinsestica’ (o, secondo il suggestivo battesimo di Daragh O’Connell, ‘palincestuosa’), ovvero il loro «legame particolarmente intenso e stretto con i testi anteriori»; i segni di «suggestioni sensoriali, risultato di una conoscenza ravvicinata e personale», di Storia (una «Storia che si può sperimentare, che si vive, una Storia dal basso, lontana dunque da quella dei grandi eventi») e di attività umane che vi sono impressi.
Quanto all’uso dei «testi anteriori», la ricerca stabilisce che il contributo dei classici greci e latini diventa apprezzabile «a partire dall’esperienza di traduzione dell’Ifigenia fra i Tauri euripidea del 1982», per costituire in seguito «un riferimento ricorrente, quasi un marchio presentato come garanzia di solennità e autorevolezza», che lo spazio ‘classico’ di Retablo si incista nella letteratura odeporica settecentesca (Von Riesedel, Brydone, Goethe), che L’olivo e l’olivastro si contagia (in specie nel cammino delle Latomie e nell’entusiasmo per la Venere Landolina) del Maupassant di La vie errante, che Di qua dal faro adotta lo sguardo tutto umano di Carlo Levi («un antiGoethe in carne e ossa»), valutando infine l’apporto degli scrittori siciliani plasmati dall’Isola che a loro volta plasmano in tratti memorabili: Pirandello, Sciascia e Tomasi di Lampedusa per l’area agrigentina; Cattafi e D’Arrigo per lo Stretto; Verga per il territorio dominato dall’Etna; Piccolo per l’arcadia dei Nebrodi; Vittorini per il simbolismo del nóstos.
Insieme a queste orditure intertestuali, Ada Bellanova prende in esame l’impiego originale di «geografie letterarie già divenute simbolo in forza di una lunga tradizione»: la Sicilia-Itaca (terra «irriconoscibile, luogo di mostruosità, di efferatezze, reggia in cui hanno vinto i Proci […] diventata Troia, perché non esiste più, se non nel ricordo», e dall’Ulisse-Enea che vi approda «in cerca di una nuova patria nella consapevolezza che la propria è ormai consumata dalle fiamme»; il «personale criterio di associazioni» che sovrintende al modello odissiaco di L’olivo e l’olivastro (esemplato dal particolare ‘trattamento’ delle Eolie: «La memoria delle regolari visite di un tempo a Lipari rende le isole un luogo intimo e l’elemento affettivo e personale prevale anche quando compare l’evocazione della vicenda odissiaca: il dio dei venti è l’oggetto della narrazione di Consolo ai nipoti, mentre la tempesta sull’equipaggio di Ulisse dopo l’incauta apertura dell’otre è sostituita dal tremendo mare che accompagna la fuga precipitosa dall’isola a causa della lettera di leva»); la declinazione dell’incontro con la madre a Sant’Agata «come ritorno a Itaca e insieme Nekya». Una particolare attenzione è poi riservata allo scenario di Ifigenia fra i Tauri (per la sorprendente associazione di Milano con la Tauride, come terra «gretta, inospitale, luogo di perdita della memoria, campo fertile per l’attecchimento di ideologie razziste», e per il suo contraltare di una Sicilia-Argo, oggetto del desiderio che può a suo luogo trasfigurare in violenta e prevaricatrice Tauride), alle suggestioni manzoniane di Il sorriso dell’ignoto marinaio (nel capitolo V, dove risuona, ma in un ambiente del tutto diverso, lo «scampanìo che prelude al mutamento d’animo dell’Innominato», e nel capitolo VII, per l’allusione alla peste e per lo «scendea per uno di quei vicoli», che «richiama alla mente l’immagine della madre di Cecilia che coltiva la compostezza e il decoro nella pietosa consegna dell’amato corpo della propria bambina al monatto»), all’eco, in Filosofiana, del Pitrè di Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, dell’Agamennone di Eschilo e delle Rane di Aristofane.
L’inventario considera poi gli apporti dell’universo figurativo (le ecfrasi dichiarate del Ritratto di ignoto, del Seppellimento di Santa Lucia, dello Spasimo di Sicilia, di una foto di Robert Capa, di reperti archeologici e beni architettonici, le citazioni pittoriche di Lo sposalizio della Vergine e di Los desastres de la guerra, le allusioni all’Ave Maria a trasbordo di Segantini e all’Angelus di Millet), delle recensioni artistiche dello stesso autore (sulle mostre di Michele Spadaro e di Franco Mulas), delle «trame sensoriali» che disegnano «paesaggi sonori, olfattivi, persino paesaggi gustativi» (come le offerte culinarie che accompagnano il viaggio di Clerici in Retablo, la fiera di San Calogero e la Pasqua in La ferita dell’aprile), delle fantasie scaturite da un «confronto personale con i luoghi», e del loro «uso simbolico» (così nel racconto giovanile Un sacco di magnolie «il profumo conturbante dei fiori e poi il nero delle corolle marcite rinvia alla morte del protagonista», in L’olivo e l’olivastro «il gelsomino lasciato marcire delle raccoglitrici in sciopero […] allude ai morti dell’industria di Milazzo», in Un filo d’erba al margine del feudo «il nero dominante sulle case e sulle persone del borgo di Tusa […] si lega alla morte drammatica di Carmine Battaglia»), dei tasselli di storia che, attraverso una «lingua non compromessa con il potere», danno voce «agli esclusi e alle loro utopie» e mettono in mora l’impresentabile presente, dei quadri che attestano il sofferto lavoro dell’uomo (la vita del latifondo in Ratumeni, la vendemmia in Nottetempo, casa per casa, la famiglia contadina in Il fosso, il museo contadino di Antonino Uccello in La casa di Icaro, gli agrumeti di Arancio, sogno e nostalgia, i cavatori di pomice di Il sorriso dell’ignoto marinaio, i pescatori in La ferita dell’aprile e La pesca del tonno).
Ma il cuore del libro è la sua seconda parte, Un percorso tra luoghi-simbolo, che verifica, per così dire, sul campo l’ampia e motivata premessa costituita dalla prima, Strumenti per percorrere i luoghi, nonché dall’Introduzione, perlustrando partitamente le sedi privilegiate della scrittura di Consolo: Sant’Agata; Cefalù; Palermo; Siracusa; le rovine dell’Isola; Milano.
Il paese natale – «limen», discrimine «tra un oriente e un occidente» che calamita una «grande ricchezza di notazioni affettive e di riferimenti a percezioni sensoriali» e diviene il prototipo di «un’immagine della Sicilia metafisica, arcaica e magica, e nel contempo viva e palpitante nei problemi sociali, economici e politici» – è chiamato, nel Sorriso, a una cruciale missione diegetica (per la scelta di mappare il suo castello Gallego con le scritte dei prigionieri di Alcara: «Lo spazio reale si traduce in scenario e simbolo: la scala diventa chiocciola, la chiocciola diventa storia, anzi la Storia, che si avvolge su se stessa e si confonde e confonde»), laddove in L’olivo e l’olivastro vi si incidono «i dettagli del ritorno doloroso […] mentre la madre si fa evanescente come Euridice e la casa viene distrutta, spazzata dalle ruspe, sostituita da un palazzo di banche e uffici che nasconde la vista della spiaggia e del mare».
Il microcosmo cefaludese, scena del Sorriso e di Nottetempo, è per Consolo già Occidente, una Palermo in miniatura (dove si può più facilmente leggere il meticciato arabo-normanno sotteso all’identità siciliana), epperò infinitamente espansibile come una «faulkneriana yoknapatawpha». In questo «labirinto di vicoli e strade» che – sebbene non sia «precisamente collocato nel territorio, tra la Rocca e la spiaggia della Calura, che ha il suo centro nel Duomo», come invece, in un volo poetico, lo vede l’autrice: la Calura si trova in verità dietro la Rocca, nel fianco opposto a quello che dà sull’abitato, e il Duomo sta semmai tra la Rocca e il porticciolo – è fedelmente restituito nei due romanzi (con l’ausilio di mappe a loro volta oggetto di ariose descrizioni), i percorsi dei personaggi sono delineati, con una ricca e persuasiva analisi, come itinerari sonori e luminosi. Quello di Sasà, nel Sorriso, è dapprima scandito dal «latrato dei cani», dal «gemito dei mulini attivi», da «galline ruspanti», dal «ronzìo di vespe e zanzare», dalle grida dei pescivendoli, dalle imprecazioni dei carcerati, mentre nella piazza del Duomo predomina «il senso della vista» e più innanzi le due percezioni sfociano nel «si videro oscillare le campane», dove «è proprio il propagarsi del suono che suggerisce uno sguardo più ampio sul paese, altrimenti impossibile».
Similmente, in Nottetempo, il suono dello zoccolo del cavallo di don Peppino «mentre si propaga, ci fa vedere» e, nell’incipit, «Il procedere dolorante del luponario, accompagnato da un ululato profondo, mostra i luoghi a gara con la luce. Le reazioni al suo passaggio […] costruiscono un itinerario sonoro. È proprio questa la prima immagine di Cefalù del romanzo, quella disegnata dal percorso disperato dell’uomo, sotto l’altro, luminoso, della luna». Altre epifanie del ‘sentiero luminoso’ saranno il ferino crepuscolo dal balcone di Don Nené (colto come controcanto ironico all’incipit del Piacere), il sole che illumina «la vista dei pascoli di Janu, quindi la Rocca» e «scandisce poi con le sue gradazioni le tappe dell’incontro e dell’amore con la thelemita», per culminare nel fulgido trionfo del Duomo che sarà ancora celebrato nella visitazione satanico-mistica di Crowley e nel racconto La corona e le armi.
«Se Cefalù è la porta del mondo, Palermo è il mondo», e la sua rappresentazione sarà quindi più complessa, attuata «integrando una varietà di sguardi letterari e testimonianze della stratificazione urbanistica e accogliendo innumerevoli stimoli sensoriali, alternativamente seducenti e inquietanti». Il palinsesto letterario (che annovera prelievi da Boccaccio, Ibn Giubayr, Amari, Tomasi di Lampedusa, Lucentini, Falcone, Goethe, Brydone, Pitrè, La Lumìa, Lucio Piccolo) si intreccia con le sontuose quanto ambigue «sollecitazioni sensoriali» cui è impossibile sottrarsi, tanto che «Solo l’immedesimazione permette di fare esperienza dell’universo multiforme di Palermo», e con il «multistrato» delle sue architetture, distribuito fra le sopravvivenze arabo-normanne e i più recenti misfatti urbanistici: un coacervo che trova il suo emblema nella pasta con le sarde, perfetta versione culinaria della feconda contaminazione di culture differenti che costituisce «l’identità più vera» della città che nello Spasimo di Palermo giunge a configurarsi come un’Itaca, se pure stravolta (dato che «non sa offrire consolazione all’esule nel momento del ritorno, ma non ha saputo offrirne neppure un tempo»), o a esibire finte topografie, come quella del palazzo di Martinez in cui Consolo trasferisce «la vicenda della propria casa natìa di Sant’Agata».
La Siracusa di Consolo (scoperta precocemente nel 1950, in una gita scolastica) è luogo di luce che prende un corpo di donna in cui confluiscono la statua di Venere Anadiomene, divinità del mito (Aretusa, Atena, Afrodite, Artemide, Kore), Santa Lucia, e ogni altra femminea sembianza, «a partire da quelle che per i loro capelli e il portamento apparvero diverse, nuove, nel primo incontro con la città ricordato in Siracusa il mio primo talismano» (caratteri restituiti con una insolita «ricchezza di riferimenti intertestuali», un «collage di citazioni e richiami» in cui entrano in gioco gli itinerari di Caravaggio, Maupassant, Von Platen, del ceroplasta Zummo, della Dichiarazione della pianta delle antiche Siracuse di Vincenzo Mirabella, i versi di Pindaro, Virgilio, Ibn Hamdis, Ungaretti), ma è insieme, soprattutto nelle ultime prove, icona del tramonto di una civiltà, divenuta (per il suo odierno degrado, per i mostri delle raffinerie, per il suo «squallore sonoro») «Argo del sogno e della nostalgia di Ifigenia, un luogo che non esiste più perché stravolto dall’orrore dall’omicidio».
Con il pellegrinaggio nelle rovine siciliane Consolo continua a coltivare un gusto appreso già nell’adolescenza, una consuetudine che vale anche a «evadere dal presente», in una «prospettiva idealizzante» anch’essa affidata a una «fitta trama intertestuale in cui spiccano pause ecfrastiche, memorie di autori antichi, narrazioni di miti, evasioni arcadiche». Con questa singolare contaminazione di fatti sensibili e fatti libreschi, Segesta, Selinunte e Mozia acquisiscono «tutta l’intensità di luoghi fisici, di cui si può fare esperienza, in una ricchezza di suggestioni non solo mentali – l’imponente passato a cui rinviano – ma anche visive, olfattive, uditive». Se Segesta induce anzitutto «la contemplazione estatica del paesaggio e l’evocazione del passato, delle infinite epoche trascorse, fino al rapimento nel passato», la Selinunte di Retablo è, nelle metope che la finzione restituisce al luogo d’origine, pietra che parla ed è parlata: nella descrizione del riquadro di Zeus e Era la studiosa ipotizza un attendibile richiamo «a uno specifico passo dell’Iliade, ovvero XIV 346-351» e nella bellissima fanciulla del témenos di Demetra Malophoros intravede l’allusione «ad uno dei Desastres de la guerra di Goya, ovvero Murió la verdad». Mozia è invece, sempre in Retablo, mistero: il mistero dei naufragi, nel passo suscitato dai relitti intravisti nei fondali al momento dello sbarco di Clerici (al cui riguardo si congettura «la conoscenza di Naufragio con spettatore di Hans Blumemberg»); il mistero dei reperti, oggetto di un «procedimento ecfrastico originale che restituisce la natura delle antiche opere d’arte ipotizzandone la collocazione settecentesca, quindi lo stato d’abbandono e l’accumulo casuale»; il mistero dell’efebo greco in terra fenicia, che il racconto destina ancora a un fondale marino, includendo, secondo l’autrice, una «reminiscenza di Morte per acqua di Eliot, IV sezione di The Waste Land», con lo scambio fra il ragazzo ellenico e Phlebas il Fenicio.
La rassegna dei ‘luoghi-simbolo’ si chiude con Milano, contrada della speranza divenuta inospitale e difficilmente narrabile, spazio ostile che respinge il migrante cresciuto nel suo mito: la relazione di Consolo con la città «non arriva mai ad essere equilibrata, pacifica». Con l’eccezione dell’oasi multiculturale e versicolore di Porta Venezia, «uno spazio di riconciliazione», la metropoli lombarda appare scialba e sorda e, nello Spasimo (dove l’amaro congedo di Chino profila «un Addio ai monti capovolto»), «recinto dei moribondi di manzoniana memoria», mentre in Retablo la corrotta città del Settecento filigrana «il degrado della Milano craxiana», deriva morale che provoca in ultimo le requisitorie contro i successi elettorali di Mascelloni/Berlusconi.
La terza parte del libro, Ecologie consoliane, articolata nelle sezioni Per un’ecologia del paesaggio e dell’identità e La prova della ricostruzione. Per un’ecologia del dopo disastro, ritaglia le zone che in Consolo investono il «delicato rapporto tra uomo e ambiente in Sicilia e nel Mediterraneo».
I casi dei poli industriali di Milazzo, Gela e Siracusa, gli incendi e la speculazione edilizia ne rappresentano, nella prima sezione, il versante negativo. A formare l’immagine di Milazzo concorrono un’antica familiarità con il luogo (l’adolescente Consolo era solito sostarvi «di ritorno dalle Eolie dove viveva una delle sorelle»), le notizie dello storico locale Giuseppe Piaggia (che ne fanno una terra d’idillio, promossa in La mia Sicilia «giardino di Alcinoo» e «sicula terra dei Feaci») e, con un «effetto straniante», il racconto odissiaco degli armenti del Sole (tradizionalmente posto nella piana di Mylai), quando l’empietà degli industriali e dei politici che hanno voluto la raffineria a spese del paesaggio e degli esseri umani viene assembrata a quella dei compagni di Ulisse, e l’esplosione è il momento in cui essi «banchettano con le carni dei buoi sacri, autoassolvendosi nella promessa del futuro sacrificio». Un analogo straniamento raggiunge il polo industriale siracusano, accostato a sorpresa, in L’olivo e l’olivastro, «al culmine di una descrizione che, per quanto cupa, ha tratti realistici», al paese dei Lestrigoni (che un passo tucidideo vuole in Sicilia), e dove si rileva che il modello omerico lotta con quello virgiliano («l’area si presenta come un’Itaca impossibile, non approdo del ritorno ma regno dei Lestrigoni, ed è allo stesso tempo la città di Troia devastata dalla guerra»), mentre il petrolchimico di Gela attira, per evocare l’inferno, anche morale, della città, la parola di Eschilo (quando condanna il delitto di Clitennestra), proponendo inoltre l’«associazione del petrolio alla trovatura nelle tombe greche, nelle cisterne saracene».
Passando alle devastazioni prodotte dagli incendi e dalla speculazione edilizia, l’accurato scandaglio dell’intera produzione di Consolo, soprattutto giornalistica, permette di concludere che esse sono per lui «il risultato di quella profonda e repentina trasformazione che consiste nella fine della civiltà contadina e nell’avvento forzato del miracolo industriale». Viceversa, il lato positivo del ‘pensiero ambientale’ di Consolo è comprovato dalla sua autentica militanza a favore di «una biodiversità naturale e umana ancora possibile», manifestata dalle pagine sui Nebrodi (che prevedono anche «un impegno attivissimo a favore dell’istituzione del parco») e sull’area dei monti Iblei («tratteggiata come un’alternativa di rinascita», con la necropoli di Pantalica a rappresentarvi «la resurrezione, la vita, pur essendo un luogo di morte, poiché in essa riposa la memoria identitaria», e presidiata dalle straordinarie persone di Antonino Uccello, del mielaio Blancato, del «vecchio Paolo Carpinteri, che intaglia il legno, costruisce zufoli e narra storie di erbe e animali fantastici», di Gina e Pino Di Silvestro, di Sebastiano Burgaretta), e annunziata dal pastore Nino Alaimo di Retablo, che raffigura «l’equilibrio, la serenità, un modo più umano e sostenibile di vivere».
La seconda sezione di Ecologie consoliane si concentra sui luoghi colpiti da disastri naturali e sulle «implicazioni antropologiche, identitarie, relazionali, storiche» del ricostruire. Le eruzioni dell’Etna, guardate attraverso il Leopardi della Ginestra e la filosofia di Empedocle, chiamano in causa il mito: il selvaggio Polifemo è identificato con il vulcano, e Ulisse con l’«uomo tecnologico», capace, con le sue arti, di fronteggiarne la devastante potenza. I brani sul terremoto di Noto si muovono invece, mediante l’«associazione Kore-ape-Noto», tra le note gaudiose che inneggiano alla mirabile ricostruzione dopo il terremoto del 1693 e il rammarico per il successivo degrado che ha prodotto la «dimenticata marcia scenografia teatrale» di L’olivo e l’olivastro, facendone l’«Argo amara, in guerra» di una «Ifigenia smarrita»: uno sfacelo che diviene «l’emblema di una rovina che non riguarda solo gli Iblei, ma la Sicilia, l’Italia, il mondo» e che si fa ancor più evidente nel caso di Gibellina e della sua discussa ricostruzione. In L’olivo e l’olivastro il sito «è innalzato a simbolo: è Ilio nel momento della partenza dopo il disastro, non sa essere Itaca nel ritorno, perché troppo diversa si presenta all’esule» (in Metamorfosi di una melodia, sarà «emblema della negazione dell’identità e della memoria», come la Gerusalemme distrutta dai Romani), mentre nei testi del 2008, chiamati a ricordare il quarantesimo anniversario del sisma, «prevale l’invito alla rinascita della Valle del Belice».
La quarta parte del libro, Leggere e scrivere il Mediterraneo, si sofferma sui modi in cui l’interesse di Consolo per la Sicilia e il sud si riverbera sull’intero spazio del mare nostrum. Se la Sicilia si identifica nel «flusso incessante di energie umane e culturali», tutta l’area mediterranea è «crocevia di popoli differenti»; ed entrambe sono insieme «scenario di devastazione» e «archivio di eredità preziose». Il loro Ulisse «non è l’eroe del ritorno, è piuttosto il migrante», condannato a un esilio perenne. Nel suo viaggio, «insieme all’ansia di scoperta e conoscenza, è evidenziato il senso di colpa e il rimorso per l’abuso della tecnologia che distrugge patrimoni e vite umane». Il Mediterraneo è per Consolo un «mondo unico». L’arancio diffuso nelle sue coste è «sogno di un Eden perduto», simbolo di «uno spazio sano in cui le piante odorose possono ancora fare mostra di sé accanto alle rovine del passato». In Palestina le colline di roccia e deserto gli ricordano i prediletti Iblei, e il lamento delle donne per i guerriglieri morti la tragedia greca. La Casbah di Algeri gli fa pensare al centro storico di Palermo. Di Utica lo colpiscono le rovine e il basilico, ma «tutto il Mediterraneo in qualche modo è Utica».
Come la Sicilia, tutto il Mediterraneo è oggi «una Tauride senza speranza». In Le pietre di Pantalica Beirut è come Palermo. Le macerie di Sarajevo 1997 cancellano la civiltà. La Palestina 2002 è un inferno appena mitigato dalla rugosa matrona di Ramallah che offre nepitella. Ma, come il suo Ulisse è un migrante, il Mediterraneo di Consolo è soprattutto «spazio di migrazioni». Il suo mare «non è di nessuno, non può essere veramente limite, e la terra non reca un marchio di possesso ma molti strati di identità che il tempo e i popoli plasmano, partendo, arrivando». La presenza degli Arabi in Sicilia ha lasciato segni profondi sia nell’ambito agricolo che in quello artistico-culturale. L’antica emigrazione megarese nel versante orientale dell’Isola è piegata, forzando l’anodino referto di Tucidide, a modello di uguaglianza, progresso e raziocinio. Le migrazioni italiane verso il Maghreb e l’emigrazione maghrebina in Italia tradiscono la contiguità dei due mondi. Di qui l’impegno civile di Consolo: la coraggiosa denuncia di episodi di xenofobia e persecuzioni, di leggi disumane, del cinismo politico, della barbarie dei cosiddetti centri di accoglienza, dell’ipocrisia di chi vuole per Lampedusa, prima che un’ospitalità degna di questo nome, il sepolcro imbiancato di un Museo, la beffa di un Monumento.
Terminato il viaggio cartaceo, riposto il voluminoso volume, la ricognizione di Ada Bellanova nell’ideale baedeker di Consolo ci appare a sua volta come una preziosa ‘guida alla guida’, un’appassionata quanto precisa cartografia che registra le concrezioni che vi sono depositate, i fili sotterranei che ne muovono le piste. Fra i suoi esiti, giustamente rivendicati nelle Conclusioni, piace qui rimarcare la esaustiva mappatura dei numerosi rimandi a Omero, Virgilio, Euripide, Tucidide e agli storici greci, svolta con acribia e sulla base di solide competenze: apprendiamo così che le geografie omeriche hanno in Consolo una funzione connotativa, interrogano la natura dei luoghi attraversati; che l’Eneide è adottata come «racconto di migrazione», dove «i simboli dell’epos latino integrano e correggono quelli dell’Odissea omerica nella rappresentazione di uno spazio compromesso con l’esperienza dell’esilio»; che l’Argo di Ifigenia fra i Tauri «concorre a definire i tratti della patria lontana, desiderata», quando la Tauride «è la terra dell’esilio, ovvero dell’estraneità, della perdita culturale, non solo luogo geograficamente definito, ma anche tempo di condanna e di sconfitta».
Ugualmente significative mi sembrano le considerazioni sul ruolo dei termini dialettali (adoperati da Consolo per restituire «un’affettività dello sguardo e testimoniare il legame del ricordo», ma anche per rendere «tratti non altrimenti riferibili con altrettanta precisione»). Ma le notazioni che più mi hanno sorpreso sono quelle che toccano la passione civile di Consolo (rivelata soprattutto dal sistematico spoglio della sua vasta produzione giornalistica), milizia che trasforma il suo baedeker in uno strumento insolito, obliquo (portato com’è all’indignazione e alla protesta), e dove l’invettiva contro la profanazione dei luoghi e della loro identità richiama un plurilinguismo che è anch’esso un ‘gesto politico’: il ricorso al dialetto, a termini greci, bizantini, arabi, normanni, sancisce il rifiuto dell’«im-mondo», il monocorde presente che annulla le differenze, nega le nostre singole storie.
Antonio Pane, dottore di ricerca e studioso di letteratura italiana contemporanea, ha curato la pubblicazione di scritti inediti o rari di Angelo Maria Ripellino, Antonio Pizzuto, Angelo Fiore, Lucio Piccolo, Salvatore Spinelli, Simone Ciani, autori cui ha anche dedicato vari saggi: quelli su Pizzuto sono parzialmente raccolti nel volume Il leggibile Pizzuto (Firenze, Polistampa, 1999).
1. Ripensare i luoghi in forma di idillio. Il
dramma di Ulisse e di Ifigenia.
Senza la letteratura
Itaca sarebbe semplicemente una piccola isola greca nel Mediterraneo. Invece
Omero, la tradizione, le invenzioni letterarie l’hanno resa il luogo per
eccellenza delle radici e della memoria, la patria ritrovata dopo un lungo
viaggio: l’hanno trasformata in simbolo[1].
Ulisse in viaggio,
intento ad affrontare pericoli, mostri e tempeste, porta con sé l’immagine di
Itaca luogo del cuore, patria perfetta, a cui desidera a tutti i costi tornare.
Una polarità netta si crea tra il mondo minaccioso – e avventuroso – e il
nucleo accogliente e protettivo della patria e della casa. Eppure Ulisse, una
volta sbarcato, è costretto a interrogarsi subito sull’identità della terra,
sullo scarto tra il sogno che ha cullato durante la lunga distanza e la realtà[2].
Molte cose infatti sono cambiate: lui non è più lo stesso e Itaca è mutata, non
solo per i soprusi dei Proci, ma anche perché il tempo ha segnato la sua
geografia a tal punto da conferirle un paesaggio nuovo, diverso. Per queste
ragioni, e non solo per l’intervento di Atena, Ulisse si guarda intorno e,
smarrito, si pone la domanda: «Dove sono capitato?». Sebbene il finale dell’Odissea
risulti confortante – l’eroe ottiene di nuovo il suo ruolo di re dopo la
sconfitta dei Proci e l’intesa del talamo con Penelope – sorge il dubbio che
l’Itaca ritrovata sia un po’ deludente rispetto al sogno e alla nostalgia.
Perché altrimenti Ulisse sceglierebbe, come insegna l’altra tradizione, di
ripartire? Non dovrebbe godersi la terra tanto amata? Il fatto è che, come
scrive Jankelevitch, la nostalgia, per l’esule – per qualunque esule –, è
insanabile, inestinguibile[3].
Già nel momento del primo distacco dalla patria ha inizio un cambiamento, nel
luogo e nell’individuo, che non permette di colmare la distanza, in alcun modo,
neppure nell’opportunità di un ritorno.
Ifigenia a sua volta,
la sfortunata figlia di Agamennone, salva ma costretta all’esilio tra i feroci
Tauri autori di sacrifici umani, non fa altro che sognare la sua Argo: una
reggia preziosa, in cui è stata bambina, principessa, ma ormai, senza che lei
lo sappia, luogo insanguinato dagli omicidi, la morte del padre per mano di sua
madre, quella di sua madre per mano di suo fratello. La Tauride – anche in
questo caso la responsabilità è della letteratura – assume la connotazione di
una terra selvaggia, priva di ogni forma di civiltà: la dolente sacerdotessa
greca, pur investita dell’autorità religiosa, non può far altro che sciogliere
il suo canto d’esilio, insieme alle schiave sue compagne. È la trama dell’Ifigenia
in Tauride euripidea: l’autore antico ha composto una tragedia che recita
il dramma della nostalgia, la stessa di Ulisse. La città lontana di Argo, nella
mente di chi vive l’esilio, ovvero la protagonista e, con lei, il coro, assume
i tratti di uno spazio desiderato e armonioso, un territorio caro, in cui
rispecchiarsi e ritrovarsi: è emblema della Grecia della civiltà. Eppure, come
dicevo, la terra lontana non è affatto così come l’esule se la dipinge e, anche
di fronte al lieto fine, mentre Ifigenia e il fratello ritrovato salpano dalla
Tauride ostile e si allontanano dai sacrifici, c’è da augurarsi che non ci sia
nessun ritorno a casa. Ritrovare Argo infatti non è possibile e il ritorno può
essere estremamente traumatico.
Il mito e la letteratura,
proponendo una caratteristica veste per certi luoghi reali, li trasformano in
simboli, metafore efficaci anche per la contemporaneità e per il nostro modo di
vivere gli spazi.
Ne sa qualcosa Vincenzo
Consolo che in tutta la sua opera pone l’accento sul suo esilio nel Nord e
sull’irredimibile nostalgia per la Sicilia lontana, patria del ricordo, e
perciò idealizzata nella distanza, come in un’odissea contemporanea, tra le
nebbie di una Milano grigia che ha più di un tratto in comune con la Tauride
euripidea. L’olivo e l’olivastro (1994) e poi anche Lo Spasimo di
Palermo (1998) descrivono un ritorno doloroso che ha i tratti di un incauto
procedere tra le rovine di una patria in fiamme. Nel primo libro, che reca già
nel titolo l’omaggio e la simbolizzazione degli spazi omerici – nell’Odissea
olivo e olivastro segnano lo spazio del naufragio di Ulisse sulla costa dei
Feaci – al giovane migrante siciliano che, fuggito dal terremoto di Gibellina –
ecco Enea che abbandona un’Ilio compromessa – prova a ritornare dopo tanti
anni, il nóstos è negato: Itaca non c’è più, fuor di metafora, perché la
vecchia città è scomparsa sotto il sudario di cemento del Cretto di Burri, e la
nuova, con la Stella texana che segna l’ingresso nel Belice, è, per dirla con
le parole di Consolo, «costruita dai Proci»[4],
non ha insomma molto a che fare con la tanto sospirata patria delle radici. Nel
secondo, poi, veramente amaro è il ritorno del protagonista, lo scrittore Chino
Martinez, a Palermo: la città degli anni Novanta, già compromessa dalla ferocia
della speculazione edilizia, dal sacco che ha cementificato la Conca d’oro,
deve fare i conti con la violenza mafiosa, esemplificata dalla drammatica
esplosione finale in via d’Astorga che allude in maniera netta alla strage di
via d’Amelio. A queste opere possono essere aggiunte moltissime pagine, come il
testo eponimo di Le pietre di Pantalica, che piange il degrado –
culturale, ambientale – dello scenario della bianca Siracusa, chiamando in
causa i simboli della tragedia euripidea[5],
tradotta tra l’altro proprio da Consolo con Del Corno[6],
che è messa in scena nel teatro antico. L’autore fa del suo vissuto il motore
dell’invenzione narrativa: la sua personale prospettiva interpreta gli spazi e
li reinventa sul piano letterario. In questo processo Itaca e Argo rimandano a
un mondo che non c’è più: un universo intatto, in armonia, cancellato da una
modernità incivile e snaturante, e divenuto un perenne labirinto fitto di
mostri e pericoli, una Tauride in cui si sacrificano gli innocenti. Nella
prospettiva consoliana allora non è solo la Milano affarista ad assumere i
tratti di luogo ostile: l’osservazione dell’intero spazio della contemporaneità
– l’Italia, il Mediterraneo con i suoi naufraghi e ogni luogo in cui il
migrante è perseguitato, ferito, il paesaggio mortificato dagli incendi,
dall’industrializzazione, da un turismo becero e superficiale – denuncia una
perdita irreparabile in termini di valori e identità[7].
La polarità non è più, o comunque non solo, tra lo spazio fisico dell’esilio e
la terra delle radici, ma tra lo spazio del presente, omologante e svilente, e
quello del passato, in cui è ancora possibile un equilibrio.
Eppure, affrontato il
rischio della rottura dell’idillio, si può scoprire che Itaca non è del tutto
allo sfacelo e che sulle colonne di Argo si può ricostruire. Conviene però
prendere coscienza del punto a cui siamo arrivati. Conviene ripartire dalle
radici, ritrovare angoli vivi del paesaggio, lasciarsi ispirare da quanto di
buono essi comunicano. Il che non vuol dire smettere di vedere le criticità di
ciò che è stato: significa valorizzare ciò che può essere valorizzato e trovare
una nuova via alternativa all’omologazione e allo sfruttamento.
La vera letteratura ha
questo di utile, ci svela a noi stessi, e le pagine di Consolo parlano a tutti
e di tutti, toccano le corde del legame doloroso o vivificante che abbiamo con
gli spazi e tentano di fare chiarezza su questioni grandi e urgenti: invitano
cioè ad una consapevolezza ambientale nel senso più ampio dell’espressione come
unica strada non solo per non perdere il luogo, ma anche per non perdere noi
stessi.
Trovo illuminante la sua
riflessione sulla Sicilia e sul Mediterraneo: nell’amarezza di fronte allo
scempio, di fronte ai facili stereotipi che semplificano lo spazio, lo
appiattiscono – il seducente paradiso a buon mercato da una parte, il degrado,
i sotterfugi dall’altro –, avvallati in maniera semplicistica da un certo tipo
di informazione e da un certo tipo di politica, l’autore rivendica il valore
della complessità. Lo spazio ha molte facce, molte sfumature, la bellezza ha
una sua indubbia fragilità.
Nella sua
rappresentazione dello spazio individuiamo la valorizzazione di alcune isole di
sopravvivenza: gli Iblei con l’arte intatta degli apicoltori e i Nebrodi coi
pascoli verdissimi non sono semplice idillio, Itaca e Argo del ricordo in cui
sarebbe meglio non tornare mai, ma un esempio di risposta concreta alla crisi
del paesaggio e dell’identità contemporanea. Descrivendo la miracolosa armonia
tra uomo e natura, la ricchezza ambientale – piante, animali –, tradizioni
gastronomiche e saperi antichi, che caratterizzano queste oasi di
sopravvivenza, Consolo valorizza una Sicilia quasi arcaica. In ciò non rifiuta
il progresso in sé, piuttosto evidenzia la necessità che esso non faccia
perdere all’uomo la sua identità storica e culturale, come è invece accaduto
nel caso della violenta industrializzazione dell’isola. Mette cioè in evidenza
che i luoghi non sono uno sfondo e che, se smettono di essere quello che sono –
fagocitati dall’omologazione, da interessi economici, dalla costruzione di
barriere –, inevitabili e funeste sono le conseguenze anche sugli esseri umani.
Così strettamente interrelate sono l’identità degli uomini e quella degli
spazi.
La sua opera invita
dunque – e in ciò risiede, secondo me, la grande attualità del messaggio
consoliano – a conservare le radici, a prendercene cura, perché solo nella
salvaguardia di ciò che è rimasto possiamo sperare di non perdere noi stessi.
Il passato – come
insegnava anche Pasolini nella sua strenua definizione dell’ambiente storico e
umano come territorio composito e stratificato nel tempo, insieme universo
linguistico, identità dei luoghi, creazione artistica – può non essere un
ricordo perduto: può anzi configurarsi come forza a cui attingere.
Mi piace pensare che nei
versi di Accordi,con l’ignoto tu, Consolo alluda ad un’identità
sua e di tutti i figli del Mediterraneo, un’identità nata da una relazione
vecchia di secoli con la terra, le piante, i muri a secco, con i paesaggi:
tolto tutto questo, cosa saremmo?
Solo se ripartiamo da
questo, allora, da ‘Itaca’, attraverso un cammino, senz’altro faticoso,
difficile, di consapevolezza degli spazi e della nostra relazione con essi, possiamo
avere qualche opportunità di sopravvivere anche noi. Possiamo avere qualche
speranza, se non per domani, almeno per dopodomani.
[1]A. Montandon,
Itaque au fil du temps, in B. Westphal (a cura di), Le rivage des
mythes. Une géocritique mediterranéenne. Le lieu et son mythe, Pulim, Limoges 2001, pp. 18-36.
[3]V.
Jankélévitch, L’irréversible et la nostalgie, Flammarion, Paris 1983,
pp. 370-371.
[4]V.
Consolo, L’olivo e l’olivastro, in Id., L’opera completa, a cura e con un
saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre,
Mondadori, Milano 2015, p. 869.
[5]V.
Consolo, Le pietre di Pantalica, in Id., Le pietre di Pantalica,
in Id., L’opera completa, cit., pp. 615-621.
[6]Ifigenia
fra i Tauri, trad. di Vincenzo Consolo e Dario Del Corno,
Istituto Nazionale del Dramma Antico -XXVII ciclo di spettacoli classici (27
maggio-4 luglio 1982), INDA, Siracusa 1982.
[7]«Non si
ritorna più nei luoghi da cui si è partiti, perché quelli non sono più i luoghi
che noi abbiamo lasciato. Non si è più di nessun luogo», V. Consolo, Fuga
dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Donzelli, Roma
1993, p. 69. Dello stesso tono sono le affermazioni di Consolo nell’intervista
con D. Calcaterra: «Una volta che si è partiti i ritorni sono impossibili.
Qualsiasi ritorno, anche quello di Odisseo, dopo l’allontanamento, non riesce a
colmare il distacco […] Nell’assenza si è consumato un duplice mutamento:
dell’individuo e del luogo d’origine. Si prova una gran pena quando non
riconosci più la tua terra, e la metamorfosi acquista la drammatica cifra
dell’inesorabile degrado, della perdita, dello smarrimento. Ogni ritorno è
dunque dolore. […] Oggi siamo tutti degli Ulissidi, degli erranti,
espropriati del proprio luogo della memoria. Viviamo nell’indefinito, senza
sicuri punti di riferimento, senza segni, intorno a noi c’è un mare da cui non
s’intravede alcun approdo possibile, e d’altra parte non vediamo più la sponda
da cui siamo partiti. Il destino dell’uomo contemporaneo è quello dell’errante,
che ha perso la propria identità, la propria patria» (D. Calcaterra, Vincenzo
Consolo, le parole, il tono, la cadenza, Prova d’autore, Catania 2007, pp.
20-22).
[8]P.P.
Pasolini, 10 giugno 1962, in Poesie mondane, in Poesia in
forma di rosa, in Id., Tutte le poesie, a cura di W. Siti, 2 voll.,
Mondadori, Milano 2003, I, p. 1099.
[9]Accordi. Poesie inedite, a cura di Claudio Masetta Milone e F. Zuccarello , Zuccarello editore, Sant’Agata di Militello 2015. pubblicato “La macchina sognante” (28 dicembre 2020)
Questo saggio intende analizzare il romanzo di Vincenzo
Consolo Nottetempo, casa per casa (1992) utilizzando il motivo della fine del
mondo come chiave interpretativa dell’opera ed elemento unificante i diversi
piani su cui la narrativa si sviluppa. Se da una parte La nascita della
tragedia di Friedrich Nietzsche costituisce un modello intellettuale di
riferimento e di confronto per il romanzo consoliano, dall’altra le
considerazioni dell’antropologo Ernesto De Martino sull’apocalisse ci
permetteranno di proporre Nottetempo come una risposta psicologica, culturale e
letteraria al rischio della “fine” esperito in questi tre diversi ambiti. Nel volume postumo che raccoglie gli appunti
preparatori all’opera rimasta incompiuta La fine del mondo, De Martino
approccia il tema dell’apocalisse derivando una connessione tra il senso di
fine del mondo vissuto nel disagio psicologico individuale e le grandi
apocalissi culturali elaborate dalle società o da singoli attori collettivi
operanti in esse. Anticipando i temi di questa ricerca in un articolo comparso
un anno prima della morte dell’antropologo su Nuovi argomenti, egli chiariva il
nesso tra apocalisse individuale e apocalisse collettiva nei seguenti termini:
“i caratteri esterni delle apocalissi psicologiche sembrano riprodursi anche in
quelle culturali, dato che anche le apocalissi culturali racchiudono l’annunzio
di catastrofi imminenti, il rifiuto radicale dell’ordine mondano attuale, la
tensione estrema dell’attesa angosciosa e l’euforico abbandono alle
immaginazioni di qualche privatissimo paradiso irrompente nel mondo” (De
Martino, 1964:111). Il compito delle apocalissi culturali sarà allora proprio
quello di scongiurare la fine, costituendosi come difesa e reintegrazione del
rischio della fine esperito nell’apocalisse psicopatologica: esse, cioè, hanno
il compito di rivalorizzare a livello collettivo e condiviso ciò che nella
crisi personale diventa perdita di senso, incapacità di dare valore e incapacità
di operare nel mondo quotidiano, decretandone così la sua fine. Tuttavia,
avverte De Martino, “se il dramma delle apocalissi culturali acquista rilievo
come esorcismo solenne, sempre rinnovato, contro l’estrema insidia delle
apocalissi psicopatologiche, è anche vero che questo esorcismo può riuscire in
varia misura, e di fatto può sbilanciarsi sempre di nuovo verso la crisi
radicale” (De Martino, 1964:113). Anche le apocalissi culturali, dunque,
possono incorrere nel rischio di essere “nuda crisi” senza possibilità di
rinnovamento, “senza escaton”, rischio che De Martino intravedeva
nell’apocalisse dell’occidente contemporaneo che “conosce il tema della fine al
di fuori di qualsiasi ordine religioso di salvezza, e cioè come disperata
catastrofe del mondano, del domestico, dell’appaesato, del significante e
dell’operabile” (De Martino, 2002:470). Il doppio piano della crisi
psicopatologica individuale e della crisi esperita dalla società nel suo
insieme è colta da Consolo in Nottetempo attraverso il dispiegamento di una
fantasmagoria di personaggi reali e fittizi e attraverso l’ambientazione
storica. Il contesto storico nel quale tali personaggi operano (i primordi del
Fascismo), infatti, è rappresentato e
interpretato secondo i modi di una apocalisse storica che rischia di essere
“nuda crisi”, catastrofe senza rinnovamento. Essa, inoltre, fa eco e diventa
metafora per il presente: l’inizio del Ventennio fascista, infatti, diventa
anche il mezzo per parlare dell’inizio della Seconda Repubblica1 – l’anno
di
*
1 Lo stesso autore, chiarendo come il passato
sia una metafora per il presente, evidenzia il carattere “apocalittico” di tale
passato e tale presente: “Dopo il Sorriso, ho continuato a scrivere romanzi
storici […]. L’ultimo, Nottetempo, casa per casa, è ambientato negli anni
**
pubblicazione del libro si colloca proprio nel passaggio tra la fine di un mondo e l’inizio di una nuova era per la società italiana, nonché pare profeticamente avvertire la crisi culturale che sarà presto inaugurata dall’ascesa di Berlusconi al potere. Come De Martino, Consolo avverte nel presente il senso di una fine che non prevede un nuovo inizio, mentre individua nel passato eventi apocalittici che hanno segnato un rinnovamento: ne è esempio concreto la rinascita della Val di Noto attraverso il barocco dopo il terremoto del 16932. Con Nottetempo siamo, dunque, nella Cefalù dei primi anni Venti e un uomo corre forsennatamente nella notte, in preda al “male catubbo”, una forma di depressione in cui l’interpretazione popolare riconosce il licantropismo 3, o “male di luna”, come aveva già mirabilmente descritto Pirandello in una sua omonima novella. Veniamo in seguito a sapere che egli è il padre di una famiglia tormentata dal male interiore, per cui il licantropismo cui è soggetto non può essere spiegato solamente con una diagnosi scientifica, ma ha ragioni ben più profonde. La moglie (“troppo presto assente”) è morta e le due figlie sono affette da problemi psicologici: l’una, Lucia (“che sola e orgogliosa se n’andava per altra strada”), è mentalmente instabile e verrà rinchiusa in una clinica, l’altra, Serafina (“torbida, di pietra”, 106), vive in uno stato catatonico. Petro, il figlio eventi,
, che mi sembrano terribilmente somiglianti a questi che
stiamo vivendo, anni di crisi ideologica e politica, di neo-metafisiche, di
chiusure particolaristiche, di scontri etnici, di teocrazie, integralismi […]
Il Sorriso e Nottetempo formano un dittico. […] Nel primo ho voluto insomma
raccontare la nascita di un’utopia politica, della speranza di un nuovo assetto
sociale; nel secondo, il crollo di quella speranza, la follia degli uomini e la
follia della storia, il dolore e la fuga” (Consolo, 1993:47-48). 2 Nel capitoletto La rinascita del Val di Noto
compreso in Di qua del faro, Consolo descrive il terremoto che distrusse la Sicilia
orientale alla fine del ’600 proprio usando il termine “apocalisse” e
riconoscendo nell’arte barocca un valore escatologico: “E però il Barocco non è
stato solamente il frutto di una coincidenza storica. Quello stile fantasioso e
affollato, tortuoso e abbondante è, nella Sicilia dei continui terremoti della
natura, degli infiniti rivolgimenti storici, del rischio quotidiano della
perdita d’identità, come un’esigenza dell’anima contro lo smarrimento della
solitudine, dell’indistinto, del deserto, contro la vertigine del nulla”
(Consolo, 2001a:99). 3 Spiega Consolo:
“Il padre si ammala di depressione, che nel mondo contadino arcaico viene
chiamata licantropia. Questo fenomeno è stato studiato dalla principessa di
Lampedusa, che era una psicanalista che ha associato la licantropia alla depressione:
nel mondo rurale questi poveretti che soffrivano terribilmente, uscivano fuori
di casa, magari urlavano e venivano scambiati per lupi mannari” (Consolo,
2001b). protagonista del romanzo, è affetto dalla malinconia, da una tristezza
le cui origini egli stesso rintraccia in un tempo primordiale, un tempo perso
nel tempo, di cui il nome della famiglia, Marano4, ne è spia: “‘Da quale
offesa, sacrilegio viene questa sentenza atroce, questa malasorte?’ si chiedeva
Petro. Forse, pensava, da una colpa antica, immemorabile. Da quel cognome suo
forse di rinnegato, di marrano di Spagna o di Sicilia, che significava eredità
di ànsime, malinconie, rimorsi dentro nelle vene” (42). E più oltre riflette
ancora che quel dolore sembra essere sorto “da qualcosa che aveva preceduto la
sua, la nascita degli altri” (106). La famiglia del protagonista e Petro stesso
rappresentano così un articolato inventario dell’apocalisse psicopatologica:
ognuno, chiuso nella propria incomunicabile individualità, esperisce solitariamente
il “delirio di fine del mondo”, cioè la perdita della “normalità” del mondo e
della possibilità dell’intersoggettività
dei valori che lo rendono un mondo possibile e umano. Del male che affligge la famiglia, tuttavia,
si intravede anche una motivazione più contingente e precisa in quel
cambiamento di status, peraltro non giustificato dalle convenzioni sociali, che
verghianamente aleggia sulla famiglia come una rovina: il padre ha ricevuto
infatti l’eredità di un signore locale che ha preferito beneficiare la famiglia
Marano piuttosto che suo nipote, il barone Don Nenè, legittimo erede. La
menzione di questo avanzamento sociale, all’origine anche dell’inimicizia fra
Petro e Don Nenè, viene lasciata cadere qua e là nel romanzo come fosse la
colpa da cui discende tutto il male che gravita sulla famiglia. La ragione
dell’impossibilità del matrimonio fra Lucia e Janu è quella verghiana5 che
impedisce
*
4 “Ho adottato questo nome perché ha due
significati per me. Marano significa marrano, cioè è l’ebreo costretto a
rinnegare la sua religione e a cristianizzarsi, perché in Sicilia con la
cacciata degli Ebrei nel 1492 – così come in Spagna, – ci furono quelli che
andarono via ma anche quelli che rimasero e furono costretti a convertirsi. È
stata una forma di violenza. Ho dato il nome di Marano a questa famiglia con
questa memoria di violenza iniziale e poi per rendere omaggio allo scrittore
Jovine che chiama il suo personaggio principale Marano ne Le terre del
sacramento, quindi è un omaggio a una certa letteratura” (Consolo, 2001b).
5 E Verga, non a caso, costituisce
modello forte e necessario per Consolo, non solo a livello tematico in quanto
“cantore” degli umili e ultimi, ma anche a livello stilistico in quanto
sperimentatore: “La mia opzione è stata sulla scrittura espressiva che aveva
come archetipo un mio conterraneo, Giovanni Verga, che è stato il primo grande
rivoluzionario stilistico nella letteratura moderna. Da lui si passava,
attraverso altri scrittori, come Gadda e
**
inizialmente ad Alfio Mosca di prendere in moglie la Mena.
Lucia si innamorerà poi di un uomo il cui mancato ritorno dalla guerra le
procurerà la ferita fondamentale che la porterà alla pazzia; Petro riflette
allora che Janu “quell’uomo buono, schietto, avrebbe forse rasserenato la
sorella […], cambiato la sua sorte, e provò pena per lui, per Lucia, rabbia
per quell’assurdo vallone che s’era aperto fra loro due” (63). Ma su questo
motivo verghiano della condizione di classe si innesta quello della roba inteso
come voracità di accumulo sconsiderato di beni; si instaura il dubbio che la
vera causa della perdita della ragione, il dolore che porta alla
pietrificazione, possa trovarsi in quell’accumulo, in quella roba: “Petro si diceva
come sarebbe stato meglio per Serafina, per Lucia, non aver avuto nulla, essere
incerte nella roba, ma salde nella persona, nel volere, coscienti e attive”
(114). Si intravede qui, solo accennata, anche una critica al capitalismo
sfrenato e al consumismo, che è in definitiva accumulo di roba per la roba,
senza altra finalità. La condizione psicopatologica individuale, dunque, prende
forma e mette radice anche in una condizione di “malattia” più generale della
società feticizzata, che per questa ragione non è più in grado di generare
valori umani ma si accascia su se stessa senza rinnovamento e nuovo
significato. Accanto ai Marano, compare poi tutta una sfilza di personaggi che
ruotano attorno all’arrivo a Cefalù di un individuo alquanto eccentrico e realmente
esistito, il satanista inglese Alastair Crowley, il quale si insedia in una
villa poco fuori paese e lì celebra i propri riti coinvolgendo diverse persone.
Le proteste contadine e le azioni degli squadristi fascisti, infine, connotano
il clima storico e sociale all’interno del quale le vicende si muovono.
Pasolini” (Consolo,
2001b). Lo stesso concetto è ribadito qualche anno dopo in un’altra intervista:
“in generale mi sono sempre mosso nel solco gaddiano (solco tracciato per
primo, nella letteratura italiana moderna, da Verga)” (Ciccarelli, 2006:96). Si
veda anche il commento di Ferroni: “Il suo espressionismo tutto siciliano parte
da Verga, dal serrato confronto con lo scrittore verista con il parlato e con
la tradizione letteraria, e giunge come a rendere più densa e aggrovigliata la
miscela verghiana” (Adamo, 2007:7). Infine, si legga anche il capitolo
“Verghiana” in Di qua dal faro.
I tempi dell’apocalisse consoliana: moto e impetramento
Il senso della fine del mondo, cioè la caduta o perdita di
questo mondo possibile, si manifesta nel romanzo attraverso due movimenti tra
loro opposti che si estremizzano senza armonia: da una parte un moto vano e
dall’altra una stasi pietrificata. De Martino individua in questi due poli due
segni uguali e contrari della fine del mondo:
Il mondo che diventa “immobile”, il divenire che perde la
sua “fluidità”, la vita che si devalorizza costituiscono un momento vissuto
dell’ethos del trascendimento che muta di segno: l’altro momento è l’universo
in tensione, la onniallusività dei vari ambiti in cerca di semanticità, la
forza che travaglia questi ambiti e li sospinge ad andare oltre i loro limiti
in modo irrelato, e che li fa partecipare caoticamente a tutto il reale e a
tutto il possibile, senza sosta e senza offrire mai un appiglio operativo
efficace. La polarità di immobilità e tensione, di rigidezza e forza
onniallusiva, di crollo degli appigli operativi e di irrelata scarica
psicomotoria, porta il segno dell’alterità radicale e dell’essere-agito-da,
cioè il segno dell’alienazione nel senso patologico del termine: in tutti i
vissuti cui dà luogo, si manifesta infatti il diventar altro proprio di ciò che
sta alla radice dell’io e del mondo, l’annientarsi dell’energia valorizzante
delle presenza, il non poter emergere come presenza al mondo e l’esperire la
catastrofica demondanizzazione del mondo, il suo “finire”. (De Martino,
2002:631)
Tutti i personaggi di Nottetempo sono tesi ora verso un polo
ora verso l’altro, manifestando e vivendo in maniera diversa il disagio della
catastrofe imminente. Il movimento cui si abbandonano alcuni personaggi, tra
cui in primo luogo il satanista inglese – e che a livello sociale richiama
anche l’imperativo all’azione degli squadristi fascisti – diventa un’agitarsi
vano e inconcludente, un muoversi legato al caos e irrelato al mondo degli
oggetti, dunque privo di significato e incapace di crearne. Questo agitarsi
vano è anche un modo per nascondere e non dover fermarsi a fissare il dolore
che permea l’esistenza umana; infatti, fissare questo dolore può portare alla
pietrificazione, alla stasi completa, se non si riesce ad elaborare tale
sofferenza in maniera produttiva. Osservare questa profonda realtà in un
momento in cui l’individuo o la società nella sua interezza non riescono a
creare valore e significato per tale sofferenza può essere tanto rischioso
quanto guardare negli occhi la Gorgone: è un atto che conduce alla
pietrificazione, la stasi, che racchiude in sé tutto ciò che è mancante di
movimento, ma anche assenza di parola, impossibilità del dire, del
rappresentare e del comunicare. A questa condizione dell’esistenza umana
corrisponde in Consolo quella narrativa, sospesa tra il rischio di dire troppo
dicendo nulla – il vuoto della retorica6 – e la pagina bianca, il non scrivere
e il non dire. Nei poli dell’apocalisse
consoliana possiamo riconoscere una degenerazione dei due impulsi che concorrono
a formare la tragedia greca così come è descritta dal filosofo tedesco
Friedrich Nietzsche in La nascita della tragedia greca: il dionisiaco e
l’apollineo. Il dionisiaco, che dà origine al coro della tragedia, è l’ebbrezza
estatica in cui grazie all’annullamento della soggettività l’uomo può entrare
in contatto con l’“unità originaria” del tutto e riconciliarsi con la natura; è
movimento, danza, musica, scatenamento degli istinti e delle pulsioni vitali.
L’apollineo, invece, è contemplazione, sogno, creazione di immagini,
rappresentazione; nella tragedia è l’“oggettivazione dello stato dionisiaco”
(Nietzsche, 2003:122) del coro, dunque la scena, il dramma. Nell’apollineo si
intravede la qualità statica della contemplazione, di immagini nelle quali si
riduce l’azione; una staticità che Nietzsche definisce come “silenziosa
bonaccia della contemplazione apollinea” (Nietzsche, 2003:103). L’interazione e
l’equilibrio tra l’apollineo e il dionisiaco è ciò che dona forma alla tragedia
greca; Consolo, tuttavia, vede nella modernità la perdita di questo equilibrio
e la perdita della forza creatrice dei due impulsi nietzschiani: il dionisiaco
diventa disumanità, movimento falso, scatenamento di istinti bestiali che
invece di connettere l’uomo con una supposta unità originaria, lo
*
6 “La rottura del rapporto tra intellettuale e
società ha lasciato un vuoto di cui si è impadronita una comunicazione che è
sempre impostura; è la voce del più forte, la verità falsata del potere”
(Consolo in Papa, 2003:193).
**
disconnette dall’umano, dalla comunità e non lo lega né alla
dimensione del divino, né alla dimensione di una realtà o verità profonda; e
l’apollineo è pura stasi, è l’essere intrappolati nella contemplazione di
immagini di dolore. Questi due impulsi generano in Consolo un presente
caratterizzato da una tragedia degenerata, priva di catarsi, priva di
conclusione; egli stesso lo spiega a commento della propria opera: “l’anghelos,
il narratore, non appare più sulla scena poiché ormai la cavea è vuota,
deserta. Sulla scena è rimasto solo il coro, il poeta, che in tono alto,
lirico, in una lingua non più comunicabile, commenta e lamenta la tragedia
senza soluzione, la colpa, il dolore senza catarsi” (Consolo 1996:258). In un’opera successiva, L’olivo e l’olivastro
(1994), lo scrittore individuerà nella metafora dell’“olivo”, l’albero
innestato, l’albero che nasce dalla cultura e dalla civiltà, e
dell’“olivastro”, l’albero selvatico, un’altra metafora per esprimere il senso
di perdita dell’armonia di due opposti impulsi che, come l’apollineo e il
dionisiaco, dovrebbero formare il senso e il valore della civiltà, di un mondo
umanamente abitabile: “spuntano da uno stesso tronco questi due simboli del
selvatico e del coltivato, del bestiale e dell’umano, spuntano come presagio di
una biforcazione di sentiero o di destino, della perdita di sé,
dell’annientamento dentro la natura e della salvezza in seno a un consorzio
civile, una cultura” (Consolo, 2012a:13-14). Essi “non si combattono: al
contrario, si completano. Essi si uniscono in lui [in Ulisse] armoniosamente
come il ceppo materno e il ceppo paterno” (Consolo, 1999:25). Ma il dramma
della modernità, ciò che porta la civiltà occidentale a vivere la propria
apocalisse, è il sopravvento dell’olivastro sull’olivo: “Ecco, nell’odissea
moderna è avvenuta la separazione tra il selvatico e il coltivato. L’olivastro
ha invaso il campo” (Consolo, 1999:25). Come l’apollineo e il dionisiaco hanno
perso la loro forma rendendo la tragedia moderna priva di catarsi, così l’olivo
e l’olivastro non coesistono più armonicamente nel tronco della civiltà
portando questa verso il suo tramonto.
Primo tempo: il movimento artificioso
In Nottetempo, come già accennato, il polo del movimento è
rappresentato in primo luogo dall’inglese satanista e reso con particolare
efficacia in un capitolo, La Grande Bestia 666, che reca significativamente in
esergo una citazione dall’apocalisse di Giovanni. Aleister Crowley inscena un
allucinante e allucinato rito orgiastico che dovrebbe in qualche modo rifarsi
all’Arcadia greca, riproporne i miti, riconnettersi con un mondo antico e
aureo, ma che nella realtà non è che una degradata imitazione di forme vuote e,
soprattutto, una degradata riproduzione di un rito dionisiaco in cui l’ebrezza,
la musica, la danza dovrebbero portare alla visione estatica. Il capitolo
principia, infatti, con la descrizione di un ballo, che ci immette subito nella
sfera del movimento senza arresto, nonché nel regno dionisiaco. È Aleister,
immedesimato in una ballerina, a compiere prodezze sostenuto “nella felice
trascendenza dai vapori d’oppio, d’etere, di hashish, di cocaina” (85). Il
ritmo diventa sempre più incalzante, i lunghi elenchi che riempiono la pagina
riproducono il “suono della vibrante cetra, dei cembali tinnanti,
dell’acciarino acuto, del timpano profondo” (83) con cui si apre il capitolo;
si veda, a titolo di esempio, questa lista di nomi che connotano l’essenza
fittizia di Aleister, senza sosta, in un ritmo incalzante che toglie il fiato
alla lettura: In lui c’era stato il tebano Ankh-f-n-Khonsu, Ko Hsuan discepolo
di Lao-Tze, Alessandro VI Borgia, Cagliostoro, un giovane morto impiccato, il
mago nero Heinrich Van Dorn, Padre Ivan il bibliotecario, un ermafrodita
deforme, il medium dalle orecchie mozze Edward Kelley, il dottor John Dee,
l’evocatore d’Apollonio di Tyana, il gran cabalista Eliphas Levi, in lui, il
gentiluomo di Cambridge, Aleister MacGregor, Laird di Boleskine, principe Chioa
Khan, conte Vladimir Svareff, Sir Alastor de Kerval, in lui, la Grande Bestia
Selvaggia, To Mega Thérion 666, Il Vagabondo della Desolazione, Aleister
Crowley (dàttilo e trochèo). (84)
È un elenco dal ritmo vorticoso, che confonde in una sorta
di ubriacatura di parole: Consolo rende in tal modo, con un linguaggio che si
fa nietzscheanamente metafora del suono7, il senso di un vano agitarsi. Questo
moto, sostenuto dall’uso delle droghe, si connota come anormale e nella
collezione di identità in cui di volta in volta Aleister Crowley si identifica
possiamo vedere un sintomo di schizofrenia e psicopatologia connessa a uno
stato epilettico, analizzando il quale De Martino individua il principio del
moto distorto come una delle sue caratteristiche: “in tutto sta in primo piano
l’elemento del moto: l’alterazione del movimento, la perdita dell’equilibrio,
lo scuotimento della sicurezza e della tranquillità nel mondo delle cose,
conducono alla conclusione: il mondo crolla, sprofonda” (De Martino 2002:38). Ma quando Janu, “this sicilian caprone” (80)
– il satiro – rifiuta di prendere parte al rito, di consumare l’orgia, e
scappa, il movimento vorticoso si arresta; il cielo di carta pirandellianamente
si squarcia e la messa in scena rivela il proprio carattere fittizio, scoprendo
per un attimo la falsità della vita stessa che il rito attraverso il vortice
del ballo cercava di occultare: “Declamò ancora più forte la danzatrice in
terra. Restò immobile. Attese. S’era interrotta ogni musica, ogni nota, sospeso
ogni sussurro, fiato, il silenzio freddo era calato nella sala” (88). È
l’assenza di movimento e di parola a rivelare la realtà, a svelarla:
Sentì ch’era sopraggiunto quel momento, quell’attimo
tremendo in cui cadeva dal mondo ogni velario, illusione, inganno, si
frantumava ogni finzione, fantasia, s’inceneriva ogni estro, entusiasmo,
desiderio, la realtà si rivelava nuda, in tutta l’insopportabile evidenza, cava
si faceva la testa, arido il cuore. […] Guardava il mondo in quello stato, si
guardava intorno, e ogni cosa gli appariva squallida, perduta. (89)
7 Il linguaggio, secondo il filosofo tedesco,
nasce da un impulso nervoso che si trasferisce in immagine e poi in suono. Il
linguaggio della poesia del canto popolare è quello che meglio di qualunque
altro riesce “nella imitazione della musica” (Nietzsche, 2003:101).
È il momento drammatico della rivelazione. Il rischio è la
stasi, ma Aleister la scongiura chiedendo che gli venga data altra droga per
ridiscendere nella condizione di trance e ricreare un mondo fittizio. Il
capitolo, tuttavia, si chiude bruscamente con un altro svelamento, un altro
squarcio che irrompe in questa realtà: l’annuncio che l’infante, il figlio di
Aleister, è morto. Segue “tutto un trambusto, un irrompere all’aperto, un
correre nella notte” (99), ma ovviamente invano, perché la stasi suprema, la
morte, si è già impossessata della piccola Poupée. Nella scomparsa dell’infante è da leggersi,
metaforicamente, la morte di ogni speranza e del futuro. È anche presagio della
futura “apocalisse” che si abbatterà un ventennio dopo su tutta l’Europa nella
forma della Seconda Guerra Mondiale causata dai fascismi. Aleister, infatti,
rappresenta anche l’irrazionalità e la bestialità del fascismo, se è vero che
intorno a lui si convogliano personaggi simpatizzanti e legati al fascismo,
come il barone Nenè e la sua cricca, e che lo stesso inglese viene nominato
come Superuomo, “colui che aveva varcato ogni confine, violato ogni legge, che
aveva osato l’inosabile, lui, la Grande Bestia dell’Apocalisse” (90). Ed egli,
nel tentativo di ricreare un mondo antico attraverso una messa in scena
irrazionale, si fa simulacro del progetto di Mussolini e del Duce stesso, di
colui che ha “varcato ogni confine” umano, reale e metaforico. Per Consolo
apocalisse è anche questa: l’andar oltre il limite, il troppo, il movimento che
travalica il confine, come l’ultimo viaggio dell’Ulisse dantesco oltre le
colonne d’Ercole. In molti, infatti, hanno riconosciuto nei personaggi dello
scrittore siciliano dei moderni Ulisse condannati a una continua peregrinazione
dove non esiste l’Itaca a cui tornare8 – tema d’altronde, quello della perdita
di Itaca, comune a molta letteratura moderna italiana, per cui il ritorno è
sempre impossibile, a iniziare dal ‘Ntoni verghiano. E proprio i personaggi del
romanzo di Aci Trezza sono descritti da Consolo in
8 Si veda su tutti l’articolo di Massimo
Lollini “La testimonianza di Vincenzo Consolo, moderno Odisseo.” Italica 82.1
(Spring 2005), in cui l’autore analizza le varie figure ulissiache di Consolo,
tra cui il personaggio inglese Alastair, il barone Nenè e Petro di Nottetempo.
Lollini arriva a far coincidere la figura di Ulisse con quella di Consolo
stesso, testimone dello spaesamento e del peregrinamento dell’uomo moderno,
descritto “in toni che a tratti si fanno apocalittici” (38), soprattutto quando
lo sguardo cade sulle odierne devastazioni che occorrono lungo il Mediterraneo.
L’olivo e l’olivastro come in continua preda di un
movimento, una frenesia che ha esplicitamente i caratteri dell’apocalisse: “[il
popolo di formiche] visse in quell’apocalisse del movimento rapido, nella
vitalità guizzante, nella ferocia del possesso, nel tetro accumulo, nel tumore
divorante” (Consolo, 2012a:40). L’Ulisse consoliano è privo di connotazioni
romantiche ed eroiche, divenendo anzi spesso simbolo non solo dello spaesamento
dell’uomo moderno ma anche della sua folle ricerca di un superamento dell’umano
e dei suoi limiti contingenti: “Il soggetto etico di cui i romanzi di Consolo
si fanno portavoce […] insiste sull’importanza di una riflessione sui limiti
stessi della scrittura, che poi sono i limiti della civiltà, del tentativo di
apprezzare e definire i contorni di una cultura della finitudine umana”
(Lollini, 2005:34). Il movimento e il
dionisiaco degenerato si connotano, perciò, in termini distruttivi e
apocalittici quando significano tentativo di superamento dell’umano, che è
anche sempre violenza disumana, bestiale. Il varcare le colonne d’Ercole si
pone dunque per Consolo entro una dimensione etica che non riguarda più
solamente l’individuo e il suo singolare confronto con la divinità, con
l’oltre, ma riguarda l’individuo in quanto parte di una comunità9: questo
Ulisse moderno senza possibilità di ritorno non è un eroe solitario in lotta
contro forze superiori, ma è uomo le cui scelte e le cui azioni sono e si
iscrivono sempre entro una dimensione etica che riguarda tutta la comunità
circostante. In questo vediamo delinearsi la responsabilità del satanista
inglese Alaister che non può essere circoscritta geograficamente e
temporalmente all’interno di ciò che avviene nella villa a Santa Barbara, la
villa appartata che egli sceglie come dimora. Alaister diventa emblema e
portavoce di un modello di ricerca che sfocia nel disumano e che ha come
vittima il più piccolo, nonché futuro, della comunità. La vittima, tuttavia,
non è prevista dal rito e perciò non è sacrificale; essa, rimanendo legati al significato
etimologico del termine, non entra nel regno del sacro e non si connette con
una spiritualità superiore, ma rimane ancorata al senso profano, alla
materialità terrena, non assume nessun valore superiore.
9 Così, d’altra parte, lo intende anche Dante,
collocando Ulisse nell’inferno non già perché ha sfidato gli dei, quanto
piuttosto perché si è allontanato dalla comunità degli uomini, trascinando alla
rovina anche i suoi compagni.
Diventa una morte disumana, legata al superamento del
limite, e non una morte sacra, una morte che può trascendere nel significato.
Secondo tempo: l’incedere umano
È, dunque, attraverso il recupero del senso dell’umano che
il movimento può ritrovare il suo giusto ritmo, la sua misura, e non eccedere
verso il limite dell’apocalittico, che è superamento dell’umano. Un passo del
capitolo successivo a La Grande Bestia 666 collega le tematiche del movimento
apocalittico e della stasi con la ricerca di una dimensione umana che possa
scongiurare i due estremi. La riflessione avviene in occasione dell’incontro
tra Petro e Janu, che per tanti mesi era scomparso e ora appare cambiato:
Pensò Petro a come si può cangiare in poco tempo, al tempo
che scorre, precipita e niente lascia uguale. Che solo la disgrazia, la pena
grave blocca il movimento, il cuore la memoria, come una bufera immota, un
terremoto fermo, una paura assidua che rode, dissecca, spegne volere gioia. E
sbianca e invecchia, mentre che dentro la ferita è aperta, ferma a quel
momento, nella sfasatura, nella disarmonia mostruosa. Una suprema forza
misericordia immensa potrebbe forse sciogliere lo scempio, far procedere il
tempo umanamente. (105, corsivo mio)
Petro, dunque, minacciato costantemente come i suoi
familiari dal pericolo dell’arresto del tempo, dell’immobilità, scorge dentro
sé una via diversa da quella del satanista inglese o del fascismo: movimento
sì, movimento che significa vita, ma che “proceda umanamente”. Appare evidente
il contrasto con il movimento vorticoso, ossessivo, ritmico e in definitiva
artificiale che ha animato il rito delle pagine precedenti. Solo nel tempo
umano c’è la possibilità di salvarsi dall’apocalisse. È questo il tempo della
memoria, il tempo che può essere articolato dalla coscienza umana, il tempo
entro cui può risiedere l’umano. È perciò anche progetto di scavo, archeologia del tempo, del passato da
cui recuperare frantumi, frammenti di umanità, come nota Bouchard: “Consolo
allows the ruins of the past to haunt the surface of his narratives with the
intent of making current the wounds and the lacerations of history. Since these
are wounds and lacerations that can no longer be abreacted by a successful work
of mourning, they give rise to an interminable writing of melancholy that
displaces the ontological certainty of our reality while pointing towards a
better future that can only be built out of the memory traces of the past”
(Bouchard, 2005:17).
Terzo tempo: “il male di pietra”
Il tempo che scorre umanamente è costantemente minacciato
dall’altra possibilità: dall’arresto. È questa la metafora più efficace e
pregnante in Consolo, poiché è il rischio che egli stesso in quanto scrittore –
e in quanto uomo – corre, è il pericolo che costantemente gravita sulla sua
scrittura e che ritorna quasi ossessivamente da una pagina all’altra: è il
pericolo che incombe su chi acquista la consapevolezza della realtà, chi sente
la sofferenza declinata sia come male di vivere dell’uomo sia nella sua
contingenza come male dell’epoca contemporanea. Consolo, rifiutando l’uso di un
linguaggio comune troppo abusato e vuoto, cioè la parola che danza ma non dice,
cede inevitabilmente il passo alla pietrificazione, alla stasi della parola. Ed
è dunque su questo punto che si arrovella, è questo il cruccio della sua
scrittura nonché quasi il paradosso dell’urgenza del dire in un mondo dove non
è più possibile dire. È questa la degenerazione apollinea di una
rappresentazione, qui propriamente intesa come drama, che si pietrifica in
un’unica immagine di sofferenza. Ben giustamente Arqués cita Calvino e il suo
saggio sulla leggerezza a proposito di Consolo, ma lo fa per stabilire un
parallelo tra la narrazione storica dello scrittore siciliano e Perseo, o,
meglio, tra la realtà presente e la Gorgone, che non può essere guardata negli
occhi, pena la pietrificazione. La metafora, tuttavia, acquista maggior
pertinenza se nella figura della Gorgone non proiettiamo semplicemente il
presente, ma il dolore, la realtà profonda che soggiace a ogni esistenza, quel
male di vivere che non può essere nominato se non con una descrizione e che a
seconda di chi parla e del momento può assumere forme diverse, ma che è anche
sostrato universale che accomuna l’uomo di tutte le epoche e i luoghi. È quel
senso di verità e dolore che, appunto, se viene fissato direttamente, scoperto
e guardato nella sua cruda interezza pietrifica, proprio come il mostro
mitologico. Calvino userà allora la leggerezza come specchio per guardare
quella pesantezza dell’esistere; Consolo, invece, sa che anche il linguaggio è
costantemente minacciato dal vano agitarsi di parole e perciò sente di non
poter più praticare una lingua troppo tarata da forme vuote; correrà perciò
sempre il rischio, come i suoi personaggi, di pietrificarsi fissando la medusa.
In Nottetempo il personaggio cui è assegnata la sfida di trovare la giusta
misura, il tempo umano, è Petro, che nel nome porta chiaramente il significato
di quel cadere nella contemplazione del male d’esistere. Il primo capitolo, nel
quale si svolge l’inseguimento notturno di Petro nei confronti del padre
affetto dal “male catubbo”, stabilisce il campo semantico entro cui ci dobbiamo
confrontare: il licantropismo, fenomeno dell’uomo tramutato in lupo, ci pone
nel regno delle metamorfosi. Qui il riferimento classico è ovviamente Ovidio10,
di cui la studiosa Galvagno riconosce una caratteristica fondamentale: “La
métamorphose ovidienne, soit humaine, animale, végétale, liquide ou minérale (y
compris les catastérismes), présuppose comme son moyau le plus intime une
pétrification, une immebolité, une fixité de l’être métamorphosé” (Galvagno,
2007:179). Ora tale tratto della pietrificazione dell’essere sarebbe presente,
secondo la studiosa, nella scrittura di Consolo – e abbiamo già citato, non
casualmente, il mito di Perseo. Tutto in
Nottetempo sembra essere sull’orlo della pietrificazione: personaggi, azioni,
eventi, il tempo, la scrittura. Pietrificazione
10 Esistono differenti possibilità di
interpretazione e stratificazioni di significato nella figura dell’uomo
trasformato in lupo, nonché naturalmente differenti storie e tradizioni e
appropriazioni di tali tradizioni da parte della letteratura, ma vale forse qui la pena ricordare il
racconto che fa Ovidio di Licàone, trasformato in lupo da Giove perché
progettava di uccidere il dio. Giove
racconta: “[…] io con fuoco vendicatore faccio crollare quella casa
indegna del suo padrone. Lui fugge, atterrito, e raggiunti i silenzi della
campagna si mette a ululare: invano si sforza di emettere parole” (Ovidio,
1994:15). E dopo Giove invocherà l’apocalisse: la distruzione del genere umano,
perché indegno, corrotto e criminale. Si legga, per confronto, il passo di
Consolo: “Si spalancò la porta d’una casa e un ululare profondo, come di dolore
crudo e senza scampo, il dolore del tempo, squarciò il silenzio di tutta la
campagna” (6). E subito dopo l’episodio del lupo mannaro, comparirà sulla scena
il satanista Aleister. richiama sia la stasi, l’assenza di movimento, di
parola, sia il senso del peso, come aveva rilevato Calvino: la pesantezza
dell’essere. E infatti chi si pietrifica è chi fissa, immobile, e contempla
tale pesantezza, diventando egli stesso o ella stessa di pietra, avvertendo su
di sé tutta la pesantezza del male e sprofondando nel silenzio. Il silenzio e
l’impossibilità dell’esprimersi si associano all’assenza di movimento, alla
pietrificazione, divenendo l’uno spia dell’altro. Fanno da contraltare le urla
disumane, suoni che spesso non si articolano in parole intellegibili (come gli
ululati del lupo mannaro) e che esprimono al pari del silenzio il dolore umano;
molte volte l’urlo e il silenzio si ritrovano insieme come due espressioni
dello stesso concetto di sofferenza. Molti sono gli esempi sparsi nel testo che
esprimono il senso della stasi e/o del silenzio; si leggano questi: “il confine
del dolore fermo, del vuoto immoto” (9), “ma là era silenzio e stasi, era
riposo” (9), “Guardava il silenzio sulle case, ad ogni strada, piano, baglio,
il silenzio al meriggio” (13), “nella sublime assenza, nella carenza di
ragione” (37), “‘Uuuhhh…’ ululò prostrato a terra ‘uuhh… uhm… um…
mmm… mmm… mmm…’” (38, e questa volta è Petro che emette suoni
incomprensibili), “nell’attasso del cuore, canto del pendolo bloccato” (42),
“nella segreta sua torre d’urla, di lamento” (51), “Siamo un ribollìo celato
d’emozioni, un rattenuto pianto” (66), “E tu, e noi chi siamo? Figure
emergenti, palpiti, graffi indecifrati. Parola, sussurro, accenno, passo nel
silenzio” (67), “la pena grave blocca il movimento” (103), “Serafina torbida,
di pietra” (106), “la pietra del dolore” (135). Sono tutte espressioni di
sofferenza e legate alla consapevolezza della sofferenza, alla sua contemplazione
che sottrae l’azione e la parola. Già nel Sorriso dell’ignoto marinaio (1976)
era presente l’idea della pietrificazione come espressione del male, essa però
era legata a una contingenza – i cavatori di pomice – che diventava metafora per una sofferenza
più generale, quella degli ultimi: “‘Male di pietra’ continuò il marinaio ‘È un
cavatore di pomice di Lipari. Ce ne sono a centinaia come lui in quell’isola.
Non arrivano neanche ai quarant’anni’” (Consolo, 2010:8). Ma successivamente in
L’olivo e l’olivastro la metafora “male di pietra” si approfondisce e diventa
l’ossessione costante con cui dire la sofferenza umana. Nelle pagine iniziali
ritornano i cavatori come a stabilire quel paragone, fondare quella metafora
della pietra che poi diventa il nucleo lessicale fondamentale per esprimere il
dolore: “[…] entrò nelle caverne della pomice, parlò con i cavatori
silicotici […] Erano secchi e grigi i cavatori, avevano denti corrosi dalla
polvere, prendevano anelettici, cardiotonici: cresceva dentro loro poco a poco
una corazza di pietra, il cuore s’ingrossava, si smorzava il fiato, si
spegneva” (Consolo, 2012a:26-27). E qui in questo testo allora abbondano non
tanto – o non solo – espressioni diverse che indicano l’impossibilità del dire
e del fare, quanto piuttosto in maniera più specifica lemmi legati alla radice
“pietra”: “Che arrestò al suo accadere, pietrificò illusioni, speranze, rese di
lava la vita” (34), “un vecchio poeta afasico, irrigidito nel giovanile errore,
pietrificato nella follia ribelle” (36), “Una barca di pietra, la pietra in cui
si mutò la barca feacica che aveva portato in patria l’eroe punito, l’eroe
assolto dopo il lungo racconto–che in pietra si muti la barca, si saldi al
fondale prima d’ogni ritorno, poiché nel ritorno, così nel racconto, consiste
lo strazio” (39), “si pietrifica per il dolore, perde vigore e ragione” (41),
“la Catania pietrosa e inospitale” (52), “la ferma maschera, quasi impietrita
del nobile vegliardo” (59), “la loro tragedia s’è svolta in un attimo lasciando
impietriti” (125). La pietrificazione è legata all’esperienza personale, alla
scrittura, ma anche alla società. In un articolo pubblicato sul Corriere della
Sera nel 1977, Paesaggio metafisico di una folla pietrificata, e che O’Connell
riconosce come uno degli avantesti di Nottetempo per quell’incipit del tutto
simile, Consolo attribuisce alla Sicilia, che sta sempre in rapporto
sineddotico con la società, quell’impulso alla pietrificazione come forma
generale e risposta alla consapevolezza del male: “c’è una depressione più
inclemente e disumana di questa, ed è quella che non arriva all’estremo
livello, ma si ferma al di qua, a un passo dall’insopportabilità. È lo stadio
che blocca la vita, la congela, la pietrifica” (Consolo 1977:1). E la Sicilia
sembra, per lo scrittore, bloccata “in questo limbo, in questa metafisica
paralisi”, unica reazione con cui ha controbattuto il movimento artificiale,
del quale ne diviene simbolo l’autostrada, “moderno feticcio dell’accelerazione
spasmodica”. E pure qui la contrapposizione si ritrova anche sul piano della
comunicazione, poiché in questa Sicilia “sequestrata e pietrificata” chi ha
cercato “di fare e di dire”, cioè di cambiare la situazione, è stato costretto
al silenzio e sulla lunga tradizione letteraria isolana, da Verga a Sciascia,
ora domina “la parola vuota, l’inutile incanto, la retorica” (Consolo, 1977:1).
In questo precedente di Nottetempo c’è dunque l’esplicitazione di come la
metafora dell’impetramento e del movimento, del silenzio e della “vuota parola”,
che permea il romanzo sia da leggersi anche sempre come condizione sociale
oltreché intellettuale ed esistenziale. Queste considerazioni ci riportano a De
Martino e all’associazione tra l’apocalisse psicopatologica e quella culturale.
Se gli stati epilettici e la schizofrenia sono caratterizzati da un senso di
moto che in ultima analisi veicola il senso della fine del mondo, lo stato
catatonico è l’insania che al contrario si lega all’assenza di movimento e
diventa negazione del tempo e della storia, cioè ancora del mondo: “Tutte le
cose sono diventate immobili, in uno stato senza tempo. Il corpo risponde a
questo mondo non muovendosi più: il catatonico sta fermo e dritto come una
statua in un museo di curiosità, mentre per noi, non catatonici, il mondo parla
così chiaramente di movimento, è così visibilmente in “moto”, che possiamo
rispondere al suo appello solo con i movimenti del nostro corpo” (De Martino,
2002:57). Se per il non catatonico il mondo può procedere secondo un tempo che
è umano, il catatonico bloccandosi come una statua rifiuta tale tempo e porta
il mondo al suo precipitare. In Petro e nella famiglia Marano l’arresto e la
catatonia concretizzano la metafora di “folla pietrificata” in una società
sull’orlo dell’apocalisse.
La torre dell’urlo e del silenzio
Le sorelle di Petro, come abbiamo già accennato, sono chiuse
e sprofondate nell’impetramento dell’anima e del corpo. Serafina, col nome
programmatico di chi non appartiene a questo mondo e di chi ha una pace che non
è terrestre, è immobile in uno stato quasi catatonico, persa in vagheggiamenti
religiosi che non hanno più alcun referente nel contingente: “E Serafina,
ch’aveva preso prima il ruolo della madre e poi s’era seduta, fatta muta ogni
giorno, immobile, di pietra, dentro nella scranna, il solo movimento delle dita
che sgranano il rosario di poste innumerevoli, di meccaniche preghiere senza
sosta” (42). Serafina nella storia non c’è, è personaggio serrato in questa impossibilità
di essere e di comunicare; è solamente evocata e l’unica volta che compare è
un’immagine di chiusa pazzia: “Era prona la sorella, ai piedi del comò
acconciato come altare, pieno il marmo di fiori ceri avanti a quadri,
immaginette, duplicati nello specchio. Faceva un canto mesto, come un lamento”
(158); ma naturalmente le sue parole sono inintelligibili. L’altra sorella, invece, Lucia, cade in una
pazzia che prima ancora di essere assenza e distanza è urlo innaturale, parole
sconclusionate11, perse in un passato disordinato e non recuperabile. In Lucia,
infatti, si racchiude anche il tema fondamentale del recupero del passato, ma
un recupero che fallisce, poiché il disordine dei frammenti rimane un disordine
che non è in grado di tracciare nessuna via, per quanto precaria e labile. Il
ricordo delle ferite che riemerge in lei è un ricordo che riproduce
meccanicamente il trauma ma non lo supera mai; si legga la scena fondamentale
dove, dopo l’“oltraggio” subìto dalla famiglia Marano a causa dell’antagonismo
fra Petro e Don Nenè, Lucia farnetica pezzi di frasi che riportano alla luce un
passato non attinente all’evento appena accaduto e incapaci di produrre
conoscenza, comunicazione o presa sulla realtà: “‘Ah, tana di cani corsi, di
mastini […]’ riprese a dire la sorella ‘Ah, quanto piangere di madri,
d’innocenti […] Attento, Petro, non uscire!’ […] ‘Che fa Janu, non viene?
Dobbiamo andare o no alla mandra, a mangiare la ricotta? […] Si fece tardi
ormai […] No, no, aiuto! […]’ e indietreggiò, si portò le mani alle
orecchie” (158). Lucia, in un certo
senso, è andata oltre il limite umano, ha varcato un confine oltre il quale
l’uomo non può accedere rimanendo uomo, tanto che Petro osserva parlando all’amico
Janu: “Né io né tu possiamo più raggiungerla” (68). Ella rappresenta attraverso
l’urlo e il movimento irragionevole ciò che Serafina rappresenta attraverso la
stasi e il silenzio. Lucia, al contrario della sorella, è visibile, agisce, ha
una personalità forte e inquieta, va per la campagna con il fratello Petro e
l’amico Janu, è promessa sposa; ma il giovane che ha chiesto la sua mano non
torna dalla guerra. In quel dolore Lucia si chiude, si
*
11 Ancora con De Martino possiamo leggere: “In
generale il dominio della follia diventa comprensibile come caduta dell’ethos
del trascendimento, della presentificazione valorizzante, e come costruzione di
difesa fittizia che accentuano il recedere verso l’incomunicabile, il privato,
il senza-valore-intersoggettivo” (De Martino, 2002:85).
**
pietrifica, ma esplode in urlo piuttosto che cadere nel
silenzio, esplode in suoni che non possono articolare e razionalizzare quel
dolore: “Finché un giorno, un mezzogiorno che Petro tornava dalla scuola, non
si mise a urlare disperata dal balcone, a dire che dappertutto, dietro gli
ulivi le rocce il muro la torre la sipale, c’erano uomini nascosti che volevano
rapirla, farla perdere, rovinare” (46). E poco oltre: “Lanciò improvviso un
urlo e scappò via, si mise a correre, correre per il sentiero, come presa da
frenesia, da tormenti” (47). È la fuga di Lucia oltre il limite dell’umano,
eppure anch’ella è figura statica, immobile, figura che s’impetra nel dolore e
lo fissa perdendo la capacità di vedere altro e cioè anche la capacità di
creare e vedere altre visioni apollinee: rimane una sola visione senza drama e
in essa Lucia si ferma. Così ecco che anche il suo nome acquista pregnanza, nel
momento in cui il testo ci ripete insistentemente nello stretto volgere di un
paragrafo che Lucia – che vuol dire luce ma che è anche patrona dei non vedenti
e degli oculisti – non vede più, è diventata cieca nella fissità: “La portò via
da casa […] perché si dissolvesse in lei l’idea fissa. […] Ma era come lei
non vedesse […] era come se avesse gli occhi sempre altrove, fissi dentro un
pozzo” (47) – dove quel “pozzo” sta per la profondità del dolore. Lucia è anche
figura pietrificata in quel suo guardarsi continuamente allo specchio, atto
autoriflessivo che non comunica con il mondo esterno ma ricade sulla persona
medesima; ella fissa se stessa e la sofferenza che ha guardato con i propri
occhi ora riflessi allo specchio. Atto solipsistico e chiuso, come chiusa è lei
nella propria camera: “E stava ore e ore chiusa nella stanza, avanti alla
toletta a pettinarsi, in incantesimo, il guardo trasognato, perso nel guardo
suo di fronte dentro lo specchio” (46).
La sofferenza familiare si racchiude metaforicamente nella concretezza
della “torre”, ovviamente fatta in pietra (“la sua voce roca sembrava vorticare
per le pietre della torre” 37), che assurge a simbolo di chiusura e solitudine
– torre è quel tipo di edificio caratterizzato da una dimensione in altezza
nettamente maggiore rispetto alla dimensione della base e che dunque si isola
rispetto alle costruzioni circostanti; torre per antonomasia è quella di
Babele, dove regna il caos, il disordine e la confusione, principio delle
lingue diverse che impedirono all’uomo di comunicare l’uno con l’altro12. Nella
torre dove sono chiusi i membri della famiglia Marano la comunicazione non è
possibile, le parole non assumono un significato che possa essere compreso
dagli altri, decifrato: “‘Pietà, pietà’ implorò in quella solitudine sicura,
dentro quel rifugio della torre, quel segreto oratorio d’urla, pianto, sfogo”
(38). L’urlo è il simbolo di questo dolore, sfogo inarticolato, contraltare del
silenzio: “nella segreta sua torre d’urla” (51), “E nella torre ora, dopo le
urla, il pianto”. L’urlo, come il
silenzio, è una comunicazione bloccata. Petro allora si rende conto che è
necessario recuperare le parole per uscire dalla torre. È questo un momento
fondamentale del testo, che è sia riflessione sulla sofferenza umana sia sulla
scrittura cui è affidato il compito di esprimere tale sofferenza. Nottetempo è
allora anche e “innanzitutto la storia di una vocazione alla scrittura”
(Traina, 2001:92). Il tentativo di uscire dalla torre di pietra e scongiurare
l’afasia si pone come uno dei temi centrali del testo. Attraverso questo percorso
del protagonista, si assiste anche alla lotta che lo stesso Consolo conduce per
non cadere nell’impetramento della scrittura, nell’impossibilità del dire, del
parlare, nell’apocalisse della parola.
Afasia
Nottetempo è anche romanzo autobiografico, non tanto perché
ci siano elementi biografici dello scrittore che possano essere riconosciuti
nella vicenda di Petro, quanto piuttosto perché la storia di Petro, la sua
uscita dalla torre, è anche il viaggio intellettuale dello scrittore Consolo.
Riconosciuta l’oppressione del silenzio familiare e dell’esilio dalla ragione e
dalla parola delle due sorelle, nel protagonista del romanzo nasce il desiderio
di uscire dalla torre ricomponendo un linguaggio attraverso cui poter di nuovo
comunicare una realtà, riconnettersi con essa:
*
12 “Ma il Signore scese a vedere la città e la
torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: ‘Ecco, essi sono un
solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e
ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo
dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua
dell’altro’” (Genesi 11:5-7).
**
Sentì come ogni volta di giungere a un limite, a una soglia
estrema. Ove gli era dato ancora d’arrestarsi, ritornare indietro, di tenere
vivo nella notte il lume, nella bufera. E s’aggrappò alle parole, ai nomi di
cose vere, visibili, concrete. Scandì a voce alta: “Terra. Pietra. Sènia. Casa.
Forno. Pane. Ulivo. Carrubo. Sommacco. Capra. Sale. Asino. Rocca. Tempio.
Cisterna. Mura. Ficodindia. Pino. Palma. Castello. Cielo. Corvo. Gazza.
Colomba. Fringuello. Nuvola. Sole. Arcobaleno […]” scandì come a voler
rinominare il mondo, ricreare il mondo. (38-39)
Questo elenco precede quello che poi ritroveremo nelle
pagine dedicate al rito satanico di Alaister e si pone su uno stesso piano di
complementarietà: come quello nasceva dal movimento artificioso del dionisiaco
degenerato, questo nasce dall’impetramento afasico dell’apollineo degenerato.
In entrambi la parola è mimesi del gesto: lì c’è la ricreazione del movimento,
in cui il segno della virgola dà il senso del ritmo della danza e della musica,
qui c’è la riproduzione della stasi, marcata dal punto che segue ogni parola e
che indica la pausa, una cesura di tempo e di spazio, la difficoltà
dell’esprimere una parola dietro l’altra, l’inarticolazione di un discorso. E
se là il vortice delle parole serviva a confondere, ad allontanare dalla
realtà, qui c’è l’avvicinamento, o per lo meno il tentativo di avvicinarsi a
qualcosa che si è perso da tempo – o mai avuto. È un elenco di parole semplici,
in cui tuttavia si può riconoscere una catena logica di riferimenti che dalla
terra vanno al cielo, dalla “pietra” al senso di libertà del volo degli uccelli
e alla luce del sole. Attraverso questo “rinominare il mondo” Petro cerca di
riattivare un legame con la realtà, o, per dirla ancora con Nietzsche, cerca
parole che non esprimono altro che “relazioni delle cose con gli uomini”
(Nietzsche, 1964:359); cerca dunque di ritrovare questa relazione con le
cose. Nel processo dell’elencare
riemerge una realtà frantumata, che si dà appunto solo in frammenti; ed è solo
così, in quei frantumi testimoniati dall’accumulo di lemmi che si può cogliere
una realtà la cui unità, come il discorso, come il narrare, non può essere (ri)composta. Anche la scrittura, infatti, si
arresta, si blocca sull’orlo dell’impossibilità di esprimere, di connettere
parole con realtà; così fallisce il tentativo di Petro: “cercò di scrivere nel
suo quaderno – ma intinge la penna nell’inchiostro secco, nel catrame del
vetro, nei pori della lava, nei grumi dell’ossidiana, cosparge il foglio di
polvere, di cenere, un soffio, e si rivela il nulla, l’assenza di ogni segno,
rivela l’impotenza, l’incapacità di dire, di raccontare la vita, il patimento”
(53). Petro è come l’uomo dionisiaco
descritto da Nietzsche: simile a lui cerca la salvezza nell’arte, cerca
un’“illusione” che lo salvi dallo sguardo che ha gettato sull’orrore delle
cose; egli ha la conoscenza del dolore e rischia per via di essa di rimanere
pietrificato, di perdere la volontà dell’azione e dire “no” alla vita. “In
questo senso” dice Nietzsche “l’uomo dionisiaco è simile ad Amleto: entrambi
una volta hanno gettato uno sguardo vero nell’essenza delle cose, hanno
conosciuto, e agire li nausea; poiché la loro azione non può cambiare niente
nell’essenza eterna delle cose, essi sentono come ridicolo o infame che venga
loro chiesto di rimettere in sesto il mondo uscito fuori dai cardini” (113).
Consolo, attraverso il personaggio di Petro, ci descrive allora il viaggio
verso l’esaltazione dionisiaca, che qui altro non è che volontà e capacità di
esserci ancora, di agire in questo mondo – e di scrivere, di dire. Assistiamo
così all’uscita metaforica di Petro dalla torre, alla sua presa di coscienza
politica (che passa tramite lo sputo al barone, l’amicizia con il Miceli, la
partecipazione alle manifestazioni di piazza, l’“oltraggio” subito e infine
l’attentato perpetrato) e alla promessa, a fine romanzo, di una nuova scrittura
attraverso cui sciogliere il grumo del dolore: “Pensò al suo quaderno. Pensò
che ritrovata calma, trovate le parole, il tono, la cadenza, avrebbe racconto,
sciolto il grumo dentro. Avrebbe dato ragione, nome a tutto quel dolore”
(171). Questa scrittura, sappiamo, sarà
il rifiuto delle parole cerimoniose e della falsa retorica, si distanzierà
tanto dal libro dell’anarchico lasciato cadere in mare quanto dalle “parole
rare e abbaglianti” di D’annunzio o quelle “roboanti” (112) di Rapisardi. La
vicenda di Petro si conclude perciò in quella dei satiri del coro, nel recupero
attraverso la scrittura di un dionisiaco non degenerato: Nella coscienza di una
verità, ormai contemplata, l’uomo adesso vede dappertutto soltanto l’orrore o
l’assurdità dell’essere […]. Qui, in questo supremo pericolo della volontà,
si avvicina, come maga che salva e risana, l’arte: soltanto essa può piegare
quei pensieri nauseati per l’orrore o l’assurdità dell’esistenza in
rappresentazioni con cui si possa vivere. (Nietzsche, 2003:114)
Questo è anche il percorso intrapreso dal Consolo scrittore,
che approda alla tragedia di Catarsi (1989) come simbolo di un modo di
scrivere; dice nel saggio Per una metrica della parola: “La tragedia
rappresenta l’esito ultimo della mia ideologia letteraria, l’espressione
estrema della mia ricerca stilistica. Un esito, come si vede, in forma teatrale
e poetica, in cui si ipotizza che la scrittura, la parola, tramite il gesto
estremo del personaggio, si ponga al limite dell’intellegibilità, tenda al
suono, al silenzio” (Consolo, 2002:250).
Come ultima possibilità in una società dalla lingua corrotta e
degradata, dallo sfaldamento della comunicazione, dalla rottura del rapporto
tra scrittore e suo pubblico, suo referente in tale società, come ultima
risorsa prima di cadere nell’afasia, nel silenzio, c’è il recupero dello
spirito dionisiaco (e apollineo) che si esprime più compiutamente nel coro
della tragedia, come si verifica nel Prologo a Catarsi:
La tragedia è la meno convenzionale, la meno compromessa delle arti, la parola
poetica e teatrale, la parola in gloria
raddoppiata, la parola scritta e pronunciata. Al di là è la musica. E al di là
è il silenzio. Il silenzio tra uno strepito e l’altro del vento, tra un boato e
l’altro del vulcano. Al di là è il gesto. O il grigio scoramento, il crepuscolo, il brivido del freddo, l’ala
del pipistrello; è il dolore nero, senza
scampo, l’abisso smisurato; è l’arresto oppositivo, l’impietrimento. (Consolo,
2002:13)
Allora in Nottetempo dobbiamo leggere questo approdo al
canto del coro della tragedia, approdo di Petro dietro cui non sarà difficile
riconoscere il percorso della scrittura e della poetica di Consolo stesso, teso
tra il rifiuto della parola vuota e l’attrazione per quel silenzio che
racchiude tutto il dolore. Petro è
dunque il personaggio che incrocia tutti e tre i piani tematici su cui si
dispone il romanzo e su cui si dispiega il senso dell’apocalisse: quello esistenziale,
quello storico-culturale e quello della scrittura. A livello narrativo egli
funziona come elemento unificatore di questi piani e, a livello contenutistico,
si configura come chiave per trascendere il pericolo dell’apocalisse nel valore
che possa rinnovare i mondi (quello interiore, quello sociale e quello
letterario) infondendo loro nuovo significato. Più che romanzo “apocalittico”,
dunque, Nottetempo è romanzo del “rischio della fine” e dell’inserimento di
tale rischio in un’ottica che ne accenni e ne indichi il superamento e la reintegrazione.
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Abstract This essay aims to analyse the novel, Nottetempo, casa per casa (1992), by Vincenzo Consolo, considering the motif of the end of the world as a central and unifying element of the different levels on which the narrative unfolds. While The Birth of Tragedy by Friedrich Nietzsche is the intellectual reference for the novel, the considerations by the anthropologist Ernesto De Martino on the apocalypse allows us to interpret Nottetempo as a response to the psychological, cultural and literary risk of the “end” experienced in these three different areas.
Italian Studies in Southern Africa/Studi d’Italianistica nell’Africa Australe Vol 27 No 2 (2014)
TRAGEDIE SICILIANE: LA TAURIDE DI VINCENZO CONSOLO
Nel 1982 viene rappresentata nel teatro di Siracusa, per la regia di Lamberto Puggelli, l’Ifigenia fra i Tauri.1 La traduzione della tragedia, commissionata dall’INDA, è frutto del lavoro di stretta collaborazione tra Vincenzo Consolo e Dario Del Corno: uno scrittore moderno e un filologo.2 Volendo perciò proporre delle osservazioni sulle modalità di lavoro del primo e sul suo specifico contributo al risultato finale si incorre inevitabilmente in più di una difficoltà. Si possono comunque individuare delle tracce significative del lavoro di Consolo e si può inoltre riflettere sulle conseguenze che questa traduzione ha avuto nella produzione dello scrittore. Intanto, alcune premesse. A fronte delle indiscutibili professionalità e competenza del filologo, già espresse nel confronto con vari testi dell’antichità classica e nello studio del teatro antico, quali competenze ha Consolo nella traduzione e, nello specifico, nella traduzione dalle lingue classiche? Quali competenze ha per affrontare il testo arduo della tragedia euripidea? Sarà meglio specificarlo subito: Consolo non è un traduttore e non è un grecista. Le sue nozioni di greco risalgono alla formazione ricevuta da ragazzo presso il liceo di Barcellona Pozzo di Gotto. Ma l’incontro adolescenziale con la lingua e la letteratura antica deve essere stato per lui estremamente significativo. In particolare Consolo ama ricordare il fascino delle tragedie classiche messe in scena al teatro di Siracusa 3 e confessa una grande passione per Omero e per gli storici greci.4 Inoltre pur nell’imperfetta padronanza eitesti che il suo «grecuccio»5 gli permette, la frequentazione delle opere ricordate,oltre che la consapevolezza della sua identità siciliana e mediterranea,gli fa maturare una grande sensibilità nei confronti del mondo antico. Già prima di quest’opera di traduzione, Consolo ha ben chiaro quanto sia importante il legame tra la Sicilia e la cultura greca, nonché il valore fondante che la civiltà sorta nella Grecia antica ha avuto per l’intero Mediterraneo. Inoltre, anche se nelle prime opere mancano riferimenti espliciti al mondo antico, vi si può riconoscere già la spiccata propensione al plurilinguismo, la volontà di scavare e recuperare la memoria delle lingue mediterranee, quindi anche, in qualche modo, la memoria del greco, aspetto che caratterizzerà poi tutta la sua produzione. Queste osservazioni preliminari evidenziano il limite delle competenze tecniche di Consolo relativamente alla lingua del testo di partenza. Sottolineano però anche la sua spiccata sensibilità nei confronti della cultura greca e chiariscono la sua cifra stilistica, ovvero la grande ricchezza linguistica, in contrasto con la tendenza omologante contemporanea (in particolare bersaglio polemico è la lingua televisiva). Ciò ha il suo peso nel risultato finale della traduzione dell’Ifigenia, rappresenta cioè l’apporto propriamente consoliano al lavoro sul testo. 3 Consolo ha modo di conoscere la città e di innamorarsene proprio in occasione di una gita scolastica per le rappresentazioni teatrali, come racconta nell’articolo Siracusa, il mio primo talismano, in «L’Unità», 14 settembre 1989. 4 «E mi ricordai del tempo […] in cui per Omero, i tragici, per Erodoto, Diodoro, Tucidide, ero preso dalla passione per l’antico […]» (Vincenzo Consolo, Malophòros, in Id., Le pietre di Pantalica, Milano, Mondadori, 2012, pp. 83-94, a p. 91). Diverse le versioni dell’Odissea possedute e consultate da Consolo, come testimoniano le citazioni dalla traduzione di Giovanna Bemporad e da quella di Aurelio Privitera (ad esempio in Vincenzo Consolo, L’olivo e l’olivastro, Milano, Mondadori, 2012, pp. 3, 14, 15, 17, 22, 34). 5 L’uso di questo termine lascia evincere la consapevolezza che l’autore ha delle sue limitate competenze nella comprensione del greco antico (Vincenzo Consolo, Le pietre di Pantalica, in Id., Le pietre di Pantalica, cit., pp. 125-138, a p. 127).
Qualche nota sulla traduzione Veniamo alla traduzione. Come si sa, alla versione del mito che racconta del sacrificio della figlia di Agamennone, necessario perché le navi achee salpino alla volta di Troia, la tragedia di cui l’autore si occupa insieme a Del Corno preferisce l’altra, altrettanto nota, secondo la quale Ifigenia non muore ed è trasferita dalla dea Artemide nella lontana terra dei Tauri, mentre sull’altare acheo viene sgozzata una cerva. Nonostante sia salva, la figlia del re dei re ha un destino tragico: è infatti condannata a vivere in un luogo inospitale. La Tauride è terra sconosciuta, il mare è tempestoso, gli abitanti uccidono esseri umani in onore degli dèi. La distanza di Ifigenia dalla popolazione locale è enfatizzata dal suo ruolo di sacerdotessa. Poca cosa è la compagnia delle schiave greche. Il dolore dell’essere lontana dalla propria patria – dove si stanno svolgendo eventi ignoti, forse sciagure – è complicato dall’arrivo di Oreste, fratello bambino nella memoria, ora cresciuto e perciò irriconoscibile, straniero e quindi vittima ideale sull’altare dei barbari. L’intreccio è risolto in maniera romanzesca con l’agnizione tra fratello e sorella e la partenza dalla terra selvaggia, mediante l’appoggio della dea Atena. A parte una diffusa tendenza a esplicitare i riferimenti del mito sostituendo epiteti, perifrasi o termini generici,6 colpisce nella versione di Consolo e Del Corno la volontà di realizzare una traduzione poetica, attraverso l’uso di una lingua non colloquiale, arcaizzante e ricca dal punto di vista retorico, a tratti anche più del testo di partenza, che enfatizza la solennità della tragedia. In particolare si nota un elevato numero di anastrofi, che conservano quelle euripidee o sono apporto originale della traduzione: ad esempio, all’ inizio del primo monologo di Ifigenia, «e Atreo generò» traduce ἐξ ἧς Ἀτρεὺς ἔβλαστεν, ovvero «da lei nacque Atreo» (v. 3);7 «Attento sto», nella prima battuta di Pilade, traduce ὁρῶ (v. 68) che poteva essere reso più letteralmente con «Sto attento», «guardo»;8 «gli altari, le bianche colonne dei templi / di sangue umano s’arrossano»9 introduce l’inversione nel testo 6 Ad esempio l’espressione «Ulisse» piuttosto che «figlio di Laerte» per la traduzione del 533 (Euripide, Ifigenia fra i Tauri, cit., p. 30); «Simplegadi» invece che «azzurre rupi» per il 746 (ivi, p. 43) o ancora «Alcione» per «uccello» al v. 1089 (ivi, p. 62). In questi riferimenti, come in quelli che seguono, segnalo la pagina per una più comoda consultazione del testo: nella traduzione di Consolo e Del Corno manca infatti l’indicazione dei versi. 7 Ivi, p. 7. 8 Ivi, p. 9. 9 Ivi, p. 23.
τέγγει / βωμοὺς καὶ περικίονας / ναοὺς αἷμα βρότειον (vv. 404-406) che alla lettera andrebbe reso con «sangue umano bagna gli altari e le colonne del tempio».10 Effetto arcaizzante ha anche l’introduzione dell’ipallage nella traduzione «quando poi si aprirà l’occhio scuro della notte»,11 assente nel testo greco (v. 110 ὅταν δὲ νυκτὸς ὄμμα λυγαίας μόληι, «quando si schiuderà l’occhio della notte scura»). Ci troviamo di fronte ad una traduzione che difficilmente può definirsi letterale e che a tratti trasforma decisamente la sintassi del testo di partenza. È forse abilità poetica piuttosto che acribia filologica quella che traduce i 201-202 σπεύδει δ’ ἀσπούδαστ’ / ἐπὶ σοὶ δαίμων con «Atroce zelo un demone / dimostra contro di te»,12 mentre con una maggiore fedeltà al testo greco il passo andrebbe reso «Un demone sollecita per te / eventi non desiderabili » oppure, come traduce Albini nell’edizione Garzanti, «un demone affretta contro di te / eventi cui vorresti sottrarti».13 In queste scelte si può riconoscere la penna di Consolo? In realtà, anche se la tentazione di ricondurle alla sua grande ricerca linguistica può avere un senso, non possiamo affermarlo con certezza.Lo stesso dicasi per la scelta di una serie di termini che afferiscono alla sfera semantica della pazzia e che possono essere conseguenza della sensibilità particolare che Consolo ha per il problema della malattia psichica. Ricordiamo che il tema sarà centrale negli ultimi romanzi (la famiglia del protagonista Petro Marano in Nottetempo, casa per casa, del 1992; la moglie di Chino Martinez ne Lo Spasimo di Palermo, uscito nel 1998). Per il v. 211 leggiamo «immolata alla follia del padre»14 ma è piuttosto «vergogna», «onta», e, solo raramente, «demenza», il significato di λώβαι. Anche nella traduzione dei vv. 932 e 933 (l’argomento è il tormento causato a Oreste dalle Erinni) la scelta dei termini «convulsioni» e «attacchi» non è scontata.15 Lo stesso dicasi per l’uso di «follia» al v. 991 (πόνων),16 o per «pazzia» al v. 1031 (ἀνίαις),17 che sono un rafforzamento del testo greco dove piuttosto si parla di «sofferenza, fatica». Va però ricordato che la figura di Oreste tormentato dalle 10 La traduzione proposta per un confronto è quella di Albini nell’edizione Garzanti: Euripide, Ifigenia in Tauride-Baccanti, trad. di U. Albini, Milano, Garzanti, 1989, p. 140. 11 Euripide, Ifigenia fra i Tauri, cit., p. 11. 12 Ivi, p. 14. 13 Ivi, p. 128. 14 Ivi, p. 14. 15 Ivi, p. 53. 16 Ivi, p. 56. 17 Ivi, p. 58. Erinni, a cui si riferiscono per lo più i passi ricordati, ha molto a che fare con la follia. Perciò, anche se c’è da parte di Consolo una spiccata attenzione per il tema, la scelta di termini che enfatizzano la pazzia può essere frutto di una decisione condivisa. Diverso è il caso di tre interventi singolari che innestano nella traduzione arcaizzante tracce piuttosto evidenti di sicilianità, rispondendo in maniera netta al proposito consoliano di recupero delle lingue perdute o a rischio. Il primo è nel lungo discorso di Ifigenia al coro. Dopo il sogno angosciante che le ha fatto presumere la morte di Oreste, sogno su cui quasi si apre la tragedia, la donna dichiara la sua intenzione di fare sacrifici per il fratello. I versi 159-166 sono resi in questo modo nella traduzione di Consolo e Del Corno: […] Per lui voglio bagnare la terra di offerte, versare dalla coppa dei morti il latte di brade giovenche, lo spesso vino di Bacco e il miele ambrato delle api: mistura consòlo dei morti.18 L’originale consòlo traduce θελκτήρια, che ha il significato letterale di «che mitiga, che lenisce» e si riferisce alle offerte liquide da versare per il fratello morto. Il termine non va inteso come italiano arcaico per ‘consolazione’, piuttosto vi si deve riconoscere un rimando all’uso funerario, tipico dell’Italia meridionale e quindi della Sicilia, dell’offerta di cibo alla famiglia di un morto. Ma al di là della traduzione non certo usuale, la scelta di consòlo fa pensare a una σφραγίς vera e propria per l’evidente evocazione del nome dell’autore. Netto contributo di Consolo è anche l’uso del termine nutríco, sicilianismo che traduce ἐπιμαστίδιον (v. 231)19 ovvero ‘lattante’ (anche in questo caso è Ifigenia che parla, ricordando il fratello ancora bambino). E neppure è casuale la preferenza della parola zagara («zagara sacra dell’ulivo d’argento »), al posto di un più letterale ‘virgulto’ o ‘germoglio’ (‘virgulto del glauco ulivo’, ‘fiore dell’ulivo azzurro’) per θαλλόν (v. 1101),20 scelta che si fonda su un uso raro, specialmente siciliano, del termine zagara, di solito riferito al fiore degli agrumi, anche per le infiorescenze degli alberi di olivo. 18 Ivi, p. 13. 19 Ivi, p. 15. 20 Ivi, p. 62.
La forza dei nuclei tematici euripidei Lungo sarebbe il discorso a proposito dell’influenza della tragedia antica sull’ideologia di Consolo,21 sempre più evidente con il passare degli anni. Ma in questo caso ci occupiamo specificamente degli effetti prodotti dalla meditazione profonda sul testo dell’Ifigenia fra i Tauri. L’esperienza vissuta con Del Corno è definita «vivificante» in Le pietre di Pantalica, testo eponimo della raccolta del 1988, che proprio con il racconto della rappresentazione dell’Ifigenia a Siracusa si apre. In più Consolo aggiunge: «Avevo provato una sensazione di ritorno, ritorno alla giovinezza, al grecuccio del liceo sepolto dentro di me, ritorno alla terra natale, alla cultura d’origine, all’origine della cultura».22 La traduzione di un testo antico dunque, e specificamente la traduzione dell’Ifigenia, acquista un grande significato per lo scrittore. In particolare sono i nuclei tematici dell’opera antica ad assumere un grande peso nell’ opera consoliana. Il lavoro di riflessione sui temi è già testimoniato dal breve testo Tradurre l’Ifigenia, scritto a quattro mani con Del Corno, per accompagnare la traduzione. Opponendosi alla definizione di tragedia a lieto fine, abbastanza ricorrente a proposito dei drammi euripidei (si veda l’intervento provvidenziale del deus ex machina), i due traduttori riconoscono piuttosto nell’Ifigenia fra i 21 Consolo valorizza la via lirica del coro tragico, perché ritiene che questa sia l’unica rimasta,venute meno le possibilità di comunicazione reale con il pubblico. A proposito si veda Per una metrica della memoria, relazione tenuta dall’autore nel gennaio del 1996 presso il Centro Studi sul Classicismo di San Gimignano, nel quadro delle attività accademiche dell’Istituto italiano per gli Studi Filosofici di Napoli. Il testo ha trovato varie collocazioni, ad esempio Vincenzo Consolo, Per una metrica della memoria, in «Cuadernos de Filología Italiana», iii (1996),249-259. Alla luce di questa considerazione del coro tragico, vanno interpretati gli “a parte”,frequenti soprattutto in Nottetempo, casa per casa e in Lo Spasimo di Palermo. Sulla questione è utile anche consultare Alessandro Di Prima, La strategia del coro. Intervista a Vincenzo Consolo,in «Versodove», iv (2001), 13, pp. 68-71. Gli ultimi romanzi adottano inoltre epigrafi da tragedie antiche (epigrafe dall’Antigone sofoclea al IV capitolo di Nottetempo, epigrafe iniziale dal Prometeo incatenato eschileo a Lo Spasimo di Palermo). Tragedia o metatragedia può dirsi poi Catarsi del 1989. La critica ha spesso accennato alla questione. Più specifici ad esempio Luca Canali, Che schiaffo la furia civile di Consolo, in «L’Unità», 7 ottobre 1998; Carla Riccardi, Inganni e follie della storia: lo stile liricotragico della narrativa di Consolo, in Atti delle giornate di studio in onore di Vincenzo Consolo, a cura di E. Papa, San Cesario di Lecce, Manni, 2004, pp. 81- 111; Domenico Calc
, Vincenzo Consolo. Le parole, il tono, la cadenza, Catania, Prova d’autore, 2007, pp. 65-66. 22 Consolo, Le pietre di Pantalica, cit., p. 127. Tauri «una tragedia di personaggi senza futuro». Solo a «una vuota e immota sopravvivenza fisica» possono aspirare Ifigenia e Oreste, perché essi sono bloccati nella loro identità di esclusi: Ifigenia rimarrà per sempre incatenata al suo destino di vergine sacerdotessa:di esclusa, di diversa, di relegata, non importa se fra i selvaggi abitatori della Tauride, o sulle sacre terrazze di Brauron; Oreste infine liberato dagli spettri del matricidio – nel cui tormento e nel disperato movimento era tuttavia la sua grandezza – sarà impegnato forse solo a cancellare il ricordo del suo furore.23 E sono per di più ancorati al loro passato, all’attimo del sacrificio Ifigenia, a quello del delitto Oreste. Il loro esilio, che non è solo esilio nella Tauride,ma esilio dalla vita, è condiviso dalle donne del coro. Le ancelle, espulse dalla civiltà greca in una terra barbara, inospitale, rischiano la perdita della loro identità culturale. Per salvarsi ricorrono alla memoria. Da questa scaturisce il canto, ovvero l’alto lirismo corale, in netta contrapposizione alla lingua, al mondo dei barbari (Toante, il mandriano, la guardia). Nei confronti del testo tragico, e di ogni altra tragedia antica, i traduttori riconoscono un debito di cultura e civiltà da parte della cultura e della civiltà del presente. E non mancano di individuare l’attualità del tema dell’esilio e della perdita di identità:24 Che di tutto questo la traduzione sia riuscita a salvaguardare e ad evocare qualche accenno, è la speranza di chi ad essa ha lavorato, con amore: trovando in questo lavoro la soddisfazione di rileggere quel passato che ha orientato la nostra storia, e scoprendo la terribile attualità di questa, come di ogni altra tragedia. Il nostro è tempo di esuli da patrie e identità culturali perdute, di lingue cancellate; è tempo di immobilità e di futuri deserti, di rimpianto per le mancate realizzazioni.25
23 Vincenzo Consolo, Dario Del Corno, Tradurre l’Ifigenia, nel libretto di scena di Euripide, Ifigenia fra i Tauri. 24 Proprio alla comprensione dell’importanza di tale tema saranno da ascrivere alcune scelte di traduzione, che enfatizzano la condizione dell’esilio: ad esempio «terra estrema, desolata » invece che ‘ignota, inospitale’, più letterale ma meno forte nella connotazione della Tauride, per ἄγνωστον ἐς γῆν ἄξενον al v. 94 (Euripide, Ifigenia fra i Tauri, cit., p. 10); oppure «mare fatale agli stranieri» al posto di ‘mare inospitale’ per πόντον ἄξενον al v. 341 (ivi, 20). 25 Consolo, Del Corno, Tradurre l’Ifigenia, cit. In Le pietre di Pantalica, sull’esilio, Consolo aggiunge:mi era apparsa, questa, come la tragedia dell’emigrazione, dell’esilio. Esilio d’Ifigenia e delle donne del coro da una terra umana, civile, in una terra disumana, barbara; tragedia della regressione e dello smarrimento,della perdita della propria cultura e della propria lingua, della perdita dell’identità. E Ifigenia e le donne del coro non fanno che sciogliere canti di nostalgia per la patria perduta, di dolore per la condizione in cui sono cadute.
26 Questi sono, dunque, i nuclei di significato forti rintracciati nella tragedia antica. I personaggi euripidei e la terra straniera vengono accolti come simboli nell’opera di Consolo, e diventano uno strumento per parlare della contemporaneità. È prima di tutto l’autore a essere lontano dalla patria: lontano dalla Sicilia per la sua scelta di vivere al Nord, ma anche lontano da un altro tipo di patria, quella ideale della cultura e della civiltà, ormai negata dal presente. Ne scaturisce la condanna ad una Tauride senza speranza. Ma è anche in generale l’uomo contemporaneo a vivere l’esperienza dell’esilio in una realtà che snatura, che priva dell’identità negando i valori, la civiltà. Tauride, dunque, è la Milano della realtà, che ha tradito l’utopia ispirata negli anni della giovinezza da Vittorini e dagli altri scrittori emigrati: la città del Nord, che era parsa valida alternativa all’immobilismo dell’isola con la sua promessa di vitalità culturale, si è rivelata, agli occhi dell’intellettuale migrante, gretta, inospitale, luogo di perdita della memoria, campo fertile per l’attecchimento di ideologie razziste.27 La Sicilia a sua volta assume nella distanza i tratti di un’Argo del desiderio, sospirata, ma in cui sarebbe meglio non tornare mai: la tragedia euripidea, non a caso, si ferma alla fuga dalla terra straniera e tace sul ritorno, che non può che essere tragico, perché la reggia ha subito troppi lutti, ha visto troppi orrori e, perciò, tra le sue mura la ricomposizione dell’identità sarà impossibile. Il simbolo euripideo si sovrappone a quello omerico di Itaca, che è per antonomasia la patria della nostalgia. Ma se nel poema epico il ritorno di 26 Consolo, Le pietre di Pantalica, cit., p. 127. 27 L’accostamento è esplicito in Id., Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Roma, Donzelli, 1993, p. 62. Ma Consolo sottolinea lo straniamento generato dalla grande città del Nord in molte altre occasioni, in particolare nelle pagine di Retablo o de Lo Spasimo di Palermo. Ulisse è scandito dalle tappe rassicuranti del sostegno di Atena e dei fedeli,del riconoscimento della cicatrice, dell’intesa del talamo, fino alla sconfitta dei Proci, così non è per Consolo: la Sicilia può essere Itaca, come può essere Argo, solo nella distanza,28 quindi nel ricordo che idealizza e preserva l’immagine del passato; nel momento dell’approdo la patria si rivela diversa,stravolta, preda dei pretendenti, nuova terra d’esilio. È diventata Tauride, dunque, terra straniera, perché non esiste più la civiltà di un tempo: non è più possibile ricomporre l’identità nel ritorno perché tutto è orrendamente mutato. La violenza e la sopraffazione, il miracolo economico «indecente» 29 hanno cambiato il paesaggio, i rapporti umani, hanno annientato i segni di sapienza e cultura locali. Non si ritorna più nei luoghi da cui si è partiti, perché quelli non sono più i luoghi che noi abbiamo lasciato. Non si è più di nessun luogo.30 Le Itache non esistono, i luoghi del ritorno non esistono. Una volta che li si è abbandonati è impossibile tornare. Il nóstos non è un’esperienza semplice. Quando si va via, succede qualcosa nel tempo in cui si è lontani,e non si può mitizzare ciò che si è lasciato. E tornando si ritrova il peggio del peggio… I cambiamenti che ho trovato tornando in Sicilia, non sono certo miglioramenti. Quel libro [L’olivo e l’olivastro] vuole essere una registrazione del mio dolore per la perdita della Sicilia, per il processo generale di imbarbarimento… Io ho sempre desiderato di lavorare, magari in forma teatrale, intorno ad un personaggio, Ifigenia… Penso a questa donna, che il padre voleva uccidere, presa e portata in un luogo barbaro,lei che, figlia di un re, viene da Argo… E invece va a fare la sacerdotessa in Tauride dove deve compiere anche sacrifici umani. Per vent’anni ci rimane,subendo, proprio a livello culturale, una regressione terribile… E le resta quest’immagine di Argo, questa nostalgia… l’idea di coloro che ha 28 Si veda a proposito della forza di questo simbolo quanto afferma Jankélévitch in L’irreversible et la nostalgie (Vladimir Jankélévitch, L’irréversible et la nostalgie, Paris, Flammarion, 1983, pp. 370-371). Secondo il filosofo, anche l’eroe omerico è deluso nell’approdo a Itaca, che pure ha tanto desiderato. Il suo dramma, lo stesso che appartiene a tutti coloro che vivono lontano dalla propria terra, consiste in un sentimento di nostalgia perenne,non sanabile, a causa del cambiamento che il tempo ha prodotto nella patria e nell’ individuo. L’Itaca in cui torna Ulisse, infatti, è diversa da quella che l’eroe ha abbandonato partendo per la guerra di Troia. A nulla serve che, stando a quello che il mito racconta, i nemici vengano sconfitti, il vincolo coniugale sia ribadito, l’equilibrio ristabilito: non si torna indietro. 29 L’espressione è di Consolo (Il miracolo indecente, in «L’Unità», 9 novembre 2003). 30 Id., Fuga dall’Etna…, cit., p. 69. lasciato. Quando torna però la madre è stata assassinata, il padre pure, e non trova nemmeno più i suoi ricordi… Secondo me niente si può ricucire una volta che è stato strappato… Il dolore del ritorno può essere insopportabile. Meglio star fuori.31 Tauride in Sicilia Cercherò di mostrare, attraverso esempi concreti tratti dall’opera di Consolo, quali esiti abbia avuto la traduzione della tragedia in termini di riuso dei simboli da essa veicolati. Mi riferisco in particolare a Argo e Tauride.Un primo caso è rintracciabile nel già citato Le pietre di Pantalica, che si apre con la rievocazione della messa in scena della tragedia Ifigenia fra i Tauri di Euripide all’interno del teatro di Siracusa32, e propone, alternando toni lirici e saggistici, una riflessione sulla forza simbolica degli elementi tragici per esprimere la contemporaneità, in particolare quella siciliana.La sacralità poetica dei versi euripidei in scena è esemplificata da Consolo attraverso la citazione di due passi: nel primo è Ifigenia che parla e rievoca il sacrificio voluto dal padre (vv. 361-371), il secondo invece è una delle manifestazioni di nostalgia del coro, che accompagna la decisione della sacerdotessa di fuggire con Oreste e Pilade (vv. 1094-1101).33 Il confronto tra la solennità dei versi antichi e la misera scenografia urbana genera amarezza e indignazione:31 Monica Gemelli, Felice Piemontese, Vincenzo Consolo (intervista), in L’invenzione della realtà. Conversazioni sulla letteratura e altro, Napoli, A. Guida, 1994, pp. 29-48, a p. 47. 32 Del teatro Consolo offre una descrizione suggestiva in apertura del testo (Le pietre di Pantalica, cit., p. 125). A proposito si veda Paola Capponi, Della luce e della visibilità. Considerazioni in margine all’opera di Vincenzo Consolo, in «Quaderns d’Italià», (2005), 10, pp. 49-61, a 57. 33 «No, no, quest’orrore mai potrò cancellarlo! / Quante volte protesi le mani al viso del padre, / alle ginocchia; e m’aggrappavo implorando. / “Padre, padre! Che nozze nefaste / apparecchi per me; e mentre mi uccidi, / la madre e le donne di Argo cantano per me / l’imeneo, e tutta la reggia risuona di flauti: / ma io muoio, e sei tu a darmi la morte. / Morte era dunque il mio sposo, non Achille Pelide, / che tu mi avevi promesso. E sul carro / a nozze di sangue mi hai tratta, snaturato!”»; «Io, alcione senz’ali, con te / gareggio nel lamento / di nostalgia per l’Ellade in festa, / per Artemide propizia ai parti / che sui pendii del Cinto ha dimora / presso la palma frondosa, / l’alloro splendente / e la zagara sacra dell’olivo d’argento ». I due passi sono citati in Consolo, Le pietre di Pantalica, cit., p. 128. La traduzione è da Euripide, Ifigenia fra i Tauri, cit., pp. 21 e 62. in questi alti momenti e in altri, nel teatro greco di Siracusa era tutto un clamore di clacson di automobili, trombe di camion, fischi di treni, scoppiettio di motorette, sgommate, stridore di freni, grattare di marce, un sibilare acuto di sirene antifurto, un gracchiare d’altoparlante d’un vicino lunapark … Attorno al teatro, dietro la scena, dietro il fondale di pini e cipressi il paesaggio sonoro di Siracusa era orribile, inquinato, selvaggio, barbarico, in confronto al quale, il fragore del mare inospitale contro gli scogli della Tauride era un notturno di Chopin.34 La Siracusa di un tempo, bellissima, emblema di sublime grazia, vera civiltà, città per lo più silenziosa in cui l’udito era sollecitato solo dai richiami dei venditori ambulanti, che per la sua luce e la sua compostezza ha fatto innamorare il giovane Consolo nel 1950, ora non esiste più. Al silenzio di un tempo si oppone lo squallore sonoro del presente,35 rispetto al quale «il fragore del mare inospitale contro gli scogli della Tauride era un notturno di Chopin». A ciò si aggiunge la miseria visiva: appena oltre il teatro, «strade, superstrade, tralicci, ciminiere serrano la città»36 e, ancora oltre, «un paesaggio di ferro e di fuoco, di maligni vapori, di pesanti caligini»,37 ovvero le raffinerie di petrolio e le industrie chimiche di Melilli e Priolo, mentre il centro storico, «la bellissima città medievale, rinascimentale e barocca, la città ottocentesca e quella dell’inizio del Novecento è completamente degradata: una città marcia, putrefatta»,38 e i luoghi più belli e unici sono andati perduti.39 Alla tragedia antica rappresentata, dunque, corrisponde un’altra tragedia, quella reale, che scaturisce dall’impero industriale e dalla trascuratezza moderna che colonizzano la Sicilia e imbarbariscono ciò che un tempo era modello di equilibrio e bellezza: è la tragedia della dissoluzione di una civiltà di cui la Siracusa del passato era simbolo. Il ritorno alla patria d’elezione – quella in cui Consolo aveva pensato di andare a vivere – è devastante, della scoperta che dell’immagine del ricordo non c’è più nulla. Siracusa 34 Consolo, Le pietre di Pantalica, cit., pp. 128-129. 35 Fernando Gioviale, L’isola senza licantropi. ‘Regressione’ e ‘illuminazione’ nella scrittura di Vincenzo Consolo, in Scrivere la Sicilia. Vittorini ed oltre. Atti del Convegno di Siracusa 16-17 dicembre 1983, Siracusa, Ediprint, 1985, pp. 123-132, a p. 124. Sullo squallore che caratterizza persino Siracusa Consolo si esprime anche in Flauti di reggia o fischi di treno, in «Il Messaggero », 19 luglio 1982, testo riutilizzato con alcune variazioni in Le pietre di Pantalica. 36 Consolo, Le pietre di Pantalica, cit., p. 129. 37 Ibidem. 38 Ibidem. 39 «Le Latomie non sono più che cave aride e polverose, l’Orecchio di Dionisio un insignificante cunicolo, la Fonte Aretusa una pozzanghera fetida, il Fiume Ciane un rigagnolo avvelenato dove il suo famoso papiro sta lentamente morendo…» (ibidem). è idealmente accostata all’Argo del sogno e della nostalgia di Ifigenia, un luogo che non esiste più perché stravolto dall’orrore dell’omicidio. La terra straniera è sicuramente luogo inospitale di sofferenze e di nostalgia, ma l’Argo è ancora più barbara della Tauride. Ah Ifigenia, ah Oreste, ah Pilade, ah ancelle della sacerdotessa d’Artemide, quale disinganno, quale altro dolore per voi che tanto avete bramato la patria lontana! V’auguro, mentre veleggiate felici verso la Grecia, che venti e tempeste vi sospingano altrove, che mai possiate vedere Argo, distrutta durante il vostro esilio, ridotta a rovine, a barbara terra, più barbara della Tauride che avete lasciato. Vi resti solo la parola, la parola d’Euripide, a mantenere intatta, nel ricordo, quella vostra città.40 L’apostrofe amara ai personaggi della tragedia è in realtà meditazione sulla propria vicenda personale. Vi si accompagna l’affermazione della sacralità della parola, della letteratura, della memoria, che è fonte di valori contro l’insipienza che avanza e che è forse l’unica opportunità di preservare ciò che sta irrimediabilmente svanendo.41 Una riflessione dai toni simili è in L’olivo e l’olivastro dove l’esule, ovvero lo stesso Consolo, che vuole cantare la perduta Siracusa afferma di cercare versi da parodo tragica che siano dotati del tono grave di Ungaretti e di tutti gli altri poeti che si sono confrontati con la città. «Calava a Siracusa senza luna la notte e l’acqua plumbea e ferma nel suo fosso riappariva, 40 Ivi, p. 130. 41 Si veda a proposito Mario Minarda, La lente bifocale. Itinerari stilistici e conoscitivi nell’opera di Vincenzo Consolo, Gioiosa Marea, Pungitopo, 2014, p. 106. All’affermazione del valore della poesia si accompagna, anche in virtù di un giudizio scettico e pessimista sulla realtà, il dubbio a proposito del senso della traduzione e della messa in scena di una tragedia antica oggi. Ciò lo porta persino a commentare le scelte registiche, in particolare la scelta di esibire nel finale la dea Atena, deus ex machina, in una gabbia appesa ad un’autogru: «Se proprio voleva essere attuale, perché il regista non ha fatto calare dal cielo, pendente da un elicottero d’argento, la dea Atena, perché non giungere, come il barone di Münchhausen, a cavallo di un missile, d’uno di quelli che stanno installando qui, nella vicina Comiso? E non si chiamano appunto, questi missili, missili di teatro, del teatro d’Europa?» (Consolo, Le pietre di Pantalica, cit., p. 26). L’amaro sarcasmo punta il dito non contro regista e trovata scenica in sé quanto piuttosto su una contemporaneità scottante. Così la tragedia antica e quella contemporanea finiscono con il sovrapporsi mentre Consolo richiama un’altra sciagura, quella della base missilistica di Comiso su cui si concentra poi in Comiso (Id., Comiso, in Id., Le pietre di Pantalica, cit., pp. 139-144). soli andavamo dentro la rovina, un cordaro si mosse dal remoto». Il tono scarno e grave, ermetico e dolente vorrebbe avere d’Ungaretti o tutti i doni degli innumerevoli poeti per sciogliere, muovendo il passo come in parodo sopra le lastre di una piccola piazza, contro il tufo chiaro delle case, in vista, oltre la balaustrata che cinge la fontana, il forte d’Aretusa, del porto Grande e del Plemmirio, della foce dell’Anapo e del Ciane, in vista del bianco tavolato degli Iblei, sciogliere un canto di nostalgia d’emigrato a questa città della memoria sua e collettiva, a questa patria d’ognuno ch’è Siracusa, ognuno che conserva cognizione dell’umano, della civiltà più vera, della cultura. Canto di nostalgia come quello delle compagne di Ifigenia, schiave nella Tauride di pietre e d’olivastri. Ché questa è oggi la condizione nostra, d’esiliati in una terra inospitale, cacciati da un’umana Siracusa, dalla città che continuamente si ritrae, scivola nel passato, si fa Atene e Argo, Costantinopoli e Alessandria, che ruota attorno alla storia, alla poesia, poesia che da essa muove, ad essa va, di poeti che si chiamano Pindaro Simonide Bacchilide Virgilio Ovidio Ibn Hamdis esule a Majorca.42 Il richiamo ai versi ungarettiani di Ultimi cori per la terra promessa, che non a caso erano scelti anche come epigrafe al testo di Le pietre di Pantalica («Soli andavamo dentro la rovina»), enfatizza l’amarezza delle immagini tragiche. In una ideale tragedia che abbia come scenografia i luoghi simbolo della città, la poesia ungarettiana può forse avere la forza di una parodo della nostalgia, può cioè descrivere una condizione di sofferenza certamente personale ma che riguarda tutti coloro che rimpiangono «la civiltà più vera, la cultura». L’espressione del dolore di quest’esilio richiama di nuovo i personaggi e le immagini euripidee e il modello della parodo è fornito dal coro di donne greche dell’Ifigenia fra i Tauri.43 La solitudine «dentro la rovina» dei versi di Ungaretti attualizza lo sradicamento della Tauride euripidea e la 42 Id., L’olivo e l’olivastro, cit., p. 74. Sul passo si veda Roberta Delli Priscoli, Il mare, l’isola, il viaggio negli ultimi libri di Vincenzo Consolo, in I cantieri dell’italianistica. Ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI secolo. Atti del XVIII congresso dell’ADI, Padova 10-13 settembre 2014, a cura di G. Baldassari, V. Di Iasio, G. Ferroni, E. Pietrobon, Roma, Adi Editore, 2016, 1-10, alle pp. 3-5.43 Dopo il prologo e dopo l’uscita di scena di Oreste e Pilade, Ifigenia rientra accompagnata dal coro. Questa sezione rappresenta il nucleo centrale della prima parte della tragedia:Ifigenia è travolta dal lutto (pensa di aver perduto suo fratello) e prevede nuove sciagure, le schiave greche sono costrette a intonare canti barbari («Canto in risposta ai tuoi canti. / accompagnerò la mia padrona / con barbara cadenza in modo asiatico»; Euripide, Ifigenia fra i Tauri, cit., p. 14) ma sono solidali con lei, ne condividono la nostalgia e il lamento, deprecano l’inospitalità del mare della Tauride, ricordano con amarezza la patria che sono state costrette ad abbandonare.La meditazione si fa universale nell’accostamento ad altri luoghi del passato e del Mediterraneo mentre Siracusa incarna «la storia dell’umana civiltà e del suo tramonto».44 Qualche pagina più avanti la Tauride euripidea di nuovo viene utilizzata per parlare del degrado contemporaneo. Dalla meditazione sulla città di Siracusa scaturisce il racconto di una visita al di là del mare, lungo la costa africana. Tra i ricordi del passaggio alle rovine di Utica – «bassi muretti,pavimenti d’umili mosaici, qualche vasca, nudi ed esposti, in mezzo a tutta la vastità deserta intorno» –45 più del riferimento quasi inevitabile al Catone latino e a quello dantesco, colpisce la memoria delle piantine di un basilico profumatissimo che cresce in abbondanza tra le pietre e i mosaici e che viene poi offerto in dono da un vecchio arabo sorridente. Un particolare apparentemente senza importanza, che però, mentre riporta dall’aulico piano storico letterario a quello più concreto e tangibile degli usi e della gastronomia, definisce il prezioso patrimonio di piccole cose del Mediterraneo: Tra le pietre e i mosaici era un soave esalare di profumo di basilico riccio e fitto dentro vasche, vasi di terracotta. Era il profumo delle estati dei pomodori, delle cipolle, dei cetrioli, del basilico che i vecchi, uscendo per le strade sul tramonto, freschi e bianchi nelle camicie di cotone, mettevano all’orecchio; era di una intensità tale che si torceva nel profumo dolce e speziato della cannella.46 L’Utica di Consolo è rovine e basilico. Ma tutto il Mediterraneo in qualche modo è Utica. Tutto il Mediterraneo è fatto di «piccoli luoghi antichi e obliati» come Utica, in cui la natura si intreccia in maniera straordinaria con la memoria del passato.47 Proprio per questo, per la dimenticanza, per 44 Consolo, L’olivo e l’olivastro, cit., p. 73. Identica espressione in Id., La dimora degli Dei, in Vincenzo Consolo, Giuseppe Voza, Salvatore Russo, La terra di Archimede, con fotografie di M. Jodice, Palermo, Sellerio, 2001, pp. 3-16, a p. 14. Significativo in L’olivo e l’olivastro è l’accostamento della decadenza di Siracusa alla caduta di Costantinopoli: nel testo infatti è inserito un passo della Historia turco byzantina di Ducas (Consolo, L’olivo e l’olivastro, cit., p. 93) che contiene un lamento per la fine della città. Siracusa in preda al degrado dei moderni barbari dunque è come Costantinopoli in mano ai turchi. 45 Consolo, L’olivo e l’olivastro, cit., p. 91.46 Ivi, pp. 91-92.47 I mosaici e il basilico di Utica sono già ricordati in un passo di Malophòros, in un elenco di caratteristici e rapidi ritratti di piccoli luoghi carichi di passato, dalla Sicilia alla Grecia al Nord Africa: «Ci sono ormai posti remoti, intatti, non dissacrati, posti che smemorano del presente, che rapiscono nel passato? Io avevo provato questo rapimento a Tindari, affacciato alla balaustra della terrazza sul vertiginoso precipizio sotto cui si stende la spiaggia sinuosa l’incuria e l’anonimato di tanti tesori, la meditazione diventa amara: nell’enumerazione di antiche città, nell’anafora del verbo «ricordare», Consolo si trasforma in un «presbite di mente» tutto rivolto verso il passato, si trasforma in «infimo Casella» tutto proteso verso qualcosa che non c’è più: Ricordò i piccoli luoghi antichi e obliati, bagnati da quel Mediterraneo, ricordò Tindari, Solunto, Camarina, Eraclea, Mozia, Nora e Argo, Thuburdo Majius, Cirene, Leptis Magna, Tipaza… Ricordò la spianata delle moschee davanti al porto, il bagno d’Algeri […]. Pensò d’essere divenuto un confuso uomo, un presbite di mente che guarda al remoto ormai perduto, si ritrae in continuo dal presente, vecchio e scontento, di non essere in quel mondo che ombra, sagoma di nebbia, spirito lento, anima ancora carica di spoglia,nostalgia, infimo Casella smarrito sulla marina che arditamente intona versi alti, canta «Amor che ne la mente mi ragiona». No, non più. Odia ora. Odia la sua isola terribile, barbarica, la sua terra di massacro, d’assassinio, odia il suo paese piombato nella notte, l’Europa deserta di ragione. Odia questa Costantinopoli saccheggiata, questa Alessandria bruciata, quest’Atene, Tebe, Milano, Orano appestate, questa Messina, Lisbona terremotate, questa Conca d’oro coperta da un sudario di cemento, il giardino delle arance insanguinate. Odia questo teatro dov’è caduta la pietà, questa scena dov’è stata sgozzata Ifigenia, quest’Etna, questa Tauride di squadracce dove si consumano merci e vite, si svende onore, decenza, lingua, cultura, intelligenza…48 sa coi laghi marini, e sulla strada verso il teatro e il ginnasio, dove davanti alle casupole costruite coi blocchi di arenaria dei ruderi stavano vecchine, tutte nere e con bianchi fazzoletti damascati in testa, a filare come le Parche. L’avevo provato a Segesta, seduto sui gradini del tempio, in faccia all’orrido da cui saliva il gorgoglio delle acque del Kàggera; nel tragico silenzio di Micene, rotto dal suono di campani di greggi invisibili; nella sperduta piccola Utica, fra gli umili mosaici e il basilico che odorava di cannella; e qui a Selinunte, la prima volta che vi giunsi, in treno appunto, tantissimi anni avanti» (Id., Malophòros, cit., p. 89). Dello stesso tono la precedente osservazione sulle «stazioncine solitarie remote, di luoghi antichi,sacri, come quella di Segesta, di Cartaghe-Hannibal, di Pompei o di Olimpia» che sanno essere «commoventi, hanno ormai anche loro qualcosa di antico, di sacro» (ivi, p. 88). Omaggio ai «piccoli luoghi antichi e obliati» sono per lo più gli interventi apparsi su «L’Espresso» tra il 1981 e il 1982, dedicati a centri poco noti, come Miraglia, Valverde, Galati o Filosofiana. Il tono di questi articoli è però di solito quasi giocoso, un invito al godimento delle bellezze e delle ricchezze sconosciute. Come luogo antico e fuori dai soliti canali turistici è presentata anche Dion, stesa nella pianura ai piedi del Monte Olimpo (Id., Neró Metallicó, Roma, La lepre edizioni, 2009, pp. 31-32).48 Id., L’olivo e l’olivastro, cit., pp. 92-93. Il riferimento a Casella evidenzia il legame che Consolo sente con il passato, con ciò che non esiste più. Ma la sovrapposizione non è perfetta: il richiamo alla canzone Amor che ne la mente mi ragiona è immediatamente contraddetto dal «No, non più. Odia ora» e il canto non ha nulla della dolcezza
del regno del Purgatorio, ma piuttosto una rabbia infernale, un tono che pretenderebbe «rime aspre e chiocce».Dai toni nostalgici Consolo passa a quelli indignati di un coro antico e professa odio prima nei confronti della sua Sicilia, diventata «terribile, barbarica,terra di massacro», una Tauride percorsa da «squadracce», poi verso l’Europa e verso l’intero Mediterraneo. Il dramma in atto ha proporzioni gigantesche e il riferimento ai simboli della tragedia euripidea sancisce la gravità della speculazione edilizia, dell’azione mafiosa: sulla cavea è stata sgozzata Ifigenia, si è prodotto cioè il sacrificio dei sacrifici, la morte della sacerdotessa che Artemide aveva voluto salva, la morte dell’esiliata e, con lei, la morte di ogni forma di giustizia, cultura, rispetto. Il presente è una Tauride senza speranza. Ai simboli euripidei Consolo ricorre anche in L’ape iblea. Elegia per Noto,testo teatrale del 1998,49 in cui all’elogio nei confronti della città che seppe rialzarsi dal disastroso terremoto del 1693 con la prodigiosa fantasia del barocco si sostituisce l’amarezza di fronte al degrado contemporaneo. Proprio per evidenziare la decadenza, l’incuria, Consolo introduce il lamento in prima persona di una Ifigenia smarrita, prima esiliata «nel fragore industriale», che è quello del polo siracusano, quindi di ritorno ad un’Argo di arnie e miele dove però non trova né arnie né miele, ma una «città / perduta, ottenebrata», «una Sarajevo / di lenta erosione»,50 un luogo cioè in cui non è possibile la ricomposizione dell’identità: L’Atride snaturato, la sorte avversa,bandì lontano,in terra stranea inospitale, regno d’ogni crudezza, scialo.Nei recessi bui, nel fragore industriale,bramai ognor la casa,conca di memoria brace di speranza.49 Uscito nel 2002, nel volume Oratorio, insieme a Catarsi (Id., Oratorio, Lecce, Manni, 2002).50 Ivi, p. 57.Vergine indurita, torno ora in Argo, all’alta reggia, alla chiara pietra, all’arnia, al miele. Torno e, oh, cieca m’aggiro nella città perduta,
ottenebrata, chiese, conventi vacui, deserte, mute le piazze.51Il mito della figlia di un Agamennone snaturato evidenzia la tragedia di Noto. Il riferimento forza la tradizione nel descrivere il ritorno di Ifigenia che però nulla realizza della tanto sospirata speranza: se al polo industriale ben si adatta l’immagine di Tauride dell’esilio, gli Iblei di api e miele invece non possono più essere la patria del sogno, l’alveare della memoria, e sono piuttosto un’Argo deludente. Nella amara scoperta dell’involuzione della propria patria, alla tragedia di Ifigenia si sovrappone quella di Antigone. La mancanza di cura del patrimonio culturale si configura come un’azione sacrilega, empia, come l’atto di un «Creonte dissennato», che mette al di sopra delle leggi divine la sua autorità di despota.Chiusa nel mio nero,sola sulla scalea,piango per l’oltraggio,l’ingiustizia, l’empietà d’un Creonte dissennato.52 Quest’uso dei simboli tragici antichi per parlare di drammi siciliani ne testimonia la forza, intatta nonostante i secoli. Dell’esperienza “vivificante” della traduzione dell’Ifigenia fra i Tauri Consolo conserva figure e modelli, capaci di commentare il contemporaneo,53 in una prospettiva che privilegia 51 Ivi, pp. 57-58. 52 Ivi, p. 58. 53 La Di Legami (Flora Di Legami, Vincenzo Consolo, Marina di Patti, Pungitopo, 1990, 48-49) sottolinea soprattutto che per Consolo la scelta della tragedia più romanzesca dell’antichità equivale ad un ripetuto interrogarsi sulla natura e sul significato del narrare. L’Ifigenia euripidea dunque sarebbe per l’autore anche metafora della condizione straniata dell’intellettuale a tu per tu con una parola sempre più svuotata di senso, in esilio come Ifigenia e Oreste. Si veda anche Minarda, La lente bifocale…, cit., pp. 104-106: il critico evidenzia i luoghi noti, quindi la Sicilia, Milano, il Mediterraneo, e che si allarga facilmente al mondo intero.Al di là dell’interesse tematico c’è il riconoscimento della grandezza formale della poesia antica, la ricchezza di una lingua perduta, in grado di veicolare un complesso di valori. Ciò spinge Consolo a usare i versi euripidei anche per commentare gli eventi di Palermo, la strage di via d’Amelio. Il buio della lunga notte dell’infelice paese, lo strazio per le esequie funebri delle vittime, richiama le parole della poesia vera, la sola che dia «luce e sollievo nei momenti più bui e insostenibili»,54 ovvero alcuni versi dall’Ifigenia fra i Tauri.Vorremmo usare parole alte, degne, essendo le nostre fatalmente povere,consunte, parole prese dai libri delle antiche religioni o dai poemi immortali,dalle tragedie greche, per poter commentare gli eventi di Palermo, lamentare lo strazio per le esequie funebri dei cinque uomini giusti dilaniati dal tritolo insieme a un giudice giusto, e non per infiorare pietosamente, come si fa con le corone, la realtà tremenda, ma perché le parole ispirate e pure dei salmi o dei grandi poeti ci sembrano quelle che al di sopra di tutte diano luce e sollievo nei momenti nostri più bui e insostenibili. «Strazio da strazio nasce, / poiché le alate cavalle volsero il corso / e il sole altrove sospinse / l’occhio sacro del giorno», recita un coro di Euripide.55 Le parole dell’Ifigenia commentano i fatti – lo strazio sorto dalle limitazioni in merito ai funerali per le vittime – e rappresentano l’ultimo baluardo possibile contro la perdita dell’identità. Ecco spiegato allora il senso della traduzione di una tragedia greca nel presente, quando il mondo antico muore e sembra che non debba restare «neanche una vuota, dorata carcassa, come quella della cicala scoppiata nella luce d’agosto».56 Come le donne greche del coro dell’Ifigenia fra i Tauri che cercano di salvare la loro identità attraverso la memoria, Consolo ricorre alla poesia antica contro la Tauride del presente: è la sua tragedia siciliana. come il dramma del riconoscimento identitario tra i fratelli diventi nell’opera di Consolo il dramma collettivo del riconoscersi a stento nei disagi del presente. 54 Vincenzo Consolo, La lunga notte di questo infelice paese, in «L’Unità», 23 luglio 1992, ora in Id., Cosa loro, a cura di N. Messina, Milano, Bompiani, 2017, pp. 117-120, a p. 117. 55 Ibidem. 56 Id., Le pietre di Pantalica, cit., p. 132.__ 1 Euripide, Ifigenia fra i Tauri, trad. di V. Consolo e D. Del Corno, Istituto Nazionale del Dramma Antico, XXVII ciclo di spettacoli classici (27 maggio-4 luglio 1982), Siracusa, INDA, Nello stesso libretto anche le Supplici di Eschilo, tradotte da Scevola Mariotti e Giuseppe Di Martino. 2 Secondo Giusto Monaco, allora direttore dell’INDA, il duplice contributo, con competenze e sensibilità differenti, è garanzia di un felice risultato: «Per ciò che riguarda le traduzioni, il felice risultato dell’esperimento fatto nel ciclo precedente ha suggerito di confermare il metodo dell’affidamento di ciascun dramma a due autori, un filologo e uno scrittore di teatro moderno», in Giusto Monaco, Tra rigore culturale e aperture sociali, breve articolo che accompagna il libretto con le tragedie. Già negli anni precedenti infatti la traduzione dell’opera messa in scena era stata il risultato della collaborazione di due professionalità differenti: nel 1980 Umberto Albini e Vico Faggi avevano tradotto le Trachinie di Sofocle, Vincenzo di Benedetto e Agostino Lombardo Le Baccanti di Euripide. La scelta viene confermata nel 1984 con il Filottete di Maricla Boggio e Agostino Massaracchia.Da Levia Gravia quaderni annuali (2018)
Giuseppe, figlio prediletto di Giacobbe e di Rachele, odiato dai fratellastri, venduto a mercanti ismaeliti e finito schiavo in Egitto; oggetto di desiderio della moglie di Potifar, consigliere del faraone, calunniato e imprigionato; liberato e irresistibilmente asceso grazie alle sue facoltà oniromantiche, al potere e alla ricchezza; salvatore dell’Egitto e del suo popolo dalla fame durante i sette anni di carestia, questo Giuseppe, non solo occupa il suo posto importante e singolare nel libro dei libri, nella Bibbia, ma trasmigra in altri libri sacri, dal Talmud al Corano. E da sempre ha acceso fantasie, ha mosso il bisogno di sciogliere enigmi contenuti nel conciso testo biblico, di dipanare e arricchire il racconto originale, di togliere questa figura dalla sua intangibile e impenetrabile corazza di sacralità, di profezia, di missione, di bellezza e di virtù, e umanizzarla, laicizzarla: ha mosso insomma il bisogno di imbastire racconti sul racconto, di scrivere libri sul libro. Da tutta la letteratura orale e scritta mediorientale fino ai cosiddetti pseudepigrafi, fino ai moderni scrittori occidentali, da Goethe a Mann.
In Poesia e verità, Goethe ricorda che, da ragazzo, sulla storia di Giuseppe aveva costruito un’ampia narrazione, che poi aveva distrutto. Scrive: “Questa semplice e spontanea storia (…) si è tentati di completarla in tutti i suoi particolari “. E Mann, coma ad accogliere l’invito del suo predecessore, dedicò sedici anni della sua vita a riscrivere la storia di Giuseppe, sedici anni a scrivere una tetralogia dal titolo Giuseppe e i suoi fratelli.
Ma c’è, nella biblica storia di Giuseppe, “bello di forma e avvenente di aspetto”, del “casto” Giuseppe, un episodio che più degli altri è conciso, sibillino; più degli altri ha posto problemi di ordine esegetico, religioso.
È l’episodio del suo matrimonio con l’egiziana Aseneth ( matrimonio misto, d’un figlio d’Israele con una straniera) . Episodio che più degli altri ha acceso quelle fantasie narrative di cui dicevamo.
Così racconta la Bibbia: “E il faraone chiamò Giuseppe Zafnat – Panache e gli diede in moglie Aseneth, figlia di Potifera, sacerdote di On”; “Intanto nacquero a Giuseppe due figli, prima che venisse l’anno della carestia; glieli partorì Aseneth (…) Giuseppe chiamò il primogenito Manasse (…) E il secondo lo chiamò Efraim (Genesi, 41,43). Su questo episodio s’imbastisce il bellissimo romanzo in lingua greca dei primi anni dell’era cristiana, di autore anonimo, presumibilmente della comunità ebraica di Alessandria. Il romanzo s’intitola Storia del bellissimo Giuseppe e della sua sposa Aseneth. Il quale ora, felicemente tradotto da Marina Cavalli e accompagnato da una dotta e appassionata nota di uno dei nostri maggiori grecisti, Dario Del Corno, è pubblicata dall’editore Sellerio.
La storia di Giuseppe in Egitto, il suo matrimonio con Aseneth, è senza dubbio la storia di un emigrato che si integra nel nuovo mondo, col suo potere, fino a impersonarlo anzi, dopo il faraone, fino a cambiare nome, fino a sposare una idolatra. Da questo punto “dubbio” della vita di Giuseppe, che ha gettato un’ombra sul popolo eletto, parte l’indagine di Del Corno, muovendosi tra l’ironia moderna di Mann, che fa bruciare a Giuseppe “incenso davanti a un’immagine del falco Horacte con il disco solare sulla testa” (Giuseppe in Egitto), e l’astuzia della teologia antica, che arriva a trasformare l’egiziana Aseneth nell’ebrea nipote di Giuseppe, figlia di Dina, per mettere in luce la terza via rappresentata da questo romanzo greco: di Aseneth convertita per amore. Un’opera “al punto di incrocio tra l’apologetica e la fiaba, il romanzo e l’allegoria” scrive Del Corno. Per noi romanzo soprattutto d’amore e d’avventura, nettamente diviso in due parti.
Nella prima, campeggia la stupenda figura di Aseneth, “maestosa e fiorente”, chiusa nello splendore delle sue vesti, dei suoi gioielli, delle sue camere animate dalla virginale presenza delle sette ancelle, in cima alla inviolabile torre in mezzo a un giardino di delizie; di Aseneth che, folgorata d’amore, dopo sette giorni di espiazione con lacrime, cenere e digiuno, “convertita”, risorge a nuova vita e sposa Giuseppe. Nella seconda, tutta azione, intrighi, agguati, battaglie, ferimenti e uccisioni, è il trionfo del bene sul male, di Giuseppe sul figlio del faraone.
Romanzo carico di simboli, ora chiari ora indecifrabili; opera che, al di là delle sue ipoteche teologiche, religiose, vive di una sua autentica vita letteraria, di una sua vera poesia.
Da Il Messaggero 15/2/1984
Lingua originale: greco antico
Traduzione di Marina Cavalli
Titolo originale: Πράξεις του̃ παγκάλου ‘Ιωσήφ καί τής γυναικòς αυ̉του̃ Ασενὲθ θυγατρòς Πεντεφρη̃ ‘ιρέως ‛Ηλιoυπόλεως
Nota di Dario Del Corno
4 illustrazioni a colori
Una delle più poetiche storie, imperniate sulla figura di Giuseppe, proliferate dalla tradizione biblica.
Tragedia “a lieto fine” l’Ifigenia fra i Tauri, come si usa dire anche per altri drammi di Euripide?
Piuttosto, tragedia di personaggi senza futuro che non sia quello di una vuota e immota sopravvivenza fisica.
Ifigenia rimarrà per sempre incatenata al suo destino di vergine sacerdotessa:
di esclusa, di diversa – di relegata, non importa se fra i selvaggi abitatori della Tauride,
o sulle sacre terrazze di Brauron; Oreste infine liberato dagli spettri del matricidio – nel cui tormento e nel disperato movimento era tuttavia la sua grandezza – sarà impegnato forse solo a cancellare il ricordo del suo furore. Questa vita che non è vita affermano di bramare, finalmente, i due protagonisti: ma nel periodo estremo dell’avventura fra i Tauri, il loro pensiero corre continuamente al passato. La loro memoria è tratta dall’orrore atroce e sublime che per entrambi fu la vera tragedia: l’altare di Aulide per Ifigenia, il delitto contro la madre di Oreste. Allora si è bruciato il loro destino; e da allora esse sono dei sopravvissuti.
Il tempo si è fermato, nell’animo di Oreste e Ifigenia, dall’evento fatale che ha fissato la loro identità: e giovani come allora essi continuano a dirsi, anche se molti anni ormai sono trascorsi.
Sull’orrore del ricordo prevale forse, non detto, il rimpianto per quel momento, in cui essi furono i personaggi di una tragedia, non di un romanzo. Che sia lecito leggere, in quest’Ifigenia, anche al rimpianto, da parte di una Grecia avviata verso L’Ellenismo, per il tempo irrimediabilmente concluso, contrassegnato dalla scoperta della vita e della sua pienezza – la tragedia appunto? Insieme, il dramma euripideo pervaso dal senso della cristallizzazione. E gli dei si accaniscono a salvare i protagonisti, a continuare i loro destini, condannandoli a un’immobilità senz’altro più crudele degli strazi di Prometeo, di Aiace e Medea.
La tragedia dell’esilio, che è stato per lunghi anni la sorte di Ifigenia e di Oreste, è condivisa dalle donne del coro. Ifigenia e le sue ancelle, cadute dalla civiltà dell’Ellade nella barbarie di una terra inospitale, dall’umano al disumano, sentono in quest’esilio il rischio di perdita della loro identità culturale.
Per salvarsi ricorrono alla memoria; e dalla memoria scaturisce il canto, l’alto lirismo degli stasimi. Dall’altra parte stanno i barbari: Toante, il mandriano, la guardia – un mondo diverso e una lingua diversa.
Ma oltre questa più evidente dicotomia, altri livelli intermedi sono nel linguaggio della tragedia dissimulati in un regime di rigorosa economia stilistica secondo i modi del teatro greco.
Che di tutto questo la traduzione sia riuscita a salvaguardare e ed evocare qualche accenno, e la speranza di chi ad essa ha lavorato, con amore: trovando in questo lavoro la soddisfazione di rileggere quel passato che ha orientato la nostra storia, e scoprendo la terribile attualità di questa, come di ogni altra tragedia. Il nostro è tempo di esuli da patrie e identità culturali perdute, di lingue cancellate; è tempo di immobilità e di futuri deserti, di rimpianto per le mancate realizzazioni. In quest’epoca priva di tragedia, piena di evento grafia e di informazione, Euripide testimonia ancora l’aspro proposito di capire la vita, e di accettarla.
Vincenzo Consolo
Dario Del Corno
Istituto Nazionale del Dramma Antico
XXVII Ciclo di spettacoli classici
27 maggio – 4 luglio 1982
Siracusa 1982