La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo

di Ada Bellanova



Partendo dall’evidente ricchezza di riferimenti geografici osservabile nell’opera di Vincenzo Consolo, il saggio si propone, mediante uno studio delle modalità di costruzione dell’immagine letteraria, di accendere l’attenzione non solo sugli spazi di cui l’autore parla direttamente, ma anche sulla nostra relazione con lo spazio. Guida dunque il lettore attraverso un universo labirintico e ‘palincestuoso’, che ha il suo centro in Sicilia e che comprende il Mediterraneo, l’Italia, il mondo intero. Invitando a cogliere la complessità della percezione e della rappresentazione, si sofferma sul dramma ecologico di un paesaggio costantemente a rischio e sulla crisi dell’identità umana che ne consegue.
Evidenziando poi la caratterizzazione del mare Mediterraneo come spazio di molteplicità e migrazioni lo studio rivela un’importante riflessione autoriale sulle emergenze dei nostri giorni.
“Il lettore potrà, facendosi strada in uno spazio letterario labirintico, compilare mappe di senso e comprendere i luoghi dell’autore e il nesso esistente tra geografie di carta e geografie reali? Se sì, forse sarà incoraggiato a scoprire la Sicilia, il Mediterraneo, chissà anche Milano. Ma, fatta salva la specificità dei luoghi chiamati in causa, si troverà inevitabilmente di fronte a una serie di riflessioni di più ampia
portata, ciò che accade di fronte alla vera letteratura. Comprenderà che i luoghi non sono uno sfondo, non solo quelli della pagina scritta, ancor meno i loro referenti della realtà: nessun luogo reale, infatti, è un
semplice contenitore, uno scenario su cui sfilare. Mediterà allora sul proprio modo di percepire lo spazio, sulla relazione tra rappresentazione e realtà, sulla memoria e sul cortocircuito che si produce quando, nello scorrere del tempo, Itaca smette di essere Itaca mentre i ricordi restano fedeli al passato. Sarà costretto a pensare a quello che sta succedendo al paesaggio, a tratti esteticamente splendido, a tratti deturpato, privato della sua identità. Ecco, si interrogherà sull’identità: se i luoghi non sono uno sfondo e smettono di essere quello che sono – fagocitati dall’omologazione, da interessi economici, dalla costruzione di barriere –, inevitabili e funeste sono le conseguenze anche sugli esseri umani. Così strettamente interrelate sono l’identità degli uomini e quella degli spazi. Per questo allora l’opera di Consolo può dirsi un eccezionale baedeker: vi si può cogliere l’invito a scoprire alcuni angoli geografici, mediante il rilievo a proposito delle emergenze architettoniche o naturalistiche che attendono il lettore che voglia avventurarsi alla scoperta dello spazio reale, ma vi si troverà anche la presentazione dei deprecabili interventi che deturpano il paesaggio e la vita umana. Già questo basterebbe ad attestarne la particolarità, perché le guide di viaggio, anche quelle “letterarie”, si soffermano piuttosto sugli aspetti seducenti, evitando invece ciò che produrrebbe un’esperienza quanto meno sgradevole per il lettore-viaggiatore. Mentre, alternando la lente dello stupore e dell’idealizzazione a quella dell’indignazione, attrae e scoraggia, il testo svela la complessità della nostra relazione con lo spazio, costringendo ad un’esperienza non sempre gratificante, e guida a una maggiore attenzione nei confronti dei luoghi, di tutti i luoghi, in quanto portatori di identità. Agli importanti segni di crisi della modernità l’opera risponde affermando il valore di ciò che è rimasto, traccia di passato nel presente: solo nella conservazione, nella cura possiamo sperare di non perdere noi stessi, ma questo non può accadere senza consapevolezza. Consolo dichiara insomma che i luoghi non sono uno sfondo, ma ci appartengono profondamente e rileva l’intimo scambio che esiste sempre tra ambiente e essere umano. Mi piace pensare allora che nei versi di Accordi, con l’ignoto tu, l’autore alluda proprio a questo, ad un’identità sua e di tutti i figli del Mediterraneo, un’identità nata da una relazione vecchia di secoli con la terra, le piante, i muri a secco, con i paesaggi: tolto tutto questo, cosa saremmo?

Sei nato dal carrubo
e dalla pietra
da madre ebrea
e da padre saraceno.
S’è indurita la tua carne
alle sabbie tempestose
del deserto,
affilate si sono le tue ossa
sui muri a secco
della masseria.
Brillano granatini
sul tuo palmo
per le punture
delle spinesante [1]”.

[1] Accordi. Poesie inedite, a cura di F. Zuccarello e Claudio Masetta Milone, Zuccarello editore, Sant’Agata di Militello 2015.

Purché ci resti Itaca: nelle radici una speranza per domani. La voce di Consolo

Ada Bellanova

Purché ci resti Itaca:

nelle radici una speranza per dopodomani.

La voce di Consolo.

1. Ripensare i luoghi in forma di idillio. Il dramma di Ulisse e di Ifigenia.

            Senza la letteratura Itaca sarebbe semplicemente una piccola isola greca nel Mediterraneo. Invece Omero, la tradizione, le invenzioni letterarie l’hanno resa il luogo per eccellenza delle radici e della memoria, la patria ritrovata dopo un lungo viaggio: l’hanno trasformata in simbolo[1].

            Ulisse in viaggio, intento ad affrontare pericoli, mostri e tempeste, porta con sé l’immagine di Itaca luogo del cuore, patria perfetta, a cui desidera a tutti i costi tornare. Una polarità netta si crea tra il mondo minaccioso – e avventuroso – e il nucleo accogliente e protettivo della patria e della casa. Eppure Ulisse, una volta sbarcato, è costretto a interrogarsi subito sull’identità della terra, sullo scarto tra il sogno che ha cullato durante la lunga distanza e la realtà[2]. Molte cose infatti sono cambiate: lui non è più lo stesso e Itaca è mutata, non solo per i soprusi dei Proci, ma anche perché il tempo ha segnato la sua geografia a tal punto da conferirle un paesaggio nuovo, diverso. Per queste ragioni, e non solo per l’intervento di Atena, Ulisse si guarda intorno e, smarrito, si pone la domanda: «Dove sono capitato?». Sebbene il finale dell’Odissea risulti confortante – l’eroe ottiene di nuovo il suo ruolo di re dopo la sconfitta dei Proci e l’intesa del talamo con Penelope – sorge il dubbio che l’Itaca ritrovata sia un po’ deludente rispetto al sogno e alla nostalgia. Perché altrimenti Ulisse sceglierebbe, come insegna l’altra tradizione, di ripartire? Non dovrebbe godersi la terra tanto amata? Il fatto è che, come scrive Jankelevitch, la nostalgia, per l’esule – per qualunque esule –, è insanabile, inestinguibile[3]. Già nel momento del primo distacco dalla patria ha inizio un cambiamento, nel luogo e nell’individuo, che non permette di colmare la distanza, in alcun modo, neppure nell’opportunità di un ritorno. 

            Ifigenia a sua volta, la sfortunata figlia di Agamennone, salva ma costretta all’esilio tra i feroci Tauri autori di sacrifici umani, non fa altro che sognare la sua Argo: una reggia preziosa, in cui è stata bambina, principessa, ma ormai, senza che lei lo sappia, luogo insanguinato dagli omicidi, la morte del padre per mano di sua madre, quella di sua madre per mano di suo fratello. La Tauride – anche in questo caso la responsabilità è della letteratura – assume la connotazione di una terra selvaggia, priva di ogni forma di civiltà: la dolente sacerdotessa greca, pur investita dell’autorità religiosa, non può far altro che sciogliere il suo canto d’esilio, insieme alle schiave sue compagne. È la trama dell’Ifigenia in Tauride euripidea: l’autore antico ha composto una tragedia che recita il dramma della nostalgia, la stessa di Ulisse. La città lontana di Argo, nella mente di chi vive l’esilio, ovvero la protagonista e, con lei, il coro, assume i tratti di uno spazio desiderato e armonioso, un territorio caro, in cui rispecchiarsi e ritrovarsi: è emblema della Grecia della civiltà. Eppure, come dicevo, la terra lontana non è affatto così come l’esule se la dipinge e, anche di fronte al lieto fine, mentre Ifigenia e il fratello ritrovato salpano dalla Tauride ostile e si allontanano dai sacrifici, c’è da augurarsi che non ci sia nessun ritorno a casa. Ritrovare Argo infatti non è possibile e il ritorno può essere estremamente traumatico.

           Il mito e la letteratura, proponendo una caratteristica veste per certi luoghi reali, li trasformano in simboli, metafore efficaci anche per la contemporaneità e per il nostro modo di vivere gli spazi.

            Ne sa qualcosa Vincenzo Consolo che in tutta la sua opera pone l’accento sul suo esilio nel Nord e sull’irredimibile nostalgia per la Sicilia lontana, patria del ricordo, e perciò idealizzata nella distanza, come in un’odissea contemporanea, tra le nebbie di una Milano grigia che ha più di un tratto in comune con la Tauride euripidea. L’olivo e l’olivastro (1994) e poi anche Lo Spasimo di Palermo (1998) descrivono un ritorno doloroso che ha i tratti di un incauto procedere tra le rovine di una patria in fiamme. Nel primo libro, che reca già nel titolo l’omaggio e la simbolizzazione degli spazi omerici – nell’Odissea olivo e olivastro segnano lo spazio del naufragio di Ulisse sulla costa dei Feaci – al giovane migrante siciliano che, fuggito dal terremoto di Gibellina – ecco Enea che abbandona un’Ilio compromessa – prova a ritornare dopo tanti anni, il nóstos è negato: Itaca non c’è più, fuor di metafora, perché la vecchia città è scomparsa sotto il sudario di cemento del Cretto di Burri, e la nuova, con la Stella texana che segna l’ingresso nel Belice, è, per dirla con le parole di Consolo, «costruita dai Proci»[4], non ha insomma molto a che fare con la tanto sospirata patria delle radici. Nel secondo, poi, veramente amaro è il ritorno del protagonista, lo scrittore Chino Martinez, a Palermo: la città degli anni Novanta, già compromessa dalla ferocia della speculazione edilizia, dal sacco che ha cementificato la Conca d’oro, deve fare i conti con la violenza mafiosa, esemplificata dalla drammatica esplosione finale in via d’Astorga che allude in maniera netta alla strage di via d’Amelio. A queste opere possono essere aggiunte moltissime pagine, come il testo eponimo di Le pietre di Pantalica, che piange il degrado – culturale, ambientale – dello scenario della bianca Siracusa, chiamando in causa i simboli della tragedia euripidea[5], tradotta tra l’altro proprio da Consolo con Del Corno[6], che è messa in scena nel teatro antico. L’autore fa del suo vissuto il motore dell’invenzione narrativa: la sua personale prospettiva interpreta gli spazi e li reinventa sul piano letterario. In questo processo Itaca e Argo rimandano a un mondo che non c’è più: un universo intatto, in armonia, cancellato da una modernità incivile e snaturante, e divenuto un perenne labirinto fitto di mostri e pericoli, una Tauride in cui si sacrificano gli innocenti. Nella prospettiva consoliana allora non è solo la Milano affarista ad assumere i tratti di luogo ostile: l’osservazione dell’intero spazio della contemporaneità – l’Italia, il Mediterraneo con i suoi naufraghi e ogni luogo in cui il migrante è perseguitato, ferito, il paesaggio mortificato dagli incendi, dall’industrializzazione, da un turismo becero e superficiale – denuncia una perdita irreparabile in termini di valori e identità[7]. La polarità non è più, o comunque non solo, tra lo spazio fisico dell’esilio e la terra delle radici, ma tra lo spazio del presente, omologante e svilente, e quello del passato, in cui è ancora possibile un equilibrio.

2. Proteggere le radici.

Io sono una forza del Passato.

Solo nella tradizione è il mio amore.

Vengo dai ruderi, dalle chiese,

dalle pale d’altare, dai borghi

abbandonati […]

       P.P. Pasolini[8]

            Eppure, affrontato il rischio della rottura dell’idillio, si può scoprire che Itaca non è del tutto allo sfacelo e che sulle colonne di Argo si può ricostruire. Conviene però prendere coscienza del punto a cui siamo arrivati. Conviene ripartire dalle radici, ritrovare angoli vivi del paesaggio, lasciarsi ispirare da quanto di buono essi comunicano. Il che non vuol dire smettere di vedere le criticità di ciò che è stato: significa valorizzare ciò che può essere valorizzato e trovare una nuova via alternativa all’omologazione e allo sfruttamento.

            La vera letteratura ha questo di utile, ci svela a noi stessi, e le pagine di Consolo parlano a tutti e di tutti, toccano le corde del legame doloroso o vivificante che abbiamo con gli spazi e tentano di fare chiarezza su questioni grandi e urgenti: invitano cioè ad una consapevolezza ambientale nel senso più ampio dell’espressione come unica strada non solo per non perdere il luogo, ma anche per non perdere noi stessi.

           Trovo illuminante la sua riflessione sulla Sicilia e sul Mediterraneo: nell’amarezza di fronte allo scempio, di fronte ai facili stereotipi che semplificano lo spazio, lo appiattiscono – il seducente paradiso a buon mercato da una parte, il degrado, i sotterfugi dall’altro –, avvallati in maniera semplicistica da un certo tipo di informazione e da un certo tipo di politica, l’autore rivendica il valore della complessità. Lo spazio ha molte facce, molte sfumature, la bellezza ha una sua indubbia fragilità.

            Nella sua rappresentazione dello spazio individuiamo la valorizzazione di alcune isole di sopravvivenza: gli Iblei con l’arte intatta degli apicoltori e i Nebrodi coi pascoli verdissimi non sono semplice idillio, Itaca e Argo del ricordo in cui sarebbe meglio non tornare mai, ma un esempio di risposta concreta alla crisi del paesaggio e dell’identità contemporanea. Descrivendo la miracolosa armonia tra uomo e natura, la ricchezza ambientale – piante, animali –, tradizioni gastronomiche e saperi antichi, che caratterizzano queste oasi di sopravvivenza, Consolo valorizza una Sicilia quasi arcaica. In ciò non rifiuta il progresso in sé, piuttosto evidenzia la necessità che esso non faccia perdere all’uomo la sua identità storica e culturale, come è invece accaduto nel caso della violenta industrializzazione dell’isola. Mette cioè in evidenza che i luoghi non sono uno sfondo e che, se smettono di essere quello che sono – fagocitati dall’omologazione, da interessi economici, dalla costruzione di barriere –, inevitabili e funeste sono le conseguenze anche sugli esseri umani. Così strettamente interrelate sono l’identità degli uomini e quella degli spazi.

            La sua opera invita dunque – e in ciò risiede, secondo me, la grande attualità del messaggio consoliano – a conservare le radici, a prendercene cura, perché solo nella salvaguardia di ciò che è rimasto possiamo sperare di non perdere noi stessi.

            Il passato – come insegnava anche Pasolini nella sua strenua definizione dell’ambiente storico e umano come territorio composito e stratificato nel tempo, insieme universo linguistico, identità dei luoghi, creazione artistica – può non essere un ricordo perduto: può anzi configurarsi come forza a cui attingere.

            Mi piace pensare che nei versi di Accordi,con l’ignoto tu, Consolo alluda ad un’identità sua e di tutti i figli del Mediterraneo, un’identità nata da una relazione vecchia di secoli con la terra, le piante, i muri a secco, con i paesaggi: tolto tutto questo, cosa saremmo?

Sei nato dal carrubo

e dalla pietra

da madre ebrea

e da padre saraceno.

S’è indurita la tua carne

alle sabbie tempestose

del deserto,

affilate si sono le tue ossa

sui muri a secco

della masseria

Brillano granatini

sul tuo palmo

per le punture

delle spinesante[9].

            Solo se ripartiamo da questo, allora, da ‘Itaca’, attraverso un cammino, senz’altro faticoso, difficile, di consapevolezza degli spazi e della nostra relazione con essi, possiamo avere qualche opportunità di sopravvivere anche noi. Possiamo avere qualche speranza, se non per domani, almeno per dopodomani. 


[1]A. Montandon, Itaque au fil du temps, in B. Westphal (a cura di), Le rivage des mythes. Une géocritique mediterranéenne. Le lieu et son mythe, Pulim, Limoges 2001, pp. 18-36.

[2]Odissea XIII 200-202.

[3]V. Jankélévitch, L’irréversible et la nostalgie, Flammarion, Paris 1983, pp. 370-371.

[4]V. Consolo, L’olivo e l’olivastro, in Id., L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, Mondadori, Milano 2015, p. 869.

[5]V. Consolo, Le pietre di Pantalica, in Id., Le pietre di Pantalica, in Id., L’opera completa, cit., pp. 615-621.

[6]Ifigenia fra i Tauri, trad. di Vincenzo Consolo e Dario Del Corno, Istituto Nazionale del Dramma Antico -XXVII ciclo di spettacoli classici (27 maggio-4 luglio 1982), INDA, Siracusa 1982.

[7]«Non si ritorna più nei luoghi da cui si è partiti, perché quelli non sono più i luoghi che noi abbiamo lasciato. Non si è più di nessun luogo», V. Consolo, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Donzelli, Roma 1993, p. 69. Dello stesso tono sono le affermazioni di Consolo nell’intervista con D. Calcaterra: «Una volta che si è partiti i ritorni sono impossibili. Qualsiasi ritorno, anche quello di Odisseo, dopo l’allontanamento, non riesce a colmare il distacco […] Nell’assenza si è consumato un duplice mutamento: dell’individuo e del luogo d’origine. Si prova una gran pena quando non riconosci più la tua terra, e la metamorfosi acquista la drammatica cifra dell’inesorabile degrado, della perdita, dello smarrimento. Ogni ritorno è dunque dolore. […] Oggi siamo tutti degli Ulissidi, degli erranti, espropriati del proprio luogo della memoria. Viviamo nell’indefinito, senza sicuri punti di riferimento, senza segni, intorno a noi c’è un mare da cui non s’intravede alcun approdo possibile, e d’altra parte non vediamo più la sponda da cui siamo partiti. Il destino dell’uomo contemporaneo è quello dell’errante, che ha perso la propria identità, la propria patria» (D. Calcaterra, Vincenzo Consolo, le parole, il tono, la cadenza, Prova d’autore, Catania 2007, pp. 20-22).

[8]P.P. Pasolini, 10 giugno 1962, in Poesie mondane, in Poesia in forma di rosa, in Id., Tutte le poesie, a cura di W. Siti, 2 voll., Mondadori, Milano 2003, I, p. 1099.

[9]Accordi. Poesie inedite, a cura di Claudio Masetta Milone e F. Zuccarello , Zuccarello editore, Sant’Agata di Militello 2015.
pubblicato “La macchina sognante” (28 dicembre 2020)

Vincenzo Consolo: da ” Accordi ” a ” Marina a Tindari “

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Vincenzo Consolo: da “Accordi” a “Marina a Tindari”

di

Sergio Palumbo

     La plaquette di Vincenzo Consolo “Accordi” apparsa nel dicembre del 2015 per Zuccarello Editore, lo stabilimento tipografico di Sant’Agata di Militello diventato famoso per la pubblicazione delle “9 liriche” di Lucio Piccolo finita poi nelle mani di Eugenio Montale, mallevadore dell’aristocratico poeta siciliano, non sorprende perché questo scrittore non è nuovo per rarità bibliografiche. Ma la plaquette postuma ha la particolarità di raccogliere una manciata di versi, il che rappresenta un fatto inedito perché Consolo non ha mai pubblicato sue poesie né, diceva, di averne mai scritte.

     Si tratta di una curiosità letteraria che certo non autorizza a parlare adesso di un Consolo poeta. Egli rimane un narratore puro come lo è Vittorini così come Quasimodo, Cattafi e Lucio Piccolo sono poeti puri. Gli altri importanti autori siciliani del secondo Novecento, non volendo scomodare ancor prima Pirandello, quali Sciascia, Bufalino, D’Arrigo, Bonaviri, Addamo, per quanto vengano considerati dalla critica essenzialmente dei narratori, ci hanno lasciato sillogi di versi, soprattutto gli ultimi due. Gli “Accordi” di Consolo, ritrovati nell’archivio milanese dello scrittore dalla moglie Caterina Pilenga e, come specificato nel libriccino, risalenti non si sa a quale data, sono stati amorevolmente raccolti a cura di Claudio Masetta Milone e Francesco Zuccarello. La plaquette, con impaginazione grafica di Giulia Tassinari, presenta in copertina un’incisione di Mario Avati.

     Diego Conticello, sempre attento e puntuale nelle sue ricognizioni, recensendo per “Carteggi letterari – Critica e dintorni” il 16 marzo scorso la plaquette consoliana, “Una mancata armonia: Accordi”, sottolinea opportunamente che in verità un precedente poetico di Vincenzo Consolo, edito, esiste. Una sua lirica infatti è compresa nell’antologia curata dal sottoscritto “Poesia al Fondaco” (Pungitopo, 1992). S’intitola “Marina a Tindari”. Nel 1972 venne data alle stampe, presso il laboratorio d’arti grafiche di Piero De Marchi a Vercelli, un fascicolo, su carta Fabriano tirata a mano in cento esemplari numerate fuori commercio (una delle preziose rarità bibliografiche appunto in cui appaiono testi consoliani), contenente, oltre a un commento curato da Sergio Spadaro, quello che si riteneva fino ad allora l’unico testo poetico dello scrittore santagatese. La plaquette (posseggo la copia numero 78) s’intitola “Marina a Tindari”. Il singolare componimento, all’epoca scritto per una mostra del pittore Michele Spadaro, reca in calce la firma di Vincenzo Consolo e la data: 27 febbraio 1972.

     In realtà. come ha poi chiarito lo stesso Sergio Spadaro, fu lui a mettere in versi il testo consoliano, anche se bisogna ammettere che dal fascicolo ciò non risulta con immediatezza. Occorre leggere il commento critico dello stesso Spadaro che accompagna la composizione lirica di Consolo per prenderne atto. Comunque, ripeto, la precisazione di Spadaro, ribadita pubblicamente in più occasioni, è giusta e va rispettata. Qui vorrei aggiungere ancora una cosa inedita. L’esemplare mio di “Marina a Tindari” reca addirittura due dediche autografe. La prima, dell’8 febbraio 1992, è del pittore per il quale Consolo scrisse il testo, Michele Spadaro, che fu pure mio amico. “Col permesso degli Autori, con simpatia, a Sergio Palumbo”. La seconda dedica, invece, riagganciandosi alla prima, è di Vincenzo Consolo. E Consolo, curiosamente, si attribuisce la “paternità” di quegli “antichi” versi. “Sant’Agata, 21 aprile 1992: Permetto, e come!, anche perché l’ispirazione di questi miei ‘antichi’ versi mi veniva da una mostra di Michele Spadaro, oltre che dalla memoria del Tindaro.
A Sergio Palumbo, Vincenzo Consolo”.

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Una mancata armonia: Accordi – Vincenzo Consolo

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Una mancata armonia: Accordi – Vincenzo Consolo

Una prospettiva, un’aura mai del tutto manifestata accompagna questi pochissimi e per questo ancora più preziosi versi di Vincenzo Consolo in una plaquetteAccordi, curata da Claudio Masetta Milone e stampata artigianalmente dall’editore santagatese Francesco Zuccarello – e addirittura rilegata a mano con filo di rete da pesca (cosa che allo scrittore di mare non sarebbe per niente dispiaciuta) – che continua a coltivare così anche la memoria paterna dello storico Stabilimento tipografico “Progresso” dove ebbero la fortuna di nascere le introvabili 60 copie delle 9 Liriche di Lucio Piccolo in quei “caratteri frusti e poco leggibili” di cui parlò Montale che fecero infuriare Zuccarello senior: «io questo Pontale lo denunzio!» (nota puntualmente registrata dal giovane Consolo nel racconto Il barone magico).

Alcune liriche di Vincenzo Consolo erano state rese pubbliche nel lontano 1992 all’interno della pregevole antologia curata da Sergio Palumbo e intitolata Poesia al Fondaco. Il cenacolo culturale della libreria Ospe, nella quale erano presenti anche poesie di Piccolo, Cattafi, Vann’Antò, Ballotta e molti altri, in quella che Palumbo definì «‘na fazzulittata d’amici».

Il punto lirico si massima intensità era tuttavia stato raggiunto da Consolo – a mio avviso – nel prologo-mantra di Lunaria, laddove cantava la notte palermitana sospesa tra sogno e memoria:

Origine del tutto,

fine d’ogni cosa,

eco, epifania dell’eterno,

grembo universale,

nicchia dell’Averno,

sosta pietosa, oblio,

loto che nutre e schiude

la semenza.

Nutta, nuce, melània,

vòto, ovo sospeso,

immòto.

Oh notte di Palermo,

Mammuzza bedda,

lingua dulcissima,

parola suavissima,

minna d’innocenti,

melassa di potenti,

tana di briganti,

tregua di furfanti,

smània monacale,

desìo virginale:

deh dura perdura,

dimora,

ristagna nella Conca,

non porgere il tuo cuore

alla lama crudele dell’Aurora.

 

 

Questo Accordi consta di soli quattro testi ma vi si ravvisano molti degli elementi che caratterizzano anche la prosa dell’autore nebroideo: una propensione alla nomenclatura precisa, quasi scientifica degli oggetti e degli ambiti richiamati; il gusto eclettico per la commistione etimologica e, non ultimo, il senso profondo per gli spazi memoriali di una civiltà contadina isolana ormai perduta, che ne fanno un gioiello da rileggere e, soprattutto, conservare gelosamente.

[…] S’è indurita la tua carne

alle sabbie tempestose

del deserto,

affilate si sono le tue ossa

sui muri a secco

della masseria.

Brillano granatini

sul tuo palmo

per le punture

delle spinesante.

 

Diego Conticello

Consolo come non lo avete mai letto

Consolo come non lo avete mai letto

Pubblicate una raccolta di poesie dello scrittore​ premio Strega nel 1992

Un Vincenzo Consolo inedito. Dagli archivi dello scrittore autore del «Sorriso dell’ignoto marinaio», si disvela un aspetto inusitato di poeta. «Accordi» è la raccolta di poesie pubblicata dall’editore Zuccarello. Il volume è stato presentato nelle sale del castello Gallego di Sant’Agata di Militello. Un luogo e un editore, paradigmatici nell’opera di Vincenzo Consolo. Il castello Gallego fa da sfondo al romanzo che ha reso celebre lo scrittore siciliano, «Il sorriso dell’ignoto marinaio». La sede dell’editore Zuccarello è il luogo del riscontro del giovane Consolo e del poeta Lucio Piccolo. Come raccontato tra le pagine de «Le pietre di Pantalica». Le poesie erano custodite in un cassetto dello scrittoio di Consolo nella sua casa milanese. Una serie di liriche che Consolo, aveva curiosamente assemblato in maniera artigianale. Un’insolita serie di fogli battuti con la sua storica Olivetti. Un Consolo insolito, privato, intimo. Un tratto poetico che lo scrittore premio Strega nel 1992, aveva consegnato alla discrezione di un cassetto segreto. Il libro è stato realizzato con una fattura attenta. Carta prodotta con un antico processo artigianale e cucita con un bizzarro filo da pescatore. In copertina, un’incisione del pittore Mario Avati. La grafica è stata realizzata da Giulia Tassinari. Il volume è stato stampato in cento esemplari numerati. Prevista una successiva ristampa commerciale della raccolta. Il libro è stato curato da Claudio Masetta Milone e da Francesco Zuccarello.

Enna Magazine del 25 febbraio 2015

La poetica di “Accordi” in un inedito di Vincenzo Consolo

La poetica di “Accordi” in un inedito di Vincenzo Consolo

Cultura | 23 febbraio 2016
 Un Vincenzo Consolo inedito. Dagli archivi dello scrittore autore del «Sorriso dell’ignoto marinaio», si disvela un aspetto inusitato di poeta. «Accordi» è la raccolta di poesie pubblicata dall’editore Zuccarello. Il volume è stato presentato nelle sale del castello Gallego di Sant’Agata di Militello. Un luogo e un editore, paradigmatici nell’opera di Vincenzo Consolo. Il castello Gallego fa da sfondo al romanzo che ha reso celebre lo scrittore siciliano «Il sorriso dell’ignoto marinaio».  La sede dell’editore Zuccarello è il luogo del riscontro del giovane Consolo e del poeta Lucio Piccolo. Come raccontato tra le pagine de «Le pietre di Pantalica». Le poesie erano custodite in un cassetto dello scrittoio di Consolo nella sua casa milanese. Una serie di liriche che Consolo, aveva curiosamente assemblato in maniera artigianale. Un’insolita serie di fogli battuti con la sua storica Olivetti.  Un Consolo insolito, privato, intimo. Un tratto poetico che lo scrittore premio Strega nel 1992, aveva consegnato alla discrezione di un cassetto segreto. Il libro è stato realizzato con una fattura attenta. Carta prodotta con un antico processo artigianale e cucita con un bizzarro filo da pescatore. In copertina, un’incisione del pittore Mario Avati. La grafica è stata realizzata da Giulia Tassinari. Il volume è stato stampato in cento esemplari numerati. Prevista una successiva ristampa commerciale della raccolta. Il libro è stato curato da Claudio Masetta Milone e da Francesco Zuccarello.

di Concetto Prestifilippo

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