Vincenzo Consolo si racconta: un contributo autobiografico inedito

Il 18 febbraio 1933 ricorre la nascita di questo autore centrale nella storia della letteratura italiana del Novecento. Attraverso le sue stesse parole ne ripercorriamo la biografia e il senso della sua opera.
Un articolo di Giulia Mozzato

Vincenzo Consolo è stato un autore centrale nella storia letteraria italiana del Novecento. In modo particolare per lo studio sistematico della lingua e della sua evoluzione, per il recupero della forma narrativa poetica, per la raffinatezza della scrittura, per le tematiche sociali che sono state al centro del suo lavoro.
Un uomo fisicamente non alto, non imponente, ma che entrando in una stanza portava con sé una presenza carismatica molto forte, pur con un atteggiamento di estrema disponibilità.

Nel 2004 fu protagonista di una lezione nell’ambito del corso di scrittura creativa che organizzammo. Abbiamo sempre conservato la registrazione di quella lezione, sapendo che si trattava di un contenuto importante, unico.

In quelle parole ritroviamo oggi la sua biografia e il senso della sua opera.

Un contributo prezioso che in occasione dei 90 anni dalla nascita (era nato a Sant’Agata di Militello il 18 febbraio 1933 ed è purtroppo scomparso nel 2012) vogliamo condividere con i nostri lettori.

Non ho mai creduto all’innocenza, innocenza di chi intraprende una strada d’espressione, sia essa letteraria, musicale o pittorica… certo ci sono stati i naïf, i cosiddetti nativi, ma sono casi rarissimi di felicità innocente. Quando si intraprende un cammino espressivo bisogna essere consapevoli di quanto sia importante ciò che ci ha preceduto nel momento in cui abbiamo deciso di muovere i primi passi e di quello che si sta volgendo intorno a noi nel momento in cui ci accingiamo a scrivere. Questo è successo a me.

Sono nato in Sicilia, ma volevo vivere a Milano

Sono nato in Sicilia e ho fatto i miei studi a Milano, la Milano degli Anni ’50, una Milano con le ferite della guerra ma pure con un’anima popolare, direi “portiana”, che ancora si conservava in quegli anni.
In piazza Sant’Ambrogio ho frequentato l’Università Cattolica, non per convinzione religiosa, ma perché sono capitato lì per caso; in questa piazza vedevo arrivare la sera un tram, senza numero, pieno di migranti provenienti dal meridione. Lì c’era un grosso casermone, un ex-convento del Settecento, in parte destinato alla caserma della celere, e in parte a un “Centro orientamento immigrati”. Questi tram provenienti dalla stazione Centrale scaricavano gli emigranti che venivano sottoposti a visite mediche ed erano poi avviati in Belgio, nelle miniere di carbone, o in Svizzera o in Francia. Io, da studentello privilegiato, osservavo e non capivo cosa stesse succedendo; mi ricordo però queste persone già equipaggiate con la mantellina cerata, il casco e la lanterna.
Spesso erano miei conterranei che avevano lasciato le miniere dello zolfo perché la crisi ne aveva causato la chiusura, e quindi passavano a quelle di carbone; poi sapete che a Marcinelle ci fu quella grande tragedia con numerosi italiani morti… Osservavo questa realtà, mentre in quegli anni avevo maturato l’idea di fare lo scrittore pur frequentando la facoltà di giurisprudenza.
Milano per me era la città dove era stato Verga, dove c’erano Vittorini e Quasimodo, quindi per me era la città giusta dove approdare. Ho insistito coi miei per spostarmi a Milano, specie perché avevo il desiderio di incontrare Vittorini: Conversazione in Sicilia per me era una sorta di vangelo che mi accompagnava da tempo. Ma insieme a Conversazione in Sicilia, dal punto di vista essenzialmente letterario e narrativo, c’era stato tutto un bagaglio di letture che mi aveva formato in quegli anni, ed era tutta la letteratura meridionalista, come Gramsci o Salvemini sino a Carlo Doglio, a Carlo Levi con Cristo si è fermato a Eboli o con Le parole sono pietre, e Sciascia.

Tutte letture non propriamente letterarie ma di ordine storico-sociologico sulla questione meridionale.
Finita l’Università ho pensato di voler fare lo scrittore di tipo “testimoniale”, storico-sociologico sulla linea non di Vittorini ma di Carlo Levi, di Dolci, e del primo Sciascia.
Tornato in Sicilia dopo la laurea, mi sono rifiutato di fare il notaio o l’avvocato o il magistrato e ho insistito coi miei genitori per fare l’insegnante. Ho insegnato diritto, educazione civica e cultura generale in scuole agrarie, perché era questo il mondo che volevo conoscere: i paesi sperduti di montagna. La mia curiosità e la mia felice voracità di lettore – non c’era la televisione a quell’epoca e quindi il mondo lo si poteva conoscere solo attraverso i libri – mi portava verso letture di riviste, dibattiti culturali. Seguivo tutti i dibattiti culturali dell’epoca, come l’esperienza vittoriniana della collana dei “Gettoni”, una collana di ricerca dove sono usciti i maggiori scrittori dell’epoca come Bassani o lo stesso Sciascia; e poi la rivista letteraria che dirigevano allora Vittorini e Calvino, “Il Menabò”.

Non c’era l’affollamento che c’è oggi di un’enorme quantità di libri pubblicati, all’epoca i libri si potevano ancora memorizzare, si capiva come collocarli, l’importanza che potevano avere. Comunque, quando mi accinsi a scrivere il mio primo libro, l’intenzione era di restituire la realtà contadina in forma sociologica, mettendomi sul coté “leviano” di Sciascia, invece poi sia l’istinto sia la consapevolezza, mi portarono in una direzione letteraria e narrativa, narrativa però nel senso più ampio della parola.
Ho subito preso la decisione di praticare dei temi storico-sociali, che non erano dei temi assoluti, ma erano dei temi relativi. Questo mi permetteva di svolgere attraverso la scrittura quella che era la mia visione del mondo, quella che era la mia visione storico-sociale, non esistenziale, che era poi il bagaglio di cui mi ero nutrito.

Scrittura e tematiche

Il problema principale era scrivere sì del mondo che conoscevo, del mondo che avevo praticato, di cui avevo memoria, ma con quale stile, con quale linguaggio, con quale tipo di scrittura?
In quegli anni si esauriva una stagione letteraria che è andata sotto il nome di “neorealismo”, tutta la letteratura del secondo dopoguerra di tipo memorialistico, una scrittura nobilissima, certamente, ma una scrittura assolutamente referenziale, comunicativa.
Ho riflettuto: gli scrittori che mi avevano preceduto di una generazione, ma neanche, con lo scarto di dieci anni (e parlo di scrittori autentici, grandi, come per esempio Moravia, o Elsa Morante, o Calvino, o lo stesso SciasciaBassani e tanti altri) avevano vissuto il periodo del fascismo e della guerra, e avevano continuato a scrivere anche nel secondo dopoguerra in uno stile assolutamente comunicativo, in uno stile razionalista o illuminista che dir si voglia.
Non potevo scegliere quel registro stilistico, non potevo praticare quella lingua. Mi sono convinto che questi scrittori, avendo vissuto il periodo della guerra e del dopoguerra, avevano nutrito la speranza che con l’avvento della democrazia potesse nascere in questo paese una società più giusta, democratica, armonica con la quale poter comunicare.
Avevano un po’ lo schema della Francia dell’Illuminismo, la Francia del Razionalismo, dove una società si era già compiuta, già formata all’epoca di Luigi XIV, ma poi, con le istanze della rivoluzione, era avvenuta quella novità di riconoscimento di equità e giustizia nelle società civili. Ho chiamato il registro che avevano scelto quegli scrittori, il “registro della speranza”.
Pur avendo vissuto l’esperienza della guerra, ai tempi ero un bambino, mi sono formato nel secondo dopoguerra e ho visto che la speranza che questi scrittori avevano nutrito non c’era più. C’erano state le prime elezioni in Sicilia del ’47, con la vittoria del blocco del popolo, la sinistra aveva avuto la maggioranza assoluta in questa prima prova elettorale, ed erano seguite le intimidazioni. C’era stata la strage di Portella della Ginestra, e poi le elezioni del ’48 con la vittoria della DC; io osservavo, dal mio angolo di mondo, che quella società giusta, armonica, che si sperava e a cui si tendeva, non si era realizzata, ed erano rimaste disparità, ingiustizie e molti problemi ereditati dal passato.
Quindi per me la scelta di quella lingua, di quello stile comunicativo, era assolutamente impensabile, io non potevo praticare quel codice linguistico che era il codice linguistico “centrale”, quel toscano che poi, valicando le Alpi, attingeva a una specie di reticolo illuministico francese: la lingua di Calvino, di Sciascia o Moravia… anzi di Moravia si diceva che scrivesse con una lingua che pareva tradotta da una lingua straniera. A Moravia interessava restituire gli argomenti più che dare attenzione allo stile, un po’ come Pirandello che aveva inventato un tale mondo inesplorato nel quale la lingua era assolutamente funzionale a quello che voleva comunicare; e quindi la mia scelta fatalmente andò in un senso opposto, cioè in un contro-codice linguistico che non fosse quello centrale e che fosse un codice di tipo sperimentale-espressivo.
Naturalmente non avevo inventato niente, ma fatalmente mi collocavo in una linea stilistica che partiva nella letteratura moderna, che partiva da Verga, e arrivava agli ultimi epigoni: GaddaPasoliniMastronardiMeneghello. Sperimentatori o espressivi che dir si voglia, una linea che ha sempre convissuto nella letteratura italiana con l’altra.
Però le tecniche degli sperimentatori-espressivi naturalmente sono personali, variano da autore ad autore; per esempio Verga s’era opposto all’utopia linguistica del Manzoni. Manzoni voleva “sciacquare i panni in Arno”, cioè riteneva che l’Italia, dopo la sua unità, dovesse avere una lingua unica, e così, dopo aver scritto Fermo e Lucia  ha scritto I promessi sposi nella lingua “centrale” toscana, ma pure lui i panni li aveva già portati umidi dalla Senna, essendosi formato anche con l’illuminismo francese.

Verga è stato il primo che ha rivoluzionato questo assunto della centralità della lingua inventando una lingua che nella letteratura italiana non era mai stata scritta, un italiano che non era dialetto (Verga aborriva il dialetto) ed era una lingua appena tradotta dal siciliano all’italiano, in primo grado, diciamo, quella che Dante, nel De vulgari Eloquentia chiama “la lingua di primo grado”; Pasolini invece definisce la lingua di Verga “un italiano irradiato di italianità”.
Verga rappresenta i contadini di Vizzini oppure i pescatori di Aci Trezza che non avrebbero mai potuto parlare in toscano, sarebbe stata un’incongruenza.
Io mi inquadravo in questa grande ombra verghiana, che passava per gli scapigliati milanesi della prima rivoluzione industriale milanese del 1872, e arrivava, man mano negli anni, al polifonico Gadda e a Pasolini.
La tecnica di Pasolini e di Gadda era simile perché partivano dal codice centrale, dalla lingua toscana e poi, man mano, regredivano verso le forme dialettali, con l’immissione, l’irruzione dei dialetti nella lingua scritta, nella lingua italiana; sennonché in Gadda c’è una polifonia di dialetti, soprattutto in quel capolavoro che è Quel pasticciaccio brutto de via Merulana, dove sono orchestrati oltre al romanesco gli altri dialetti italiani; invece in Pasolini troviamo la digressione verso il romanesco del sottoproletariato romano; in Meneghello ci sono altre implicazioni, in Mastronardi altre, e potrei fare il nome di un altro scrittore siciliano come D’Arrigo autore di quell’opera enorme che si chiama Horcynus Orca.

La tecnica che mi sono imposto è stata la tecnica dell’innesto. Ho trovato a mia disposizione un giacimento linguistico ricchissimo, quello della mia terra, la Sicilia. Senza mitizzare, enfatizzare questa mia terribile terra, c’è in essa una stratificazione linguistica enorme. Oltre ai templi greci o arabo-normanni, vi sono pure giacimenti linguistici che hanno lasciato le diverse civilizzazioni, a partire dal greco, poi l’arabo o il latino, lo spagnolo, il francese… Ho pensato che bisognava reimmettere nel codice centrale questo glossario, queste forme sintattiche che erano state espunte e riprendere queste parole che avevano una loro dignità filologica, che avevano una loro storia, e inserirle nella scrittura, nel mio codice, nel mio modo di scrivere.
Non era il cammino inverso, cioè la corruzione dell’italiano che diviene dialetto, ma era l’opposto cioè la profondità di certi vocaboli, di certi modi di dire che venivano reimmessi da queste antichità nel codice centrale, ubbidendo a un’esigenza di significato, perché il vocabolo greco, il vocabolo arabo o spagnolo, mi dava una pregnanza maggiore del vocabolo italiano, era più pregno di significato e portatore di una storia più autentica.
Ecco: la ricerca era proprio in questo senso e poi l’organizzazione della frase e della prosa, in senso ritmico e prosodico.

Struttura e lingua

Dal primo libro – La ferita dell’Aprile -, ho cercato di dare una scansione ritmica alla frase, provando ad accostare quella che è la prosa illuministica, comunicativa, in cui l’autore “autorevole” alla Manzoni, interrompe di tempo in tempo la narrazione e riflette sulla storia che sta raccontando per dialogare con il lettore, per introdurre un ragionamento di tipo filosofico.
Nietzsche fa una divisione parlando della nascita della tragedia greca: il passaggio dalla tragedia antica, di Eschilo e di Sofocle, alla tragedia moderna di Euripide. Dice che nella tragedia di Euripide, che lui chiama la tragedia moderna, c’è l’irruzione dello spirito socratico: i personaggi iniziano a riflettere, a ragionare e non più a cantare come avveniva nella tragedia antica, dove usciva l’”anghelos”, che era il messaggero che si rivolgeva al pubblico e narrava l’antefatto, quello che era avvenuto in un altro momento e in un altro luogo; da quel momento poteva iniziare la tragedia, cioè i personaggi iniziavano ad agire, a parlare.. poi c’era il coro che commentava e lamentava la tragedia che si stava svolgendo. Nietzsche dice che nella tragedia antica c’è lo spirito dionisiaco, musicale, poetico, mentre nella tragedia moderna prevale lo spirito socratico, cioè la filosofia e la riflessione.


Può apparire eccessivo da parte mia ricorrere a paragoni talmente aulici, ma in questo nostro tempo, nella nostra civiltà di massa, con la rivoluzione tecnologica, sulla scena non può più apparire l’”anghelos”, il messaggero non può più usare quel linguaggio della comunicazione con cui fare iniziare la tragedia perché l’autore non sa più a chi si rivolge. Quindi ho spostato la prosa verso la forma del coro, del coro greco, dandole un ritmo di tipo poetico, eliminando la parte autorevole dell’autore e quella della riflessione. La prosa si presenta così come un poema narrativo, come quello che praticavano nel Mediterraneo i famosi Aedi di omerica memoria. Penso che la scrittura comunicativa non sia più praticabile, perché si è rotto il rapporto tra il testo letterario e il conteso, quello che si chiama il contesto “situazionale”. Non c’è più rapporto, a meno che non si vogliano praticare le forme mediatiche e quindi si scriva nell’italiano più corrente, più corrivo, quello che non denuncia la profondità della lingua, una lingua che è portatrice di storia, memoria anche collettiva.


La  mia ricerca è proseguita negli anni con gli altri libri, dal primo libro sino all’ultimo Lo spasimo di Palermo, in modo sempre più accentuato. Non solo ho organizzato la frase in forma metrica, ritmica, ma nel contesto della narrazione invece di inserire riflessioni di tipo filosofico, di immettere la scrittura saggistica dentro alla scrittura narrativa – come teorizzato da Kundera, il quale, nella sua teoria del romanzo, sostiene la necessità di interrompere la narrazione e d’inserire delle parti riflessive-saggistiche –  interrompo la narrazione per alzare il tono della scrittura in una forma ancora più alta, in una forma ancora più poetica, un po’ come se subentrasse il coro della tragedia greca: sono parti corali che fanno da commento all’azione che sto raccontando, alla narrazione che sto svolgendo, alle vicende che sto narrando.

Le opere

Torno al mio primo libro che parla del secondo dopoguerra in Sicilia, un libro scritto con un io-narrante adolescente, dove parlo della vita politica, della vita sociale, delle prime elezioni, del ’48. Lì ho scelto questo stile, usando anche nell’organizzazione della frase le rime e le assonanze, ma in senso comico-sarcastico, come parodia della società degli adulti che l’adolescente che scrive critica e non condivide.
Il mio primo libro è in prima persona, come spesso accade agli esordi perché si attinge a quelli che sono i ricordi: il primo libro è una sorta di libro di formazione, di iniziazione, di educazione sentimentale.
Credo che dopo il primo libro non si possa più praticare la prima persona, bisogna invece trattare quello che è il proprio progetto letterario, cioè cercare la propria identità: che cosa sono, dove voglio arrivare, chi voglio essere.

Il secondo mio libro si chiama Il sorriso dell’ignoto marinaio, e qui devo fare un‘altra digressione autobiografica: dal primo al secondo libro sono passati quasi 13 anni in cui venivo considerato quasi un latitante dalla scrittura letteraria. Ma questo lasso di tempo ha coinciso con la mia seconda venuta a Milano, nel 1968, dopo essermi reso conto che la mia attività di insegnante era assolutamente inutile perché il mondo contadino era finito, come aveva osservato Pasolini.
Milano mi sembrava la città più interessante -, che io tra l’altro già conoscevo – perché qui si svolgeva la storia più accesa, quella del ’68, con un grande dibattito culturale, politico, coi grandi conflitti tra il mondo del lavoro e quello del capitale, cioè tra gli imprenditori e gli operai. Mi sembrava importante e interessante approdare non a Roma o a Firenze ma a Milano, sollecitato, allora, dalla lettura dei “Menabò” di Vittorini e di Calvino che invitavano, proprio in questo momento storico importante e acuto, i giovani autori ad inurbarsi, studiando la grande trasformazione italiana perché il mondo contadino era finito sostituito da un nuovo paese che bisognava narrare, che bisognava rappresentare.

Così mi trovai qui nel ’68, ma spaesato e spiazzato perché di fronte a una realtà urbana e industriale che non conoscevo, di cui non avevo memoria e di cui mi mancava il linguaggio: se posso permettermi di fare un paragone, la stessa sorte l’ha avuta Verga, approdato a Milano nel 1872 nel momento della prima rivoluzione industriale, una città che si ingrandiva, aprendo nuove fabbriche: la Pirelli era nata proprio nel 1872 per la lavorazione della gomma… dove vi erano stati i primi scontri, i primi scioperi dei lavoratori per richiedere diritti. Pure il signor Verga rimase spiazzato e qui a Milano avvenne la sua famosa conversione: non riuscendo a capire questo nuovo mondo lui, come scrive Natalino Sapegno, ritornò con la memoria alla Sicilia “intatta e solida” della sua infanzia; iniziò il nuovo ciclo di Verga con Le novelle rusticane e poi con il suo capolavoro I Malavoglia.


Anch’io rimasi spiazzato, ma non feci la stessa scelta di Verga. Credo nella storia e credo che l’uomo possa intervenite nella storia; non ho avuto il ripiegamento ideologico che ha avuto Verga, ma ho pensato che per rappresentare l’Italia e soprattutto Milano di quegli anni, le grandi istanze, le grandi richieste di mutamento di questa nostra società, dovevo assolutamente ripartire dalla mia terra, dalla Sicilia, scegliendo un topos storico qual è il 1860 che mi pareva somigliante al 1968 in Italia, e non solo. Ho pensato appunto di scrivere un romanzo storico – Il sorriso dell’ignoto marinaio -, ambientato al momento della venuta di Garibaldi in Sicilia con le speranze che si erano accese negli strati contadini e popolari siciliani all’arrivo di Garibaldi, concependo il Risorgimento e l’unità d’Italia come un mutamento anche politico e sociale. Speranze deluse dell’unità che ha compiuto il progetto politico dell’unione ma senza mutare le condizioni degli strati popolari.

Da qui poi è nata tutta quella letteratura di tipo sociale di cui vi dicevo: la questione meridionalista trattata da Salvemini e Gramsci, ma anche una letteratura narrativa di riflessione sull’unità d’Italia, fatta da Verga, sia nei Malavoglia che in Mastro don Gesualdo, o da De Roberto con I ViceréPirandello con I vecchi e i giovani, fino ad arrivare a Lampedusa.
Naturalmente la letteratura sul Risorgimento è espressa in maniera diversa: in Lampedusa si trova una visione scettica e deterministica. Lui veniva da una classe nobile, Il Gattopardo è il libro di uno scettico che pensa che le classi sociali si avvicendano nella storia con una determinazione quasi fisica, come succede con il principe di Salina, uno studioso delle stelle: come accade alle stelle che prima si accendono e poi si spengono e finiscono, così le classi sociali. Però le classi alte, quelle nobiliari, vengono da lui assolte perché attraverso la ricchezza l’uomo si raffina e dà il meglio di sé, producendo poesia e bellezza. Per ciò che mi riguarda posso dire che me ne frego della poesia e della bellezza, mentre esigo più giustizia e più equità tra gli strati che formano una società.

Ho concepito partendo da Il sorriso dell’ignoto marinaio un ciclo di romanzi a sfondo storico, una trilogia. Il secondo è Notte tempo, casa per casa, che parla di un momento cruciale della storia italiana, gli anni venti con la nascita del fascismo, raccontato dall’angolazione di un piccolo paese della Sicilia che si chiama Cefalù, parlando delle crisi delle ideologie che sono succedute al primo dopoguerra, l’insorgere di nuove metafisiche, di istanze di tipo settario, le sette religiose, di segno bianco e di segno nero. L’ultimo della trilogia, è Lo spasimo di Palermo, che parla della contemporaneità, degli anni’90 e si svolge sempre in Sicilia però con flashback che partono dal secondo dopoguerra e arrivano al 1992 con la strage di via D’Amelio e la morte del giudice Borsellino. Naturalmente non faccio nomi, ma si capisce che il tema è la tragedia di questi magistrati che sono massacrati dalla mafia.
Poi sono usciti altri libri che potrei definire collaterali, per esempio Retablo oppure L’oliva e l’olivastrodove ho cercato di praticare la riflessione sulla realtàL’oliva e l’olivastro è un libro ambientato in Sicilia dove non c’è la finzione letteraria, ma un viaggio nell’isola degli anni ’80 e ’90, con tutte le perdite e sullo schema del viaggio di ritorno di Ulisse, che non ritrova più la sua Itaca, o meglio la ritrova ma non la riconosce perché è degradata, è devastata, soggiogata e dominata dai proci, gli uomini del potere politico mafioso, con tutti i disastri che ne sono susseguiti.

Giulia Mozzato, per MaremossoMagazine – La Feltrinelli
17 febbraio 2023



Consolo poeta. foto di Giovanna Borgese


Vincenzo Consolo e la metrica della memoria

Sara de Franchis

  1. La funzione testimoniale del linguaggio

    Da due grandi autori, Lucio Piccolo e Leonardo Sciascia, Vincenzo Consolo trae rispettivamente l’interesse per la poesia europea, a lungo studiata e consultata dall’uomo rinchiuso nella sua villa a Capo d’Orlando, e la volontà di una scrittura impegnata. Egli ricerca una svolta stilistica e contenutistica, d’impegno sociale e storico ma che abbia una forma poetica, ed è questa apparente contraddizione a
    rendere i suoi testi estremamente affascinanti, nonché unici e senza precedenti.
    Cesare Segre lo accosta anche a Giuseppe Tomasi di Lampedusa, indicandolo come la sua antitesi: «plurilingue Consolo quanto è monolingue Tomasi, espressionista l’uno quanto è elegantemente classico l’altro».1 Egli fa notare come l’autore abbia assimilato dalla cultura milanese l’ammirazione per Gadda, in cui vedeva un’esplosione polifonica del barocco e con cui ha in comune la tecnica del pastiche.2 Consolo stesso definisce la sua una «scrittura di tipo progressivo, nel senso che partivo da quelli che erano i giacimenti linguistici nel dialetto siciliano, di tutti i retaggi sepolti, mentre cercavo d’immetterli nella lingua centrale ma con un’organizzazione della frase in senso ritmico, poetico»3 e ne spiega anche il motivo: «in questo nostro tempo di cancellazione della memoria, in questo nostro contesto mi sembrava che la letteratura, che è memoria, doveva recuperare anche la memoria linguistica oltre che la memoria storica».4 Cesare Segre indica proprio questo come punto di forza della sua scrittura: L’espressionismo di Consolo si fonda sull’interferenza di registri e di strati idiomatici: e se l’apparenza è quella di un fulgore, di uno splendore barocco, è proprio sul piano, più profondo, della costruzione che si rifugia la «vera» storia, una volta sconfessata la storia degli storiografi. Consolo mostra infatti che tutta la vicenda della Sicilia può essere riportata alla luce tramite la lingua che i siciliani, secondo i momenti, hanno usato.5 Si è espresso a proposito anche Gianni Turchetta nell’introduzione a Le pietre di Pantalica, esplicitando un paio di interessanti passaggi interni alla poetica e più in generale alla scrittura dell’autore: La legge fondamentale della lingua consoliana sembra essere la tensione verso la differenziazione [una tensione che dipende anche da quanto Harold Bloom ha definito “l’angoscia dell’influenza” […] La pluralità di lingue e di toni implica poi, altra caratteristica fondamentale, pluralità di prospettive. […] Lo stesso tessuto verbale fatto di molte lingue sta proprio a significare il tentativo di dar voce a molte prospettive diverse, alla visione del mondo di chi parla o parlava in quel determinato linguaggio […] Consolo cerca di far sopravvivere le parole morte o morenti o marginalizzate, e con esse le visioni del mondo di uomini e culture altrimenti condannati al silenzio. Come egli stesso ha dichiarato in una bella intervista curata da Marino Sinibaldi: “Fin dal mio primo libro ho cominciato a non scrivere in italiano. (…) Ho voluto creare una lingua che esprimesse una ribellione totale alla storia e ai suoi esiti. Ma non è dialetto. È l’immissione nel codice linguistico nazionale di un materiale che non era registrato, è l’innesto di vocaboli che sono stati espulsi e dimenticati (…). Io cerco di salvare le parole per salvare i sentimenti che le parole esprimono, per salvare una certa storia.6 Vale la pena citare a riguardo anche Margherita Ganeri, che ha sintetizzato
    l’opera di Consolo in tal modo: «affronta la rievocazione del passato alla luce di una notevole tensione attualizzante che investe il rapporto tra la memoria e il linguaggio, con la sua sedimentazione e stratificazione altamente connotata»,7 e che ha mostrato in che modo egli sia riuscito nella ricerca di una forma poetica: «attraverso la mescolanza della più aulica ed erudita tradizione letteraria con il dialetto siciliano, la lingua di Consolo acquisisce una patina di barocca arcaicità straniata improntata alla ricerca di effetti lirici».8 Riporto infine un passo tratto da un articolo di Giulio Ferroni, intitolato Vincenzo Consolo, lo scrittore che ha saputo raccontare il respiro della Sicilia: Scrittore che è sceso fino in fondo nel cuore del presente, nei molteplici volti della realtà, nella loro densità sociale e antropologica; scrittore che ha insistentemente interrogato gli sforzi della vita nello spazio nel tempo, tutto ciò che la storia addensato e che, trasformato, continua a scorrerci davanti, si muove e vibra mentre lo consideriamo e lo tocchiamo. […] E naturalmente come scrittore non ha mai cessato di dialogare con tutti i grandi scrittori siciliani, con le forme diverse con cui essi hanno dato voce al carattere, al mistero, all’essere dell’isola. […] La sua è una sfida continuamente ai limiti del linguaggio, strenua ricerca della fisicità della parola, ostinata cura per un lessico legato all’evidenza delle cose, alla loro traccia concreta, alla loro consistenza biologica e materica. La sua prosa si avvolge sugli oggetti, sui nomi, sul muoversi stesso della realtà, sul ritmo e il respiro del tempo, come ad estrarne l’anima, la vibrazione, la traccia dello sforzo, del movimento umano, della passione e del dolore, del voler essere e di ciò che lo ostacola. La speranza e il desiderio, la resistenza e l’oppressione, l’aggressione e la difesa, tutto viene espresso attraverso la sofferta densità della parola, con un lessico tocca i livelli più diversi: forme dialettali più vicine all’espressione della vita materiale, alla realtà contadina o al lavoro artigianale, forme arcaiche o preziose, che fanno balenare echi di tempi lontani, di remota storicità, lingue straniere che rivelano strati nascosti dell’esperienza, rapporti, interferenze, intrecci e conflitti tra mondi. Nomi comuni e nomi propri si susseguono ritmicamente in questa prosa, che costeggia la poesia, come a catturare e a apprendere in sé lo spazio e il tempo, lo scorrere della vita, l’aspetto degli oggetti, i gesti degli esseri umani e di tutto ciò che è animato, l’immagine dell’arte […] L’originalità di consolo sta nel suo mirare, grazie al suo espressionismo, il cuore profondo della Sicilia, grande corpo brulicante di vita, esuberante, malsano, appassionato, lacerato. cerca di comprenderne il senso afferrandole ogni squarcio che ne riveli la densità, la fascinazione e la tremenda rovinosa disgregazione del tutto, di un insieme di corpi che vi annaspano, vi soffrono, vi si espandono, vi si mostrano. Di contro alle rovine cerca ritrova tante presenze vitali, appartata e figure umane che ostinatamente resisto, che continuano, nonostante tutto, a cercare una luce.9 Riflessioni metalinguistiche sono presenti anche all’interno dei testi stessi di Consolo, ne è un esempio il racconto Il linguaggio del bosco tratto da Le pietre 9 di Pantalica: «mi rivelava il nome di ogni cosa […] e appena li nominava, sembrava che da quel momento esistessero. Nominava una lingua di sua invenzione, una lingua unica e personale […] e salire con lei su una quercia, un faggio o un acero, restare a cavalcioni su un ramo e sentire immobile e muto il linguaggio del bosco».10 Nelle opere degli altri autori trattati, il nome ha una potente funzione evocatrice e, nel caso di Bufalino, addirittura esistenziale. Nel passo citato queste funzioni vengono confessate, rivelate attraverso la voce sincera e immediata – intesa nel senso di priva di mediazione – di un giovane ragazzino, conquistato dal semplice e naturale linguaggio inventato da Amalia. Si vedrà inoltre più avanti, in particolare durante la trattazione de Il sorriso dell’ignoto marinaio, come la natura stessa possieda un suo linguaggio. L’approccio filologico della letteratura nei confronti della storia Della filologia è detto che sia la scienza delle minuzie, poiché prende programmaticamente in considerazione ogni particolare; il suo studio concerne il confronto di numerosi testimoni, che si tratti di manoscritti o di descritti, ovvero di trascrizioni di testi perduti. È una disciplina che, attraverso la consultazione d’ogni traccia e verifica della sua attendibilità – dunque della sua verità – tenta di risalire all’origine, alla prima volontà. Un procedimento simile è quello attuato da Consolo, che ha portato alla titolazione di questo paragrafo e che può essere riassunto nella sua ricerca della memoria storica. Anche in quest’ambito sono importanti le parole di Ganeri: «la ricostruzione memoriale è vissuta come un’alternativa intellettuale alla violenta e sistematica uccisione del passato operata dal potere, un’alternativa che si compie perlustrando le crepe, gli interstizi della storia, alla ricerca di ciò che è stato nascosto o perduto».11 Nella prima opera di Consolo, La ferita dell’aprile, pubblicata nel 1963, si ritrovano già i motivi e gli elementi stilistici ricorrenti della produzione successiva: il citazionismo, la connotazione siciliana tramite non soltanto la descrizione estremamente caratteristica – «è tempo di scirocco e, s’egli attacca brucia gemme 54 di fiori di mandorlo e limone»12 – ma anche attraverso la sua iconologia,13 infine la coscienza della scrittura già come inscindibile dalla memoria – «e questa storia che m’intestardo a scrivere, questo fermarmi a pensare, a ricordare»14 e il tema della caduta della luna, trapassata dal faro di Cefalù e raccolta dal mare.15 Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio la memoria pervade l’opera, essa è ovunque ed espressa con ogni mezzo: è nella vicenda aspra e appassionata del Risorgimento siciliano vissuto nei piccoli paesi, nel riecheggio della tradizione letteraria antecedente16 e nei documenti citati che lo rendono a tutti gli effetti un metaromanzo e denunciano la storia richiamando le sue stesse parole dall’Archivio di Stato di Palermo del 1857.17 Sono significativi la messa in evidenza delle condizioni dei cavatori di pomice e l’incontro con un giovane prigioniero, passi che hanno la funzione di mettere in discussione il carattere della società. Nessun’opera presenta un tale studio e una così devota ricerca all’insegna della verità e della testimonianza. L’autore opera un salvataggio nei confronti delle piccole storie che hanno composto la storia di un dato tempo e di un dato luogo. Innumerevoli sono gli aspetti che tessono il romanzo, ruotando intorno alla figura del protagonista: l’arte richiamata dal celebre dipinto di Antonello da Messina come l’amore nei confronti delle Madonie dove «le facoltà dell’anima si rendono sommamente estese, vivaci, acute, e sublimi»18 e che possiedono un proprio linguaggio: E questo linguaggio, che pur è quello eloquente dello amore, ripercosso dalle cave rocce nelle buie foreste, riempiendo lo spirito di una dolce malinconia lo riconcentra e invitandolo a deporre ogni frivolezza dell’umana società, lo eleva all’idea di sublime.19
    16 Ne è un esempio l’espressione «Eccellenza sì» tre volte ripetuta all’inizio del romanzo, p. 11, e che ricorda la medesima ripetizione presente in Federico De Roberto, I Vicerè, Garzanti, Milano, 1976, p. 5. Riecheggiano inoltre versi petrarcheschi («all’aria sparsa», 55 Questo passaggio, che ricorda quello de Il Gattopardo durante l’allontanamento di Don Fabrizio dal palazzo, prova che ogni cosa che venga anche soltanto nominata all’interno del romanzo sia degna di parole che possano ricordarla, perché forse nemmeno la natura è eterna. Andrea Camilleri lamenta ne Il Gattopardo la rappresentazione della nobiltà come la forza frenante di un qualsiasi sviluppo, dovuta al fatto che l’autore fosse bloccato in una concezione astorica.20 In questo senso l’opera di Consolo sembra quasi un riscatto, grazie alla diversa caratterizzazione della figura del barone Enrico Pirajno di Mandralisca, veicolo delle più importanti riflessioni scaturite nell’opera: Nelle more del giudizio che dovrà emettere codesta Corte nei riguardi degli imputati, villani e pastori d’Alcàra […] quali in catene e quali latitanti, hanno la disgrazia di non possedere (oltre a tutto il resto) il mezzo del narrare, a voce o con la penna, com’io che scrivo, o Voi, Interdonato, o gli accusatori, o contro parte o giudici d’essi imputati abbiamo il privilegio. E cos’è stata la Storia sin qui, egregio amico? Una scrittura continua di privilegiati. A codesta riflessione sono giunto dopo d’aver assistito a’noti fatti. Or io invoco l’Essere Supremo, l’Intelletto o la Ragione o Chiunque Altro ci sovrasti, a che la mente non vacilli o s’offuschi e mi regga la memoria nel rasare que’fatti per come sono andati. E narrar li vorrei siccome narrati li averìa uno di quei rivoltosi protagonisti moschettati in Patti, non dico don Ignazio Cozzo, che già apparteneva alla classe dei civili e quindi sapientemente nel dire e nel vergare, ma d’uno zappatore analfabeta come Peppe Siena inteso Papa, come il più giovine e meno malizioso, ché troppe sono, e saranno, le arringhe e le memorie, le scritte su gazzette e libelli che pendono dalla parte contraria degli imputati: sarà possibile questo scarto di voce o persona? No, no! Che per quanto l’intenzione e il cuore sian disposti, troppi vizî ci nutriamo dentro, storture, magagne, per nascita, cultura e per il censo. Ed è impostura ma è sempre la scrittura di noi cosiddetti illuminati, maggiore forse di quella degli ottusi e oscurati da’ privilegi loro e passion di casta. Osserverete: ci sono le istruzioni, le dichiarazioni agli atti, le testimonianze… E bene: chi verga quelle scritte, chi piega quelle voci e le raggela dentro i codici, le leggi della lingua? Uno scriba, un trascrittore, un cancelliere. Quando un immaginario meccanico e strumento tornerebbe al caso, che fermasse que’ discorsi al naturale, siccome il dagherrotipo fissa di noi le sembianze. Se pure, siffatta operazione sarebbe ancora ingiusta. Poi che noi non possediam la chiave, il cifrario atto a interpretare quei discorsi. E cade acconcio in questo luogo riferire com’ io ebbi la ventura di sentire un carcerato, al castello dei Granza Maniforti, nel paese di Sant’Agata, dire le ragioni della parlata sua sanfratellana, lingua bellissima, romanza o mediolatina, rimasta intatta per un millennio sano, incomprensibile a me, a tutti, comecché dotati di un moderno codice volgare. S’ aggiunga ch’ oltre la lingua, teniamo noi la chiave, il cifrario dell’essere, del sentire e risentire di tutta questa gente? Teniamo per sicuro il nostro codice, del nostro modo d’ essere e parlare ch’abbiamo eletto a imperio a tutti quanti: il codice del diritto di proprietà e di possesso, il codice politico dell’acclamata libertà e unità d’Italia, il codice dell’eroismo come quello del condottiero Garibaldi e di tutti i suoi seguaci, il codice della poesia e della scienza, il codice della giustizia o quello d’un’utopia sublime e lontanissima… E dunque noi diciamo Rivoluzione, diciamo Libertà, Egualità, Democrazia, riempiamo d’esse parole fogli, gazzette, libri, lapidi, pandette, costituzioni, noi, che que’ valori abbiamo già conquisi e posseduti, se pure li abbiam veduti anche distrutti o minacciati dal Tiranno o dall’Imperatore, dall’Austria o dal Borbone. E gli altri, che mai hanno raggiunto i diritti più sacri elementari, la terra e il pane, la salute e l’amore, la pace, la gioia e l’istruzione, questi dico, e sono la più parte, perché devono intender quelle parole a modo nostro? Ah, tempo verrà in cui da soli conquisteranno que’ valori, ed essi allora li chiameranno con parole nuove, vere per loro, e giocoforza anche per noi e, vere perché i nomi saranno intieramente riempiti dalle cose. Che vale, allora, amico, lo scrivere e il parlare? La cosa più sensata che si possa fare è quella di gettare via le chine, i calamari, le penne d’oca, sotterrarle, smetter le chiacchiere, finirla d’ingannarci e d’ingannare.21 Questo passo, che sembra quasi essere il calco della conversazione tra il Principe di Salina e Chevalley, 22 non riflette soltanto la tensione civile del contenuto dell’opera ma si sofferma anche sulla lingua come strumento indispensabile all’uomo, materia d’ogni concetto. Anche Tano Grasso confronta le due opere, ricordando subito che i due protagonisti sono entrambi due studiosi, ma il primo osserva il cielo, il secondo conosce la terra.23 La lettera prosegue con 21 un’apparente rinuncia a tutto e il racconto – la cui drammaticità è incrementata dalla veste lirica – degli eventi cui ha assistito e in particolare della loro conclusione: Ho visto imprigionar costoro, le signorine Botta in uno con la madre veneranda, le cui gentili mani aveano intessuto i fili d’oro della speranza sopra quel drappo insegna della fede… Ho visto le palle soldatesche rompere il petto del povero Spinuzza, impassibile e fiero, biondo come un Manfredi di sveva discendenza… “Offri a Dio la tua vita” così il carnefice non potrà gloriarsi di avertela tolta”, gli suggeriva il prete corvo, restivo, dandogli da baciare il crocifisso. Respinse, il valoroso, il consiglio e il segno di Passione, “Offro all’Italia” dice “la mia vita”. E al silenzio che seguì alla sparatoria, lancinante, disumano echeggiò nell’aria, proveniente da un balcone sulla piazza, Giovanna Oddo, l’innamorata dell’uomo appena morto.24 Sono le sorti delle singole vite che muovono i pensieri del romanzo, poiché la storia è stata fatta per mano degli uomini, ma anche semplicemente attraverso di loro, e osservarli è il modo migliore per comprenderla e dunque per poterla raccontare. La fine della missiva non termina con una vile rassegnazione, «non è una dichiarazione di resa, ma una sfida inedita, un rilancio»:25 la donazione dei libri e delle opere d’arte al museo e alla scuola di Cefalù è una promessa per il futuro, poiché scrittura è memoria, ma spesso memoria falsificata, e questo è l’unico modo di cambiare davvero le cose: «si che, com’io spero, la storia loro, la storia, la scriveran da sé, non io, o voi».26 La differenza principale fra Il Gattopardo e quest’opera, da molti definita un’anti-Gattopardo, è che al finale del racconto è stata donata una speranza nata dalla compresenza di voci diverse, che si oppongono all’isolamento sentenzioso e altero del principe di Salina. La storia ricordata da Consolo riesce infatti a contenere ogni esistenza la cui umile origine ha condannato all’oblio, a spiegare come conoscenza sia comprensione e infine a superare moralmente e intellettualmente Il Gattopardo sovrapponendo ai monologhi moraleggianti le dubbiose tensioni: «la contraddizione infine nel ritrovarmi a dire, com’io dissi, dell’impossibilità di scrivere se non si vuol tradire, creare l’impostura, e la necessità insieme e l’impellenza a farlo».27 A concludere l’opera non sono le parole del barone ma quelle trascritte da un muro dove erano state tracciate con del carbone le «testimonianze personali de’ protagonisti, d’alcuni d’essi poscia moschettati».28 Vent’anni dopo l’uscita del libro, Vincenzo Consolo si esprime in uno scritto che confessa e spiega le ragioni dell’opera, parla a riguardo del confronto con Il Gattopardo e con la rilettura del Risorgimento da parte della letteratura siciliana, rivela le influenze e le ispirazioni ricevute: E passarono anni per definire il progetto, convincermi della sua consonanza con il tempo, con la realtà, con le nuove etiche e nuove estetiche che essa imponeva, assicurarmi della sua plausibilità. Assicurarmi anzitutto che il romanzo storico, in specie in tema risorgimentale, passo obbligato di tutti gli scrittori siciliani, era per me l’unica forma narrativa possibile per rappresentare metaforicamente il presente, le sue istanze e le sue problematiche culturali (l’intellettuale di fronte alla storia, il valore della scrittura storiografica e letteraria, la “voce” di chi non ha il potere della scrittura, per accennarne solo alcune) e insieme utilizzare la mia memoria, consolidare e sviluppare la mia scelta stilistica, linguisticamente originaria, che m’aveva posto e mi poneva, sotto la lunga ombra verghiana, nel filone dei più recenti sperimentatori, fra cui spiccavano Gadda e Pasolini. La struttura poi del romanzo, la cui organicità è spezzata, intervallata da inserti documentari o da allusive, ironiche citazioni, lo connotava come un metaromanzo o antiromanzo storico. “Antigattopardo” fu detto Il Sorriso con riferimento alla più vicina e ingombrante cifra, ma per me il suo linguaggio e la sua struttura volevano indicare il superamento, in senso etico, estetico, attraverso mimesi, parodia, fratture, sprezzature, oltranze immaginative, dei romanzi di intreccio dispiegati e dominati dall’autore, di tutti i linguaggi logici, illuministici, che, nella loro limpida, serena geometrizzazione, escludevano le “voci” dei margini […] E la risposta che posso ora darmi è che un senso il romanzo può ancora trovarlo nella sua metafora. Metafora che sempre, quando s’irradia da un libro di verità ideativa ed emozionale, allarga il suo spettro con l’allargarsi del tempo.29
  2. L’intuizione dell’antico Un’opera in cui si erge con maggior individualismo il protagonista, omonimo di quello de Il Gattopardo, è Retablo. Tatiana Bisanti ha fatto notare, facendo riferimento a quest’opera in particolare, il legame fra esperienza estetica ed estasi amorosa: È attraverso il procedimento dell’ekphrasis, familiare alla tradizione letteraria medievale, che si realizza nella scrittura di Consolo quel legame fra seduzione amorosa e seduzione artistica. Come hanno rilevato molti critici, in Consolo scrittura e arti figurative sono strettamente collegate fra loro.30 Sembra in effetti che Consolo perpetui una sfida nei confronti dell’arte e della sua capacità di rappresentazione e, aggiungerei, di fissazione nel tempo. Con ekphrasis s’intende infatti una descrizione in grado di rendere visivamente l’oggetto trattato. Il titolo stesso dell’opera rimanda ad una particolare forma d’arte spagnola, una pala d’altare spesso costituita da degli scompartimenti. I retablos raggiungono il periodo di maggior splendore durante il barocco, corrente con la quale la scrittura di Consolo è stata spesso comparata. L’obiettivo di Retablo è manifesto all’inizio del testo: Nel modo più piacevole e acconcio, giusto gli consente l’ingegno suo modesto, sì che spera voi possiate leggendolo vivere secolui il breve tempo del viaggio in quest’isola lontana, in questa terra antica degli dèi, delle arti, delle conquiste e disastrosi avanzi.31 Poco più avanti prosegue con la presentazione del reale contenuto del romanzo, reso attraverso una lunga e sentita lettera, e risponde alla principale domanda che sorge nell’accostarsi al libro: 30 Perché viaggiamo, perché veniamo fino in quest’isola remota, marginale? Diciamo per vedere le vestigia, i resti del passato, della cultura nostra e civiltate, ma la causa vera è lo scontento del tempo che viviamo, della nostra vita, di noi, e il bisogno di taccarsene, morirne, e vivere nel sogno d’ère trapassate, antiche, che nella lontananza ci figuriamo d’oro, poetiche, come sempre è nell’irrealtà dei sogni, sogni intendo come sostanza de’nostri desideri. Mai sempre tuttavia il viaggio, come distacco, come lontananza dalla realtà che ci appartiene, è un sognare. E sognare è vieppiù lo scrivere, lo scriver memorando del passato come sospensione del presente, del viver quotidiano. E un sognare infine, in suprema forma, è lo scriver d’un viaggio, e d’un viaggio nella terra del passato.32 In questo importante passo, in questa quasi dichiarazione poetica, Vincenzo Consolo concede una risposta diversa sulla ragione che lo spinge a scrivere del passato, rispetto a quella comunemente fornita, secondo cui l’approccio alla storia avviene sempre in modo metaforico. 33 Il viaggio è trasposizione, un distacco concreto che rispecchia quello interiore del protagonista. È un ambiente aperto dal quale non può difendersi o sottrarsi, che lo colpisce nei sensi e nell’intelletto. La memoria è «volontate»34 e «ragione»,35 la sua assenza comporta «l’abbandono completo del mio essere a ogni più varia istanza, dura inesistenza».36 Fra le righe di Retablo domina il sentimento acuto e prorompente attraverso cui l’attenta descrizione della vicenda, dalla parvenza di sogno, prosegue. Le parole s’inseguono freneticamente, come se l’autore non volesse trascurare nulla, come se si fermasse ad osservare per poter concedere alla memoria qualcosa in più. Il protagonista si reca in Sicilia per rinvenire la nobiltà dell’oggetto del suo amore, e vi trova l’arte e la storia, poiché questo luogo è «riflesso degli astri in cielo nella notte e nel contempo immagine di vita e di poesia»37 che sembra svelarsi a egli soltanto. Nelle tracce dei secoli passati ritrova la bellezza e in essa il profilo della sua donna, tratteggiato dai ricordi. Le percezioni intime e universali s’intrecciano, concedendogli d’innalzarsi dalla sua condizione umana, di liberarsene seguendo frammenti d’esistenza tangibili a lui che è «come richiamato da voci che solamente a me si rivelavano, voci antiche e sepolte». 38 È la memoria che giunge al protagonista, all’artista «sempre lontano dalla vita, dalla gente»,39 che grazie alla sua essenza, rinunciando a quanto altri anelano, raggiunge qualcosa di remoto, infinitamente distante ma presente «che ritornò d’allora, per la parola sua, al celeste raggio e alla memoria».40Allora perde se stesso «rapito e dimentico di tutto»41 e ritrova un sentimento antico ed eterno: O mia Medusa, mia Sfinge, mia Europa, mia Persefone, mio sogno e mio pensiero, cos’è mai questa terribile, maravigliosa e oscura vita, questo duro enigma che l’uomo sempre ha declinato in mito, in racconto favoloso, leggendario, per cercar di rispecchiarla, di decifrarla per allusione, per metafora? E qui tremo, pavento, perché mi pare di toccare il cuor della metafora, e qui come mai mi pare di veder la vita, di capirla e amarla, d’amare questa terra come fosse mia, la terra mia, la terra d’ogni uomo, d’amare voi, e disperatamente…Voi o la vita? O me medesimo che vivo? Com’è ambiguo, com’è incomprensivo questo molesto impulso, questo sentire intenso che chiamiamo amore!42
    Le parole si vestono d’arcaicità, la poesia diviene lo strumento del pensiero e il suo concretizzarsi: la metafora che cela la vita. In questo attimo di moment of being alla Woolf, di sublime leopardiano, dopo aver rinnegato il «secol nostro superbo di conquiste e di scienza, secolo illuso, sciocco e involuto»,43 giunge alla comprensione che si può ricevere soltanto se lungi da sé stessi. Il tempo dei morti e dei vivi, il loro ricordo che sopravvive quasi senza memoria, e l’arte e la poesia in cui s’abbandona e cerca ascolto, tutto riconduce all’amore. Alla fine l’esistenza si mostra nel suo significato più profondo ed egli pare vedere ogni cosa nella sua verità universale, così una fanciulla appena tolta alla vita diviene «il pudore, la trepidazione, il sentimento, la verità del mondo». 44 Don Fabrizio è quindi l’incarnazione della figura, cara alla tradizione, che riceve qualcosa del passato, che «voci udiva vagando di qua, di là, e grida, risa, urla di òmini di donne di vecchi di fanciulli, preghiere, canti, lamenti, frasi m’avvolgevano la testa in lingue sconosciute, parole greche, puniche, sicane o elìme, o ancora più antiche».45 Si fa egli stesso poesia, mediatore, ponendosi fra la coscienza degli uomini e ciò che essa ha obliato. Ogni sua percezione o sentimento appare distante, e il suo ritorno, il suo richiamo, giunge ineffabile, carico di una profonda nostalgia. Tutto contiene qualcos’altro, «viaggio si fa dentro il viaggio, ignoto nell’ignoto»46 ed è la fecondità della mente, l’eterno processo di significazione, che non concede uno sviluppo sistematico della trama o una divisione in capitoli, soltanto i luoghi emergono dal flusso prevalentemente descrittivo. La fuga dall’amore conduce ad un viaggio che porta all’esperienza di numerosi livelli d’esistenza, gravidi dell’unione inestricabile di pensiero e sensazione. In questo senso di perdizione e turbamento, di caos, vi è un punto fermo, il destinatario di tutto ciò che è contenuto nell’opera, e la fedeltà a questo è riassunta in queste umili parole: «e mi sembrano nella memoria un unico giardino, unico e sognato, tutti i giardini che ho conosciuto».47 Soltanto verso la fine dell’opera, il protagonista conferisce una definizione di sé stesso e del suo ruolo: Ma antichi e ricorrenti sono i naufraghi, sono d’ogni epoca, d’ogni avventura, sogno, d’ogni frontiera elusa, noi naufraghi d’ogni storia infranta, simboli d’un epilogo, involontarie comparse attoniti spettatori di questa metafisica. Di cui non conosciamo i confini, dimenticammo l’inizio, ignoriamo la fine, ma riferiamo incauti il vario apparire nelle luci e nei tempi irriferibili.48 La memoria è l’unica salvezza al silenzio e al vuoto e, in queste pagine del romanzo ambientate nella palude, essa si trascina a stento, priva di una connessione con il passato o con il futuro. Soltanto di fronte ai resti concreti di una civiltà perduta, impone una sofferta riflessione storica e antropologica. Qui s’intravede la differenza fra la memoria percepita dai sensi e quella cui le tracce dell’epoche passate concedono una base concreta. Il puro sentire della memoria porta amarezza e abbattimento, la consapevolezza di essa causa rabbia e lucida critica. Verso la fine dell’opera viene svelato il suo nesso, nel momento in cui la vita dell’uomo più miserevole supera d’importanza l’arte, «il fiore d’estrema civiltà»,49 otteniamo la prova di ciò che lentamente il testo ha cercato di farci comprendere: la poesia e la memoria sono gli strumenti per il rinvenimento della vita stessa, nella sua forma più sincera. Simile a Il sorriso e Retablo è la successiva Le pietre di Pantalica, una raccolta di racconti, di ritratti di personaggi ed epoche. Con quest’opera e con Lo spasimo di Palermo, Consolo ritorna alla complessa narrazione del ’900. Il fotografo tratta della permanenza in Sicilia di Robert Capa ed eleva il suo pensiero contro gli eventi della Guerra civile spagnola e della Seconda Guerra mondiale: «la guerra era quel ragazzo morto contro un muro a secco […] la guerra era la sua Garda, l’intrepida compagna, morta schiacciata sotto un carrarmato sul fronte di Brunete».50 Attraverso l’espediente di queste due guerre, Consolo si sofferma su una guerra eterna e universalmente sentita: Fotografava pastori e contadini […] indifferenti a questa guerra che si svolgeva accanto a loro. Indifferenti e fermi lì da secoli sembravano, spettatori di tutte le conquiste, riconquiste, invasioni e liberazioni che su quel teatro s’erano giocate. E sembrava che la loro vera guerra fosse un’altra, millenaria e senza fine, contro quella terra d’altri, feudi di baroni e soprastanti, avara ed avversaria, contro quel cielo impassibile e beffardo.51 Il principale motore di questa guerra viene discusso nei capitoli successivi e sintetizzato dalla seguente espressione: «la roba cc’è, ma è mala spartuta».52 Consolo s’insidia all’interno della storia, raccontando ad esempio le circostanze durante le quali fu scattato uno dei capolavori di Capa per poi restituirlo: Ecco, questa figurina densa di significato, figurina che d’ora in poi vedrai riprodotta dappertutto, su riviste e su libri, finanche sui testi di storia dei tuoi figli, io regalo a te, lettore, sperando che il fotografo ungherese, saltato su una mina a Thai Binh, in Indocina, un pomeriggio di maggio del ’54, approvi dal suo cielo, col suo sguardo ironico, il mio gesto. […] incomincia a terminare l’era della parola, a prendere l’avvio quella dell’immagine. Ma saranno poi, a poco a poco, immagini vuote di significato, uguali e impassibili, fissate senza comprensione e senza amore, senza pietà per le creature sofferenti. 53 Il capitolo intitolato Il barone magico racconta Lucio Piccolo, a partire dalla pubblicazione di 9 liriche fino alla morte, così come era stato per Robert Capa, attraverso un’attenta e quanto più possibile ricostruzione storica. Le parole espresse da Piccolo nel racconto sono infatti le stesse che vennero registrate da una videocamera durante una delle poche interviste concesse,54 la stessa Villa Piccolo è descritta nei suoi particolari, i fratelli nei modi e nelle attitudini che tuttora vengono ricordati. Lucio Piccolo viene riconosciuto, fin dal primo incontro, come incarnazione della figura del poeta: «capii che la nobiltà diversa del barone era la poesia, in lui doppiamente magica. E fastosa sognante maliosa, di preziosa favola, di canto mai sentito».55 Il rapporto fra il protagonista del capitolo e l’autore si basa su questa comunanza d’interessi: «ero rimasto lì incantato, quando Lucio Piccolo sorrise ancora, mi tese la mano e: «Ho un’intera biblioteca di questi vecchi libri. Venga, venga a trovarmi a Capo d’Orlando».56 Viene riportato in seguito l’incontro con Sciascia e il monito che gli mosse: «Sciascia, la invito a scrivere di queste nostre terre, di questi paesi medievali»;57 infine la morte dell’autore – «così appresi della morte di Lucio Piccolo, ch’era avvenuta durante la notte. Provai dolore, ma dolore anche per un mondo, un passato, una cultura, una civiltà che con lui se ne andavano»58 – e, quasi come ultimo omaggio al poeta, propone un’incantevole – poiché estremamente realistica – descrizione del paesaggio di Capo d’Orlando, così com’era un tempo. In Malophòros torna il motivo caro delle rovine: Mi chiedo cosa avranno provato questi viaggiatori di un’epoca ormai remota a trovarsi in mezzo a queste rovine, ai templi dell’acropoli, in vista di quel mare. E mi chiedo cosa avrà mai provato l’abate Fazello quando, a dorso del suo mulo o a cavallo, si trovò per primo a scoprire Selinunte, invasa d’erbe e di rovi, di serpi e uccelli, resa deserta dalla malaria, sepolta da secoli nell’oblìo. Quale terribile emozione, quale estraniamento, quale panico di fronte al titanico caos, all’affastellamento delle enormi rovine di quel tempo di Zeus nel cui centro restava diritta una sola colonna, sfida al tempo e alle furie telluriche […] Ci sono ormai posti remoti, intatti, non dissacrati, posti che smemorano del presente, che rapiscono nel passato? Io avevo provato questo rapimento a Tindari […] l’avevo provato a Segesta, seduto sui gradini del tempio […] mi ricordai del tempo – tempo remotissimo, arcaico – in cui per Omero, i tragici, per Erodoto, Diodoro, Tucidide, ero preso dalla passione per l’antico; del tempo dei miei viaggi alla scoperta dell’archeologia, in cui la Sicilia era un’isola surreale o metafisica, con solo città sepolte, necropoli, latomìe, ipogei pieni di sarcofagi di marmo luminoso, di neri lucidi crateri con dèi ed eroi graffiti, con templi teatri agorai di città morte in luoghi remoti, deserti, incontaminati.59 Le righe riportate condensano il fascino subìto dalle tracce dell’antichità, da quelli che potremmo chiamare i correlativi oggettivi, le metonimie delle epoche passate. La caduta nell’antro del tempo viene solitamente percepita in solitudine, come avviene nel capitolo Selinunte greca contenuto in Retablo. In questo caso invece la forza motrice e rammemoratrice è in grado di trascinare a sé ogni cosa: Persone reali, qui con me, su questa collina di Malophòros, in questo radioso mattino del primo giorno dell’anno, che pure a poco a poco svanivano, venivano prese in un vortice, precipitavano con me nel pozzo di Ecate, incontro alle divinità sotterranee, nel mistero e nell’oscurità invita del Tempo.60 Il capitolo più interessante e significativo è La casa di Icaro, il racconto di Uccello che s’impegna a salvare quanti più oggetti possibili e a custodirli nel suo museo etnologico a Palazzolo «che non era il solito museo morto, polveroso […] ο freddamente scientificizzato, sotto vetro, illuminato da faresti, didascalizzato […] ma una casa viva»:61 E non raccoglie solo cose, oggetti, ma canti, racconti, leggende, tradizioni popolari. Con frenesia, con forza, con accanimento, in lotta con gli speculatori, con i nuovi piccoloborghesi che, nelle case fresche di cemento […] volevano anche il pezzo di carretto, il pupo paladino, il vaso di terracotta, il dipinto su vetro, cose che il giorno prima avevano distrutto o dato al rigattiere. In lotta con il seppellimento e con l’oblio.62 La riflessione che attraversa il capitolo s’intreccia con la letteratura, quasi essa potesse rappresentare un mondo a parte, esistito in qualche tempo: Cominciano a spuntare le ciminiere col pennacchio di fuoco delle raffinerie lungo quel litorale di miti, quella costa tra Augusta e Siracusa, a ridosso di quel mare in cui il professor La Ciura incontra la sirena Lighea del Lampedusa. E Vittorini […] girava in quel periodo su per gli Iblei, Erei, Madonie, lungo itinerari lombardo-siculi, d’attivismo e industria per l’uomo, incontrando città belle, gente felice e bella, ragazzi e fanciulli allegri fuggiti da vecchi mondi statici, camionisti febbrili in viaggio per le costruzioni di speranze, contadini cavalieri in marcia per cospirazioni contro ingiustizie della storia.63 Il riferimento a Vittorini riconduce a due opere in particolare: Le città del mondo, nella quale è presente una riflessione secondo cui nei luoghi belli vi sia gente buona, 64 e Le donne di Messina, i cui protagonisti sono contadini che viaggiano su dei camion, ognuno nella ricerca di qualcosa. La conclusione del capitolo riporta quasi un’investitura poetica: E ora che sei migrato per sempre, caro Uccello, io rispondo a quella tua richiesta di fare tutto il possibile… E il possibile è questo, di ricordarti, dagli spazi chiusi di questa nostra frigida vita, con affetto e rimpianto, dolce e feroce, cantore e predatore di memorie, di reliquie del mondo trapassato di fatica e di dolore, vero, umano, per il quale non nutrivi nostalgia, ma desiderio, speranza di riscatto.65 L’opera si conclude con un viaggio, il tema del nostos in fondo attraversa l’intera produzione consoliana, dai viaggi per mare ne Il sorriso a Lo spasimo di Palermo: Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta d’addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca.66 L’autore si ferma nella Siracusa di Vittorini, deturpata e sconsacrata dalle raffinerie, nella Comiso di Bufalino e infine nella Palermo incrostata del sangue dei delitti di mafia. Lo squallore e il disincanto portano ad una condizione disperata che si risolve in un’unica promessa incorruttibile: Ah Ifigenia, ah Oreste, ah Pilade, ah ancelle della sacerdotessa d’Artemide, quale disinganno, quale altro dolore per voi che tanto avete bramato la patria lontana! V’auguro, mentre eleggiate felici verso la Grecia, che venti e tempeste vi sospingano altrove, che mai possiate vedere Argo, distrutta durante il vostro esilio, ridotta a rovine, a barbara terra, più barbara della Tauride che avete lasciato. Vi resti solo la parola, la parola d’Euripide, a mantenere intatta, nel ricordo, quella vostra città.67 Il rapporto fra scrittura e memoria è ribadito poco più avanti: «non resterà compagna, figlio o amico; ricordo, memoria; libro parola». 68 La particolarità dell’opera è il suo essere popolata di verità storiche: come era avvenuto per Il sorriso, Consolo riprende personaggi realmente esistiti e ne rievoca le storie, facendole proprie. La stessa vicenda della casa museo è tratta dall’attività di recupero e conservazione perpetuata da Antonio Uccello.69 L’olivo e l’olivastro si apre accostando sempre «sogno, ricordo e nostalgia»,70 invocando l’antichità, «tracce, prove d’una storia frantumata, d’una civiltà distrutta, d’uno stile umano cancellato»,71 «un mondo separato, remoto e ignoto»,72 e ricordando così la dipendenza fra storia, arte e umanità. Il personaggio di Ulisse, il particolare e sentito racconto non di un eroe ma di un naufrago – figura ricorrente nel testo – riporta un interessante riferimento: «rimorsi che lo spingono a varcare la soglia dell’umano, a spingersi, vivo, nel regno dei morti, a dialogare, per lenire le ferite del suo animo, con le ombre dei trapassati»,73 qui sembrano tornare le ragioni del viaggio espresse in Retablo. Come avviene in uest’ultima, l’autore definisce il suo ruolo: «io sono il messaggero, l’ànghelos, sono il vostro medium, a me è affidato il dovere del racconto: conosco i nessi, la sintassi, le ambiguità, le malizie della prosa, del linguaggio».74 Per la prima volta, rispetto alle opere trattate, viene riconosciuta l’importanza della scrittura e dei suoi metodi, svelando in un Consolo – riprendendo l’espressione usata da Elvira Sellerio nei confronti di Gesualdo Bufalino – un vero «padrone della lingua».75
    Soggetto del libro è il passato, storico e mitologico, della Sicilia, i cui autori si muovono come personaggi: Verga, Pirandello, De Roberto. Le riflessioni e gli atteggiamenti di questi risentono del tempo e dello spazio in cui si muovono e da cui provengono: Verga inforcò gli occhiali, spiegò i fogli e si mise a leggere. Pirandello lo osservò ancora e gli sembrò lontano, irraggiungibile, chiuso in un’epoca remota, irrimediabilmente tramontata. Temette che né il suo, né il saggio di Croce, né il vasto studio del giovane Russo avrebbero mai potuto cancellare l’offesa dell’insulsa critica, del mondo stupido e perduto, a quello scrittore grande, a quell’Eschilo e Leopardi della tragedia antica, del dolore, della condanna umana. Pensò che, al di là dell’esterna riconoscenza, delle formali onoranze, in quel tempo di lacerazioni, di violenza, di menzogna, in quel tramonto, in quella notte della pietà e dell’intelligenza, il paese, il mondo, avrebbe ancora e più ignorato, offeso la verità, la poesia dello scrittore.76 Sono citati anche Sciascia e Vittorini, il quale introduce l’ansia della fuga e del ritorno: «comincio a sentire una certa inquietudine, una certa insofferenza: mi sembra di essere imprigionato nella forma di “quello che resta in Sicilia”… E questo Vittorini mi prediceva».77 L’amara contraddizione tra bellezza e noncuranza, tra antichità e ignoranza, tra olivo e olivastro dunque tra colto e selvatico è fortemente sentita dagli autori siciliani, eppure sono loro, a volte dopo essere andati via, come nel caso di Consolo e Vittorini vissuti a Milano, a farvi fedelmente ritorno con la scrittura e a ricordarla: In Siracusa è scritta, come in ogni città d’antica gloria, la storia dell’umana civiltà e del suo tramonto. […] sciogliere un canto di nostalgia d’emigrato a questa città della memoria sua e collettiva, a questa patria d’ognuno ch’è Siracusa, ognuno che conserva cognizione dell’umano, della civiltà più vera, della cultura. Canto di nostalgia come quello delle compagne d’Ifigenìa, schiave nella Tauride di pietre e d’olivastri. Ché questa è oggi la condizione nostra, d’esiliati in una terra inospitale, cacciati da un’umana Siracusa, dalla città che continuamente si ritrae, scivola nel passato, si fa Atene e Argo, Costantinopoli e Alessandria, che ruota attorno alla storia, alla poesia, poesia che da essa muove ad essa va.78 E prosegue poco più avanti: «in un luogo di magherie, memorie, rimpianti, nostalgie viviamo, noi qui rimasti».79 Un senso simile si coglie in Nottetempo, casa per casa: «a volte sono inquieti i morti, si negano alla pace, s’impuntano alle soglie, dimoran nei paraggi, lamentano il distacco, dolorano come i vivi di memoria, di rimpianto».80 La trama del romanzo si muove su luoghi antichi e fa affiorare un livello di coscienza più profondo: In nuovi mondi o antichi, in luoghi ignoti risediamo. O ignote forme, presenze vaghe, febbrili assenze, noi aneliamo verso dimore perse, la fonte ove s’abbevera il passero, la quaglia, l’antica età sepolta, immemorabile.81
    Così le vicende narrate vengono interrotte da pensieri provenienti da troppo lontano perché possano essere identificati: «e il suo dolore sembrò a Petro sorto […] da qualcosa che aveva preceduto la sua, la nascita degli altri. Era così per lui, per la famiglia o pure per ogni uomo, per ogni casa? Di questo luogo, di questa terra in cui era caduto a vivere, di ogni terra?».82 Il sentimento che si fa universale ricorda
    le opere di Elio Vittorini, così come lo sguardo rivolto ai personaggi:
    E giù nel buio lieve, la mole della Rocca, le case del paese accovacciate sotto, strette fra la sua base e il mare, intorno al guardiano, il maniero, la grande cattedrale. Dal piano d’essa, da quel cuore partì con il pensiero a ripercorrere ogni strada vicolo cortile, a rivedere ogni chiesa convento palazzo casa, le famiglie dentro, padri figli, i visi loro, rievocarne i nomi, le vicende. Sentiva d’essere legato a quel paese, pieno di vita storia trame segni monumenti. Ma pien soprattutto, piena la sua gente, della capacità d’intendere e sostenere il vero, d’essere nel cuore del reale, in armonia con esso. Fino a ieri. Ora sembrava che un terremoto grande avesse creato una frattura, aperto un vallo fra gli uomini e il tempo, la realtà, che una smania, un assillo generale, spingesse ognuno nella sfasatura, nella confusione, nell’insania. E corrompeva il linguaggio, stracangiava le parole, il senso loro.83 L’accostamento fra l’umanità e il linguaggio testimonia ancora una volta il nesso inscindibile che li lega e che l’attenzione operata da Consolo nei confronti della lingua derivi da un profondo senso di appartenenza e dipendenza riconosciuto tra i due. Infine Lo spasimo di Palermo, ultimo romanzo, rappresenta cronologicamente la ripresa della conclusione de Le pietre di Pantalica, non si perde mai ma registra lucidamente gli scempi della seconda metà del secolo, di cui sono protagonisti i delitti di mafia e il cosiddetto “sacco di Palermo”, che fa riferimento al boom edilizio che stravolse il panorama architettonico e paesaggistico della città. L’opera disperata racconta la distruzione – «s’aprì subito il cantiere, sventrarono il giardino»84 – dopo molto tempo e con rammarico, poiché consapevole della funzione e delle possibilità della letteratura: «aveva tentato infinite volte la scrittura, lettere memorie resoconti, ma l’orrore nasceva puntuale per quell’ordine assurdo, quel raggelare la ferita, quella codificazione miserevole dell’assenza prima e poi assoluta, dell’improvviso vuoto, dello sgomento fisso».85 L’autore si svela protagonista, dal momento che riferisce, come frammento di un libro del protagonista, dello scrittore Gioacchino, una citazione da Le pietre di Pantalica, 86 e rivela così la veridicità delle immagini contenute nel romanzo, manifestandosi non più come ideatore di esse, ma semplicemente come testimone. L’ultima opera dell’autore, pubblicata due anni prima della morte, è Il teatro del sole, il titolo allude alla Piazza dei Quattro Canti di Palermo: «là era il libro di storia più chiaro, il nuovo libro che i viceré avevano scritto sopra un altro più antico e consunto».87 Si tratta di un vero e proprio teatro, nel quale è la storia ad andare in scena, con tutti i suoi protagonisti: Mezzogiorno, l’ora sacra, il tempo dell’arresto, della luce sospesa, delle apparizioni […] Non fauni e ninfe apparivano, ma fantasmi per via Toledo, invadevano il Teatro del Sole […] Che rimescolio di razze, di lingue, in questa turba vitale, invadente, in questi dominatori venuti dal mare, dai deserti lontani, in questi guerrieri audaci e sereni coltivatori di palme, d’ulivi, di cedri! Sono insieme arabi, persiani, egizi, libici, sudanesi, berberi, spagnoli, tutti uniti nella fede in Allah. Sono rudi, incolti, feroci e sapienti, dottissimi, cultori di numeri, astronomie, raffinati poeti […] Ruggeri e Guglielmi d’Altavilla seguivano, in ancor più sontuosa parata […] Svanisce lo screziato bagliore normanno ed è la volta dello Stupore del Mondo, del “Vento di Soave”, del rosso Federico, del grande imperatore. Viene al galoppo sul bianco destriero, in mantello di porpora, la mano del guanto di cuoio su cui affondano gli artigli del falco. Gli fanno corteggio vassalli, cancellieri, notari, poeti della nuova lingua volgare, Pier delle Vigne, Iacopo da Lentini […] vengono ora i cattolici potenti di Spagna.88 Tutto questo si mostra all’autore che si ferma ad osservare nel Teatro del sole e che al fine tenta di liberarsi da questa vertigine: «smuovo le mani nell’aria per frugare l’affanno, frantumare allucinazioni, fantasmi. Cerco di muovere i passi, fuggire dall’incantesimo, da quello spazio stregato, dalla lunga storia angosciosa di questa superba città, dell’incantevole isola, che in figure, in ossessione mi viene».89 Quest’ultima riga, che riecheggia il verso di Piccolo «la vita in figure mi viene»,90 riassume l’intera produzione consoliana, nella quale la narrazione si nutre di immagini giunte da lontano, da un tempo ricordato o semplicemente riconosciuto nelle tracce che ne sono sopravvissute.

    ***

    1 CESARE SEGRE, Un profilo di Vincenzo Consolo, in Consolo L’opera completa, Mondadori, Milano, 2015 p. XVI. 2 Cfr. ivi, p. XVII.
  3. 3 VINCENZO CONSOLO, Intervista di Isabella Donfrancesco, «Scrittori per un anno», 23 gennaio 2012, https://youtu.be/Yo7lllJ9Az0.
  4. 4 Ibidem 51 5 C. SEGRE, Un profilo di Vincenzo Consolo, cit., p. XX.
  5. 6 V. CONSOLO, Le pietre di Pantalica, cit., pp. VIII-X.
  6. 7 MARGHERITA GANERI, Postmodernismo, Editrice Bibliografica, Milano, 1998, p. 55. 8 Ivi, p. 56 52 GIULIO FERRONI, Vincenzo Consolo, lo scrittore che ha saputo raccontare il respiro della
  7. Sicilia, L’Espresso, 9 gennaio 2022, pp.68-69, ttp://vincenzoconsolo.it/?cat=4 53 10 Ivi, p. 56. 11 Ivi, p. 55. 12 Ivi, p. 66. 13 Cfr. ibidem
  8. 14 Ivi, p. 96. 15 VINCENZO CONSOLO, La ferita dell’aprile, Mondadori, Milano, 2013, p. 28. p. 107 cfr. F. Petrarca,
  9. Canzoniere, Mondadori, Milano, 2018, p. 443, v.1, «erano i capei d’oro a l’aura sparsi») e leopardiani. 17 Cfr. VINCENZO CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Mondadori, Milano, 2019, p. 55 18 Ivi, p. 55.
  10. 19 Ivi, p. 26. 20 Cfr. ANDREA CAMILLERI, Leonardo Sciascia, le opere raccontate da Pif e Andrea
  11. Camilleri, BIF&ST, 2014, https://youtu.be/MDYR9npqhnc.
    V. CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio, cit., pp. 98-100.
  12. 22 Cfr. G. TOMASI DI LAMPEDUSA, Il Gattopardo, cit., pp. 204-219.
  13. 23 TANO GRASSO, Dentro “Il sorriso dell’ignoto marinaio” e nel romanzo di Tomasi di Lampedusa due modi di essere siciliani. Opposti, in «L’Espresso», 9 gennaio 2022, p. 70
  14. http://vincenzoconsolo.it/?cat=4.
    24 V. CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio, cit., p. 101.
  15. 25 T. GRASSO, Dentro “Il sorriso dell’ignoto marinaio” e nel romanzo di Tomasi di Lampedusa
  16. due modi di essere siciliani. Opposti, cit., p. 71.
  17. 26 Ivi, p. 102. 27 Ivi, p. 105.
  18. 28 Ivi, p. 106.
  19. 29 VINCENZO CONSOLO, Nota dell’autore, vent’anni dopo, in Il sorriso dell’ignoto marinaio,
  20. Mondadori, Milano, 2019, pp. 153-154.
  21. TATIANA BISANTI, Seduzione amorosa e seduzione artistica in Retablo di Vincenzo Consolo, in «Open Edition Journal», Images littéraries de la societé contemporaine, 2006,
  22. https://doi.org/10.4000/cei.813.
  23. 31 V. CONSOLO, Retablo, cit., p. 19.
  24. 32 Ivi, p. 53
  25. 33 V. CONSOLO, Intervista di Isabella Donfrancesco, in «Scrittori per un anno», 23 gennaio 2012,
  26. https://youtu.be/Yo7lllJ9Az0.
  27. 34 V. CONSOLO, Retablo cit. p. 60.
  28. 35 Ibidem 36 Ibidem 37 Ivi, p. 68.
  29. 38 Ivi, p. 74. 39 Ivi, p. 72.
  30. 40 Ivi, p. 74. Il passo richiama Leopardi, La ginestra, «torna al celeste raggio / dopo l’antica
  31. obblivion», Canti, Mondadori, Milano, 2016, p. 231, vv. 269-270.
  32. 41 Ivi, p. 76. 42 Ivi, p. 77.
  33. 43 Ivi, p. 73. Altro riferimento a Leopardi, La ginestra, «secol superbo e sciocco», v. 53.
  34. 44 Ivi, p. 78. 45 Ivi, p. 76.
  35. 46 Ivi, p. 80. 47 Ivi, p. 68.
  36. 48 Ivi, p. 83. 49 Ivi, p. 94.
  37. 50 Le pietre di Pantalica, cit., p. 22.
  38. 51 Ibidem 52 Ivi, p. 52.
  39. 53 Ivi, p. 23. 54 Cfr. p. 109.
  40. 55 Ivi, p. 105. 56 Ivi, p. 109.
  41. 57 Ivi, p. 111. 58 Ivi, p. 112.
  42. 53 Ivi, p. 23. 54 Cfr. p. 109.
  43. 55 Ivi, p. 105. 56 Ivi, p. 109.
  44. 57 Ivi, p. 111. 58 Ivi, p. 112.
  45. 59 Ivi, pp. 88-9.1 60 Ivi, p 94. 61 Ivi, p 99.
  46. 62 Ivi, p 98. 63 Ivi, p 97.
  47. 64 Cfr. ELIO VITTORINI, Le città del mondo, Bompiani, Milano, 2021, p. 93. 65 Le pietre di Pantalica, cit., p 101.
  48. 66 Ivi, p. 139. 67 Ivi, p 130.
  49. 68 Ivi, p. 132. 69 Cfr. http://www.casa-museo.it/
  50. 70 V. CONSOLO, L’olivo e l’olivastro, cit., p. 6.
  51. 71 Ivi, p. 7. 72 Ivi, p. 25.
  52. 73 Ivi, p. 16. 74 Ivi, p. 33.
  53. 75 ELVIRA SELLERIO, Gesualdo Bufalino – L’altro 900 – Documentario, 2020,
  54. https://youtu.be/1ql9eG8wG3k.
  55. 76 V. CONSOLO, L’olivo e l’olivastro, cit., pp. 59-60.
  56. 77 Ivi, p. 11.
  57. 78 Ivi, cit. pp. 73-74.
  58. 79 Ivi, cit. p. 94.
  59. 80 V. CONSOLO, Nottetempo, casa per casa, cit., p. 17.
  60. 81 Ivi, p. 54.
  61. 85 Ivi, p. 44. 86 Cfr. V. CONSOLO, Lo spasimo di Palermo, cit., p. 97.
  62. 87 VINCENZO CONSOLO, Il teatro del sole, Interlinea, Novara, 1999, p. 7. 88 Ivi, pp. 9-11.
  63. 89 Ivi, p. 13.
  64. 90 L. PICCOLO, Gioco a nascondere, Canti barocchi e altre liriche, cit., p. 19.

Facoltà di Lettere e Filosofia
Dipartimento di Lettere e culture moderne
Corso di laurea in Lettere moderne
relatore Giorgio Nisini
A.A. 2021-2022

Leonardo Sciascia, Lucio Piccolo, Vincenzo Consolo.
Villa Piccolo

«Nulla è sicuro, ma scrivi»: il citazionismo etico in ‘Retablo’ di Vincenzo Consolo

di Agnese Macori

«Veritas»: è questo il titolo di una delle tre parti che compongono Retablo, romanzo pubblicato da Sellerio nel 1987.[1] Il titolo fa riferimento al termine spagnolo utilizzato per indicare un polittico, una pala d’altare composta da tre pannelli: tre infatti sono le sezioni del libro, giustapposte una all’altra, in quanto tre versioni diverse della medesima vicenda. Ma retablo è anche una citazione del Retablo de las maravillas di Cervantes, la cui trama viene dichiaratamente ripresa per farne un breve episodio incastonato tra le pagine del romanzo: il Cavalier Clerici, nobile milanese in viaggio attraverso la Sicilia, assiste per le strade di Alcamo a una truffa da parte di due artisti di strada ai danni dei loro ingenui spettatori, e si accorge che l’inganno è lo stesso sui cui si basa l’atto unico di Cervantes.[2] Ma non è questa l’unica citazione presente nel romanzo, che anzi è fittamente intessuto di riferimenti ipertestuali. Un’altra fonte importante, per esempio, individuata tra gli altri da Bellanova, è l’Italianische Reise di Goethe:

In Italianische Reise di Goethe, in particolare, Consolo coglie la ricerca di una rinascita, un cammino a ritroso verso le radici della civiltà e della cultura che ha la sua necessaria conclusione proprio in Sicilia. Qui si svelano al viaggiatore del Nord, come in una iniziazione misterica, gli straordinari prodigi dei templi e dei marmi e, in questo, l’Odissea diventa “parola viva”: attraverso l’arte figurativa gli si svela la grandezza della poesia epica antica.[3]

Per comprendere a pieno questi riferimenti ad altre opere letterarie, è utile rifarsi al saggio La metrica della memoria, in cui Consolo ripercorre brevemente la sua produzione narrativa, fornendo le coordinate per interpretare ciascuna delle sue opere, affermando, a proposito di Retablo, che «per i rimandi, le citazioni esplicite e no, per la struttura, il risultato del racconto è di un ipertesto letterario e di un palinsesto».[4] Proprio alla luce di queste considerazioni dell’autore, si rende necessario soffermarsi brevemente sulla nozione di «palinsesto» nell’uso specifico e particolare che ne fa Consolo. A tal proposito credo possa essere illuminante un aneddoto di Cesare Segre, il quale ricorda, a proposito di Lunaria:

Quando Consolo mi mise tra le mani il meraviglioso libretto, e io gli mostrai di riconoscerne alcune fonti, invece di chiudersi nell’enigma mi procurò la fotocopia dei testi cui più si era ispirato, lieto che io ripercorressi i suoi itinerari. Mai come in questo caso la letteratura cresce su se stessa, e se ne vanta. Il lettore deve partecipare, come in un gioco, all’invenzione dello scrittore.[5]

Alla base delle citazioni di Consolo vi è dunque l’idea che non si scrive mai nel vuoto, e la convinzione che «bisogna sapere con esattezza cosa ci ha preceduto e cosa si sta svolgendo intorno a noi», abbandonando qualsiasi illusoria pretesa di una letteratura ingenua e vergine.[6] Le citazioni e le riscritture sono in questo senso il segno evidente del fatto che si scrive sempre su una pagina già scritta: da qui l’idea di una scrittura palinsestica. È da notare che la nozione stessa di «palinsesto» sia una evidente assonanza al lavoro di Genette che, proprio in quegli anni, aveva tracciato un’esaustiva mappa di quella che aveva definito «la letteratura al secondo grado».[7] In particolare, dei cinque tipi di transtestualità individuate in Palimpsestes, sono due quelle che riguardano più da vicino l’opera di Consolo: l’intertestualità e l’ipertestualità. L’intertestualità viene definita come «la relazione di copresenza fra due testi», che solitamente si risolve nella «presenza effettiva di un testo in un altro»: in questa categoria rientrano la citazione, il plagio e l’allusione.[8] Mentre il termine ipertestualità fa riferimento a «ogni relazione che unisca un testo B […] a un testo A […] sul quale si innesta in una maniera che non è quella del commento»: in questa categoria molto ampia rientrano le varie forme di riscrittura o di pastiche.[9]

Le due forme di transtestualità agivano già nella prima produzione di Consolo. In particolare Turchetta, a proposito de La ferita dell’aprile, suggerisce la presenza di alcune riprese intertestuali di testi fondamentali del modernismo europeo: non solo già il titolo La ferita dell’aprile si presta a essere letto come un rimando ad «April is the cruellest month», verso incipitario di The Waste Land com’è noto, ma vengono individuate analogie strutturali e tematiche (l’educazione di un giovane in una scuola di preti) anche con A Portrait of the Artist as a Young Man di Joyce.[10]

Ma il gioco intertestuale raggiunge il suo apice in Lunaria, la cui natura di riscrittura al quadrato è segno di un mutato rapporto tra la letteratura e il mondo, nella misura in cui alla letteratura sembrano essere necessari un numero sempre maggiore di «livelli di realtà» da frapporre tra sé e il suo oggetto. L’intertestualità non si riduce però a quella che Genette ha definito ipertestualità, ma assume in Lunaria l’aspetto di un’infinita trama di citazioni a tema appunto lunario, che attinge a piene mani dalla tradizione letteraria italiana e non solo. Sono citati, e si nominano solo i casi più lampanti a una prima lettura, Dante, Ariosto, ovviamente Leopardi, ma anche Cyrano de Bergerac, Pascal, Galileo Galilei e Pirandello.[11] In Lunaria la realtà sembra essere sempre più distante e intangibile; il sogno, l’evasione letteraria, la citazione come forma di presa di distanza dal reale possono essere interpretati come chiari segni di un cedimento a istanze tipicamente postmoderne, posizione qui non accolta per motivi che cercheremo di spiegare più avanti.

In Retablo queste modalità di riscrittura diventano il fulcro stesso della narrazione, e la natura di palinsesto del romanzo non è solo riconosciuta a posteriori dallo scrittore, ma è apertamente dichiarata all’interno delle pagine del libro. Il cavalier Clerici, protagonista della vicenda, esprime infatti la convinzione che l’essenza di ogni arte sia di «essere un’infinita derivanza, una copia continua, un’imitazione o impunito furto».[12] Inoltre, quest’idea di letteratura che scrive sempre su qualcosa di già scritto è resa icasticamente in un episodio emblematico del romanzo: il cavalier Clerici, nella sua «peregrinazione» per la Sicilia, viene derubato delle sue carte e delle sue chine, con le quali avrebbe voluto disegnare le antichità di cui è alla ricerca, e con cui, soprattutto, avrebbe continuato a scrivere il diario del viaggio – dedicato alla donna amata, Teresa Blasco – che è, naturalmente, il testo che il lettore ha tra le mani. Per non interrompere la narrazione, il Cavaliere riesce a rimediare delle vecchie pergamene da un convento, sul cui verso è raccontata la storia a tinte fosche di una fanciulla dal nome Rosalia, ingannata da un frate e vendicata da un converso che si farà in seguito bandito, e sul cui recto può proseguire il suo diario. Il gioco metatestuale è portato da Consolo alle sue estreme conseguenze: e così, nella parte centrale del romanzo, si alternano effettivamente pagine scritte in corsivo, in cui sono raccontate le vicende di Rosalia, e pagine in tondo in cui prosegue il resoconto di Clerici, in quello che è un «palinsesto» nel senso letterale del termine a dimostrazione che «qualsivoglia nuovo scritto che non abbia una sua tremenda forza di verità, d’inaudito, sia la controfaccia o l’eco di altri scritti».[13]

Questo motivo dell’«infinita derivanza» e del «furto continuo» ha portato la critica a considerare Retablo «uno degli esempi più consapevoli e meglio riusciti di una via italiana alla letteratura postmoderna».[14] Flora di Legami a tal proposito ha messo in evidenza come proprio questi tratti facciano sì che «la funzione del romanzo novecentesco, e di questo in particolare, si avvicina […] a quella del teatro barocco», nella misura in cui la scrittura diviene il mezzo «con il quale si percepisce la molteplicità e il disordine dei dati oggettivi, che la macchina del romanzo ricostruisce».[15] Questo accostamento tra il postmoderno e il barocco non è nuovo – si ricorderà la celebre definizione di Eco di postmodernismo come manierismo della modernità – ed è stata più volte chiamata in causa per definire l’opera di Consolo nella sua totalità, e di Retablo in particolare. Se Traina fa riferimento a Lunaria e Retablo come a un «dittico barocco», forse la definizione migliore del secondo elemento del «dittico» rimane quella proposta da Sciascia, che lo ha definito «un delirio barocco riflesso in uno specchio illuministico».[16] Per comprendere questa definizione apparentemente paradossale occorre soffermarsi brevemente sulla struttura e sul contenuto del romanzo.

L’elemento illuministico è facilmente identificabile: la vicenda è ambientata nel Settecento e il protagonista è un pittore milanese, appartenente alla cerchia dei fratelli Verri e di Cesare Beccaria, suo rivale in amore. Proprio perché la parte centrale del romanzo non è nient’altro che il diario del suo viaggio in Sicilia, la narrazione è filtrata dal suo occhio di intellettuale illuminista, con tanto di citazioni da Rousseau e accorati appelli contro la tortura e la pena di morte.[17] Lo spirito razionalista di Clerici si manifesta in tutto il racconto, a partire dal suo infelice amore per donna Teresa, sul quale cerca sempre di tenere uno sguardo sereno e misurato, facendo da contraltare al furor amoris di Isidoro, il fraticello smonacato che lo accompagna nel suo viaggio. È stato notato come, in questa parte centrale del romanzo, «invertendo lo schema diegetico ariostesco in cui un chierico, Turpino, narrava la furia del cavaliere Orlando – il cavaliere Fabrizio narra le penose conseguenze della passione del fraticello “che per amor venne in furore e matto”».[18]

Il romanzo, sebbene il diario di Clerici ne costituisca la parte centrale, nonché la più corposa e articolata, è in realtà – come si è detto – tripartito, e a ognuna delle tre sezioni corrisponde un diverso narratore che fornisce la sua versione dei fatti: da cui deriva appunto il titolo Retablo.  Dunque la prima parte, «Oratorio», è il racconto, portato avanti da frate Isidoro, del suo amore per una giovane ragazza del popolo di nome Rosalia (che, nonostante alcune somiglianze non è la Rosalia della pergamena su cui scrive Clerici), per la quale ha smesso la veste monacale. Al fine di guadagnare i soldi necessari a sposare la ragazza, Isidoro accetta di accompagnare Clerici, incontrato per caso al porto, nel suo viaggio ma, ritornato a Palermo dopo qualche settimana, scopre che la sua Rosalia lo ha abbandonato, e, riconosciutene le fattezze in una statua (non a caso, allegoria della Verità), impazzisce di dolore. La Rosalia amata da Isidoro, divenuta cortigiana, è la modella da cui effettivamente lo scultore Serpotta si ispira per la sua statua, e il povero frate, ignaro di tutto, riconoscendo i tratti della fanciulla, «davanti a la Verità, divenne matto». Ma proprio perché incarnata da Rosalia, personaggio sfuggente e inafferrabile, che inganna e mente, la sovrapposizione tra i due volti assume valore antifrastico, mostrando che la verità, per quanto possa essere «bella», sia una vana chimera, la cui ricerca non può che rimanere frustrata.[19] La terza parte «Veritas» è lo speculare racconto di Rosalia, la quale, venuta a conoscenza delle disgrazie occorse al povero Isidoro, gli scrive per dirgli addio, spiegando che, sebbene non abbia mai smesso di amarlo, ormai vive come cortigiana a palazzo ed è prossima a partire per una tournée come cantante d’opera.

Le tre tavole che formano il Retablo sono quindi tre punti di vista sulla medesima storia, che viene però raccontata da prospettive diverse che si integrano a vicenda.[20] Se infatti Isidoro liquida in poche parole le settimane di viaggio, da lui intrapreso solo nell’ottica di tornare al più presto a Palermo dalla sua amata Rosalia, quel medesimo viaggio viene raccontano nei minimi dettagli dal Cavalier Clerici, che al contrario annota solo di sfuggita la scena di disperazione di Isidoro di fronte all’allegoria della Verità. Il romanzo si configura quindi come un gioco di specchi decisamente barocco, in cui la medesima vicenda assume connotati differenti in funzione del punto di vista da cui è osservata, e in cui anche la Veritas è una immagine illusoria dinnanzi alla quale la ragione può venire meno. La moltiplicazione prospettica dei punti di vista è l’elemento strutturale forte da cui prende le mosse l’intero impianto romanzesco. Il gioco degli sguardi ricorda al lettore come ogni narratore sia inevitabilmente inattendibile in quanto portatore di uno sguardo parziale, che si focalizza su aspetti che, visti da una differente prospettiva, sono assolutamente marginali e trascurabili. Come è stato giustamente notato, «Retablo avrebbe quindi la funzione di rappresentare la realtà non nel senso di una manierata mimesi, ma in quello di un avvertito e moderno racconto iconico. Il retablo diventa dunque una metafora dell’arte, della sua inadeguatezza a rappresentare il reale in maniera univoca e attendibile».[21]

Ma il barocchismo del romanzo raggiunge il suo vertice a livello stilistico, in una lingua che, su una base di italiano sostenuto e arricchito da arcaismi, atti a simulare quello settecentesco dei personaggi, innesta virtuosismi, citazioni nonché innumerevoli inserti metrici. Sono numerosi i passi che sarebbe possibile riscrivere in versi, ottenendo serie endecasillabiche, con sporadici inserti settenari, sul modello della canzone leopardiana.[22] Si veda ad esempio, nelle prime pagine del diario di Clerici: «Mosse la carrozza dal mio albergo / nel crepuscolo incerto del mattino, / io dentr’a la vettura col valletto / e l’altri due di fora uno a cavallo / come caporedina e l’altro a terra / come palafrenero / armati si schioppi e di terzette./ I passi nel silenzio delle bestie, / il dondolio di cuna lo stridere / monotono dei cuoi, precipitaro / nel sonno, se mai n’uscì levandosi / il povero Isidoro».[23] O ancora l’incipit «Ga/i/gian/net/ti e/ no/vi/ let/ti/ca/ri», che peraltro riprende il verso dantesco «Novi tormenti e novi tormentati».[24] O, per rimanere nelle citazioni della più alta poesia italiana: «E sedendo e mirando, e ascoltando»,[25] in cui il calco leopardiano è talmente evidente da non dover essere esplicitato (a cui sono da aggiungere anche calchi montaliani, e specificamente da Ossi di seppia e Occasioni).[26]   

Fin dal vertiginoso incipit, lunghissima invocazione di Isidoro alla donna amata, lo stile si impone come protagonista indiscusso del romanzo, in un gioco di suggestioni e di assonanze che fin da subito annulla la funzione referenziale della parola, per restituirle il suo ruolo poetico e evocativo primario:

Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha róso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia. Poi il tramonto, al vespero, quando nel cielo appare la sfera d’opalina, e l’aere sfervora, cala misericordia di frescura e la brezza del mare valica il cancello del giardino, scorre fra colonnette e palme del chiostro in clausura, coglie, coinvolge, spande odorosi fiati, olezzi distillati, balsami grommosi. Rosa che punto m’ha, ahi!, con la sua spina velenosa in su nel cuore.[27]

Per questo inizio tutto giocato sul nome nella donna amata è stato giustamente chiamato in causa il celeberrimo incipit di Lolita, ma, e non è niente di più che una suggestione, un simile gioco sul termine «rosa», e sul suo ruolo centrale nella storia della letteratura italiana, era stato accennato anche da Eco nelle sue postille a Il nome della rosa.[28] Queste righe sono inoltre rivelatrici anche della propensione di Consolo per la paratassi, e per quelle «enumerazioni a catena» che vengono da lui ricondotte a «un bisogno di realismo», in quanto, eliminati i passaggi sintattici, diventa possibile isolare il sostantivo «che indica immediatamente la cosa».[29]

È questo un passaggio su cui occorre soffermarsi: quando Consolo afferma che il suo «bisogno di realismo» viene appagato dal sostantivo isolato, sta implicitamente dando una definizione ontologica della sua scrittura. E, sia detta come precisazione metodologica, nel momento in cui si chiarisce il rapporto di un autore con la realtà, si definiscono anche le sue implicazioni con la nozione di verità, e quindi, nel caso di Consolo, la sua eventuale collocazione nell’alveo del postmodernismo. Appare evidente come il termine «realismo» venga inteso da Consolo in un’accezione particolare, che di sicuro non fa riferimento a quella dominante nella seconda metà dell’Ottocento e rivitalizzata, almeno in Italia, tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta del Novecento. Eppure, anche assumendo con cautela «uno degli ‘ismi’ più ambigui e controversi di tutta la cultura occidentale, la cui imprecisione nomenclatoria è direttamente proporzionale alla quantità e alla varietà dei fenomeni che intende rubricare», è difficile comprendere in che senso lo stile elencatorio di Consolo possa essere ricondotto nell’alveo del realismo.[30] Se è vero che, per dirla con Pellini, «a diverse idee di realtà corrispondono diversi realismi», occorre allora in primo luogo capire quale sia la nozione di realtà a cui lo scrittore fa riferimento.[31]

Spostando il baricentro del discorso dai generi letterari a un livello più propriamente ontologico, si può dire che il realismo di Consolo, per cui il nome designa «immediatamente» l’oggetto a cui si riferisce, sembra indagare soprattutto la natura del rapporto tra le parole e le cose. Se il romanzo di Eco – sette anni prima – si chiudeva con il trionfo del nominalismo e con l’accettazione, tipicamente postmoderna, di un’assoluta alterità tra i «nudi nomi», convenzionali ed effimeri, e la realtà, il tentativo quasi ossessivo di Consolo di definire il suo oggetto con lunghissimi elenchi di sostantivi, può al contrario essere letto come sintomo di una perdurante fiducia nelle possibilità del linguaggio di afferrare e dire l’oggetto, la cosa in sé. In quest’ottica il realismo è quindi da intendersi nel senso di una concezione forte della parola, che, per quanto convenzionale, ha ancora un rapporto diretto con il suo oggetto, e può – e deve – dire qualcosa di esso. Infatti, se da una concezione assolutamente nominalista del linguaggio, per cui questo non ha un legame forte con la realtà, discende la logica conseguenza che la letteratura, proprio in quanto artificio linguistico, non può avere nessun appiglio sul «mondo non scritto», una concezione realista può al contrario condurre a esiti di maggior impegno sul reale, o quantomeno a una problematizzazione, anche sofferta, del valore della parola scritta. Appare quindi evidente come Consolo non possa in alcun modo essere accostato a un postmodernismo per cui la letteratura è un gioco su sé stessa e con sé stessa, e per cui la parola non ha più nessun contatto con il reale.

È proprio questa riflessione della letteratura su sé stessa a rappresentare il filo rosso di tutta la narrativa di Consolo; e Retablo, pur nella sua apparenza di «svago affabulativo» e di «vacanze rispetto agli altri, più esplicitamente impegnati romanzi», è, secondo Traina, il frutto più maturo di una questa meditazione letteraria condotta alla luce del «confronto costante fra storia e metafisica, tra destini collettivi e privati».[32] Ancora una volta, come avveniva nel Sorriso, in cui Consolo lasciava la parola al Barone Mandralisca, il demandare l’atto narrativo a uno dei personaggi consente la rappresentazione della scrittura nel suo farsi e la conseguente apertura a riflessioni metanarrative nonché a definizioni di campo quasi programmatiche. Clerici, nello scrivere il suo diario indirizzato a Teresa Blasco, si interroga innanzitutto su quale debbano essere gli argomenti accolti nel suo racconto:

Ma pure lo scrivente, io stesso intendo, che mi riprometto d’osservare, di disegnare e riprodurre le sole antichitate, ogni residuo o testo di remoto o evo, quieto e fermo, bagnato dall’incantanto e smemorante, dall’estatico mare metafisico, non posso qualche volta dispensarmi di guardare immagini attuali, di vita bruta, dolente e indecorosa.[33]

Nell’opposizione dell’«estatico mare metafisico» alla «vita bruta» è racchiusa quella tensione tra ricerca stilistica e impegno etico, che Turchetta ha indicato come motore primo di tutta la narrativa di Consolo.[34] Per quanto in Retablo prevalga effettivamente un concezione della letteratura come consolazione e fuga dal vivere quotidiano, esemplificata da alcune riflessioni di Clerici sulla scrittura come sogno, la storia, nella sua drammaticità, non può essere completamente esclusa dalla narrazione.[35] E la storia entra nel racconto in forma duplice, come è proprio dei romanzi storici (Retablo essendo anche un romanzo storico): da un lato sono infatti i tempi in cui svolge la vicenda ad essere sottoposti a critica («peggiori di quanto noi pensiamo sono i tempi che viviamo!» esclama a un certo punto il narratore), ma ancora una volta è la contemporaneità di Consolo che emerge, metaforizzata e nascosta dietro i velami della distanza cronologica. È già stato da altri notato, per esempio, come l’invettiva di Clerici contro la Milano settecentesca sia anche un’allusione alla «Milano “da bere” degli anni Ottanta e dell’era Craxi, cioè di un presente di superficialità, consumismo e corruzione».[36]

È tuttavia innegabile che il nucleo tematico forte di Retablo non sia più da ricercare nelle riflessioni sui destini collettivi, o nell’indagine dei rapporti di egemonia culturale tra le diverse classi sociali, ma sia, evidentemente, l’amore, autentico motore di tutte le azioni del romanzo. Anche il razionalista Clerici, dietro il sorriso olimpico, cela un grumo di sofferenza amorosa, per fuggire il quale ha intrapreso il suo viaggio erudito.[37] È lo stesso Consolo ad ammettere che «Fabrizio Clerici è la rivendicazione di quanto l’ideologia politica non poteva comprendere e contemplare: i sentimenti umani».[38] Il ritorno al privato non è in alcun modo negato e, anzi, sembra anche in questo caso essere accolto con un certo sollievo, ma non è mai portato avanti in chiave intimistica o psicologica. Proprio la natura di palinsesto del romanzo mette in salvo da un eccesso di intimismo e fa sì che la rivitalizzazione del motivo amoroso avvenga sotto l’egida dei grandi modelli della tradizione letteraria italiana e non solo: sono chiamati in causa Boiardo, Ariosto, Shakespeare, massimi interpreti di quell’amore che è «inseguimento vano, è inganno e abbaglio, fuga notturna in circolo e infinita, anelito mai sempre inappagato»; sono inoltre evocati i sempre presenti Dante, Petrarca e Leopardi, le citazioni dai quali non si contano, ma anche il Cyrano di Rostand e alcune novelle del Decameron.

La chiusura della stagione dell’engagement aveva definitivamente svincolato gli scrittori dall’obbligo morale di una letteratura in grado di agire direttamente sulla realtà. A questa mutata situazione Consolo non reagisce però con una reazionaria chiusura della scrittura su sé stessa, ma, proprio perché ormai libero da qualsiasi istanza ideologica proveniente dall’esterno, giunge alla consapevolezza che «lo scrittore deve fare il proprio mestiere, fino in fondo, senza compromessi: solo così la scrittura può guadagnare lo spessore etico adeguato alle proprie aspirazioni, conoscitive non meno che estetiche».[39] Nel momento in cui la letteratura è di nuovo solo letteratura, può effettivamente interrogarsi sul suo valore e sulle sue possibilità. E questa riflessione nulla concede all’autocompiacimento dell’arte per sé stessa, se si pensa all’episodio del giovinetto di Mozia, che si conclude con queste parole: «Ma tu, squisita fattura d’uomo, fiore d’estrema civiltà, estrema arte, tu, com’ogni arte, non vali la vita, un fiato del più volgare o incolto, più debole o sgraziato uomo».[40]

La medesima alterità profonda tra arte e vita è dichiarata a chiare lettere da Consolo nelle ultime pagine di Retablo, in cui don Gennaro, il protettore di Rosalia, grande artista, cantate lirico di fama mondiale, ma, proprio per questo, castrato, esprime tutto il suo rimpianto per un’esistenza vissuta da spettatore:

Siamo castrati, figlia mia.[…] Siamo castrati tutti quanti vogliamo rappresentare questo mondo: il musico, il poeta, il cantore, il pintore… stiamo ai margini, ai bordi della strada, guardiamo, esprimiamo, e talvolta, con invidia, con nostalgia struggente, allunghiamo la mano per toccare la vita che ci scorre davanti.[41]

Sebbene l’arte sia altro rispetto alla vita, e sebbene anche la scrittura sembri tendere irrimediabilmente verso il silenzio, la posizione di Consolo, ancora a questa altezza cronologica, rimane quella di una concezione etica della letteratura, costantemente tesa ad afferrare il mondo, seppur consapevole dell’inevitabile sconfitta. Ha pertanto ragione dunque Turchetta quando afferma che

Consolo non smette mai di essere scrittore profondamente etico, che muove dalla percezione, intimamente tragica, profondissima, e patita fino allo spasimo, del proprio essere scrittore come una limitazione, una condizione fatalmente segnata da un non medicabile distacco dal mondo: un modo che pure egli intende cambiare, denunciandone senza sosta l’ingiustizia e la violenza.[42]

D’altro canto Martinengo ha potuto notare come nella produzione consoliana «la sperimentazione linguistica [sia] il corrispettivo letterario della fiducia dell’autore nel ruolo civile e sociale della letteratura e dei letterati; i picchi della sperimentazione si raggiungono nei momenti in cui questa fiducia è massima».[43] In questo senso si può affermare che Retablo rappresenta un momento di medietas stilistica, in cui i picchi sono presenti (si pensi al già citato incipit), ma vengono immediatamente ricondotti a una scrittura certamente meno sperimentale rispetto a quella del Sorriso, ma comunque ancora impegnata in un confronto corpo a corpo con il reale.

In conclusione, possiamo affermare che è necessaria una sofferta indagine della scrittura su sé stessa, affinché questa possa prendere autocoscienza di sé e, non più succube di obblighi morali, assumere una piena e coerente consapevolezza etica: ricorda Adamo che «Consolo non credeva nell’innocenza dell’arte: gramscianamente sosteneva che bisogna sempre sapere da dove si parte per sapere dove si vuole andare».[44] In questo senso si è potuto parlare di «aperta politicità e senso di colpa dell’intellettuale, sempre abitato dalla sofferta consapevolezza della sua distanza dall’azione reale», consapevolezza che avvicinerebbe Consolo ad alcune riflessioni di Sereni e Fortini.[45] Di fronte alla scoperta che «la poesia / non muta nulla», la risposta di Consolo sembra infatti essere la medesima formulata da Fortini, in un imperativo categorico che non ammette repliche: «nulla è sicuro, ma scrivi».[46]

SINESTESIEONLINE SUPPLEMENTO DELLA RIVISTA «SINESTESIE» XI, n. 37, 2022


[1] V. Consolo, Retablo, Sellerio, Palermo 1987, ora in V. Consolo, L’opera completa, a cura di G. Turchetta, Mondadori, Milano 2015.
[2] «L’invenzione di far veder nel quadro ciò che si vuole, dietro ricatto d’essere, se non si vede, fortemente manchevole o gravato d’una colpa, non mi sembrò originar da loro. E mi sovvenni allora ch’era la trama comica de l’entremés del celebre Cervantes, intitolato appunto El retablo de las maravillas, giunto di Spagna in questa terra sicola e dai due fanfàni trasferito dalla finzione del teatro nella realitate della vita per guadagnar vantaggi e rinomanza.» (V. Consolo, L’opera completa cit., p. 397).
[3] A. Bellanova, Un eccezionale Baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo, Mimesis, Milano-Udine 2021, p. 190.
[4] V. Consolo, La metrica della memoria, in La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo, a cura di G. Adami, Manni, San Cesario di Lecce 2006, pp. 177-189.
[5] C. Segre, Un profilo di Vincenzo Consolo, in V. Consolo, L’opera completa cit., p. XV.
[6] S. Gentili, Letteratura, storia e realtà. Conversazione con Vincenzo Consolo, in «Bollettino di italianistica», Carocci, anno V, n. 2, 2008, p. 70.
[7] G. Genette, Palimpsestes. La littérature au second degré, Éditions du Seuil, Parigi 1982.
[8] Ivi, p. 5. [9] Ivi,pp. 7-8.
[10] G. Turchetta, Da un luogo bellissimo e tremendo, in V. Consolo, L’opera completa, cit., p. XXXVIII. Sul rapporto tra Consolo e Dedalus si veda anche M. Martinengo, Il debito modernista di Vincenzo Consolo: ‘La ferita dell’aprile’ e ‘Dedalus’, in La funzione Joyce nel romanzo italiano, a cura di M. Tortora, A. Volpone, Ledizioni, Milano 2022.
[11] Sui riferimenti intertestuali in Lunaria si vedano: C. Segre, Teatro e racconto su frammenti di luna, in Id., Intrecci di voce. La polifonia nella letteratura del Novecento, Einaudi, Torino 1991; N. Messina, ‘Lunaria’ dietro le quinte, in  Lunaria vent’anni dopo, a cura di I. Romera Pintor,Generalitat Valenciana-Universitat de València, Valencia 2006 pp. 179 – 191; I. Romera Pintor, Introduzione a Lunaria: Consolo versus Calderón, in La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo cit., Manni, San Cesario di Lecce 2006, pp. 177-189; P. Baratter, ‘Lunaria’: il mondo salvato dalla luna, in «Microprovincia, n. 48, 2010, pp. 85-93.
[12] V. Consolo, Retablo, cit., p. 398.
[13] Ivi, pp. 421-423.
[14] G. Traina, Vincenzo Consolo, Cadmo, Fielsole 2001, p. 82.
[15] F. Di Legami, Vincenzo Consolo. La figura e l’opera, Pungitopo, Marina di Patti 1990, p. 43.
[16] L. Sciascia, Il sogno dei Lumi tra Palermo e Milano, in «Corriere della Sera», 18 dicembre 1987 (citato in F. Di Legami, Vincenzo Consolo cit. p. 43). [17] Cfr. ad esempio la seguente citazione: «Fu allora che m’accorsi, dal
punto alto ove mi trovava, che sotto, confusi tra merce d’ogni ragione, erano istromenti strani e paurosi. Istromenti giudiziali di tortura e di condanna, gabbie di ferro ad altezza d’uomo, tine che si rivelano per gogne, e ruote infisse al capo delle pertiche, e letti e croci, tutti di ferro lustro e legno fresco e unto. Il più tristo era poi lo stipo d’una gran porta issato su un palchetto, porta di grossi travi incatramati, vuota contro la vacuità celestiale, alta sul ciglio della prora, le grosse boccole pendenti per i cappi ch’ogni piccola onda o buffo facea sinistramente cigolare. […] La vision di quegli ordegni bruti sulla plancia farebbe inorridire, al par di me, e indignare i fratelli Verri e il giovin Beccaria, vostro divoto amico e ammirante.» (V. Consolo, Retablo cit., p. 381).
[18] N. Izzo, Nello scriptorium barocco di Vincenzo Consolo: riprese e ribaltamenti letterari in Retablo, in «reCHERches» [Online], 21, 2018, online dal 05 ottobre 2021, p. 116.
[19] V. Consolo, Retablo cit., p. 465.
[20] A proposito di questa moltiplicazione dei punti di vista, interessante è l’osservazione di Bisanti, che ha notato come «la pluralizzazione dei punti di vista e delle verità possibili avvenga proprio a partire dalle varie figure di donne sedotte o seduttrici, che sembrano confluire in un volto solo: quando infatti Clerici si accinge a disegnare un profilo di donna che nelle sue intenzioni dovrebbe ritrarre l’amata Teresa Blasco, don Vito vi riconosce la Rosalia per amor della quale aveva ucciso il seduttore fra’ Giacinto, mentre Isidoro è convinto che si tratti della propria Rosalia. Il fulcro su cui convergono tutti questi percorsi sono dunque le fattezze, ma soprattutto il nome di Rosalia, personaggio dall’identità fluttuante e incerta.» (in T. Bisanti, Seduzione amorosa e seduzione artistica in ‘Retablo’ di Vicenzo Consolo, in «Cahiers d’études italiennes», 5, 2006, pp. 62-63).
[21] A. Chmiel, Rompere il silenzio. I romanzi di Vincenzo Consolo, Wydawnictwo Uniwersytetu Śląskiego, Katowice 2015, pp. 64-65.
[22] Sul rapporto tra la prosa consoliana e la poesia si veda M. Attanasio, Struttura-azione di poesia e narratività nella scrittura di Vincenzo Consolo, in «Quaderns d’Italià», 10, 2005, pp. 19-30, in particolare: «Una vera e propria “struttura-azione” di poesia potentemente interviene a costituire il corpo stesso della narratività di Vincenzo Consolo, restringendo gli spazi di comunicazione, dissolvendo ogni ordinata sequenzialità di tempi e di sintassi, travalicando ogni rigida separazione tra i generi; ed emergendo in punte espressive — disancorate dalla narrazione — con due difformi e spesso simultanei riporti: tragico nei confronti della storia, lirico nei confronti della natura; una dimensione, quest’ultima, vissuta quasi con un senso di imbarazzo dalla coscienza etica e ideologica dell’autore, che ne teme la smemorante e avvolgente bellezza fuori dalla storia» (p. 21).
[23] V. Consolo, Retablo cit. p. 382.          
[24] Ivi, p. 400. [25] Ivi, p. 415.
[26] Ivi, pp. 442-443. Per i rimandi montaliani mi permetto di rimandare a quanto ho già scritto in A. Macori, Tra modernismo e postmoderno. Echi montaliani in Retablo, in «Mosaico italiano», n. 213, agosto 2022, pp. 12-15. [27] V. Consolo, Retablo cit., p. 369.
[28] «L’idea del Nome della rosa mi venne quasi per caso e mi piacque perché la rosa è una figura simbolica così densa di significati da non averne quasi più nessuno: rosa mistica, e rosa ha vissuto quel che vivono le rose, la guerra delle due rose, una rosa è una rosa è una rosa è una rosa, i rosacroce, grazie delle magnifiche rose, rosa fresca aulentissima» (U. Eco, Postille al nome della rosa, Bompiani, Milano 2010, p. 508).
[29] S. Gentili, Letteratura, storia e realtà. Conversazione con Vincenzo Consolo cit., p. 72.
[30] F. Bertoni, Realismo e letteratura. Una storia possibile, Einaudi, Torino 2007, p. 17.
[31] P. Pellini, Realismo e sperimentalismo, Il modernismo italiano, a cura di M. Tortora, Carocci, Roma 2018, p., 138.
[32] G. Traina, Vincenzo Consolo cit. p. 79.
[33] V. Consolo, Retablo cit. p. 399.
[34] G. Turchetta, Vincenzo Consolo, in Il romanzo in Italia. vol. IV – Il secondo Novecento, a cura di G. Alfano, F. de Cristofaro, Carocci, Roma 2018, p. 356.
[35] «Perché viaggiamo, perché veniamo fino in questa isola remota, marginale? Diciamo per vedere le vestigia, i resti del passato, della cultura nostra e civiltate, ma la causa vera è lo scontento del tempo che viviamo, della nostra vita, di noi, e il bisogno di staccarsene, morirne, e vivere nel sogno d’ère trapassate, antiche, che nella lontananza ci figuriamo d’oro, poetiche, come sempre è nell’irrealtà dei sogni, sogni, intendo, come sostanza dei nostri desideri. Mai sempre tuttavia il viaggio, come distacco, come lontananza dalla realtà che ci appartiene è un sognare. E sognare è vieppiù lo scrivere, lo scriver memorando del passato come sospensione de presente, del viver quotidiano» (V. Consolo, Retablo cit., p. 413).
[36] G. Turchetta, Il luogo della vita: una lettura di ‘Retablo’, in Visitare la letteratura. Studi per Nicola Merola, a cura di G. Lo Castro, E. Porciani, C. Verbaro, ETS, Pisa 2014, p. 650.
[37] «Ah, doña Teresa, cos’è mai questa febbre malsana dell’innamoramento, quest’insania, questo furore che riduce l’uomo, come quel paladin famoso a nuda e pura bestia, privato vale a dire del cervello, che come colombella o essenza sublimata se n’è volato al cielo, alle silenti valli della luna! Io avvertii il male al suo apparire, come s’avverte il sole al primo rosseggiar dell’aurora, e assunsi subito il mio contravveleno del viaggio, laonde posso serenamente stendere per voi le note che qui stendo, e nel contempo parlare serenamente dell’amore. Siete felice voi, o mia signora, siete felice?» (V. Consolo, Retablo cit., p. 393).

[38] S. Gentili, Letteratura, storia e realtà. Conversazione con Vincenzo Consolo cit., p. 73.
[39] G. Turchetta, Da un luogo bellissimo e tremendo, in V. Consolo, L’opera completa cit., p. XXIX.
[40] V. Consolo, Retablo cit., p. 453.
[41] Ivi, p. 473.
[42] G. Turchetta, La letteratura come nostalgia della vita. ‘Retablo’ di Vincenzo Consolo, in Sguardi sull’Asia e altri scritti in onore di Alessandra Cristina Lavagino, a cura di C. Bulfoni, E. Lupano, B. Mottura, LED, Milano 2017, p. 349.

[43] M. Martinengo, Quando teoria e prassi non vanno all’unisono. Sperimentazione formale e impegno civile nell’opera di consolo, in «L’Ellisse», XV, 2020, 2, p. 134.
[44] G. Adamo, Ricordo di Vincenzo Consolo, in «Italica», Winter 2012, Vol. 89, n. 4, p. V.
[45] Ibidem
[46] F. Fortini, Traducendo Brecht, in Una volta per sempre [1963], ora in F. Fortini, Opere, Mondadori, Milano 2014, p. 238.

Vincenzo Consolo. La storia, il mito, l’impegno (II)

L’oggetto perduto del desiderio. Archeologie di Vincenzo Consolo.



La Sicilia, e il Mediterraneo tutto, nella sua complessità di bellezza e di orrore, di attrazione e di repulsione, di natura e di cultura, di storia e di arte, di guerra e di pace, di mafia e di eroi, è l’oggetto più emblematico della scrittura di Consolo. Gli altri non sono che degli avatars, dai più orridi ai più teneri, di questo oggetto fondamentale che egli ha inseguito durante il suo percorso di uomo e di artista, attingendolo perfino nei resti archeologici, nelle pietre antiche. Da queste pietre, nient’altro che lettere, bisogna partire per penetrare la sua scrittura. In questa direzione procede la suggestiva postfazione di Sebastiano Burgaretta, Con Consolo per antiche pietre, preceduta da una Conferenza inedita di Vincenzo Consolo, tenuta il 23 maggio 2003 all’Accademia di Belle Arti di Perugia, dove non manca l’accenno ad una «escursione nei luoghi classici della Sicilia occidentale».

Purché ci resti Itaca: prendersi cura delle radici. La voce di Consolo.


Ada Bellanova

1. Ripensare i luoghi in forma di idillio. Il dramma di Ulisse e di Ifigenia. Senza la letteratura Itaca sarebbe semplicemente una piccola isola greca nel Mediterraneo. Invece Omero, la tradizione, le invenzioni letterarie l’hanno resa il luogo per eccellenza delle radici e della memoria, la patria ritrovata dopo un lungo viaggio: l’hanno trasformata in simbolo 1. Ulisse in viaggio, intento ad affrontare pericoli, mostri e tempeste, porta con sé un’immagine di Itaca come luogo del cuore, patria perfetta, a cui desidera a tutti i costi tornare. Una polarità netta si crea tra il mondo avventuroso e minaccioso e il nucleo accogliente e protettivo della patria e della casa. Eppure Ulisse, una volta sbarcato, è costretto a interrogarsi subito sull’identità della terra, sullo scarto tra il sogno che ha cullato durante la lunga distanza e la realtà 2. Molte cose infatti sono cambiate: lui non è più lo stesso e Itaca è mutata, non solo per i soprusi dei Proci, ma anche perché il tempo ha segnato la sua geografia a tal punto da conferirle un paesaggio nuovo, diverso. Per queste ragioni, e non solo per l’intervento di Atena, Ulisse si guarda intorno e, smarrito, si pone la domanda: «Dove sono capitato?». Sebbene il finale dell’Odissea risulti confortante – l’eroe ottiene di nuovo il suo ruolo di re dopo la sconfitta dei Proci e l’intesa del talamo con Penelope – sorge il dubbio che l’Itaca ritrovata sia un po’ deludente rispetto al sogno e alla nostalgia. Perché altrimenti Ulisse sceglierebbe, come insegna l’altra tradizione, di ripartire? Non dovrebbe godersi la terra tanto amata? Il fatto è che, come scrive Jankelevitch, la nostalgia, per l’esule – per qualunque esule –, è insanabile, inestinguibile3 . Già nel momento del primo distacco dalla patria ha inizio un cambiamento, nel luogo e nell’individuo, che non permette di colmare 3 la distanza, in alcun modo, neppure nell’opportunità di un ritorno. Patria dolcissima solo nel ricordo è anche la città di Argo per Ifigenia. La sfortunata figlia di Agamennone, salva ma costretta all’esilio tra i feroci Tauri autori di sacrifici umani, non fa altro che sognare la sua reggia preziosa, in cui è stata bambina, principessa, ma che ormai, senza che lei lo sappia, è luogo insanguinato dagli omicidi, la morte del padre per mano di sua madre, quella di sua madre per mano di suo fratello. La Tauride – anche in questo caso la responsabilità è della letteratura4 – assume la connotazione di una terra selvaggia, priva di ogni forma di civiltà: la dolente sacerdotessa greca, pur investita dell’autorità religiosa, non può far altro che sciogliere il suo canto d’esilio, insieme alle schiave sue compagne. È questa la trama dell’Ifigenia in Tauride euripidea: l’autore antico ha composto una tragedia che recita il dramma della nostalgia, la stessa di Ulisse. La città lontana di Argo, nella mente di chi vive l’esilio, ovvero la protagonista e, con lei, il coro, assume i tratti di uno spazio desiderato e armonioso, un territorio caro, in cui rispecchiarsi e ritrovarsi: è emblema della Grecia della civiltà. Eppure, come dicevo, la terra lontana non è affatto così come l’esule se la dipinge e, anche di fronte al lieto fine, mentre Ifigenia e il fratello ritrovato salpano dalla Tauride ostile e si allontanano dai sacrifici, c’è da augurarsi che non ci sia nessun ritorno a casa. Ritrovare Argo, infatti, non è possibile e il ritorno può essere estremamente traumatico. Il mito e la letteratura, come si vede, proponendo una caratteristica veste per certi luoghi reali, li trasformano in simboli, metafore efficaci anche per la contemporaneità e per il nostro modo di vivere gli spazi. 2. Itaca non c’è più: la voce di Consolo. A chi percorre le pagine di Consolo non sfugge l’insistente riflessione, che nasce da più di uno spunto autobiografico, sul rapporto travagliato tra l’esule e la propria patria. In tutta la sua opera lo scrittore pone l’accento sul suo esilio nel Nord e sull’irredimibile nostalgia per la Sicilia lontana, patria del ricordo, e perciò idealizzata nella distanza, come in un’odissea contemporanea, tra le nebbie di una Milano grigia che ha più di un tratto in comune con la Tauride euripidea. L’olivo e l’olivastro (1994) e poi anche Lo Spasimo di Palermo (1998) descrivono un ritorno doloroso che ha i tratti di un incauto procedere tra le rovine di una patria in fiamme. Nel primo libro, che reca già nel titolo l’omaggio e la simbolizzazione degli spazi omerici – nell’Odissea olivo e olivastro segnano lo spazio del naufragio di Ulisse sulla costa dei Feaci –, al giovane migrante siciliano che, fuggito dal terremoto di Gibellina – quasi Enea che abbandona un’Ilio compromessa –, prova a ritornare dopo tanti anni, il nóstos è negato. Itaca non c’è più, fuor di metafora, perché la vecchia città è scomparsa sotto il sudario di cemento del Cretto di Burri, e la nuova, con la Stella texana che segna l’ingresso nel Belice, è, come scrive Consolo, «costruita dai Proci»5 , ha perso cioè l’identità della tanto sospirata patria delle radici in uno stravolgimento sociale e culturale: gli usurpatori hanno avuto la meglio e l’esule è impotente di fronte a un mondo che non gli appartiene e a cui non appartiene. Nella seconda opera, poi, veramente amaro è il ritorno del protagonista, lo scrittore Chino Martinez, a Palermo: la città degli anni Novanta, già compromessa dalla ferocia della speculazione edilizia, dal sacco che ha cementificato la Conca d’oro, deve fare i conti con la violenza mafiosa, esemplificata dalla drammatica esplosione finale in via d’Astorga che allude in maniera netta alla strage di via d’Amelio. È un’Itaca stravolta allora, quella dell’approdo, una terra in cui l’ulivo non ha posto, perché in essa non c’è più ombra di civiltà, e scomparso, irrimediabilmente, è anche il conforto della famiglia, già fagocitato dalla debole salute mentale di una moglie ormai morta, che niente ha a che fare con la Penelope omerica. A queste opere possono essere aggiunte moltissime pagine, come il testo eponimo di Le pietre di Pantalica, che piange il degrado – culturale, ambientale – dello scenario della bianca Siracusa, chiaman5 V. Consolo, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, Mondadori, Milano 2015, p. 869. 6 V. Consolo, Le pietre di Pantalica, in Id., L’opera completa, pp. 615-621. 7 Ifigenia fra i Tauri, trad. di Vincenzo Consolo e Dario Del Corno, Istituto Nazionale del Dramma Antico-XXVII ciclo di spettacoli classici (27 maggio-4 luglio 1982), INDA, Siracusa 1982. 8 «Non si ritorna più nei luoghi da cui si è partiti, perché quelli non sono più i luoghi che noi abbiamo lasciato. Non si è più di nessun luogo», V. Consolo, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Donzelli, Roma 1993, p. 69. 9 La percezione di un luogo e la sua rappresentazione, come insegna la geocritica, non si possono limitare all’unica componente visiva. Sulla necessità di cogliere la presenza delle percezioni sensoriali do in causa i simboli della tragedia euripidea6 , tradotta tra l’altro proprio da Consolo con Del Corno7 , che è messa in scena nel teatro antico. L’autore fa del suo vissuto il motore dell’invenzione narrativa: la sua personale prospettiva interpreta gli spazi e li reinventa sul piano letterario. In questo processo Itaca e Argo rimandano a un mondo che non c’è più: un universo intatto, in armonia, cancellato da una modernità incivile e snaturante e divenuto un perenne labirinto fitto di mostri e pericoli, una Tauride in cui si sacrificano gli innocenti. Nella prospettiva consoliana allora non è solo la Milano affarista ad assumere i tratti di luogo ostile: l’osservazione dell’intero spazio della contemporaneità – l’Italia, il Mediterraneo con i suoi naufraghi e ogni luogo in cui il migrante è perseguitato, ferito, il paesaggio mortificato dagli incendi, dall’industrializzazione, da un turismo becero e superficiale – denuncia una perdita irreparabile in termini di valori e identità8 . La polarità non è più, o comunque non solo, tra lo spazio fisico dell’esilio e la terra delle radici, ma tra lo spazio del presente, omologante e svilente, e quello del passato, in cui era ancora possibile un equilibrio. 3. Itaca con tutti i sensi. Nell’esilio la patria lontana – nello spazio e nel tempo – appare luminosa, contrapposta a un Nord, anche fuor di metafora, decisamente grigio. Una complessa trama di paesaggi visivi, con evidente omaggio al mondo dell’arte e della pittura, ma anche di paesaggi sonori, olfattivi, persino gustativi, che si sovrappongono e si intersecano, concorre a definire la Sicilia. Se indubbia è in ciò una ricca componente letteraria, al di là del topos però la pagina consoliana rivela una sensibilità che si lega al vissuto dell’autore: memoria e confronto personale con i luoghi determinano l’immagine che questi assumono sulla pagina scritta9 . Alla Milano affollata che propone sollecitazioni da grande città del Nord alla vista e all’udito – ben oltre il modello letterario va l’apprezzamento per l’umanità multicolore di Porta Venezia e per il suo vario patrimonio gustativo, mentre il fetore di Seveso10 è traccia olfattiva di un progresso feroce, dell’inquinamento e della deriva politica che a questi si accompagna – la Sicilia si contrappone con la sua festa dei sensi. Retablo, in particolare, è una straordinaria esibizione di percezioni sensoriali che testimoniano la scoperta e la sorpresa di fronte alla ricchezza e alla diversità dell’isola. Fin dal suo approdo a Palermo Clerici deve fare i conti, alla maniera dei viaggiatori del Grand Tour, con la novità delle sollecitazioni visive, sonore, olfattive11. Ma il protagonista e voce narrante accoglie soprattutto le capacità percettive del suo autore: la Sicilia è l’isola della memoria e gli straordinari paesaggi sensoriali che descrivono le rovine di Segesta o di Selinunte, l’universo arcano di Mozia, rivelano un compiacimento nella percezione che appartiene a Consolo, siciliano alla scoperta della propria terra. Pur senza abbandonarsi all’idillio a tutti i costi – attraverso la prospettiva di Clerici emergono anche tracce sensoriali non edificanti – l’autore tratteggia la propria Itaca come una terra che seduce con le sue innumerevoli sollecitazioni sensoriali. È in particolare nelle descrizioni gastronomiche di cui abbonda il racconto che emerge il compiacimento di Consolo12: non vi si può rintracciare dunque solo il modello letterario – la meraviglia del viaggiatore di fronte alle offerte culinarie – ma anche il gusto dello scrittore che ricorda i sapori della sua terra. L’interesse per pietanze dolci e salate è d’altra parte presente anche nella produzione giornalistica e saggistica e confessato in testi scopertamente autobiografici in cui emerge come tratto intimo la predilezione per i cibi del Sud, in contrasto con quelli evidentemente meno invitanti del Nord13. Itaca insomma nutre con il suo gusto anche a distanza e preziosa è la riserva d’antichi sapori e nella caratterizzazione letteraria dei luoghi reali, si veda anche «Quando sono da solo mi sfogo a mangiare le cose più salate e piccanti. Evito finalmente la minestrina, la paillardina e la frutta cotta. Mangio bottarga, sàusa miffa, olive con aglio e origano, peperoncini, caciocavallo, cubbàita… Poi, nel pomeriggio, non c’è acqua che basti a togliermi la sete», 16 «Ecco, io allora infilzerò con lo spiedo un rocchio di quella salsiccia fresca, condita con grani di pepe e semi di finocchio, lo farò arrostire sopra la brace, e l’offrirò a te, gentile lettrice, a te, caro lettore, insieme a un bicchiere rosso dell’Etna e a una mela d’oro, di quelle che mandava a casa nostra il compare Panascì. […] Erano mele gialle e lucide, dolcissime, che impregnavano la casa di profumo. Sovrastava il loro odore di pomelia e cedro, quello delle arance, dei fichi secchi, delle sorbe, delle zizzole, dei melograni e delle cotogne», Id., Natali sepolti, in AA.VV., Cantata di Natale. Racconti per venticinque notti di attesa, San Paolo, Milano 2001, pp. 83-89; ora in La mia isola è Las Vegas, pp. 191-194, a p. 193. odori che nei lunghi e grigi inverni del Nord riporta al ricordo del paese14. E anche se un nuovo approdo all’isola, in Ritorno al paese perduto, sottopone al rischio di nuove e per nulla confortanti sensazioni – non solo la casa non è più la stessa, pure la vista dal terrazzo è mutata, e più forte del senso della vista diventa quello dell’udito nel registrare un nuovo, invadente e sgradevole paesaggio sonoro15 – più forte del tempo resiste nella vivacità dell’allocuzione al lettore nel più tardo Natali sepolti il gusto delle radici: l’offerta diretta di un pasto appartenente alla Sant’Agata del passato, fatto di salsiccia, vino dell’Etna, profumatissime mele d’oro, interrompe il flusso narrativo e sembra testimoniare, nell’immediatezza dell’uso del presente, che qualcosa si è salvato16. 4. Proteggere le radici. Al di là della permanenza delle percezioni gustative, affrontato il rischio della rottura dell’idillio, si può scoprire che Itaca non è del tutto allo sfacelo e che sulle colonne di Argo si può ricostruire. Conviene però prendere coscienza del punto a cui siamo arrivati. Conviene ripartire dalle radici, ritrovare angoli vivi del paesaggio, lasciarsi ispirare da quanto di buono essi comunicano. Il che non vuol dire smettere di vedere le criticità di ciò che è stato: significa valorizzare ciò che può essere valorizzato e trovare una nuova via alternativa all’omologazione e allo sfruttamento. La vera letteratura ha questo di utile, ci svela a noi stessi, e le pagine di Consolo parlano a tutti e di tutti, toccano le corde del legame doloroso o vivificante che abbiamo con gli spazi e tentano di fare chiarezza su questioni grandi e urgenti: invitano cioè ad una consapevolezza ambientale nel senso più ampio dell’espressione come unica strada non solo per non perdere il luogo, ma anche per non perdere noi stessi. Illuminante è la riflessione dello scrittore sulla Sicilia e sul Mediterraneo: nell’amarezza di fronte allo scempio, di fronte ai facili stereotipi che semplificano lo spazio, lo appiattiscono – il seducente paradiso a buon mercato da una parte, il degrado e i sotterfugi dall’altro –, avvallati in maniera semplicistica da un certo tipo di informazione e da un certo tipo di politica, l’autore rivendica il valore della complessità. Lo spazio ha molte facce, molte sfumature, la bellezza ha una sua indubbia fragilità. Nella sua rappresentazione dello spazio individuiamo la valorizzazione di alcune isole di sopravvivenza: gli Iblei con l’arte intatta degli apicoltori e i Nebrodi coi pascoli verdissimi non sono semplice idillio, Itaca e Argo del ricordo in cui sarebbe meglio non tornare mai, ma un esempio di risposta concreta alla crisi del paesaggio e dell’identità contemporanea. Descrivendo la miracolosa armonia tra uomo e natura, la ricchezza ambientale – piante, animali –, tradizioni gastronomiche e saperi antichi, che caratterizzano queste oasi di sopravvivenza, Consolo valorizza una Sicilia quasi arcaica. In ciò non rifiuta il progresso in sé, piuttosto evidenzia la necessità che esso non faccia perdere all’uomo la sua identità storica e culturale, come è invece accaduto nel caso della violenta industrializzazione dell’isola. Mette cioè in evidenza che i luoghi non sono uno sfondo e che, se smettono di essere quello che sono in maniera rapida e feroce – fagocitati dall’omologazione, da interessi economici, dalla costruzione di barriere –, inevitabili e funeste sono le conseguenze anche sugli esseri umani. Così strettamente interrelate sono l’identità degli uomini e quella degli spazi. La sua opera invita dunque – e in ciò risiede la grande attualità del messaggio consoliano – a conservare le radici, a prendercene cura, perché solo nella salvaguardia di ciò che è rimasto possiamo sperare di non perdere noi stessi. Il passato, come insegnava anche Pasolini nella sua strenua definizione dell’ambiente storico e umano come territorio composito e stratificato nel tempo, insieme universo linguistico, identità dei luoghi, creazione artistica, può non essere un ricordo perduto: può anzi configurarsi come forza a cui attingere. Mi piace pensare allora che nei versi di Accordi, con l’ignoto tu, Consolo alluda ad un’identità sua e di tutti i figli del Mediterraneo, un’identità nata da una relazione vecchia di secoli con la terra, le piante, i muri a secco, con i paesaggi: tolto tutto questo, cosa saremmo? Sei nato dal carrubo e dalla pietra da madre ebrea e da padre saraceno. S’è indurita la tua carne alle sabbie tempestose del deserto, affilate si sono le tue ossa sui muri a secco della masseria Brillano granatini sul tuo palmo per le punture delle spinesante17. Solo se ripartiamo da questo, quindi, da ‘Itaca’, attraverso un cammino, senz’altro faticoso, difficile, di consapevolezza degli spazi e della nostra relazione con essi, possiamo avere qualche opportunità di sopravvivere anche noi. Solo salvando le radici, come le piante, possiamo avere speranza di non perire.
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3 V. Jankélévitch, L’irréversible et la nostalgie, Flammarion, Paris 1983, pp. 370-371. 4 B. Westphal, Le miroir barbare. Géocritique de la Tauride, in A. Le Berre (a cura di), De Prométée à la machine à vapeur: cosmogonies et mythe fondateur, Pulim, Limoges 2005, pp. 13-33. 5 V. Consolo, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, Mondadori, Milano 2015, p. 869. 6 V. Consolo, Le pietre di Pantalica, in Id., L’opera completa, pp. 615-621. 7 Ifigenia fra i Tauri, trad. di Vincenzo Consolo e Dario Del Corno, Istituto Nazionale del Dramma Antico-XXVII ciclo di spettacoli classici (27 maggio-4 luglio 1982), INDA, Siracusa 1982. 8 «Non si ritorna più nei luoghi da cui si è partiti, perché quelli non sono più i luoghi che noi abbiamo lasciato. Non si è più di nessun luogo», V. Consolo, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Donzelli, Roma 1993, p. 69. 9 La percezione di un luogo e la sua rappresentazione, come insegna la geocritica, non si possono limitare all’unica componente visiva. B. Westphal, Geocritica: reale, finzione, spazio, trad. di L. Flabbi, Armando editore, Roma 2009, p. 184. Sulla necessità di cogliere la presenza delle percezioni sensoriali nella caratterizzazione letteraria dei luoghi reali, si veda anche D. Papotti, Istruzioni geopoetiche per la lettura della città di Napoli, in F. Italiano, M. Mastronunzio (a cura di), Geopoetiche. Studi di geografia e letteratura, Unicopli, Milano 2011, pp. 43-63, a p. 49. 10 V. Consolo, Replica eterna, in Id., La mia isola è Las Vegas, a cura di N. Messina, Mondadori, Milano 2012, p. 180. 11 Id., L’opera completa, cit., p. 403. 12 A proposito W. Geerts, L’euforia a tavola. Su Vincenzo Consolo, in B. Van den Bossche (a cura di), Soavi sapori della cultura italiana, Atti del XIII Congresso dell’A.I.P.I., Verona/Soave, 27-29 agosto 1998, Cesati, Firenze 2000, pp. 307-316. 13 «Quando sono da solo mi sfogo a mangiare le cose più salate e piccanti. Evito finalmente la minestrina, la paillardina e la frutta cotta. Mangio bottarga, sàusa miffa, olive con aglio e origano, peperoncini, caciocavallo, cubbàita… Poi, nel pomeriggio, non c’è acqua che basti a togliermi la sete», V. Consolo, Un giorno come gli altri, in “Il Messaggero”, 17 luglio 1980, ora in Id., La mia isola è Las Vegas, pp. 87-97, a p. 92. 14 Id., E poi la festa del patrono, in “Corriere della sera” 15 agosto 1990, ora in La mia isola è Las Vegas, pp. 139-42, a p. 141. 15 Id., Ritorno al paese perduto, in “Il manifesto” 5 aprile 1992; ora in La mia isola è Las Vegas, pp. 146-149, a pp. 146-147. 16 «Ecco, io allora infilzerò con lo spiedo un rocchio di quella salsiccia fresca, condita con grani di pepe e semi di finocchio, lo farò arrostire sopra la brace, e l’offrirò a te, gentile lettrice, a te, caro lettore, insieme a un bicchiere rosso dell’Etna e a una mela d’oro, di quelle che mandava a casa nostra il compare Panascì. […] Erano mele gialle e lucide, dolcissime, che impregnavano la casa di profumo. Sovrastava il loro odore di pomelia e cedro, quello delle arance, dei fichi secchi, delle sorbe, delle zizzole, dei melograni e delle cotogne», Id., Natali sepolti, in AA.VV., Cantata di Natale. Racconti per venticinque notti di attesa, San Paolo, Milano 2001, pp. 83-89; ora in La mia isola è Las Vegas, pp. 191-194, a p. 193. 17 Id., Accordi. Poesie inedite, a cura di F. Zuccarello e Claudio Masetta Milone, Zuccarello editore, Sant’Agata di Militello 2015.

Giugno 2022 Editora Comunità Rio de Janeiro – Brasil

Il pastiche de Lo Spasimo di Palermo: tra lingua poetica e lingua politica


Elisiana Fratocchi

I grandi avvenimenti di cui parla Auerbach (e i sentimenti che essi provocano) consistono per me, in questo nostro tempo, in questo nostro
contesto occidentale, nella cancellazione della memoria, e quindi della continua minaccia della cancellazione della letteratura, soprattutto di
quella forma letteraria dialogante che è il romanzo. Il quale credo che oggi possa trovare una sua salvezza o plausibilità in una forma monologante,
in una forma poetica1 Tra le fonti di cui Vincenzo Consolo si serve per la stesura del Sorriso dell’ignoto marinaio Gianni Turchetta2 riconosce un ruolo significativo al saggio di Hans Magnus Enzensberger, Letteratura come storiografia. Nella riflessione di Enzensberger – ospitata nel 1966 dalle colonne del «Menabò» – si delinea un’idea di letteratura come trascrizione più diffusa, particolareggiata e soggettiva della Storia, ma non meno veritiera e storicamente attendibile della scrittura storiografica. L’autore di letteratura, secondo il parere dello scrittore tedesco, rielaborando il dato storico in chiave 24 personale, oltre ad affermare una propria visione del reale e di conseguenza la centralità del ruolo autoriale nella narrazione, riesce più finemente dello storico a produrre un racconto polifonico in grado di dare voce a una molteplicità di «figure senza nome che emergono dalla folla»3. Il racconto della Storia da parte del letterato si traduce così in un prodotto artistico di cui il lettore può avvertire la decisa paternità autoriale, verosimilmente attraverso la voce narrante, ma anche
la plurivocità delle diverse figure che partecipano all’evento espressa da una varietà di lingue. Al momento della stesura de Lo Spasimo la fonte
enzensberghiana risulta dunque già acquisita e presente nella memoria consoliana. Muovendo da questa persuasione appaiono più chiare alcune scelte stilistiche adottate nel romanzo; fra le altre, si nota la presenza di una voce narrante che si esprime in forma monologante e poetica ma anche l’emergere di una plurivocità generata da una lingua polifonica.
Se per Enzensberger la letteratura rappresenta una possibilità di restituire la Storia in modo particolarmente incisivo, ancor meglio si comprende l’assunto consoliano secondo il quale la letteratura costituisce un argine alla cancellazione della memoria. Lo spasimo, ultimo romanzo dell’autore, si mostra così come un estremo tentativo di salvezza di una Storia e della letteratura stessa, che per svolgere tale funzione non può che riaffermare il proprio carattere «letterario» attraverso una «iperletterarietà». Le componenti di tale iperletterarietà possono individuarsi in due fattori principalmente: da una parte si avrà nel romanzo un’amplificazione della funzione poetica, da Jacobson in poi individuata come funzione
preponderante nel testo di carattere letterario; dall’altra si osserva un ricorso reiterato alla letteratura inserita nella letteratura, ovvero alla pratica dell’intertestualità, secondo la nomenclatura genettiana4.
Il presente studio si pone l’obiettivo di indagare le forme di questa plurivocità e di passare in rassegna le modalità dell’intertestualità, aspetti sostanziali e complementari dello stile «iperletterario» de Lo Spasimo di Palermo.

Lo Spasimo assume la forma di un nostos, in cui si racconta la storia dello scrittore Gioacchino Martinez, siciliano trasferitosi a Milano, che dopo tanti anni sceglie di fare ritorno nella terra natale, dopo aver fatto visita al figlio stabilitosi a Parigi. La microstoria si direbbe conclusa se non fosse caratterizzata da incontri decisivi con la macrostoria. Gioacchino Martinez fin da bambino accusa l’urto della Storia, l’incursione degli eventi esterni, storico-politici, nella sua dimensione privata. Dapprima irrompe la guerra, l’occupazione nazi-fascista che gli sottrae il padre, poi la mafia, le contestazioni giovanili che lo priveranno della vicinanza del figlio, e infine sarà di nuovo la mafia: «La storia è sempre uguale»5. La decisione di tornare in Sicilia si risolve in un viaggio spazio-temporale verso il principio, l’origine di tutto, un percorso la cui circolarità viene affidata sinteticamente alle parole di Eliot: «In my beginning is my end» (SP, p. 5)6.
Il modello archetipico del nostos nella letteratura occidentale è certamente il racconto del ritorno di Ulisse verso Itaca, ipotesto volutamente esibito non solo attraverso puntuali occorrenze e citazioni7 ma anche conferendo accenti mitici alla narrazione. La patina ancestrale è assicurata al dettato da una lingua poetica e letteraria abbondante di arcaismi e termini desueti.
Allora tu, i doni fatui degli ospiti beffardi, l’inganno del viatico, l’assillo della meta (nella gabbia dell’acqua, nella voliera del vento hai chiuso i tuoi rimorsi), ed io, voce fioca nell’aria clamorosa, relatore manco del lungo tuo viaggio, andiamo. (SP, p. 5) Metrica, istituti retorici, sintassi e lessico, ogni fattore concorre a far sì che lo stile possa sottrarsi al campo della prosa per essere ascritto al terreno della poesia. L’incipit del romanzo è isolato dal resto della narrazione anche graficamente: l’interruzione di pagina e il carattere corsivo danno evidenza dell’eccezionalità di questa porzione testuale, cornice che il narratore riserva a sé stesso per intervenire direttamente nella narrazione. In tale spazio proemiale la voce narrante apostrofa il suo personaggio («allora tu […], ed 25
io, voce fioca […], relatore manco lungo tuo viaggio, andiamo») e indirettamente il lettore, come d’uso nei proemi. La voce è «fioca» e il relatore si definisce «manco»: un altro topos d’ascendenza tradizionale si
individua nella presenza di una excusatio in fase proemiale, attraverso la quale il narratore annuncia la propria inadeguatezza all’alto compito della narrazione. Ma a differenza della maggior parte dei testi della tradizione, l’excusatio in questo caso non appare propriamente una scelta di maniera. Sottesa all’affermazione del narratore vive la consapevolezza della concreta difficoltà che si riscontra nella restituzione del reale. Da qui deriva all’autore la necessità di una ricerca faticosa della parola essenziale e dunque poetica. Solca la nave la distesa piana, la corrente scialba, tarda veleggia verso il porto fermo, le fantasime del tempo. (SP, p. 5)
Il carattere poetico è conferito anche a partire da fattori metrici: i blocchi del periodo separati da punteggiatura si pongono spesso tra loro – soprattutto in posizione incipitaria – in rapporto isometrico. «Muro
che crolla, interno che si mostra, fuga affannosa, segugio che non molla» (SP, p. 37): valga come esempio la sequenza posta in apertura del IV capitolo nella quale si osserva l’alternarsi cadenzato di quinari e settenari.
Se per molti secoli la rima è stata riconosciuta come «l’avamposto della poesia»8, l’istituto retorico che distingueva i versi dalla prosa, neanche la rima mancherà al dettato de Lo Spasimo. Tra la rima interna e la rima al mezzo potrebbe classificarsi il rimando fonetico che caratterizza alcuni passaggi: «s’aggruma la falda della spuma» (SP, p. 5), si legge in apertura; «si nascose nel vano di bambù e di banano, udì i passi stridenti sulla ghiaia, spiò e vide Don Aspano» (SP, p. 39); «grandioso mare, all’isola che appare e che dispare all’orizzonte» (SP, p. 60); o ancora – «dicevi del
veliero sopra il Monte, dei fuochi sopra l’onde» (SP, p. 35), sequenza che oltre a produrre assonanza fornisce un esempio di alternarsi di endecasillabi e settenari. Parole in rima e omoteleuti individuano passaggi
particolarmente densi sul piano semantico: «Piano, vai piano… tu e i soavi letterati siete le epigrafi di ornamento, la lapide incongrua e compiaciuta sul muro di quel carcere mentale, quel manicomio di annientamento
» (SP, p. 33), rinfaccia il figlio Mauro al padre facendosi portavoce dell’accusa che un’intera generazione muoveva alla precedente, del rimprovero dei rivoluzionari ai letterati che osservano non agiscono.
Le figure di suono non si concentrano soltanto nei finali di parola: ricorrono allitterazioni dall’effetto onomatopeico (Solca la nave la distesa piana, la corrente scialba, tarda veleggia verso il porto fermo, le fantasime
del tempo […]. S’è placata la tempesta, nella grotta, sulla giara sepolta s’aggruma la falda della spuma», SP, p. 5), paronomasie e calembour («Lo strazio fu di tutti, di tutti, di tutti nel tempo il silenzio fermo, la dura pena, il rimorso scuro, come d’ognuno ch’è ragione, cosciente o meno, d’un fatale arresto, d’ognuno che qui resta», SP, p. 18), che partecipano ad assegnare una valenza fonosimbolica alla lingua. Gualberto Alvino, riflettendo sul Sorriso dell’ignoto marinaio, Retablo, e Nottetempo casa
per casa legge «l’esaltazione del livello fonosimbolico» come «pura virtualità, crudo istituto, citazione culturale; preponderanza dell’interesse formale congiunta al più sfrenato edonismo pluristilistico»9. Nel caso de Lo
spasimo la presenza di fonosimbolismo andrebbe piuttosto ricondotta a una volontà extra-linguistica, non risolvibile in puro «feticismo linguistico»10. Gli artifici stilistici in questo contesto non sembrano avere lo scopo di un barocco di maniera, quanto piuttosto potrebbero servire il desiderio di creare un discorso più segnatamente letterario al fine di contrastare la già citata, paventata minaccia di sparizione della letteratura.
Tutti i livelli della lingua contribuiscono all’operazione. La sintassi viene frequentemente sconvolta nel suo ordine consueto: la sequenza soggetto-verbo-oggetto caratterizzante la disposizione degli elementi degli elementi della frase in prosa risulta talvolta scomposta da anastrofi e iperbati, note figure della costruzione poetica: «Ma pure in questa cala urlano sirene» (SP, p. 5); «Scivolava lenta la nave» (SP, p. 83)11. Colpisce la presenza reiterata dell’accumulatio, spesso asindetica e priva di verbo, egnatamente poetica, melica, ma propria anche di un gusto espressionista già riconosciuto alla prosa consoliana. Cesare Segre, introducendo l’opera dello scrittore, segnala questa 26 caratteristica come tratto distintivo dell’autore rispetto al resto degli scrittori meridionali12. «L’espressionismo di Consolo si fonda sull’interferenza di registri e di strati idiomatici» – prosegue il critico – «e se l’apparenza è quella di un fulgore, di uno splendore barocco,
è proprio sul piano, più profondo, della costruzione che si rifugia la “vera” storia, una volta sconfessata la storia degli storiografi»13. L’osservazione di Segre invita a considerare ancora una volta la centralità della lettura di Enzensberger nell’ottica di una riflessione sulle soluzioni linguistiche de Lo Spasimo: la rinuncia alla Storia non coincide affatto con l’esclusione della
dimensione storica dalla narrazione; si tratta piuttosto di una rinuncia quantificabile piuttosto a partire dalla distanza che corre tra lo stile consoliano e quello cronachistico – storiografico che tanto aveva permeato le narrazioni novecentesche che tematizzavano la Storia.

Lo stile de Lo Spasimo può considerarsi una delle soluzioni più distanti dal racconto storiografico, ma al tempo stesso non esente da profondità storico – cronologica apprezzabile sul piano linguistico e in particolare a livello lessicale. L’atemporalità di vocaboli, stilemi poetici e letterari (stimme14, leuci, ora antelucana, mestizie), arcaizzanti e desueti (macule, spegnare, credea, introibo, dolorarsi) convive con la puntualità del lessico tecnico soprattutto politico e militare (camerati, bunker, colonna, zolfanello,
bombe a mano, ordegni, polveriere, pistole, giberna, spallorm, scavatrici, ruspe, impastatrici), con marche della contemporaneità storico-politica (la mafia, la polizia, i rilievi, gli appalti, le licenze, il delirio costruttorio) e nomi propri di cose e luoghi che non potrebbero appartenere a nessun altra epoca e a nessun altro luogo. Il romanzo si apre con la visione
di Judex, una serie girata nel 1916, non una pellicola d’invenzione. Le parole che ancorano il discorso a un dato momento storico e a un luogo preciso fanno la loro comparsa in modo più massiccio da metà romanzo,
quando l’originario equilibrio familiare viene sconvolto senza possibilità di restauro. Dopo aver tentato di ricostruire con la parola essenziale, poetica, ma pur sempre incompleta («Ogni parola ora, povera, incapace, riduce quell’incanto, quel dono unico sospeso») un tempo di ancestrale bellezza, irrompe la tragedia della Storia: «Cominciò la storia con il boato
enorme» (SP, p. 61). In questo pluriliguismo fatto di lessico poetico,
letterario, lessico tecnico, lessico della storia e della contemporaneità si incontrano frequenti dialettalismi e regionalismi che non ottengono l’effetto di un abbassamento stilistico, ma al contrario concorrono
a spostare il cronotopo del romanzo verso una dimensione mitica e arcaizzante. Il dialettalismo non è un espediente per raggiungere più efficacemente una mimesis linguistica, a parte in rari casi («I ladri, i
ladri, professore, vengono la notte, sono come spirti, non saccio come fanno», SP, p. 66); la prova di ciò è offerta dalla presenza di dialettalismi non realmente attestabili, ma ricreati da combinazioni autoriali15. 27
In questa polifonia lessicale si riconosce la «Babele di lingue soggettive e obiettive»16 che Enzensberger faceva nascere dal desiderio di assicurare una voce alla molteplicità delle componenti che partecipano alla Storia. «Reclames, agitazione politica, gergo, tedesco di Lutero, terminologia giuridica e così via», scrive il critico a proposito della lingua di Berlin
Alexanderplatz, racconto letterario della classe operaia. Così, anche la lingua consoliana si caratterizza per una compresenza di varietà lessicali, un pastiche che non darà mai vita a significative variazioni di registro,
che si attesta sempre costantemente su una variante alta, grazie alle particolari combinazioni metriche, alle forme sintattiche, all’impiego di particolari istituti retorici di suono, posizione e significato. Anche l’intero sistema di citazioni e rimandi intertestuali partecipa alla costruzione del pastiche17 genettianamente inteso, ovvero, come risultato finale del riuso di prodotti letterari preesistenti rimestati e trasformati. La presenza di una letteratura al «secondo grado» è imponente e diversificata all’interno de Lo spasimo e si presenta nelle forme più immediate della citazione o in quelle dissimulate della 16 H. M. Enzensberger, Letteratura come storiografia, p. 10.
allusione che il lettore avverte per lo più attraverso occorrenze, immagini, particolari soluzioni stilistiche. Tra le citazioni dirette troviamo versi di Omero, Dante, Cervantes ed Eliot; mentre rientrano in una modalità meno diretta di intertestualità l’impiego del correlativo oggettivo, teorizzato da Eliot e tradotto in Italia dai versi montaliani. Così, in immagini e occorrenze, si ritrova l’Inferno dantesco, richiamato nell’incipit dalla presenza delle «gru», delle «schiere di anime» e delle «porte d’ingresso»18.
Lo studio degli ipotesti presenti nel romanzo meriterebbe certamente ben altro approfondimento. In questa sede vi si accenna in quanto si considera
l’intertestualità un aspetto stilistico determinante per la trasmissione dei significati. Tanto la funzione poetica quanto l’intertestualità finiscono per accentuare il carattere spiccatamente letterario dell’opera, neppure in parte incrinato dalla presenza di un lessico tecnico o storicamente più marcato. Il registro resta alto, il pastiche linguistico e letterario non
si risolve nei caratteri della parodia o della critica satirica, in cui sfocia la maggior parte delle volte il pastiche. Come osserva ancora Cesare Segre:
Consolo va certo avvicinato a un altro grande romanziere plurivoco e pasticheur, al massimo anzi del nostro Novecento, Gadda. Essi hanno
in comune la voracità linguistica, la capacità di organizzare un’orchestra di voci, il risultato espressionistico. Tuttavia c’è una differenza sostanziale:
la plurivocità di Gadda […] irride ai rappresentanti della società […]. Consolo realizza soprattutto un. Consolo realizza soprattutto un accostamento vivacissimo, materico di materiali fonici, lessicali, sintattici […].19 Lo stesso Segre ammette la presenza di «movenze ironiche o parodiche» nel racconto consoliano, ma tali movenze non possono certamente considerarsi preponderanti nell’impasto stilistico de Lo Spasimo, che complessivamente, per usare ancora una categoria
contemplata da Genette, resta un pastiche «serio».

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1 V. Consolo, Per una metrica della memoria, «Bollettino ‘900», n. 6-11, 1997, pp. 25-29. In questa sede le citazioni verranno mutuate dalla versione online
https://vincenzoconsolo.it/?p=1872 (ultima visita 25/05/2022). 2 G. Turchetta, Soggettività e iterazione nel romanzo storico-metaforico di Vincenzo Consolo, in «Studi per Vincenzo Consolo», «Recherces», n. 21, 2018, pp. 23-54. 3 H. M. Enzensberger, Letteratura come storiografia, «Il menabò», n. 9, Einaudi, Torino, 1966, p. 10. 4 Consolo ne La metrica della memoria si esprime in termini genettiani parlando di Retablo, che definisce prima di tutto un «ipertesto». Cfr. Gérard Genette, Palinsesti, La Letteratura al secondo grado, trad. Raffaella Novità, Torino, Einaudi, 1997, I ed. Paris, Ed. du Seuil, 1982. 5 V. Consolo, Lo Spasimo di Palermo, Milano, Mondadori, 2020 (I ed. 1998), p. 5. Da ora in poi SP. 6 La citazione è mutuata da Four Quartets di T. S. Eliot. 7 La sola citazione puntuale si legge in SP p. 59: «Di’ perché piangi e nel tuo animo gemi //quando odi la sorte…», da Odissea, trad. di Giovanni Aurelio Privitera, Milano, Mondadori, 1981-1986. 8 C. Betocchi, Le poesie del sabato, Milano, Mondadori, 1980, p. 112. 9 G. Alvino, La lingua di Vincenzo Consolo, «Oblio», a. VIII, n. 32, p. 72. 10 Ibidem. 11 SP, p. 83 12 C. Segre, Un profilo di Vincenzo Consolo, in V. Consolo, Opere, Milano, Mondadori, pp. XI-XII. 13 Ivi, p. XX. 14 Lemma non attestato nei principali dizionari dell’uso, presente nel GIDLI: «si chiamano stimme in entomologia quelle aperture che si trovano lungo il corpo degli insetti…». Occorenza poetica si legge in Montale, L’ombra della Magnolia, La Bufera e altro, 1956 e in Gozzano, Epistole entomologiche, laddove indica però indica la parte interna del fiore. 15 È il caso di «Nòzzoli», forma che non attestata dai dizionari dell’uso né da quelli dialettali. Si può pensare che si tratti di una formula di invenzione dell’autore basata sul meccanismo di formazione proprio dell’area ragusana, dove il nesso -cl- latino dà vita all’affricata alveolare sorda geminata -zz-. Si può ipotizzare che da noclus latino (nucleo, nòcciolo) possa derivare nòzzolo. Pertanto, i «nòzzoli delle capre» potrebbero rappresentare l’escremento dell’animale che del nòcciolo condivide la forma. 16 H. M. Enzensberger, Letteratura come storiografia, p. 10. 17 Gérard Genette, Palinsesti, cit. p. 107 e sgg. 18 Le gru sono notoriamente presenti nel canto V dell’Inferno usate come metaforizzante per i dannati lussuriosi che vengono trasportati dalla bufera. Lo stesso animale si incontra nel canto XXVI del Purgatorio, ancora in un canto dedicato ai lussuriosi. Le porte, dopo ben due occorrenze dantesche («gru» e «schiere di anime») non possono non evocare le porte infernali, da quella di entrata ai varchi della città di Dite. 19 C. Segre, La costruzione a chiocciola nel «Sorriso dell’ignoto marinaio» di Vincenzo Consolo, in Id., Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento,
Torino, Einaudi, 1991 pp. 85-86. La citazione viene già ricordata da Gualberto Alvino, La lingua di Vincenzo Consolo, cit., p. 78.

Il posizionamento di Consolo: per un’etica dell’iperletterario

foto Giovanna Borgese

Daniel Raffini

In una recensione del 5 maggio 1985 pubblicata su «Il Messaggero» alla favola teatrale Lunaria di Vin­cenzo Consolo il poeta Giovanni Raboni scriveva:
Ciò che il testo, nella realtà delle sue risultan­ze espressive, lascia affiorare, è piuttosto un’i­perletterarietà elusiva, elegante e malinconica, una stravaganza capace di conciliare liricità ed erudizione, un’ossessione verbale alleviata da una sorta di pietas ironico-illuministica1

1 G. Raboni, E nevicò con cocci lucenti di luna, «Il Messaggero», 5 maggio 1985, p. 5. .

Nel giro di una frase Raboni riesce a condensare alcune delle caratteristiche salienti della scrittura consoliana. Per iperletterarietà in questo contesto si intende una scrittura che si configura come spic­catamente letteraria. Tale risultato è raggiunto da Consolo principalmente attraverso due vie: da una parte una scelta linguistica caratterizzata dal plurilin­guismo, volta al recupero della ricchezza della lingua a livello geografico, temporale e diastratico; dall’altra c’è l’ipertestualità, definita da Gérard Genette come «ogni relazione che unisca un testo B (che chiamerò ipertesto) a un testo anteriore A (che chiamerò, natu­ralmente, ipotesto)»2

2 G. Genette, Palinsesti. La letteratura di secondo grado, Einaudi, Torino,

1997, pp. 7-8. . Nelle sue pagine Consolo riesce a incastonare tutta, o quasi, la tradizione letteraria: vi ritracciamo Omero, Dante, Eliot, Leopardi, Manzoni – l’elenco sarebbe davvero lungo. La pagina di Consolo è un distillato di letteratura: lo scrittore seleziona dal­le pagine degli altri scrittori e dalla storia linguistica ciò che gli sembra utile o degno di essere salvato e lo 4 passa attraverso un filtro che ci restituisce una scrit­tura pura, che a tratti si fa eterea, nella sua smania di nominare le cose e nella sua difficoltà di farlo.

I tre aggettivi scelti da Raboni per definire l’iperlet­terarietà consoliana appaiono quanto mai esatti: essa è elusiva, i rimandi alla tradizione infatti si inseriscono all’interno di un contesto in cui i riferimenti si confon­dono, si amalgamano con la scrittura, diventano allu­sione, tonalità di un racconto; è elegante, perché spes­so sceglie i registri alti della comunicazione e anche quando vira verso quelli più bassi (come il dialetto o il gergo), riesce a conferirgli un’aura di particolare ricer­catezza; infine, l’iperletterarietà di Consolo è malinco­nica, perché fa riferimento a qualcosa di perduto, che sia il distacco dalla terra natale, la fine del mondo con­tadino, il livellamento operato dalla lingua dei media.

La letteratura di Consolo è una letteratura dal li­mite, ci regala lo sguardo sulla cosa un secondo prima che essa decada nel non essere. È proprio questa ma­linconia ciò che collega l’iperletterarietà all’altro ele­mento centrale, e apparentemente discordante, della scrittura di Vincenzo Consolo: l’etica, la compromis­sione costante della scrittura con il contemporaneo e dunque l’impegno. Consolo affida ai suoi romanzi una funzione “metaforica”: parlare della storia per parlare del presente. In realtà c’è più di questo: attraverso il racconto degli eventi del passato Consolo scandaglia i mali imperituri della storia, la sopraffazione dell’uo­mo sull’uomo, il dolore e la tentazione dell’annienta­mento. «La storia è sempre uguale»3

3 V. Consolo, Lo spasimo di Palermo, Mondadori, Milano, 2013, p. 5. ,

scrive Consolo nella prima pagina de Lo spasimo di Palermo, roman­zo che fin dal titolo ci fa percepire lo strazio e che in epigrafe riporta significativamente una battuta di Prometeo dal Prometeo incatenato di Eschilo: «Il rac­conto è dolore, ma anche il silenzio è dolore». La lette­ratura di Consolo si fa carico di questo dolore, decide di rompere la barriera del silenzio per cercare una via di comunicazione che interrompa il male.

In un’intervista rilasciata a Irene Romera Pintor, Vincenzo Consolo ha parlato in questi termini delle ragioni profonde delle sue scelte narrative:

Credo di avere un progetto letterario che per­seguo da parecchi anni. Consiste nel cercare di raccontare quelli che sono i momenti critici della nostra storia: momenti critici in cui c’è stato uno scacco, una sconfitta, un’offesa dell’uomo.4

4 V. Consolo, Autobiografia della lingua. Conversazione con Irene Romera Pintor, Ogni uomo è tutti gli uomini, Bologna, 2016, p. 13.

In un’altra intervista, Consolo lega tale scelta al conferimento di una funzione alta ed etica alla letteratura:

Io credo che la letteratura debba […] impor­si appunto come contro-storia, come qualcosa di diverso rispetto alla cronaca ufficiale. In ogni epoca sono sempre esistite e continueranno ad esistere, oggi più che mai, le zone anonime della marginalità, le sacche di maggior dolore, umilia­zione e sfruttamento (isolate ed estranee al flus­so principale della storia). Supremo compito del­la letteratura è proprio quello di rappresentare e dar voce a questo perenne ghetto di esistenze.

In questa propensione verso gli offesi e gli sconfitti c’è la valenza etica della scrittura consoliana. Ancora nell’intervista rilasciata a Irene Romera Pintor, parlan­do del suo sguardo sul Risorgimento siciliano espres­so nel romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio, Consolo affermava di aver narrato «con gli occhi degli emargi­nati, dei contadini, autori di una rivolta popolare e di una strage, e poi condannati e fucilati» (p. 13). Il sorriso dell’ignoto marinaio racconta, tra le altre cose, la rivol­ta contadina di Alcara Li Fusi, terminata tragicamente con l’uccisione dei ricchi del paese e con una serie di altri crimini, che saranno poi condannati all’arrivo del­le truppe garibaldine. Da questa scelta notiamo come lo sguardo di Consolo sia più complesso di quanto po­trebbe sembrare: non è una difesa delle vittime, ma una condanna della storia, in cui meccanismi millenari di sopraffazione determinano un circolo vizioso di vio­lenza e dolore. In una delle pagine finali del romanzo, il barone Mandralisca si fa portatore di quello che pos­siamo considerare il pensiero dell’autore: «E cos’è stata la Storia sin qui, egregio amico? una scrittura continua di privilegiati»6

6 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano, Mondadori, 1987, p. 88. .

La scrittura di Consolo, allora, cerca di ridare voce a chi ne è stato privato. Il codice linguistico pare però inappropriato a questa restituzione, perché costruito dagli oppressori a loro uso e vantaggio. La

5 riflessione è ancora veicolata dal personaggio di Man­dralisca: «Ed è impostura sempre la scrittura di noi co­siddetti illuminati, maggiore forse di quella degli ottusi e oscurati da’ privilegi loro e passion di casta»7 7 Ibidem. .

Si nota insomma come la questione della lingua non sia per Consolo un fatto neutro; ma viene comun­que da chiedersi come si concili la scelta di una lingua iperletteraria con l’impegno professato dallo scrit­tore. A spiegarcelo è Consolo stesso, nell’intervista a Irene Romera Pintor (pp. 8-11). La scelta linguistica di Consolo pare connotata storicamente, è il risultato dell’epoca: scrittori come Sciascia, Moravia e Calvino – appartenenti a una generazione precedente, quella che aveva vissuto direttamente il fascismo e la guerra – scelgono «uno stile di tipo razionalistico, di assoluta comunicazione […] uno stile alla maniera illuministica di stile francese». Consolo si colloca cronologicamen­te e idealmente dopo di loro, quando «la speranza nei confronti di una nuova società che si sarebbe dovuta formare, di un nuovo assetto politico e di un maggiore equilibrio sociale, […] era caduta» a causa dell’instau­rarsi «di un potere politico che replicava esattamente quello che era crollato». La scelta stilistica di Consolo, dunque, non è più «nel segno della speranza», ma è «nel segno dell’opposizione» e rappresenta «la rottura con il comune codice linguistico, con l’adozione di un altro codice che rappresentasse anche le periferie della società». Le motivazioni della scelta linguistica di Con­solo non sono «solo di tipo estetico», ma anche «di tipo etico e politico». «Il grande deposito linguistico» lascia­to in Sicilia dallo stratificarsi di popoli diversi è così di­ventato il primo repertorio della scrittura di Consolo, uno stile di opposizione, contro l’appiattimento della lingua della comunicazione, che rappresentava un im­portante ingranaggio di quella macchina di integrazio­ne e asservimento che negli stessi anni Pasolini andava descrivendo, con concetti e parole assai simili a quelli consoliani. La consonanza con Pasolini si nota, d’al­tronde, anche nell’insistenza sul concetto di mutazione antropologica, sul racconto della fine del mondo con­tadino sopraffatto dalla nuova realtà industriale, che è una delle fonti di quella malinconia che pervade la scrittura consoliana. La perdita delle radici, la cancella­zione del passato, che sia storico o linguistico, è ciò che angoscia maggiormente Consolo. Se il mutamento non si può fermare, tuttavia ci si deve sforzare per conser­vare la memoria di ciò che era prima:

Credo che sia proprio questo il dovere della let­teratura, il dovere della memoria. Non perdere il contatto con le nostre matrici linguistiche, che era­no anche matrici etiche, matrici culturali profonde. Perdere questo contatto significa perdere identità e perdere anche la funzione della letteratura stessa, perché la letteratura è memoria e soprattutto me­moria linguistica. (Autobiografia della lingua, p. 12)

La trasmissione della memoria, fine ultimo della scrittura, che in essa trova il suo valore etico, non vuol dire per Consolo solamente raccontare i fatti del passato, ma vuol dire anche inglobare all’inter­no dell’opera la tradizione linguistica e letteraria, in protesta contro il livellamento della lingua italiana sul linguaggio dei media e la perdita dei valori che l’arte ha saputo esprimere nel corso dei secoli. Per questo possiamo affermare che l’iperletterarietà in Consolo è prima di tutto una missione etica, uno strumento per incidere sul presente, una voce di protesta. Consolo è insomma uno di coloro che me­glio hanno saputo inserirsi nell’etichetta di “scrit­tore impegnato”, riuscendo a rendere pienamente onore a entrambi i termini del sintagma. 6

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Le figure femminili di Vincenzo Consolo

Rosalba Galvagno

Per quanto le pagine di Vincenzo Consolo siano disseminate di figure femminili, per alcune di esse non è facile delinearne i contorni o il profilo secondo i moduli tradizionali del ritratto o del personaggio a tutto tondo, anche perché spesso tali figure sono metaforizzazioni di oggetti naturali o culturali. La Sicilia ad esempio (e con essa il Mediterraneo tutto), nella sua complessità di «esistenza» e di «storia», di bellezza e di orrore, di attrazione e di repulsione, di natura e di cultura, di storia e di arte, di guerra e di pace, di mafia e di eroi, è sicuramente l’oggetto femminile più emblematico della scrittura di Consolo. Tutti gli altri non sono che degli avatars, dai più
orridi ai più teneri, di questo oggetto fondamentale che egli ha inseguito durante tutto il suo percorso di uomo e di artista, approssimandosi forse di più ad esso e perfino attingendolo (immaginariamente, s’intende) nei resti archeologici, nelle pietre antiche. I personaggi femminili consoliani consistono sovente in semplici nomi di figure mitologiche o di sante, in mere elencazioni caotiche di questi nomi, che si configurano come delle vere e proprie antonomasie. Nomi di divinità o ninfe mitologiche
talvolta accompagnati da un predicato (Afrodite, Artemide, Aretusa, Ciane, Demetra, Persefone, Hera, Athena, Venere celeste, Diana delle cacce, Cerere
delle messi siciliane, Malophòros, Ecate, Medusa, Core, Sfinge, Europa, Scilla, Antigone, Circe, Sirene ecc.); di sante o comunque di figure cristiane (Giovanna d’Arco, Santa Rosalia, Santa Lucia, la Madre, Annunziate, Maddalene, sante Caterine, Immacolate, sante Ninfe o Susanne ecc.).
Ora, queste semplici citazioni onomastiche non sono certo delle eccedenze barocche, dei meri ornamenti retorici, ma sono appunto delle antonomasie
che vanno lette come autentici significanti, cioè nomi. 1 Tutti i romanzi di Consolo sono citati da questa edizione. attraverso i quali il testo veicola ed evoca una pluralità, spesso contraddittoria, del femminile, come accade ad esempio col termine Malophòros al quale è accostato, tra gli altri, il termine mele (miele), che ricorre in altre due pagine dello stesso capitoletto (In Egesta degli Elìmi) del romanzo Retablo, in particolare nel contesto fortemente erotizzato della Confessione di Rosalia Granata: «come fa l’apa sopra la corolla dove al fine s’insinua e suscita il suo mele»1. Questo significante della dolcezza, specie quella erotica e materna, si riverbera anche nel capitoletto successivo (In Selinunte greca), nella mirabile descrizione della dea Malophòros, descrizione generata di fatto dalla prima parte del nome della dea: «e il tempio sacro in fondo e segretissimo in cui nel recesso più interno e proibito era Lei, la Molle, l’Umida, la dèa che porta la mela e che la dona, l’inconoscibile, insondabile padrona» (p. 437), dove a «Molle» si affianca qui il termine «mela», l’attributo proprio della dea, che designa il frutto e connota al contempo la fertilità. Accanto a questi nomi propri femminili appartenenti alla nostra tradizione mitologica e cristiana, incontriamo anche dei nomi comuni di parentela come madre, moglie, sorella, figlia, signora, fidanzata, i nomi cioè dei legami familiari più intimi spesso dolorosamente drammatici, come ad esempio il termine «sorella» riferito all’anonima fanciulla portata in corteo funebre sempre nel capitoletto intitolato In Selinunte greca del romanzo Retablo. O le sorelle di Petro Marano, Lucia e Serafina, intaccate anch’esse dal male catubbo (dalla melanconia) nel capitolo IV, La torre, del romanzo Nottetempo, casa per casa. D’altronde il capitolo VIII, la cui epigrafe è una citazione tratta dalla Nedda di Verga2, si intitola significativamente Le donne, mentre il capitolo X, Pasqua delle rose, introduce la tenera figura di Grazia la Piluchera, l’accogliente amante (prostituta?) di Petro (pag. 731 ss.). Da L’olivo e l’olivastro preme ricordare almeno la Lucia del Seppellimento di Santa Lucia del celebre dipinto di Michelangelo Merisi: Effigiò la santa come una luce che s’è spenta, una Lucia mutata in Euskìa, un puro corpo esanime di fanciulla trafitta o annegata, disposto a terra, riversa la testa, un braccio divergente […]. La luce su Lucia giunge da fuori il quadro, dalla pietà, dall’amore dei fedeli astanti, da quel corpo riverbera e si spande per la catacomba, a cerchi, a onde, parca come fiammella di cera dietro la pergamena. (pp. 828-829) E la stessa madre dello scrittore, toccante e indimenticabile «vecchia Euridice»:
La guardava, ne studiava la faccia, la pelle
sottile e bianca, le venuzze azzurre, il neo sulla
tempia, i capelli fini e lisci fermati dietro con la
crocchia, la bocca a grinze, le orecchie trasparenti,
i buchi allungati dei lobi da cui pendevano gli
orecchini. Ma presto provava imbarazzo, disto-
glieva lo sguardo, gli sembrava di violare l’intimità
indifesa di quella donna ch’era sempre stata
candida, innocente, il suo privato e lento allontanarsi.

[…]
Cosa credeva? Che quella donna, sua madre, fosse rimasta sempre lì, uguale, come il giardino, le barche, le isole, con il ricordo di lui sempre acceso? Il dolore per gli altri figli andati, scomparsi? Aveva mollato pure lei (ma come, quando?) e s’era messa a camminare per la sua strada. Voleva annullare quel tempo, ritornare, lui, al punto della partenza, far tornare lei, vecchia Euridice, di là dall’ombra dell’oblio? (pp. 848-849)
Accanto a queste due ultime figure (Santa Lucia e la madre) delle quali, a differenza delle precedenti antonomasie, lo scrittore ci consegna un ritratto rapido ed essenziale, sono anche presenti nei suoi testi delle metaforizzazioni del femminile, come quella, notissima, della «chiocciola» del Sorriso dell’ignoto marinaio (pp. 233-238), o in Retablo quella dell’«arancio » (p. 427) o del «corallo» (pp. 454 ss.) e persino del tempio: il tempio di Segesta all’occorrenza, nella cui descrizione insistono le «madri» e la gran «Madre» (p. 414). Ma, tra gli oggetti inanimati, o più precisamente cosmici, bisogna annoverare la luna disseminata ovunque nelle pagine consoliane, 20 al centro, segnatamente, della splendida favola teatrale
Lunaria. La luna come figura per eccellenza del femminile («Deh madre, sorella, sposa, guida della notte, méntore, virgilia, dimmi, parlami, insegnami la via») 3 ha una lunga tradizione nella nostra letteratura,
basti qui citare l’esempio massimo del Canto di un pastore errante dell’Asia, e anche delle altre numerose lune di Leopardi, come quella dell’Odi Melisso e del Tramonto della luna letteralmente evocate
in Lunaria. Dopo questa rapida rassegna di figure femminili,
vorrei soffermarmi sul capolavoro di Vincenzo Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, che si apre su una interessante figura di donna, Catena Carnevale, un personaggio dal nome altamente simbolico, per
quanto lo scrittore si sia ispirato a una donna reale di Lipari di nome Maria Maggiore. Se il nome proprio Catena rinvia immediatamente
alla scrittura, alla catena significante, il cognome Carnevale non può non evocare una straordinaria eroina popolare immortalata da Carlo Levi in Le parole sono pietre: Francesca Serio madre di Salvatore Carnevale, una donna che non aveva paura di pronunciare, per ottenere giustizia per il sacrificio del figlio ucciso dalla mafia, «parole di pietra»4. Il ritratto di Catena viene presentato dapprima nell’Antefatto del primo capitolo del Sorriso dell’ignoto marinaio, e quindi ripreso e arricchito di ulteriori
tratti, nel secondo capitolo intitolato L’albero delle quattro arance. Di Catena sappiamo che è bella e irraggiungibile, la sua bellezza però non s’incarna in un corpo reale di donna, piuttosto in una sorta di raggio luminoso che al tempo stesso la vela e la svela «al rapido saettar d’occhi traversi […] dei giovani che passano e ripassano per la strada di San Bartolomeo » (p. 127)5. Ricama e sa decifrare la scrittura barocca delle ricette, sicché torna utile al padre speziale in Lipari. È «un’intellettuale»6, nervosa, irritabile, meteoropatica, un mistero quanto all’amore. A tal punto furiosa, da infierire sul ritratto dell’Ignoto perché somigliante al suo fidanzato lontano, con 3 Lunaria, p. 315 4 Cfr. C. Levi, Le parole sono pietre, Einaudi, Torino, 1955, pp. 138-152. Consolo ha dedicato allo scrittore torinese un denso saggio raccolto nella settima e ultima sezione di Di qua dal faro (Milano, Mondadori, 1999, pp. 251-257) intitolata significativamente Le parole sono pietre. 5 Vincenzo Consolo ha svelato, nel corso di un Convegno a lui dedicato e tenutosi a Capo d’Orlando nell’ottobre del 2006, che l’immagine alla quale questa descrizione di Catena rinvia è quella di una Annunciazione. 6 V. Consolo, Fuga dall’Etna, Donzelli Editore, Roma, 1993, p. 43. 7 Ivi, p. 46. 8 «il povero esclama / al fondo di tanto abisso / terra pane / l’origine è là / la fame senza fine / di libertà» (pp. 250-251). quel sorriso che l’affascina tanto quanto la perseguita, un sorriso inafferrabile che potrà incatenare, lei già incatenata da quel sorriso, solo sfregiandolo
col punteruolo d’agave da ricamo, solo lasciandovi sopra, tale un’erinni, il segno della sua passione assoluta (p. 127). Vorrei ancora, prima di passare a Rosalia, forse la figura princeps della ricca galleria di figure femminili
consoliane, soffermarmi sull’ultimo capitolo (IX) del Sorriso dell’ignoto marinaio, che contiene le famose scritte graffite sui muri del carcere dai rinchiusi colpevoli dell’eccidio di Alcara Li Fusi. Paradossalmente e perfino scandalosamente, questo carcere a forma di chiocciola rappresenta
forse il luogo per eccellenza del ‘femminile’, della scrittura autentica, corale e acefala, «indipendente da un corpo o da una mente» (p. 222), una scrittura capace di tradurre in linguaggio il trauma originario del Soggetto e della Storia. Un trauma che, nel punto finale della riscrittura storico-metaforica degli eventi riportati nel romanzo, si mostra quasi allo stato
puro senza i «colori dell’affresco»7, graffito di carbone e messaggio poetico per chi può leggerlo e intenderlo. L’ultima strofe dell’ultima scritta sul muro è infatti in lingua sanfratellana, incomprensibile per lo stesso Mandralisca e per noi lettori:
U pauvr sclama
Suogn ‘nta u mar
Au Faun di tant abiss
Terra pan
L’originau è daa
La fam sanza fin
Di
Libirtaa
8
Di questa strofe in sanfratellano la prima edizione del romanzo non forniva alcuna traduzione. Ora, proprio gli ultimi cinque, poeticissimi versi rinviano ad una parola mancante (propriamente la parola muta del desiderio), una parola fondamentale perché generatrice dell’intero canto. Si tratta della parola ‘lontananza’ intesa come separazione dall’oggetto
d’amore, vera e propria parola ombelicale che si iscrive nell’ordine silenzioso della lettera, e che coincide con quello che Freud nell’Interpretazione dei sogni chiama ‘ombelico del sogno, kern-punkt, punto opaco e non più decifrabile del desiderio del sogno, ma anche punto di generazione plurima e sovradeterminata della scrittura del sogno. Ma c’è di più. Soggetto di questa ‘lontananza’ è una fanciulla, una figura femminile dunque. È stato possibile risalire a questa parola ombelicale grazie all’eccellente studio di Salvatore Trovato sulla presenza del sanfratellano nel Sorriso. Lo studioso afferma che il verso:
au faun di tant abiss, rigo 28 della scritta, è ripreso dall’ottava num. 19 (dal titolo La lontananza) della raccolta di Luigi Vasi (p. 286), un’ottava d’amore che tratta appunto il tema della lontananza (Suogn ‘nta u mar au faun di tant abiss ‘sono nel mare al fondo di tanto abisso’ piange la fanciulla per la lontananza dell’amato nell’ottava popolare) da cui Consolo sa trarre elementi per la costruzione di un testo che tratta il tema della rabbia sociale, dell’odio di classe e del desiderio di vendetta9. D’altronde l’intera strofe è costruita con versi presi da varie altre ottave del Vasi e abilmente intrecciati dallo Scripteur, al fine di trasmettere un messaggio innanzi tutto etico-sociale, rivoluzionario, rivendicativo. Ma, mi permetto di postillare, questo messaggio è strutturato poeticamente e per di più in una lingua ‘altra’. Inoltre la voce che emana dal fondo dell’abisso, frammento di corpo staccato dal soggetto che la enuncia, è quella di una fanciulla innamorata e separata dal suo amato, la stessa voce profonda, anonima ed enigmatica che modula il canto della strage, del trauma, della separazione, della lontananza.
E passiamo infine alla figura di Rosalia nel romanzo Retablo, un romanzo diviso, com’è noto, in tre parti: due portelli laterali Oratorio e Veritas, e
un portello centrale, Peregrinazione. Esso narra il 9 S. Trovato, Valori e funzioni del sanfratellano nel pastiche linguistico consoliano del «Sorriso dell’ignoto marinaio» e di «Lunaria», in Dialetto e letteratura a cura di Giuseppe Gulino ed Ermanno Scuderi, Pachino 1989 (Atti del 2° Convegno di studi sul dialetto siciliano – Pachino 28/30 aprile 1987), p. 135. 10 «Alzai gli occhi e vidi nel riquadro, ah, la mia sventura!, la donna che teneva la funicella del panaro e accanto una fanciulla di quindici o sedici anni, la
mantellina a lutto sulla testa che lei fermava con graziosa mano sotto il mento. E gli occhi tenea bassi per vergogna, ma da sotto il velario delle ciglia fuggivan lampi d’un fuoco di smeraldo. Mai m’ero immaginato, mai avevo visto in vita mia, in carne o pittato, un angelo, un serafino come lei» (p. 371). viaggio e le peripezie dell’artista milanese Fabrizio Clerici e della sua guida Isidoro, un monaco del convento della Gancia, nella Sicilia del XVIII secolo (1760-1761 circa). Fin dal celebre prologo di Retablo da me chiamato Inno a Rosalia, la figura femminile non si riduce a una mera rappresentazione realistica. Essa soggiace piuttosto a delle figurazioni metamorfiche, che vanno dal ritratto a tutto tondo della protagonista
Rosalia all’«ottuso vortice» (p. 422) del corpo del godimento. Non a caso Rosalia è esattamente definita in due luoghi, e fuori da ogni figurazione possibile, come «la causa di tutto, il motore primo» (p. 372) secondo le parole di Isidoro, e «il motore primo del miracolo» (p. 420) secondo le parole dell’altra Rosalia, perché di «Rosalia» ce ne sono almeno
due in Retablo. Il romanzo non farà che dispiegare dall’inizio alla
fine ciò che il prologo annuncia: la perdita e quindi la quête di Rosalia, cioè dell’oggetto del desiderio e dei suoi avatars, che si incarna nelle figure di Rosalia Guarnaccia, l’amata di Isidoro; Teresa Blasco, l’amata di Fabrizio Clerici; alle quali bisogna aggiungere Rosalia Granata, la donna sedotta da Frate Giacinto da Salemi e salvata da Vito Sammataro, un frate costretto a farsi brigante. O, infine, «solamente la Rosalia d’ognuno che si danna e soffre, e perde per amore» (p. 423). Accanto a queste vi sono altre importantissime figure femminili come quelle mitologiche e religiose
già citate all’inizio di questo saggio o altre figure minori come Luzìa o Lucia Barraja (p. 467), che fa parte anch’essa della galleria delle Rosalie.
E se si volesse delineare un ritratto fisico, esteriore (secondo la terminologia dei teorici del Rinascimento italiano) di Rosalia10, è vero che esso consiste soltanto di alcuni tratti quali l’età (ha 15-16 anni),
lo sguardo acceso da lampi d’un fuoco di smeraldo, i capelli colore del rame, i denti di cagnola, mentre il suo ritratto interiore è fissato dall’ossimoro angelo/ diavolo, permanendo inestricabili i tratti angelici e
diabolici. È anche fresca, odorosa, bella di sette bellezze ecc., ma soprattutto ha un bel nome, infatti l’inno inaugurale del romanzo è una variazione attorno 22 al nome di Rosalia. Isidoro, d’altronde, risponderà a
Fabrizio Clerici che Rosalia «È solamente il nome» (p. 386).
Ciò che sembra emergere dall’analisi testuale dell’Inno a Rosalia11 è la scrittura dello slancio di un desiderio verso un oggetto femminile forse del tutto inedito nella tradizione letteraria italiana ed europea. Alle due donne – Venere celeste e Venere terrestre – celebrate da questa tradizione si sostituisce in Retablo una sola donna dalle molte sfaccettature, che è al contempo idealizzata e concupita (sogno o incubo di ciascun uomo forse). Ciò che il lavoro dello stile, della prosodia specialmente, rivela grazie
all’accordo stabilito da un certo ritmo tra elementi verbali appartenenti a ordini linguistici differenti e perfino opposti, è l’ibridazione di queste due figure di donna, ottenuta attraverso la coalescenza della corrente tenera e della corrente sensuale dell’amore, che fa sì che i tratti ideali e i tratti erotici di questo oggetto femminile divengono interscambiabili.
Le figurazioni del corpo di Rosalia vanno dunque dal ritratto della giovane adolescente paragonata per la sua bellezza al corpo della statua di Santa Ro- 11 Per questa analisi dettagliata cfr. Rosalba Galvagno, «Hymne à Rosalia» dans «Le Retable» de Vincenzo Consolo, in «Revue des Études italiennes», dirigée par François Livi et Claudette Perrus, Varia, Tome 63, n. 3-4/2017, pp. 41-53. salia, all’allegoria della Veritas scolpita dal Serpotta,
ad una panòplia di metonimie del corpo (sguardo, capelli, denti, ossa, reliquie, voce), alla ‘lettera’ e, per finire, al corpo del godimento difficilmente rappresentabile: si tratta piuttosto di una figura senza
figura del reale, ma al quale Consolo riesce addirittura a dar voce e nella cui specifica e originalissima articolazione si situa la scrittura dell’eros. La mise en abyme di questa scrittura si situa nel bel mezzo del romanzo, in quell’eccentrico capitoletto intitolato Confessione, voluto in corsivo da Consolo. Ora, la grandezza e l’importanza letteraria di questa Confessione
risiede proprio nella scrittura, difficilissima, dell’estasi mistica e al contempo arditamente sensuale del corpo di Rosalia ridotto qui a puro strumento del godimento, pura voce, pura onomatopea di una «gioia grande e senza nome»: «O bona, o bella, o santa creatura!» dissemi
con quella sua voce flautata stringendo forte nelle sue le mani mie.

«O padre, o padre, per me pietate, vi chiedo abènto!…» riuscii a sospirare, e venni meno. Mi ritrovai, al risveglio, riversa su un giaciglio
dentro un casalino ov’erano gli attrezzi per la selva,
la testa sul grembo del mio frate, che la mano,
ora con forza e ora lievemente, passava sul mio
petto, mentre il core affannoso mi battea come
del coniglio stanato dal furetto. E dal petto quindi
in giuso si moveva, fin su la nicchia ove natura
pose il nocciolo del caldo, il seme, il fomento d’ogni
brama, godimento, levitando, sfiorando tratteggiando,
come fa l’apa sopra la corolla dove al fine
s’insinua e suscita il suo mele, mentre che l’origlier
crescendo s’impetrava. O foco, foco! Foco che in
segreto ardi su la lampa, fiamma che bruci e non
consumi! Foco che avvampi il core, l’ossa, ardi il
midollo, ogni fibra dell’anima, del corpo! […].
Ah il furore, il delirio, l’ottuso vortice, la danza,
da cui sortiva sempre inappagata, sempre anelante
all’amor di lui, di lui che a poco a poco si negava,
di Lui che m’appariva irraggiungibile!
E prona pecora belava, guaiva cagna cana, hau
hau, lamentava, ma’, ma, tata cicia caca, ohu ohu,
nerva rova urìca, ahi ahiahi, mala mele fima…
(pp.
416-422)
23

1 V. Consolo, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e con uno scritto di Cesare Segre, Mondadori («I Meridiani»), Milano, 2015, p. 418.
2«… faceva altri lavori più duri che da quelle parti stimavansi inferiori al compito dell’uomo» (p. 710).

La consolazione di Dante: Echi danteschi ne Il sorriso dell’ignoto marinaio

Ritratto di ignoto marinaio – Antonello Da Messina

Daragh O’Connell

E Virgilio…Ma che dico? Di echi parlavamo,1

1. “L’isola del foco”

La raccolta di saggi di Consolo del 1999 Di qua dal faro apre con un epigrafe dantesca: “E la bella Trinacria, che caliga / tra Pachino e Peloro, sopra ’l golfo / che riceve da Euro maggior briga / non per Tifeo, ma per nascente solfo” (Paradiso, VIII. 67-70). Dentro questo spazio insulare Consolo espone la propria produzione narrativa per delineare nuovi ed inesplorati territori letterari e arricchire il palinsesto che è la Sicilia, in tutte le sue manifestazioni, siano esse la “bella Trinacria” o l’altrettanto dantesca “isola del foco” (Paradiso, XIX.131). La tradizione letteraria è uno dei maggiori interessi di Consolo e, decisamente, lo è il ruolo che egli avrà in essa. L’interesse verso antenati e tradizioni letterarie è parte di ciò che contraddistingue la sua 7 particolare esperienza artistica. Avere una relazione profondamente sentita con la tradizione non implica necessariamente una subordinazione servile verso precursori e modelli. Piuttosto, nel caso di Consolo, implica un uso trasformativo e creativo della letteratura, e l’estensione dei suoi limiti: in pratica, l’accesso e la partecipazione a quella stessa tradizione. Nonostante le sue tematiche siano decisamente siciliane e dalla ricchezza della tradizione letteraria siciliana si possano estrarre grandi livelli di influenza, Consolo non ignora il contesto più ampio italiano all’interno del quale scrive. Il suo indebitamento verso Dante è altamente significativo, eppure, sorprendentemente, non è stata ancora fonte di molta discussione.2 Parte del problema risiede nella stessa scrittura di Consolo e nella vertiginosa serie di interessi presente nelle sue opere. La sua consuetudine ad arricchire i suoi testi con dialoghi intertestuali polifonici complessi rispecchia per certi versi la relazione di Dante con la sua tradizione. Occorre precisare che, nella poetica di Consolo, né Dante né qualsiasi altro autore è riconosciuto esplicitamente come modello autoriale: Dante è, nonostante questo, una delle tante “presenze” nella narrativa di Consolo. Sono echi, motivi, reminiscenze, modelli retorici, allusioni dirette, e modelli architettonici a segnalare il dantismo di Consolo. I secoli che separano le loro esperienze artistiche garantiscono lo specifico uso dialogico, e non conflittuale, delle allusioni dantesche da parte di Consolo. Per Consolo il poeta della Commedia è un deposito di lingua e di motivi, una presenza seducente in quello che George Steiner chiamava lo ‘shadow-theatre of encounters’, il teatro d’ombre di incontri3 . Come Dante, Consolo tematizza di continuo il rapporto dei propri testi con i loro precursori con delle citazioni esplicite (e a volte meno esplicite). In questo breve studio cercherò di localizzare i motivi danteschi e di cogliere alcune delle allusioni più risonanti nella narrativa di Consolo, limitando la 2 Questo saggio è basato sul mio Consolo’s ‘trista conca’: Dantean anagnorisis and echo in Il sorriso dell’ignoto marinaio, scritto in inglese e pubblicato in Echi danteschi / Dantean Echoes, a cura di R. Bertoni, Torino, Trauben, 2003, pp. 85-105. 3 G. Steiner, Grammars of Creation, Londra, Faber, 2001, p. 73. 4 C. Segre, Intrecci di voci: la polifonia nella letteratura del Novecento (Torino: Einaudi, 1991), p. 86. 5 S. A. Sanna, A colloquio con Vincenzo Consolo, “Italienisch: Zeitschrift für italienische Sprache und Literatur in Wissenschaft und Unterricht”, 17, 1987, p. 31. 6 G. Contini, Introduzione ai narratori della Scapigliatura piemontese, in Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino, Einaudi, 1979, p. 540. 7 C. Segre, op.cit., pp. 83-85. mia analisi a Il sorriso dell’ignoto marinaio per dimostrare che l’architettura e il linguaggio infernali, un’anagnorisi specificamente dantesca e l’epifania purgatoriale informano la riscrittura plurilingue della storia di Consolo nella camera d’eco che è il suo “romanzo-chiocciola”, per dirla con Segre.4 In un’intervista del 1987, in cui parlava del ruolo di Dante nelle sue opere, Consolo diceva: “credo che Dante faccia parte del nostro sangue, lo assorbiamo, in me c’è anche il gusto della citazione indiretta. Lo ripeto, l’endecasillabo e certe immagini e forme dantesche le ho dentro e mi piace citarle invisibilmente ed a volte scopertamente”.5 Esempi espliciti della presenza di Dante possono essere trovati ne L’olivo e l’olivastro (1994) e anche ne Lo Spasimo di Palermo (1998), e lì hanno la funzione della citazione diretta. Attraverso la lettura de Il sorriso dell’ignoto marinaio si vedrà come Dante è uno degli autori su cui si fonda la poetica di Consolo. 2.

“La favella di Satanasso”:
plurilinguismo e monolinguismo L’uso variegato della lingua in Consolo inevitabilmente lo pone in quella linea di “macaronici” che Contini definiva come “gli adepti delle scritture composite, [.,.] degli aristocratici per definizione”6 . Segre scrive che Consolo condivide con Gadda “la voracità linguistica, la capacità di organizzare un’orchestra di voci, il risultato espressionistico”, ma anche, seguendo Bachtin, che il plurilinguismo di Consolo dimostra “plurivocità”.7 Le scelte linguistiche di Consolo hanno anche un valore ideologico, non soltanto stilistico: Fin dal mio primo libro ho cominciato a non scrivere in italiano. Per me è stato un segnale, il simbolo di una ribellione alle norme, dell’uccisione del padre [.,.]. Ho volute creare una lingua che esprimesse una ribellione totale alla storia e ai suoi esiti. Ma non è dialetto. È l’immissione nel 8 codice linguistico nazionale di un materiale che non era registrato, è l’innesto dei vocaboli che sono stati espulsi e dimenticati.8 Le predilezioni linguistiche di Consolo sono altamente significative in quanto egli si pone in confronto diretto con il linguaggio standard dell’autorità dell’Italia moderna. Per certi versi sia lui che Dante, quindi, affrontano le rispettive autorità con trasformazioni radicali e deviazioni dalla norma attraverso forme estremamente ibride in cui la mescolanza di registri, l’uso di forme arcaiche, dialettali e scientifiche trovano facile dimora nei loro costrutti. Però è con l’uso metaforico del dialetto sicliano-lombardo – il sanfratellano – che possiamo intravedere l’intenzione ideologica di Consolo. Questo dialetto è proposto come “altro”, iscritto nel romanzo come una specie di antidoto ai codici del potere. Ma quel che mi interessa qui è la ricerca fatta da Consolo. Quando si parla di questo dialetto uno dei nomi spesso dimenticati è quello dell’erudita e poeta ottocentesco Lionardo Vigo. Vigo fu il primo linguista a cercare di classificare il parlato di queste colonie lombarde, precursore di indagini più dettagliate e professionali9 . Nel 1857 Vigo scrisse che il dialetto sanfratellano gli sembrava un “gergo inintelligibile” ed era, in fin dei conti, la “favella di Satanasso”10. Anni dopo nel 1868 ribadisce questi punti in una lettera pubblicata nel quotidiano La Sicilia: Dissi nel 1857 e ripeto inintelligibile più della favella di Satanasso il linguaggio di Piazza e vi aggiungo quello di San Fratello. […] è satanico tutto ciò che non si comprende, come il Papè Satan di Dante. Che dire poi di un linguaggio aspro di consonanti, aspirazioni e tronchi, misto allo strascio dei suoi dittonghi e trittonghi?11 Nell’arco del romanzo, Consolo conferisce dignità al dialetto e inoltre il romanzo stesso conclude con l’ultima delle “scritte” proprio in sanfratellano. Il primo incontro con questa parlata precaria è nel quarto capitolo, Val Dèmone. Mandralisca vede un prigioniero nelle segrete del castello di Maniforti e chiede informazioni su di lui. Uno dei servi gli risponde che il prigioniero è “un diavolo d’inferno, scatenato” (200), e più avanti esclama: “Ah. Sanfratellano, Dio ne scansi! Gente selvaggia, diversa, curiosa. E parlano ’na lingua stramba, forestiera” (202). Seguendo le suggestioni di Vigo nel proporre questa lingua in termini infernali, Consolo fa un’allusione alla lingua incomprensibile e bestiale della non-ragione. La configurazione di quella lingua con quella dantesca – “Pape Satàn, pape Satàn aleppe!” (Inferno, VII.1) – è molto significativa. La “voce chioccia” (Inferno, VII.2) di Plutone richiama il primo incontro che Dante-personaggio ha con la lingua dei dannati: “Diverse lingue, orribili favelle, / parole di dolore, accenti d’ira, / voci alte e fioche” (Inferno, III.25-27), e anticipa anche le emissioni illogiche dalla “fiera bocca” di Nembrot: “Raphèl maì amècche zabì almi” (Inferno, XXXI.67). Però alla fine del Sorri9 so, nonostante la sua difficoltà, al sanfratellano viene accordata una posizione privilegiata nel testo. Mandralisca scrive che è una “lingua bellissima, romanza o mediolatina, rimasta intatta per un millennio sano, incomprensibile a me, a tutti, comecché dotati d’un moderno codice volgare” (216). Sembra quasi una lingua adamica, un sopravvissuto fragile da una confusio linguarum italica. Consolo fornisce al lettore un esempio del parlato diabolico tramite la figura dell’“insano frate liconario” (222) – Frate Nunzio nel terzo capitolo Morti sacrata. La litania blasfema che declama prima di violentare e uccidere la ragazza catalettica è un esempio non solo del plurilinguismo di Consolo ma anche dell’inversione della ragione e l’abuso della lingua. La lingua, specialmente le oscillazioni tra le “orribili favelle” (Inferno, III.25), mediate tramite le “rime aspre e choicce” (Inferno, XXXII.1) e l’“angelica voce, in sua favella” (Inferno, II.57) è effettivamente la cosa che conferisce alla Commedia la sua novità formale. Il poema di Dante pluralizza la lingua, e in quello che è un cambiamento di posizione rispetto alla De vulgari eloquentia, nel Paradiso Adamo dice: La lingua ch’io parlai fu tutta spenta […] Opera naturale è ch’uom favella; ma così o così, natura lascia poi fare a voi secondo che v’abbella (Paradiso, XXVI.124-32). Ibridismo, pluralità e parodia caratterizzano l’uso non-totalizzante della lingua nel Sorriso. Questo romanzo storico-metaforico si confronta con un momento decisivo del nascente Stato italiano e mette in dubbio il monolinguismo opprimente dello stesso stato attraverso un richiamo alla pluralità delle lingue minacciate da questa fondazione. La pretesa di una lingua sola degrada e cancella le micro-storie degli emarginati e dei diseredati, quelli senza le chiavi del sistema linguistico dominante. Il desiderio, espresso da Mandralisca nel romanzo, è che “tempo verrà in cui da soli conquisteranno que’ valori, ed essi allora li chiameranno con parole nuove, vere per loro, e giocoforza anche per noi, vere perché i nomi saranno intieramente riempiti dalle cose” (217).

3. Dante nella “chiocciola”
L’ideale che un giorno i “nomi” saranno riempiti dalle cose è un sogno da linguista, non realizzabile. L’abisso fra “nomi” e “cose” era già stato annunciato nel primo capitolo in cui Mandralisca riflette che i nomi, allontanati dai loro significati originali diventano “sommamente vaghi, suoni, sogni” (129). La pochezza della lingua e l’incapacità di rappresentare in modo efficace e fedele la realtà sono temi centrali sia per Dante sia per Consolo. Dante tematizza quest’impasse nella Commedia, specialmente nell’ultima cantica in cui i limiti della lingua sono ben evidenti e la lingua stessa diventa un mezzo poco adatto per rappresentare l’esperienza del viator: “significar per verba / non si poria” (Paradiso, I.70-71); “l’essemplo / e l’essemplare non vanno d’un modo” (Paradiso, XXVIII.55-56). Nel Sorriso il problema è diverso. Mandralisca deve fungere da testimone della rivolta degli alcaresi e per raccontare gli eventi in modo fedele deve evitare qualsiasi forma di imposture. Scrive: 10 Oh descriver potrò mai quel teatro, la spaventosa scena paratasi davanti su per la strade, i piani di quel borgo? Il genio mi ci vorrìa dell’Alighieri, dell’Astigian la foga, del Foscolo o del Byron la vena, dell’anglo tragediante, dell’angelo britanno il foco o la fiammiante daga che scioglie d’in sul becco delle penne le chine raggelate per l’orrore, o del D’Azeglio o Vittor Hugo o del Guerrazzi almen la prosa larga… Di me, lasso!, che natura di fame, di fralezza e di baragli ha corredato, v’appagate? (223) Questa formulazione retorica contorta, al di là dell’appello al “genio” di Dante, indica e parodizza la natura offuscante della rappresentazione linguistica e l’inevitabile finzione dell’atto di scrittura. I limiti del linguaggio e il rischio dei suoi effetti distorsivi, sia attraverso l’abuso rappresentativo che la celebrazione letteraria, sono centrali nelle preoccupazioni del poema e del romanzo. Se consideriamo la seguente concezione retorica di Dante, emerge il suono di un’eco lontana. Chi poria mai pur con parole sciolte dicer del sangue e de le piaghe a pieno ch’i’ ora vidi, per narrar più volte? Ogne lingua per certo verria meno per lo nostro sermone e per la mente c’hanno a tanto comprender poco seno. (Inferno, XXVIII.1-6) Così come il protagonista di Consolo invoca ed elenca i nomi dei letterari del passato per evidenziare la propria incapacità di descrivere fedelmente le scene, così anche Dante invoca battaglie storiche significative per rendere l’idea del vasto numero di sofferenze dei dannati insanguinati di cui è testimone nella nona bolgia. Dante elenca queste battaglie e conclude il passo affermando: “e quel forato suo membro e qual mosso / mostrasse, d’aequar sarebbe nulla / il modo de la nona bolgia sozzo” (Inferno, XXVIII.19-21). L’invocazione al nome di Dante arriva in un momento significativo del testo. Consolo, utilizzando una forma molto stilizzata che comporta una complessa fusione tra una specie di via crucis e i prestiti ekfrastici da Los desastres de la guerra di 12 James Joyce, Finnegans Wake, Londra, Pengiun, 1992, p. 183. Goya, si accinge a descrivere le immagini e i suoni delle conseguenze della rivolta, e alcune allusioni dantesche vengono alla luce. In uno scenario prettamente infernale leggiamo: “D’ogni cosa, strazio: nebbia cenere terra vento e fumo” (224). Ulteriori reminiscenze dantesche vengono enumerate nella visione terribile dei cadaveri per terra circondati dagli avvoltoi: “Le ali aperte per tre metri e passa, stese le zampe con gli artigli curvi, grasso, enorme piomba a perpendicolo dall’alto come calasse dritto dall’empireo” (225). In un’altra particolare visione cifra dantesca diventa più marcata: Ma giungea fraditanto una carretta tirata da uno scheletro di mulo come quello famelico in galoppo sopra le teste di papi e principi e madame al palazzo Sclàfani in Palermo. Un carrettiere estrano con casacca rossa, all’impiedi sopra il legno, strappando redini e frustando, sguaiato vociava: ‘Uuh, uuh, broeuta bestia, marouchì poa te! (226-227) La narrazione di Consolo riverbera di echi danteschi per sostenere la visione infernale degli eventi. Il “carettiere estrano […] sopra il legno” certamente richiama il Caronte di Dante, e, più specificamente, Flegiàs dell’ottavo canto. Quel nocchiero arriva su “una nave piccioletta”, descritto poi come “legno”, per trasportare Dante e Virgilio sulla “morta gora”, mentre grida “Or se’ giunta, anima fella!” (Inferno, VIII.15-31). Poco più avanti nel romanzo Consolo scrive: “E in così dire riprese il suo fatale andare” (230) L’allusione è alle parole di Virgilio a Minosse: “Non impedir lo suo fatale andare” (Inferno, V.22). Questa forma di intertestualità ricorda una definizione coniata da Joyce nel Finneganz Wake: “quashed quotatoes”12, una sorta di tecnica di innesto in cui elementi del testo precursore si innestano sul nuovo, in quella che è sia una forma aperta di citazione che una forma di figurazione nascosta. Il capitolo VIII, Il carcere, fornisce al lettore il simbolo più complesso ed enigmatico di Consolo, la “chiocciola”. I rivoltosi sono incarcerati nella prigione che ha forma di chiocciola mentre aspettano le loro sentenze. Questa prigione sotterranea ha la 11 “forma precisa d’una chiocciola” (233) ed è descritta come un “segreto fosso” (232), e un “falso labirinto, con inizio e fine, chiara la bocca e scuro il fondo chiuso” (235). Tutto il castello è conforme alla forma a spirale discendente di un guscio di lumaca: Il fatto è che quel castello […] non possiede scale o scaloni in verticale, linee ritte, spigoli, angoli o quadrati, tutto si svolge in cerchio, in volute, in seni e avvolgimenti, scale saloni torri terrazzini corte magazzini. E la fantasia più fantastica di tutte si trova dispiegata in quel catojo profondo, ipogeo, sènia, imbuto torto, solfara a giravolta, che fa quasi da specchio, da faccia arrovesciata del corpo principale del castello sotto cui si spiega, il carcere: immensa chiocciola con la bocca in alto e l’apice in fondo, nel bujo e putridume”. (235) Questa prigione piranesiana presenta molte somiglianze con la concezione architettonica e la figurazione dello spazio dell’Inferno dantesco. Prima di descrivere il carcere, Consolo cita un passo dalla Ricreatione dell’Occhio e della Mente nell’Osservatione delle Chiocciole di Buonanni come se fosse “[…] una lapide murata sull’ingresso” (233), nello stesso modo in cui il Dante legge l’iscrizione sopra il portico dell’Inferno nel terzo canto (Inferno, III.1-9). La forma dell’Inferno di Dante è variamente descritta come “carcere cieco” (Purgatorio, XXII.103), “dolente ripa” (Inferno, VII.17), “cerchio tetro” (Inferno, VII. 31), e “tristo buco” (Inferno, XXXII.2). Un’ulteriore descrizione del carcere in Consolo ci viene dal giovane sanfratellano Michele Fano: “si trasi rintra ri / stu puzzu tortu / sappi comu chi fu / e statti mutu” (250). Questo “puzzu tortu” ha le sue equivalenti del poema dantesco. Infatti, “pozzo” è uno dei termini preferiti di Dante per rendere la nozione dello spazio infernale: “e son nel pozzo intorno da la ripa” (Inferno, XXXI.32); “così la proda che ‘l pozzo circonda” (Inferno, XXXI.42); “come noi fummo giù nel pozzo scuro” (Inferno, XXXII.16]; “vaneggia un pozzo assai largo e profondo” (Inferno, XVIII.5); “del bassissimo pozzo tutta pende” (Inferno, XXIV.38]. Il movimento attraverso questo spazio ristretto è altrettanto importante, la discesa a spirale è una delle caratteristiche più marcate della prima cantica di Dante. Virgilio spiega a Dante: “Tu sai che ‘l loco è tondo; / e tutto che tu sie venuto molto, / pur a sinistra, giù calando a fondo” (Inferno, XIV.124-126). Spessi durante il viaggio dei poeti viene annunciata la traiettoria a spirale: la rotazione e la discesa di Gerione (“rota e discende”; Inferno, XVII.116), e “lo scendere e ‘l girar per li gran mali” (Inferno, VII.125) sono particolarmente espliciti a questo proposito. In termini simili, e con un’esattezza di movimento, nel romanzo di Consolo leggiamo: “Prendemmo a camminare in giro declinando” (236). Una delle più significative descrizioni metaforiche dell’inferno di Dante, però, si collega direttamente al testo di Consolo sia nella forma che nella sostanza: troviamo Virgilio e Dante davanti alla città di Dite, Dante-personaggio chiede alla sua guida: “In questo fondo de la trista conca / discende mai alcun del primo grado, / che sol per pena ha la speranza cionca?” (Inferno, IX.16-18). La “trista conca” di Dante prefigura il “puzzu tortu” e fornisce a Consolo un modello architettonico per il suo contorto spazio colloidale di sofferenza e dolore. 4.

Anagnorisis/Agnitio
Gran parte della critica consoliana si è concentrata sui capitoli finali del Sorriso, ma poca attenzione è stata dedicata al capitolo iniziale, nonostante la sua peculiarità: esso è carico di sommersi paralleli danteschi, e in particolare sembra essere una rielaborazione e rifacimento di una agnitio specificamente dantesca. È in questo capitolo che il protagonista di Consolo, sulla falsariga dantesca, inizia un viaggio verso la conoscenza di sé: parte da una posizione di ignoranza, causata dalla sua classe sociale e dalla sua chiusura negli studi eruditi, e nel corso della narrazione arriva a una posizione di conoscenza 12 di sé e di riconoscimento della complessità della verità. Apparentemente, l’alba dei passaggi iniziali indica l’alba di una coscienza politica che si risveglia, l’alba del cambiamento, rappresentato dal Risorgimento. Questa fragile luce, tuttavia, rispecchia anche l’incertezza e l’ambiguità della confusa identità e visione del mondo di Mandralisca. Le difficoltà in questo processo verso l’autocoscienza, ma anche i miglioramenti in quella direzione, sono indicate dall’impiego di termini legati alla vista e alla visione. La visione è la componente primaria della conoscenza, o meglio dell’autocoscienza. Il primo verbo del romanzo – “si scorgeva” – dà un’idea di vista, ma la visione del protagonista è resa instabile da verbi come “languivano” e “riapparivano”. Ciò che vede non è chiaro: “Alla fioca luce della lanterna, il Mandralisca scorse un luccichio bianco che forse poteva essere di occhi” (128). La materializzazione degli occhi (organi di senso) è indicativa di una tendenza alla vista intesa metaforicamente come conoscenza di sé. Il “chiarore grande” della nuova giornata illumina pianamente la scena, e le luci distanti delle torri “impallidirono”, mentre le luci fragili delle stelle “svanirono”. Questa trasformazione naturale, tuttavia, ha poco effetto su Mandralisca, in quanto la luce maggiore è servita solo ad aumentare la sua cecità morale. La capacità del protagonista di vedere, di identificare chiaramente, e l’inganno dei suoi sensi ricordano di per sé il pellegrino di Dante nell’Inferno: Quiv’ era men che notte e men che giorno, sì che ‘l viso m’andava innanzi poco; ma io senti’ sonare un alto corno, tanto ch’avrebbe ogne tuon fatto fioco, che, contra sé la sua via seguitando, drizzò li occhi miei tutti ad un loco. […] Poco portäi in là volta la testa, che me parve veder molte alte torri; ond’io: ‘Maestro, dì, che terra è questa?’. Ed elli a me: ‘Però che tu trascorri per le tenebre troppo da la lungi, avvien che poi nel maginare abborri. Tu vedrai ben, se tu là ti congiungi, quanto ‘l senso s’inganna di lontano; però alquanto più te stesso pungi (Inferno, XXXI. 10-27) Questo “’l senso s’inganna di lontano” è in parte quello che succede a Mandralisca attraverso il senso dell’udito. Nei paragrafi iniziali de Il sorriso, la sua aura di visione difettosa è in parte compensata da un appello al senso “netto” dell’udito: “fragore d’acque, cigolii, vele sferzate e un rantolo che si avvicinava e allontanava a seconda del vento. E ora che il bastimento avanzava, […] udiva netto il rantolo, lungo e uguale, sorgere dal buio, dietro le sue spalle” (128). Tuttavia, scopriamo che, come la vista, anche l’udito è difettoso. I suoni sono percepiti male da lontano, sono distorti dell’immaginazione, e questo diventa chiaro quando più avanti nel brano Mandralisca si rende conto che “il rantolo s’era cangiato in tosse”. Questa mutazione dall’incertezza della percezione a una migliore definizione è facilitata da una migliore percezione visiva dovuta all’aumento della luce con l’espandersi dell’alba. È precisamente a questo punto che il verbo “vedere” è usato per la prima volta: “Il Mandralisca vide allora, al chiarore livido dell’alba, un uomo nudo, scuro e asciutto come un ulivo” (129). Il “chiarore livido” rivela un uomo nudo, un cavatore di pomice venuto da Lipari per andare alla Madonna Nera a Tindari. Nonostante questo chiarimento, l’inganno sensoriale sembra essere ancora l’aspetto dominante di questo passaggio. Importante per il tema trattato è la funzione di Interdonato ne Il sorriso e il confronto che si può istituire con la funzione di Virgilio nella Commedia. Nell’Inferno (come è evidente dal passaggio citato sopra), la visione confusa e legata ai 13 sensi di Dante ha bisogno di essere corretta da Virgilio. Allo stesso modo, nella narrazione di Consolo, la visione difettosa di Mandralisca richiede una guida “correttiva”, Interdonato. La descrizione di Interdonato sembra alludere a questo poiché introduce la metafora chiave del romanzo, quella del il sorriso: “Un sorriso ironico, pungente e nello stesso tempo amaro, di uno che molto sa e molto ha visto, sa del presente e intuisce del futuro; di uno che si difende dal dolore della conoscenza e da un moto continuo di pietà” (129). La reazione di Mandralisca al sorriso inquietante del marinaio camuffato è di curiosità sconcertata, e sotto “lo sguardo dell’uomo, acuto e scrutatore” (130) la sua mente torna alla sorte del cavatore malato: così Interdonato svolge subito la funzione di dirigere la coscienza di Mandralisca. Tuttavia, il pensiero di Mandralisca non è in grado, in questa fase iniziale, di scandagliare tali realtà sociali e si ritira nei propri studi eruditi. Quello che segue è uno dei paragrafi più sorprendenti di tutto il primo capitolo sia per la sua importanza semantica che per la sua brevità; infatti contiene una sola frase: “Il marinaio lesse, e sorrise, con ironica commiserazione” (131). “Lesse” intende dire che Interdonato legge la mente di Mandralisca, e questo ricorda una capacità simile nel Virgilio di Dante, come dice il viator a Virgilio: “sai quel che si tace” (Inferno, XIX.39). Prima, il pellegrino pensa tra sé e sé: ‘E’ pur convien che novità risponda’, dicea fra me medesmo, ‘al novo cenno che ‘l maestro con l’occhio sì seconda’. Ahi quanto cauti li uomini esser dienno presso a color che non veggion pur l’ovra, ma per entro i pensier miran col senno! (Inferno, XVI.115-120). Come figura dantesca della ragione umana, la capacità di Virgilio di leggere e anticipare i pensieri del pellegrino fa parte della sua funzione di guida. Nonostante il riconoscimento dantesco di Interdonato a Mandralisca come suo allievo, Interdonato stesso non è riconosciuto da Mandralisca come sua guida virgiliana. Tuttavia, è anche in questo senso che Consolo sembra mettere in atto una forma specificamente dantesca di agnizione. L’anagnorisis, o agnizione, è il termine usato per descrivere un momento di riconoscimento quando l’ignoranza lascia il posto alla conoscenza. Il mancato riconoscimento è una delle caratteristiche principali del viaggio di Dante-personaggio verso la conoscenza di sé. Le famose parole di Ciaccio “riconoscimi, se sai: / tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto” (Inferno, VI. 41-42) si incontrano con “L’angoscia che tu hai / forse ti tira fuor de la mia mente, / sì che non par ch’i’ ti vedessi mai” (Inferno, VI. 43-45). Man mano che il pellegrino, sotto la tutela di Virgilio, procede nel suo viaggio, la sua capacità di riconoscere aumenta notevolmente, come quando incontra Venedico Caccianemico. Nel Purgatorio, al contrario, il riconoscimento è ardentemente desiderato, e gli atti intellettivi concomitanti di guardare e sorridere abbondano all’interno della cantica. Forse la scena di riconoscimento più famosa della Commedia è quella tra Virgilio, Stazio e Dante. Qui il sorriso induce l’anagnorisis: Io pur sorrisi come l’uom ch’ammicca; per che l’ombra si tacque, e riguardommi ne li occhi ove ’l sembiante più si ficca; e ‘Se tanto labore in bene assommi’, disse, ‘perché la tua faccia testeso un lampeggiar di riso dimostrommi?’ (Purgatorio, XXI. 109-114) Il “lampeggiar di riso” (anagnorisis) di Consolo è ritardato e trattenuto. È solo quando Mandralisca svela il ritratto ai suoi ospiti alla fine del primo capitolo che si rende conto della somiglianza tra il ritratto e il marinaio, e così inizia la sua rivelazione, il suo viaggio nella conoscenza. Nel secondo capitolo Mandralisca incontra ancora una volta Interdonato e il riconoscimento è ulteriormente approfondito. Qui, è l’impiego del verbo “ritrattare” e il suo legame con “ritratto” che fa partire in Mandralisca una concatenazione di avvistamenti, ricordi e parallelismi. ‘Ma voi, ma voi…’ cominciò a fare il Mandralisca, sgranando gli occhi dietro le lunette del pince-nez, spostandoli meravigliato dal volto dell’Interdonato a quello, sopra, dell’ignoto d’Antonello. Quelle due facce, la viva e la dipinta, erano identiche: la stessa coloritura oliva della pelle, gli stessi occhi acuti e scrutatori, lo stesso naso terminante a punta e, soprattutto, lo stesso sorriso, ironico e pungente. (160-161) 14 La vera anagnorisi nel romanzo avverrà solo attraverso il riconoscimento del significato del ritratto, non della somiglianza di un individuo con esso. La visione così raggiunta coincide per Consolo con la consapevolezza esistenziale, la coscienza politica e l’allerta morale. Come il suo predecessore dantesco, Mandralisca alla fine del viaggio testimonierà, racconterà, anzi addirittura supererà la guida di Interdonato, e racconterà la sua esperienza da un punto di vista più profondo.

5. Risus / subrisus – verso l’epifania
Il testo di Consolo offre un’altra allusione interessante in questi momenti iniziali. Interdonato presenta una suggestiva somiglianza con un altro personaggio di Dante: Manfredi. Nell’antipurgatorio Dante è testimone di uno degli incontri più notevoli della letteratura mondiale: E un di loro incominciò: ‘Chiunque tu se’, così andando, volgi ‘l viso: pon mente se di là mi vedesti unque’. Io mi volsi ver’ lui e guardail fiso: biondo era e bello e di gentile aspetto, ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso. 13 Bruno Nardi, Il canto di Manfredi (Purgatorio, III), in ‘Lecturae’ e altri studi danteschi, Firenze, Le Lettere, 1990, p. 97. Quand’ io mi fui umilmente disdetto d’averlo visto mai, el disse: ‘Or vedi’; e mostrommi una piaga a somma ‘l petto. Poi sorridendo disse: ‘Io son Manfredi, nepote di Costanza imperadrice; ond’io ti priego che, quando tu riedi, vadi a mia bella figlia, genitrice de l’onor di Cicilia e d’Aragona, e dichi ‘l ver a lei, s’altro si dice (Purgatorio, III. 103-117). Ciò che è interessante qui è la descrizione fisica di Manfredi da parte di Dante. La maggior parte dei critici si è giustamente concentrata sui possibili significati metaforici delle “piaghe” di Manfredi. Nardi afferma che ciascuna di esse è un “tragico segno di valore” 13, mentre altri attribuiscono le piaghe all’impium foedus di Manfredi. Il dramma particolare di questo episodio, però, si riferisce al testo di Consolo in un certo numero di punti significativi. In primo luogo, Dante inizialmente sente e poi gli viene detto di girarsi e affrontare l’ombra parlante. Viene quindi data una descrizione fisica che rivela l’ideale imperiale incarnato in Manfredi, “biondo era e bello e di gentile aspetto”, che viene poi minato dal “ma” avversativo per introdurre il “colpo” sconcertante. Dante-personaggio afferma che non riesce a ricono15 scere l’ombra e così l’ombra mostra l’altro suo segno distintivo, la “piaga”, e “sorridendo” si rivela essere Manfredi. Manfredi non si rivela dichiarando i nomi dei suoi genitori, ma piuttosto attraverso sua nonna Costanza. Questo rifiuto di nominare suo padre, Federico II, ha portato Freccero a commentare che il corpo che Dante descrive è chiaramente un corpo fittizio “che porta ferite simboliche, segni diacritici tagliati sul volto del padre” 14. Questa lettura suggerisce che le ferite sono anche gli sfregi della storia controbilanciati dal sorriso. La lettura di Freccero sostiene che le ferite, oltre ad essere un segno opaco, sono contigue alla scrittura, in quanto entrambe partecipano alla deturpazione come atto di significazione. Anche Consolo deturpa, anche lui significa attraverso lo sfregio. Nella prima descrizione di Interdonato leggiamo che due “pieghe gli solcavano il viso duro” (129). Queste “pieghe” sono legate metaforicamente alle “piaghe” dantesche, non solo si dice che il volto di Interdonato assomigli in modo inquietante a quello del ritratto attraverso l’atto intellettivo del sorriso, ma anche che il ritratto stesso ha le sue “piaghe”, i suoi tagli diacritici parricidi che le pieghe di Interdonato suggeriscono sottilmente. Nell’antefatto leggiamo che il ritratto “risulta un poco stroppiato per due graffi a croce proprio sul pizzo delle labbra sorridenti del personaggio effigiato”. La figura che sfregia il ritratto è Catena Carnevale, la quale “gli inferse due colpi col punteruolo d’agave che teneva per i buchi sul lino teso del telaio da ricamo” (127). Il termine “colpi” ripete il “colpo” di Dante. L’atto dello sfregio di Catena è, in realtà, un atto creativo di significazione. Sfigura il ritratto perché il suo sorriso è insopportabile, ma è solo verso la conclusione del romanzo che si intravede un vero senso dell’atto apparentemente distruttivo di Catena. Mandralisca non è più l’allievo di Interdonato, semmai i ruoli si sono invertiti, e dopo aver assistito ai fatti di Alcara Li Fusi scrive da una posizione di conoscenza. Il ritratto di Antonello è stato posto a significare qualcosa di quasi perfetto, irraggiungibile, delicatamente equilibrato. Il rischio che possa mutare è segnalato nel primo capitolo: se non fosse stato per l’equilibrio del sorriso “quel volto sarebbe 14 . caduto nella distensione pesante della serietà e della cupezza, sull’orlo dell’astratta assenza per dolore”, o diversamente “si sarebbe scomposto, deformato nella risata aperta, sarcastica, impietosa o nella meccanica liberatrice risata comune a tutti gli uomini” (144). Alla fine del romanzo Mandralisca capisce vero significato del sorriso, e lo fa assistendo alla mutazione del “sorriso” in “riso” attraverso la luce tremolante della candela. Mandralisca afferma che “il riso dell’Ignoto, a me davanti, al tremolio del lume, da lieve e ironico mi parve si svolgesse in greve, sardonico, maligno” (221). Apprendendo improvvisamente gli aspetti negativi del sorriso, Mandralisca è finalmente in grado di interrogare i portatori del sorriso, incluso sé stesso, e di capire intuitivamente perché Catena ha sfregiato il ritratto: Ho capito perché la vostra fidanzata, Catena Carnevale, l’ha sfregiato, proprio sul labbro appena steso in quel sorriso lieve, ma pungente, ironico, fiore d’intelligenza e sapienza, di ragione, ma nel contempo fiore di distacco, lontananza, […] d’aristocrazia, dovuta a nascita, a ricchezza, a cultura o al potere che viene da una carica… Ho capito: lumaca, lumaca è anche quel sorriso! (219) Questo momento di epifania segnala la coscienza risvegliata del protagonista di Consolo. Il sorriso, al di là del suo appello alla ragione e all’ironia, al di là dell’etico e dell’intellettuale, è anche il sorriso di classe che si autoalimenta e si autoperpetua. La storia documentata è scritta dalla prospettiva dei privilegiati. In definitiva, è il sorriso che sorride al sorriso, un subrisus purus curiosamente beckettiano, chiuso e impassibile di fronte alle proprie responsabilità, alla propria incapacità di riconoscersi nei sorrisi compiaciuti degli altri.15 Consolo scrive: Ha un altro significato ancora quel ritratto, che molto bene ha colto Sciascia: ‘Questo sfregio è la storia di un parricidio’ ha detto, referendosi allo sfregio che il ritratto ha sulle labbra. Lo sfregio è fatto da un personaggio che muove tutto 16 il racconto, tutta l’azione. La ragazza, un’intellettuale, […] sfregia l’uomo del ritratto al quale perfettamente somiglia il fidanzato. Il gioco delle somiglianze, circolare e chiuso, col ritratto vuol dire che dalla ragione si può uscire dall’alto con il disordine e il furore della fantasia creatrice.16 6. Testi e tessili Tra le metafore che sono state utilizzate per designare l’attività linguistica, la tessitura occupa un posto di primaria importanza. Gorni scrive che “la metafora di testo, poetico o in prosa, principio istituzionale della nostra cultura scritta, […] è da considerare una gloriosa ex metafora”.17 Sia come sia, l’iscrizione di questa metafora nell’attività della scrittura è molto rilevante per Consolo e ha dei paralleli danteschi. Catena Carnevale rappresenta la forza creativa femminile che agisce come antidoto alla “ragione” maschile, simboleggiata dal ritratto. Il suo atto dello “sfregio” è infatti un atto di iscrizione sul palinsesto che è la mappa letteraria siciliana. La radice della parola scripta, come in manoscritto, è skeri, tagliare, separare, setacciare. Il verbo latino scribere significava incidere, scrivere. Lo sfregio di Catena è in realtà lo sfregio di Consolo. Ma Catena è anche intimamente legata all’idea di tessitura attraverso il ricamo. Il suo fidanzato Interdonato allude più direttamente alla relazione tra la sua attività tessile e quella della scrittura quando afferma che “quanto al ricamo poi, dice che le serve per rilassare la nervosità e tirare al contempo il succo delle parole lette” (165). La binomia Consolo/Catena è stata effettivamente suggerita nell’antefatto. La fretta dello speziale nel vendere il ritratto a Mandralisca deriva dal suo desiderio di vedere sua figlia “serena dietro il banco a ricamare, decifrare le ricette per cui aveva disposizione speciale (completava a batter d’occhio iniziali, dipanava rabeschi girigogoli svolazzi, smorfiava linee puntini sospensivi…)” (127). Il verbo “decifrare” segnala la metafora e la descrizione delle sue capacità allude allo stile di scrittura unico di Consolo. Ma è con la descrizione della “tovaglia di seta ricamata” raffigurante l’Italia che emerge una vera nozione di metapoetica consoliana: Aveva, sì, tutt’attorno una bordura di sfilato, ma il ricamo al centro era una mescolanza dei punti più disparati: il punto erba si mischiava col punto in croce, questo scivolava nel punto ombra e diradava fino al punto scritto. E i colori! Dalle tinte più tenue e sfumate, si passava d’improvviso ai verdi accesi e ai rossi sfacciati. Sembrava, quella tovaglia […] ricamata da una invasa dalla furia, che con intenzione ha trascurato regole numeri misure e armonia, fino a sembrare forse che la ragione le fosse andata a spasso. (167-168) È Consolo che si autolegge e si posiziona all’interno della narrazione attraverso una metafora tessile, con Catena come suo doppio testuale, liminale 17 e riconoscibile per la sua assenza dalla narrazione vera e propria. La descrizione mette in atto le procedure specificamente consoliane dell’innesto di intertesti sui propri, selezionando e affiancando lingue e dialetti diversi e spesso stridenti, e fondendo forme metriche nella sua prosa narrativa. L’uso che Dante fa della metafora è sia conservativo che radicale. Cacciaguida è descritto come “tacendo, si mostrò spedita / l’anima santa di metter la trama / in quella tela ch’io le porsi ordita” (Paradiso, XVII. 100-02). Tuttavia, è con la “sozza imagine di froda”, Gerione (Inferno, XVII. 7), il “ver ch’ha faccia di menzogna” (Inferno, XVI. 124) che l’accoppiamento tessile/testuale, attraverso le metafore nautiche, può essere interpretato per diventare il testo stesso. La descrizione fisica di Gerione è qui significativa: lo dosso e ‘l petto e ambedue le coste dipinti avea di nodi e di rotelle. Con più color, sommesse e sovraposte non fer mai drappi Tartari né Turchi, né fuor tai tele per Aragne imposte (Inferno, XVII.14-18) Ferrucci scrive che Gerione non rappresenta solo la frode quale categoria morale, ma anche come categoria estetica, ed è anche “la personificazione della menzogna poetica”.18 La fusione di metafore nautiche e aeronautiche per rendere il movimento prefigura certamente l’ulissiaco “de’ remi facemmo ali al folle volo” (Inferno, XXVI, 125), e suggerisce il viaggio poetico di Dante e il testo stesso. La descrizione di Gerione è un emblema della testualità, intimamente legata al tema del viaggio e dei rischi concomitanti della sua stessa impresa, incarnata nel “folle volo” di Ulisse. Tale auto-figurazione metapoetica nella Commedia è messa in atto attraverso il ripetuto ricorso alla metafora nautica di Dante per il poema: “Per correr miglior acque alza le vele / omai la navicella del mio ingegno, / che lascia dietro a sé mar sì crudele” (Purgatorio, I. 1-3). Il romanzo di Consolo inizia riguardando un mare altrettanto crudele, pieno di pericoli. I “verdi accesi” e i “rossi sfacciati” della tela ricamata di Catena richiamano i colori dei fani nella seconda fra18 F. Ferrucci, Il poema del desiderio, Milano, Leonardo, 1990, p. 99. se del romanzo: “I fani sulle torri della costa erano rossi e verdi” (129), e stanno quindi per il testo. I momenti esordiali del testo di Consolo contengono altri momenti danteschi. La stessa visione difettosa del protagonista è circoscritta dalla “fioca luce” della lanterna, ricordando il “fioco lume” (Inferno, III. 75) della visione di Dante e prefigurando l’arrivo della versione di Consolo di “chi per lungo silenzio parea fioco” (Inferno, I. 163). Ogni dubbio su questi echi danteschi è dissipato dal volo di Mandralisca nel regno pseudo-storico-fantastico. Qui l’elencazione dei toponimi fa sì che la mente del personaggio salti indietro nei secoli dove “Al castello de’ Lancia, sul verone, madonna Bianca sta nauseata. Sospira e sputa, guata l’orizzonte. Il vento di Soave la contorce. Federico confida al suo falcone” (128). Il passaggio si riferisce enigmaticamente all’imperatore Federico II e alla signora Bianca Lancia di Monserrato, i genitori di Manfredi. Il “vento di soave” è la più eclatante delle allusioni a Dante innestate da Consolo: “Quest’è la luce de la gran Costanza / che del secondo vento di soave / generò ‘l terzo e l’ultima possanza” (Paradiso, III.118-20). Inoltre, l’uso della forma arcaica “guata” ricorda certamente la prima similitudine della Commedia: E come quei che con lena affannata, uscito fuor del pelago a la riva, si volge a l’acqua perigliosa e guata, così l’animo mio, ch’ancor fuggiva, si volse a retro a rimirar lo passo che non lasciò già mai persona viva (Inferno, I. 22-27) Il dantismo di Consolo, quindi, mostra allusioni incorporate e citazioni aperte; Dante è una presenza sommersa e uno strumento significativo nella figurazione della sua narrazione. Questo “romanzo chiocciola” riverbera echi e motivi lontani. In definitiva, la presenza di Dante nella narrazione di Consolo è quella “voce di mare” che riemerge “dal profondo”, e “eco di eco che moltiplicandosi nel cammino tortuoso e ascendente per la bocca si sperdea sulla terra e per l’aere della corte, come la voce creduta prigioniera nelle chiocciole” (236).

Giugno 2022 Editora Comunità Rio de Janeiro – Brasil

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1 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, in V. Consolo, L’opera completa, a cura di G. Turchetta, Milano, Mondadori, 2015, p. 236. Tutte le citazioni delle opere di Consolo sono tratte da quest’edizione. 8 M. Sinibaldi, La lingua ritrovata: Vincenzo Consolo, “Leggere”, 2, 1988, pp. 12. 9 Indubbiamente, Consolo consultò inoltre L. Vasi, Delle origini e vicende di San Fratello, in “Archivio Storico Siciliano”, Nuova serie, VI, 1881, pp. 239-331; B. Rubino, Folklore di San Fratello, Palermo, Libreria Inter A, Reber, 1914; F. Piazza, Le colonie e i dialetti lombardo-siculi: Saggio di studi neolatini Catania, Vincenzo Giannotta, 1921. 10 L. Vigo, Canti popolari siciliani, raccolti e illustrati, Catania, Tip. Accademia Gioenia di G. Galatola, 1857, p. 55. 11 L’enfasi nell’originale. L. Vigo, Sui canti Lombardi – Al Cav. Giovenale Vegezzi Ruscalla, “La Sicilia”, Aprile, 1868. Ristampato in L. Vigo, Raccolta amplissima di canti popolari siciliani (Ristampa anastatica dell’edizione di Catania, 1870-74), Bari, Arnaldo Formi, 1974, p. 126.
John Freccero, The Poetics of Conversion, p. 199. 15 Samuel Beckett, Watt, Londra, John Calder, 1963, p. 47 16 V. Consolo, Fuga dall’Etna: La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Roma, Donzelli, 1993, p. 58. 17 G. Gorni, La metafora del testo, in “Strumenti critici”, 38: 1979, pp. 18-32 (p. 18). Si veda inoltre P. Zumthor, Testo e testura: l’interpretazione delle poesie medievali, in “Strumenti critici”, 7: 1968, pp. 349-63.