Vincenzo Consolo, lo scrittore che ha dato voce alla Sicilia contro le ingiustizie

Vincenzo Consolo è stato un autore profondamente legato alla sua terra, capace di raccontare la Sicilia con uno sguardo critico.

Vincenzo Consolo

Oggi, 18 febbraio 2025, ricorre l’anniversario della nascita di Vincenzo Consolo, una delle voci più originali della letteratura italiana del Novecento. Nato nel 1933 a Sant’Agata Militello, in provincia di Messina, ha legato indissolubilmente la sua scrittura alla Sicilia, trasformandola in una dimensione narrativa capace di travalicare il semplice scenario geografico per diventare simbolo di una condizione esistenziale e storica. La sua rappresentazione dell’Isola, lontana da stereotipi folkloristici, offre una chiave di lettura complessa e stratificata della realtà.

Chi era lo scrittore siciliano Vincenzo Consolo

Sesto di otto figli, Vincenzo Consolo è cresciuto in un ambiente familiare segnato da un’etica rigorosa, trasmessa soprattutto dal padre, Calogero. Proprietario della ditta “Fratelli Consolo Cereali”, l’uomo si oppose alla crescente influenza della mafia nel dopoguerra, difendendo la libertà economica e sociale della sua comunità. Questo senso di giustizia e responsabilità civile si riflette profondamente nelle opere dello scrittore, che ha sempre mantenuto un atteggiamento critico verso le distorsioni del potere e le ingiustizie sociali.

Due modi diversi dunque di contrastare le ingiustizie: da un lato quello imprenditoriale, dall’altro quello umanistico. L’infanzia di Vincenzo Consolo fu segnata infatti dalla scoperta della letteratura, inizialmente attraverso la piccola biblioteca di un cugino del padre. I libri di ManzoniBalzac e dei grandi romanzieri russi alimentarono la sua passione per la narrazione e per il racconto delle trasformazioni storiche e sociali.

Vincenzo Consolo foto fondazione Mondadori filigrana - Be Sicily Mag
Vincenzo Consolo nel 1976 a Milano, foto Giovanna Borgese

L’esordio letterario e il legame con la terra natale

Il primo romanzo di Vincenzo ConsoloLa ferita dell’aprile, pubblicato nel 1963, è dedicato alla memoria del padre e rappresenta il punto di partenza di un lungo percorso letterario in cui la Sicilia assume un ruolo centrale. Il libro racconta la transizione dall’infanzia all’età adulta attraverso gli occhi del protagonista. Già in quest’opera emerge una visione ambivalente della sua terra: da un lato luogo di radici profonde, dall’altro teatro di contraddizioni e ingiustizie.

La sua scrittura, sin dalle prime pagine, si caratterizza per una forte sperimentazione linguistica e per la ricerca di una prosa densa e stratificata, in cui il dialetto siciliano si intreccia con l’italiano letterario in un gioco di rimandi e richiami culturali. Questo stile unico, che lo distingue come uno degli autori più originali della sua generazione, lo avvicina inoltre a Leonardo Sciascia, maestro dell’ibridismo tra saggistica e narrativa, di cui era grande amico.

La Sicilia come protagonista letteraria

Nelle opere di Vincenzo Consolo, la Sicilia non è solo uno sfondo, ma un vero e proprio personaggio. La sua narrazione si intreccia con la storia dell’Isola, in un continuo confronto tra passato e presente, tra memoria e disillusione. I suoi romanzi raccontano il destino di una terra che si trova costantemente al centro di trasformazioni epocali, spesso vissute con un senso di perdita e di lutto.

Vincenzo Consolo

Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976), considerato il suo più grande capolavoro, l’autore rievoca le rivolte popolari in Sicilia durante il Risorgimento, offrendo un affresco storico che mette in discussione il mito dell’unificazione nazionale. L’opera, ispirata alla tradizione del romanzo storico di Manzoni e De Roberto, ma rivisitato in chiave modernista, rappresenta una riflessione profonda sulle dinamiche del potere e sulle illusioni della storia.

Con Le pietre di Pantalica (1988), Consolo si allontana invece dalla struttura tradizionale del romanzo per offrire una raccolta di racconti che esplorano il paesaggio siciliano come un archivio di memorie e sofferenze. Qui, la Sicilia diventa metafora di una storia collettiva, in cui si intrecciano voci dimenticate e storie di emarginazione. In Nottetempo, casa per casa (1992), poi, l’autore affronta il tema del fascismo in Sicilia, narrando la disillusione e la violenza di un’epoca che ha lasciato segni profondi nella memoria collettiva.

Il viaggio e la perdita delle radici al centro delle opere di Vincenzo Consolo

Uno dei temi centrali dell’opera di Vincenzo Consolo è il viaggio, inteso non solo come spostamento fisico, ma come attraversamento simbolico di tempi e luoghi. Questo tema richiama il grande archetipo dell’Odissea. Nella modernità, per l’autore, tuttavia, non c’è spazio per un rassicurante ritorno a casa: Itaca non è più raggiungibile, da qui la dolorosa consapevolezza della perdita.

Questa idea emerge con forza in molte delle sue opere, in cui il protagonista è spesso un intellettuale esule, diviso tra il desiderio di fuga e la nostalgia per la terra natale. Vincenzo Consolo stesso ha vissuto a lungo lontano dalla Sicilia, trasferendosi a Milano negli anni ’50 per motivi di studio e di lavoro. La sua scrittura è rimasta tuttavia sempre profondamente legata all’Isola.

Zaira Conigliaro

Studia Scienze della comunicazione all’indirizzo Cultura Visuale, ha un debole per l’arte, la moda e il cinema. Da marzo 2024 scrive con passione per Be Sicily Mag, sognando una carriera nel giornalismo. Determinata e creativa, cerca costantemente di migliorare le sue abilità, trasmettendo emozioni attraverso le sue parole.

Via Volta a Milano, quando Leonardo Sciascia lambiva i Bastioni: il salotto dei letterati a casa di Vincenzo Consolo

di Gianni Santucci
2 feb 2025 Corriere della Sera

Al civico 20 l’invito (accettato) da Consolo per una cena. E l’inizio di una carriera.
Nel 1971, sotto questo portone di un’altezza spropositata, che ancor oggi, a guardarlo, fa immaginare che una giraffa potrebbe passarci sotto eretta e tranquilla come un’inquilina qualsiasi, senza dover neppure piegare il collo, entrò Leonardo Sciascia. Era un tardo pomeriggio. Aveva un invito a cena da parte di un suo giovane amico, come lui siciliano, che da tre anni s’era trasferito a Milano, assunto in Rai. Sciascia, in quel momento, ha già pubblicato alcuni capolavori, Il giorno della civetta, A ciascuno il suo, Il consiglio d’Egitto. Vincenzo Consolo invece di libri ne ha pubblicato solo uno, che ha ricevuto tanti apprezzamenti, ma non è ancora uno scrittore celebre. Ha 38 anni, dodici meno di Sciascia, e si è appena trasferito a vivere in questo bel palazzo storico, con la compagna Caterina; con Sciascia ha confidenza, ma ancora una certa reverenza. Forse è per questo che, prima di ospitarlo a cena per la prima volta, ha aspettato di avere un appartamento adeguato per riceverlo. L’indirizzo è via Volta, civico 20, a pochi passi dai bastioni.

Vincenzo e Caterina preparano «un pasto classico milanese: risotto con lo zafferano, cotoletta con purè, formaggi. Alla fine Leonardo commenta: “Non c’è niente da fare. Se io non mangio la pasta è come se non avessi mangiato”». La storia è ricordata nella Cronologia che apre il Meridiano Mondadori dedicato a Consolo, ormai entrato nel canone della letteratura del Novecento, un gigante della lingua italiana lavorata a un livello maestoso. L’introduzione di Cesare Segre si apre così: «Voglio subito enunciare un giudizio complessivo: Consolo è stato il maggior scrittore italiano della sua generazione. Il romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio fu una rivelazione». Ecco, Il sorriso: Consolo lo scrive quasi tutto nella casa di via Volta, e lo conclude pochi mesi prima della pubblicazione, nel 1976. Con il lavoro per quel romanzo, «Giulio Einaudi si affeziona moltissimo a Vincenzo». È l’occasione di altre cene in via Volta. Anche l’editore transita sotto il mastodontico ingresso. «Einaudi viene spesso a Milano, e in molti casi si autoinvita a cena dai Consolo, arrivando in macchina da Torino, con un minimo preavviso». Ricorderà Consolo: «Ci piombava a casa all’improvviso, si metteva a tavola con noi. Una sera sbuccia una mela, e toglie metà polpa. Caterina gli dice: “Giulio, ma che fai? Così la butti via”. “Lasciami stare, che quando eravamo ragazzi mio padre (l’economista Luigi Einaudi, ndr) ci faceva raccogliere le mele da terra e dovevamo mangiare quelle, e quelle buone bisognava venderle. Questo era l’economista! Il presidente della Repubblica!”».

Consolo aveva studiato a Milano, alla Cattolica. In piazza Sant’Ambrogio aveva assistito alla massa dei braccianti e degli zolfatari che partivano dalla sua Sicilia, e vicino alla basilica dedicata al santo Ambrogio restavano pochi giorni, giusto il tempo di essere esaminati dalle commissioni francesi e belghe, che dopo le visite li mettevano sui treni dell’emigrazione. Dopo il ritorno in Sicilia, Consolo risale a Milano in treno il primo gennaio 1968, per prendere servizio come funzionario in Rai, dopo aver vinto un concorso. Una collega, Caterina Pilenga, gli va incontro e gli dice che ha letto il suo libro, «ma qui ho scritto tutte le parole che non so, e lei me le deve spiegare!». Vincenzo e Caterina rimarranno insieme per tutta la vita; si sposeranno alla Villa Reale, con rito civile, il 10 settembre 1986. In Rai Consolo, insofferente come altri intellettuali al clima di cupa lottizzazione politica, vivrà anni non semplici, ai limiti del mobbing. Per l’uscita di Retablo, nel 1987, Leonardo Sciascia pubblica sul Corriere un tributo al nuovo romanzo di Consolo, poche righe di cristallina lucidità sulla città e sulla migrazione: «Scontrosamente emigrando dalla Sicilia e scontrosamente vivendo a Milano, per ragioni diverse (e magari tra loro in contrasto) amando e detestando la Sicilia come ama e detesta Milano, Consolo ha trovato nella regione della fantasia il modo di pacificarsi ad entrambe: all’isola delle sconfitte, alla città che non perdona sconfitte».

Nel dicembre 1995 Vincenzo e Caterina lasciano via Volta e si trasferiscono in corso Plebisciti, 9. Corrado Stajano e sua moglie Giovanna Borgese sono stati i loro amici di sempre. Consolo è morto il 21 gennaio del 2012. Stajano ha scritto: «Non ha mai tradito la sua isola. Andava per vedere un’altra volta quel che aveva nel cuore. Non lo ritrovava. Ferito tornava al Nord, a Parigi, a Madrid. E poco dopo riprendeva la strada dell’eterno viaggio, riandava in Sicilia. È morto nella Milano della sua giovinezza. Nella grande stanza foderata dai libri degli scrittori amati di laggiù. Alle pareti un dipinto con una smisurata macchia arancione, il disegno di due ragazzi di Casarsa, di Pasolini, l’Ignoto marinaio di Guttuso, incisioni secentesche, ritratti, carte geografiche dell’isola stampate all’insù e all’ingiù. Tutto qui sa di Sicilia»

Per Consolo, 18 febbraio 2024

Caro Claudio,

a te posso confidare un moto d’animo e un pensiero che mi visitano in questi giorni prossimi al 18 febbraio. E posso farlo, perché so che mi capisci, essendo tu, come ho avuto modo di constatare in tutti questi anni, in sintonia con me riguardo al rapporto di amicizia di cui ci ha entrambi onorato – te in modo specialissimo e unico – il carissimo Vincenzo Consolo, che per noi è stato solo Enzo. Devo precisare che ti scrivo, sforzandomi di superare una certa remora nell’espormi e nel parlare della dimensione di vita privata del nostro comune amico. Lui vivente, infatti, fui sempre, costantemente fedele a una linea di riserbo amicale e rispettoso di lui e delle sue scelte personali, cosa, questa, che ci permise di cementare la nostra amicizia, come tu ben sai. Anche dopo il suo trapasso ho mantenuto tale riserbo, cedendo solo poche volte davanti a precise richieste di amici comuni in occasione di convegni o libri a lui e alla sua opera dedicati. Ogni anno ero puntualmente tra i primi a telefonargli per gli auguri di buon compleanno, e lui era felice di riceverli, profondendosi in ringraziamenti e confidenze amicali, come faceva tutte le volte che ci sentivamo. Il più delle volte mi annunciava che avrebbe festeggiato la ricorrenza con il carissimo Corrado Stajano e la moglie di lui, Giovanna Borgese. Andavano a cena insieme, per condividere pasti e pensieri di vita in piacevole conversazione. Ciò mi fa immancabilmente ricordare due cose che in lui erano presenti, andando in perfetta sintonia e armonia: il piacere della convivialità e la capacità, che Enzo aveva, di tenere viva la conversazione ridendo e spesso anche motteggiando, spingendosi persino a raccontare qualche barzelletta, quando se ne davano l’atmosfera e il momento propizio. Ricordo con piacere alcuni pranzi e cene consumati, anche insieme con altri comuni amici, nella mia casa dei Làufi, dove egli venne tante volte e che ricordò nell’Olivo e l’olivastro.
Ricordo quando una volta, unitamente a Pino e Gina Di Silvestro, pranzando con lui e i suoi nella sua casa di Sant’Agata di Militello, mentre gustavamo i maccheroni confezionati a mano e cucinati dalla sorella Teresa, colei che, rimasta nubile, era stata la sua prima maestra, come lui orgogliosamente asseriva, rivolto a costei ridendo, le disse: Teresa, tu vai di là, perché non puoi sentire questa barzelletta che sto per raccontare. E la barzelletta, pensa un po’, riguardava Pier Paolo Pasolini. Sì, perché Vincenzo Consolo era anche questo, un uomo a tutto tondo, che sapeva calibrare tempi e modi nella sua vita di relazione, specialmente con gli amici che stimava, e nella sua vita di uomo di cultura. Conservo il ricordo delle tante risate che con lui ho avuto modo di fare, grazie al suo spirito critico e ironico, di cui sapeva servirsi nei momenti opportuni. Tutto questo tu, caro Claudio, lo sai benissimo. Consolo fu l’uomo che rifiutò sempre il mercato pubblicitario e l’esposizione mediatica — che sono l’anima dei talk show televisivi, per i quali si assoggettano a passare quelli che aspirano a un attimo di sia pure fugace notorietà –, ma che era capace di sintonizzarsi perfettamente su onde di umanità autentica e onesta. Ricordo che si rifiutò di incontrare Pippo Baudo, il quale avrebbe voluto conoscerlo personalmente, quando questi si trovava, ospite anch’egli come Enzo dell’hotel Eloro in occasione di un concerto estivo che la moglie del presentatore, Katia Ricciarelli, tenne davanti a palazzo Ducezio a Noto nell’estate, mi pare, del 1988. Preferì venire a cena da me ai Làufi. Quante volte, tu sai bene, chiuse di botto rapporti amicali a causa di dissonanze ideali! Coraggiosa misura di equilibrio personale, questa, non facilmente accessibile ai più, specialmente negli ultimi decenni della nostra epoca, e pure per lui gravida di conseguenze in ordine alle critiche grossolane che poteva provocare e alle invidiuzze di mestiere che poteva suscitare. Ma lui fu sempre fedele a sé stesso, pagando il prezzo della disillusione nei riguardi di tanti, che pure in alcuni casi aveva aiutato, e il prezzo dell’isolamento in cui si tentò di cacciarlo.

Amo e voglio ricordare, nella imminente ricorrenza, l’amico Enzo, che a casa mia, tanto ai Làufi quanto nella mia casa di Avola, si apriva alla condivisione sia dei pasti sia dei pensieri e dei sentimenti di vita positiva e creativa; l’amico che spesso mi telefonava, per chiedermi informazioni e notizie su termini siciliani e su tradizioni popolari o su mille altre cose occasionali di cui scriveva nei quotidiani; l’amico che amava andare in giro con me, ascoltandomi nelle perlustrazioni del territorio che insieme facevamo nonché nelle belle conversazioni da cui io imparavo tanto; l’amico cui presentavo spesso miei alunni di liceo che desideravano conoscerlo di persona, dopo averne letto i libri e che egli a casa mia accoglieva con piacere, offrendosi generosamente alle loro domande; l’amico che, pur nelle sofferenze per i dolori del mondo, che lo tormentavano e che di lui e della sua parola poetica rivelavano l’aspetto profetico, amava la vita, come dimostra la sua indefessa militanza di testimone del suo tempo.

                                   Cordialmente

                                                                 Sebastiano Burgaretta

Addio Addio


Che dolore grande vederlo sdraiato su quel divano del soggiorno di casa, con un plaid addosso, il volto sempre più segnato, la voce sempre più flebile. Agitava il braccio smagrito e la mano, addio, addio. Chissà se quel gesto era l’ultimo saluto, il segno amorevole della vita che si stava allontanando. Il vecchio sofferente era il ragazzetto che nel suo primo libro – autobiografico – La ferita dell’aprile, sprizzava allegria beffarda, un grillo saltellante dalla marina alla montagna siciliana, tra le piazze, i vicoletti, i bagli, l’oratorio, in mezzo ai carusi, ai bastasi, ai preti, alle vocianti donne di paese, alla baronessa secca e bianca, narrazione di un vivere che non può finire mai? Vincenzo Consolo è morto in corso Plebisciti a Milano, dove abitava, dopo un travaglio di mesi. «Mi sto riprendendo», diceva immancabilmente, e non si capiva se in quelle parole c’era soltanto la sua antica ironia o anche un pizzico di speranza. Perché Vincenzo ha intensamente amato la vita, anche nei momenti più difficili di dramma e di sofferenza. E Caterina, sua moglie, come quelle solide figure della mitologia greca che gli piaceva tanto, gli ha sempre dato la forza e il coraggio di cui aveva bisogno. È nato il 18 febbraio 1933 a Sant’Agata di Militello, nella piazza del paese, non lontano dal mare. Un paese del messinese, sulla costa del Val Démone, tra San Fratello e Capo d’Orlando. Da bambino, ricorda, era piccolo e magro, «con un toracino d’uccello. Zigaga era il soprannome che mi avevano appioppato i fratelli: zirlo, pìspola». La sua è una famiglia di commercianti, la ditta vendeva olio, zucchero, lenticchie, fave, cerea-li. Suo padre, su un camion Fiat 6211, consegnava la merce ai grossisti. Qualche volta il piccolo Vincenzo lo accompagnava. Studi in paese, il liceo Valla a Barcellona Pozzo di Gotto: dopo la maturità la scelta che decide la vita. Consolo non ha esitazioni, è Milano ad attirarlo. La cultura industriale, in quegli anni cinquanta, gli sembra tutto ciò che c’è di nuovo. Elio Vittorini è il primo dei suoi miti, lo conoscerà, anche se non riusciranno a parlare tra loro, paralizzati dalle timidezze reciproche. Vittorini e Sereni stanno riscoprendo il rapporto tra letteratura e industria, Ottieri e Volponi lavorano in fabbrica, i nomi delle grandi aziende, la Pirelli, l’Alfa Romeo, la Breda, affascinano, la città è ricca di energie intellettuali, vi abitano Quasimodo, Montale, gli scrittori, gli scienziati, gli editori. Consolo studia Legge all’Università Cattolica, non per ragioni religiose o ideologiche, semplicemente perché l’aveva preceduto un compaesano. Entra nel convitto universitario di via Necchi, vicino a Sant’Ambrogio, capisce in fretta. Ricorda padre Gemelli, il frate fondatore e rettore della Cattolica, già vicino ai fascisti e avversario accanito del Modernismo e di tutto ciò che è nuovo: aveva la testa grossa e gli occhi fulminanti. Immobilizzato, veniva spinto su una sedia a rotelle nei chiostri dell’università e incuteva al suo passaggio timore e tremore soprattutto nelle studentesse che non indossavano l’obbligatorio grembiule nero. Ricorda anche il cardinale Schuster, «etereo e magico come una figura onirica, benedicente ricamato di venuzze». nelle pieghe della sua porpora, nel suo viso gotico e diafano Ricorda soprattutto i poliziotti del suo paese, nella vicina caserma della Celere e gli zolfatari siciliani che al Centro Orientamento Immigrati, lì vicino, venivano equipaggiati di casco, lanterna e mantellina e fatti partire per le miniere del Belgio dove molti di loro, a Marcinelle e altrove, troveranno la morte. I diversi destini degli uomini. Vincenzo ha deciso di diventare scrittore. Ma Milano è straniera, non ne possiede la lingua, per lui essenziale, quel mondo industriale se l’era soltanto immaginato. Come raccontarlo? Torna in Sicilia, pensa di diventare uno scrittore di realtà viste e vissute, di tipo sociologico. Ma non fa i conti con la sua natura fantastica da archeologo delle parole. Si laurea all’Università di Messina, fa il professore, precario d’epoca, a Mistretta, a Caronia, insegna educazione civica e cultura generale nelle scuole agrarie. Nel 1963 pubblica La ferita dell’aprile, in una bella collana, «Il Tornasole», diretta da Niccolò Gallo e da Vittorio Sereni. Con i «Gettoni» di Vittorini è l’iniziativa editoriale più coraggiosa, aperta al futuro, che dà ai giovani talenti l’opportunità di esprimersi. Conosce Lucio Piccolo, il barone di Calanovella, che abita in una villa a Capo d’Orlando. Vincenzo è affascinato dal mondo visionario del coltissimo poeta scoperto da Montale, cugino dell’autore del Gattopardo, che viveva come un uomo del Settecento. Nel salone della villa – con il cimitero dei cani accanto – nel buio più assoluto recitava urlando le sue poesie Soteriche, tra vasi Ming, statuette orientali, cassettoni Luigi XVI, ritratti di viceré e di capitani dell’Inquisizione. Ma è Leonardo Sciascia il vero maestro. È lui a far da contrappeso al fantasioso mondo di Lucio Piccolo. Consolo ritrova con la sua razionalità e i suoi saperi storici, critici, politici, quella strada civile annusata nella prima avventura milanese. La Sicilia contadina cosi amata si e nel frattempo disgregata, la mafia ha riconquistato un potere assoluto, il candore dell’isola è stato macchiato dalla corruzione, dall’ossessione del denaro, più sporco che pulito, dagli assassinii. Il lavoro manca e dove c’è è un lavoro complice, sotto l’ombrello dei protettori della politica degenerata. Consolo decide di partire di nuovo. E il Sessantotto. Milano è incandescente, ricca di fervori. Vincenzo vince un concorso alla Rai, ma viene subito emarginato per le sue idee progressiste. I dirigenti di corso Sempione non si rendono conto, per motivi politici e di convenienza, di ciò che avrebbe potuto fare quel giovane arrivato dal Sud. Dal 1963 al 1976 Consolo non pubblica nulla, sta rimuginando, pensando, studiando. È convinto che la letteratura deve essere nemica del potere. Vuole legare la Sicilia alle idee di progresso sociale e civile della Milano di allora. Ma il linguaggio, come trovare il linguaggio adatto che sente gorgogliare nella testa? Legge Gadda, ma il suo amore per la metafora non lo accomuna allo scrittore dell’Adalgisa. È Manzoni, piuttosto, che gli dà paternità e sostegno: «Nel Manzoni dei Promessi Sposi e della Colonna infame, quello della necessità della metafora. …] L’Italia del Manzoni sembra davvero eterna, inestinguibile» (Fuga dall’Etna, La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Donzelli). Come spunta l’idea di un libro nella mente di uno scritto-re? Il Ritratto di ignoto di Antonello da Messina, del museo di Cefalù, fa da scintilla. È il fallimento del Risorgimento, la speranza tradita dei contadini di avere le terre dei feudatari, a povertà dei cavatori di pomice ammalati di silicosi – storia e società – ad accumularsi informi nella testa di Vincenzo. Nel 1976, pubblicato da Einaudi, esce Il sorriso dell’ignoto marinaio, capolavoro di folgorante bellezza, che fa arrabbiare Roberto Longhi. I pittori non dipingevano i subalterni – un marinaio, poi – ma i doviziosi signori: si facevano infatti ben pagare. Ma l’arte, replica Consolo, e libera e il libro deve essere letto come un frutto dell’invenzione, senza vincoli. Nasce allora, si può dire, Vincenzo Consolo, il Vicè dei compagni di giochi, uno dei più grandi scrittori del Novecento, l’unico italiano al quale la Sorbona, nel 2002, abbia dedicato un convegno, tradotto in quasi tutte le lingue del mondo, conosciuto forse più in Europa che in Italia. Vince nel 1992 il Premio Strega con Nottetempo, casa per casa e, nel 1994, il Premio Internazionale Unione Latina, con L’olivo e l’olivastro. Per capire la meccanica del suo linguaggio basta leggere nelle Pietre di Pantalica la pagina su una piccola pastora, Amalia: «Ma Amalia poi conosceva altri linguaggi: quello sonoro, contratto, allitterato con cui parlava alle bestie; conosceva il sampieroto, col quale comunicava con la famiglia; conosceva il sanfratellano e il siciliano coi quali comunicava cogli estranei. In quella sua lingua d’invenzione, che s’era forgiata nelle lunghe ore del pascolo, nella solitudine del bosco, chiamava per esempio sossi i maiali, beli le capre, scipe le serpi, aleppi i cavalli, fràuni gli alberi, golli le ghiande, cici gli uccelli, feibe le volpi, zimpi le lepri e i conigli, lammi le mucche». È Amalia la maestra del suo linguaggio, non inventato, risuscitato piuttosto dalle latomie della memoria. La Sicilia nel sangue. Vincenzo non è mai in pace; inquieto, sempre. Non ha di certo bisogno di quella nota di diario che Goethe scrisse nel suo Viaggio in Italia, il 13 aprile 1787: «’Italia, senza la Sicilia, non lascia alcuna immagine nell’anima: è qui la chiave di tutto». Appena poteva partiva, eterno migrante del ritorno. Non ha mai tradito la sua isola. Andava nel paese natale e nei paesi più minuti per vedere un’altra volta quel che aveva nel cuore. Non lo ritrovava. Ferito tornava al Nord, a Parigi, a Madrid. E poco dopo riprendeva la strada dell’eterno viaggio, riandava in Sicilia. È morto nella Milano della sua giovinezza. Nella grande stanza foderata dai libri degli scrittori amati di laggiù. Alle pareti un dipinto con una smisurata macchia arancione, il disegno di due ragazzi di Casarsa, di Pasolini, l’Ignoto marinaio di Guttuso, incisioni secentesche, ritratti, carte geografiche dell’isola stampate all’insù e all’ingiù. Tutto sa di Sicilia.

Corrado Stajano
Destini
Vite di un mondo perduto

Il Saggiatore – Milano 2023
Foto di Giovanna Borgese

Vincenzo Consolo. La storia, il mito, l’impegno (II)

Figlio errante d’Ermocrate ricordo di Vincenzo Consolo

Purché ci resti Itaca: prendersi cura delle radici. La voce di Consolo.


Ada Bellanova

1. Ripensare i luoghi in forma di idillio. Il dramma di Ulisse e di Ifigenia. Senza la letteratura Itaca sarebbe semplicemente una piccola isola greca nel Mediterraneo. Invece Omero, la tradizione, le invenzioni letterarie l’hanno resa il luogo per eccellenza delle radici e della memoria, la patria ritrovata dopo un lungo viaggio: l’hanno trasformata in simbolo 1. Ulisse in viaggio, intento ad affrontare pericoli, mostri e tempeste, porta con sé un’immagine di Itaca come luogo del cuore, patria perfetta, a cui desidera a tutti i costi tornare. Una polarità netta si crea tra il mondo avventuroso e minaccioso e il nucleo accogliente e protettivo della patria e della casa. Eppure Ulisse, una volta sbarcato, è costretto a interrogarsi subito sull’identità della terra, sullo scarto tra il sogno che ha cullato durante la lunga distanza e la realtà 2. Molte cose infatti sono cambiate: lui non è più lo stesso e Itaca è mutata, non solo per i soprusi dei Proci, ma anche perché il tempo ha segnato la sua geografia a tal punto da conferirle un paesaggio nuovo, diverso. Per queste ragioni, e non solo per l’intervento di Atena, Ulisse si guarda intorno e, smarrito, si pone la domanda: «Dove sono capitato?». Sebbene il finale dell’Odissea risulti confortante – l’eroe ottiene di nuovo il suo ruolo di re dopo la sconfitta dei Proci e l’intesa del talamo con Penelope – sorge il dubbio che l’Itaca ritrovata sia un po’ deludente rispetto al sogno e alla nostalgia. Perché altrimenti Ulisse sceglierebbe, come insegna l’altra tradizione, di ripartire? Non dovrebbe godersi la terra tanto amata? Il fatto è che, come scrive Jankelevitch, la nostalgia, per l’esule – per qualunque esule –, è insanabile, inestinguibile3 . Già nel momento del primo distacco dalla patria ha inizio un cambiamento, nel luogo e nell’individuo, che non permette di colmare 3 la distanza, in alcun modo, neppure nell’opportunità di un ritorno. Patria dolcissima solo nel ricordo è anche la città di Argo per Ifigenia. La sfortunata figlia di Agamennone, salva ma costretta all’esilio tra i feroci Tauri autori di sacrifici umani, non fa altro che sognare la sua reggia preziosa, in cui è stata bambina, principessa, ma che ormai, senza che lei lo sappia, è luogo insanguinato dagli omicidi, la morte del padre per mano di sua madre, quella di sua madre per mano di suo fratello. La Tauride – anche in questo caso la responsabilità è della letteratura4 – assume la connotazione di una terra selvaggia, priva di ogni forma di civiltà: la dolente sacerdotessa greca, pur investita dell’autorità religiosa, non può far altro che sciogliere il suo canto d’esilio, insieme alle schiave sue compagne. È questa la trama dell’Ifigenia in Tauride euripidea: l’autore antico ha composto una tragedia che recita il dramma della nostalgia, la stessa di Ulisse. La città lontana di Argo, nella mente di chi vive l’esilio, ovvero la protagonista e, con lei, il coro, assume i tratti di uno spazio desiderato e armonioso, un territorio caro, in cui rispecchiarsi e ritrovarsi: è emblema della Grecia della civiltà. Eppure, come dicevo, la terra lontana non è affatto così come l’esule se la dipinge e, anche di fronte al lieto fine, mentre Ifigenia e il fratello ritrovato salpano dalla Tauride ostile e si allontanano dai sacrifici, c’è da augurarsi che non ci sia nessun ritorno a casa. Ritrovare Argo, infatti, non è possibile e il ritorno può essere estremamente traumatico. Il mito e la letteratura, come si vede, proponendo una caratteristica veste per certi luoghi reali, li trasformano in simboli, metafore efficaci anche per la contemporaneità e per il nostro modo di vivere gli spazi. 2. Itaca non c’è più: la voce di Consolo. A chi percorre le pagine di Consolo non sfugge l’insistente riflessione, che nasce da più di uno spunto autobiografico, sul rapporto travagliato tra l’esule e la propria patria. In tutta la sua opera lo scrittore pone l’accento sul suo esilio nel Nord e sull’irredimibile nostalgia per la Sicilia lontana, patria del ricordo, e perciò idealizzata nella distanza, come in un’odissea contemporanea, tra le nebbie di una Milano grigia che ha più di un tratto in comune con la Tauride euripidea. L’olivo e l’olivastro (1994) e poi anche Lo Spasimo di Palermo (1998) descrivono un ritorno doloroso che ha i tratti di un incauto procedere tra le rovine di una patria in fiamme. Nel primo libro, che reca già nel titolo l’omaggio e la simbolizzazione degli spazi omerici – nell’Odissea olivo e olivastro segnano lo spazio del naufragio di Ulisse sulla costa dei Feaci –, al giovane migrante siciliano che, fuggito dal terremoto di Gibellina – quasi Enea che abbandona un’Ilio compromessa –, prova a ritornare dopo tanti anni, il nóstos è negato. Itaca non c’è più, fuor di metafora, perché la vecchia città è scomparsa sotto il sudario di cemento del Cretto di Burri, e la nuova, con la Stella texana che segna l’ingresso nel Belice, è, come scrive Consolo, «costruita dai Proci»5 , ha perso cioè l’identità della tanto sospirata patria delle radici in uno stravolgimento sociale e culturale: gli usurpatori hanno avuto la meglio e l’esule è impotente di fronte a un mondo che non gli appartiene e a cui non appartiene. Nella seconda opera, poi, veramente amaro è il ritorno del protagonista, lo scrittore Chino Martinez, a Palermo: la città degli anni Novanta, già compromessa dalla ferocia della speculazione edilizia, dal sacco che ha cementificato la Conca d’oro, deve fare i conti con la violenza mafiosa, esemplificata dalla drammatica esplosione finale in via d’Astorga che allude in maniera netta alla strage di via d’Amelio. È un’Itaca stravolta allora, quella dell’approdo, una terra in cui l’ulivo non ha posto, perché in essa non c’è più ombra di civiltà, e scomparso, irrimediabilmente, è anche il conforto della famiglia, già fagocitato dalla debole salute mentale di una moglie ormai morta, che niente ha a che fare con la Penelope omerica. A queste opere possono essere aggiunte moltissime pagine, come il testo eponimo di Le pietre di Pantalica, che piange il degrado – culturale, ambientale – dello scenario della bianca Siracusa, chiaman5 V. Consolo, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, Mondadori, Milano 2015, p. 869. 6 V. Consolo, Le pietre di Pantalica, in Id., L’opera completa, pp. 615-621. 7 Ifigenia fra i Tauri, trad. di Vincenzo Consolo e Dario Del Corno, Istituto Nazionale del Dramma Antico-XXVII ciclo di spettacoli classici (27 maggio-4 luglio 1982), INDA, Siracusa 1982. 8 «Non si ritorna più nei luoghi da cui si è partiti, perché quelli non sono più i luoghi che noi abbiamo lasciato. Non si è più di nessun luogo», V. Consolo, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Donzelli, Roma 1993, p. 69. 9 La percezione di un luogo e la sua rappresentazione, come insegna la geocritica, non si possono limitare all’unica componente visiva. Sulla necessità di cogliere la presenza delle percezioni sensoriali do in causa i simboli della tragedia euripidea6 , tradotta tra l’altro proprio da Consolo con Del Corno7 , che è messa in scena nel teatro antico. L’autore fa del suo vissuto il motore dell’invenzione narrativa: la sua personale prospettiva interpreta gli spazi e li reinventa sul piano letterario. In questo processo Itaca e Argo rimandano a un mondo che non c’è più: un universo intatto, in armonia, cancellato da una modernità incivile e snaturante e divenuto un perenne labirinto fitto di mostri e pericoli, una Tauride in cui si sacrificano gli innocenti. Nella prospettiva consoliana allora non è solo la Milano affarista ad assumere i tratti di luogo ostile: l’osservazione dell’intero spazio della contemporaneità – l’Italia, il Mediterraneo con i suoi naufraghi e ogni luogo in cui il migrante è perseguitato, ferito, il paesaggio mortificato dagli incendi, dall’industrializzazione, da un turismo becero e superficiale – denuncia una perdita irreparabile in termini di valori e identità8 . La polarità non è più, o comunque non solo, tra lo spazio fisico dell’esilio e la terra delle radici, ma tra lo spazio del presente, omologante e svilente, e quello del passato, in cui era ancora possibile un equilibrio. 3. Itaca con tutti i sensi. Nell’esilio la patria lontana – nello spazio e nel tempo – appare luminosa, contrapposta a un Nord, anche fuor di metafora, decisamente grigio. Una complessa trama di paesaggi visivi, con evidente omaggio al mondo dell’arte e della pittura, ma anche di paesaggi sonori, olfattivi, persino gustativi, che si sovrappongono e si intersecano, concorre a definire la Sicilia. Se indubbia è in ciò una ricca componente letteraria, al di là del topos però la pagina consoliana rivela una sensibilità che si lega al vissuto dell’autore: memoria e confronto personale con i luoghi determinano l’immagine che questi assumono sulla pagina scritta9 . Alla Milano affollata che propone sollecitazioni da grande città del Nord alla vista e all’udito – ben oltre il modello letterario va l’apprezzamento per l’umanità multicolore di Porta Venezia e per il suo vario patrimonio gustativo, mentre il fetore di Seveso10 è traccia olfattiva di un progresso feroce, dell’inquinamento e della deriva politica che a questi si accompagna – la Sicilia si contrappone con la sua festa dei sensi. Retablo, in particolare, è una straordinaria esibizione di percezioni sensoriali che testimoniano la scoperta e la sorpresa di fronte alla ricchezza e alla diversità dell’isola. Fin dal suo approdo a Palermo Clerici deve fare i conti, alla maniera dei viaggiatori del Grand Tour, con la novità delle sollecitazioni visive, sonore, olfattive11. Ma il protagonista e voce narrante accoglie soprattutto le capacità percettive del suo autore: la Sicilia è l’isola della memoria e gli straordinari paesaggi sensoriali che descrivono le rovine di Segesta o di Selinunte, l’universo arcano di Mozia, rivelano un compiacimento nella percezione che appartiene a Consolo, siciliano alla scoperta della propria terra. Pur senza abbandonarsi all’idillio a tutti i costi – attraverso la prospettiva di Clerici emergono anche tracce sensoriali non edificanti – l’autore tratteggia la propria Itaca come una terra che seduce con le sue innumerevoli sollecitazioni sensoriali. È in particolare nelle descrizioni gastronomiche di cui abbonda il racconto che emerge il compiacimento di Consolo12: non vi si può rintracciare dunque solo il modello letterario – la meraviglia del viaggiatore di fronte alle offerte culinarie – ma anche il gusto dello scrittore che ricorda i sapori della sua terra. L’interesse per pietanze dolci e salate è d’altra parte presente anche nella produzione giornalistica e saggistica e confessato in testi scopertamente autobiografici in cui emerge come tratto intimo la predilezione per i cibi del Sud, in contrasto con quelli evidentemente meno invitanti del Nord13. Itaca insomma nutre con il suo gusto anche a distanza e preziosa è la riserva d’antichi sapori e nella caratterizzazione letteraria dei luoghi reali, si veda anche «Quando sono da solo mi sfogo a mangiare le cose più salate e piccanti. Evito finalmente la minestrina, la paillardina e la frutta cotta. Mangio bottarga, sàusa miffa, olive con aglio e origano, peperoncini, caciocavallo, cubbàita… Poi, nel pomeriggio, non c’è acqua che basti a togliermi la sete», 16 «Ecco, io allora infilzerò con lo spiedo un rocchio di quella salsiccia fresca, condita con grani di pepe e semi di finocchio, lo farò arrostire sopra la brace, e l’offrirò a te, gentile lettrice, a te, caro lettore, insieme a un bicchiere rosso dell’Etna e a una mela d’oro, di quelle che mandava a casa nostra il compare Panascì. […] Erano mele gialle e lucide, dolcissime, che impregnavano la casa di profumo. Sovrastava il loro odore di pomelia e cedro, quello delle arance, dei fichi secchi, delle sorbe, delle zizzole, dei melograni e delle cotogne», Id., Natali sepolti, in AA.VV., Cantata di Natale. Racconti per venticinque notti di attesa, San Paolo, Milano 2001, pp. 83-89; ora in La mia isola è Las Vegas, pp. 191-194, a p. 193. odori che nei lunghi e grigi inverni del Nord riporta al ricordo del paese14. E anche se un nuovo approdo all’isola, in Ritorno al paese perduto, sottopone al rischio di nuove e per nulla confortanti sensazioni – non solo la casa non è più la stessa, pure la vista dal terrazzo è mutata, e più forte del senso della vista diventa quello dell’udito nel registrare un nuovo, invadente e sgradevole paesaggio sonoro15 – più forte del tempo resiste nella vivacità dell’allocuzione al lettore nel più tardo Natali sepolti il gusto delle radici: l’offerta diretta di un pasto appartenente alla Sant’Agata del passato, fatto di salsiccia, vino dell’Etna, profumatissime mele d’oro, interrompe il flusso narrativo e sembra testimoniare, nell’immediatezza dell’uso del presente, che qualcosa si è salvato16. 4. Proteggere le radici. Al di là della permanenza delle percezioni gustative, affrontato il rischio della rottura dell’idillio, si può scoprire che Itaca non è del tutto allo sfacelo e che sulle colonne di Argo si può ricostruire. Conviene però prendere coscienza del punto a cui siamo arrivati. Conviene ripartire dalle radici, ritrovare angoli vivi del paesaggio, lasciarsi ispirare da quanto di buono essi comunicano. Il che non vuol dire smettere di vedere le criticità di ciò che è stato: significa valorizzare ciò che può essere valorizzato e trovare una nuova via alternativa all’omologazione e allo sfruttamento. La vera letteratura ha questo di utile, ci svela a noi stessi, e le pagine di Consolo parlano a tutti e di tutti, toccano le corde del legame doloroso o vivificante che abbiamo con gli spazi e tentano di fare chiarezza su questioni grandi e urgenti: invitano cioè ad una consapevolezza ambientale nel senso più ampio dell’espressione come unica strada non solo per non perdere il luogo, ma anche per non perdere noi stessi. Illuminante è la riflessione dello scrittore sulla Sicilia e sul Mediterraneo: nell’amarezza di fronte allo scempio, di fronte ai facili stereotipi che semplificano lo spazio, lo appiattiscono – il seducente paradiso a buon mercato da una parte, il degrado e i sotterfugi dall’altro –, avvallati in maniera semplicistica da un certo tipo di informazione e da un certo tipo di politica, l’autore rivendica il valore della complessità. Lo spazio ha molte facce, molte sfumature, la bellezza ha una sua indubbia fragilità. Nella sua rappresentazione dello spazio individuiamo la valorizzazione di alcune isole di sopravvivenza: gli Iblei con l’arte intatta degli apicoltori e i Nebrodi coi pascoli verdissimi non sono semplice idillio, Itaca e Argo del ricordo in cui sarebbe meglio non tornare mai, ma un esempio di risposta concreta alla crisi del paesaggio e dell’identità contemporanea. Descrivendo la miracolosa armonia tra uomo e natura, la ricchezza ambientale – piante, animali –, tradizioni gastronomiche e saperi antichi, che caratterizzano queste oasi di sopravvivenza, Consolo valorizza una Sicilia quasi arcaica. In ciò non rifiuta il progresso in sé, piuttosto evidenzia la necessità che esso non faccia perdere all’uomo la sua identità storica e culturale, come è invece accaduto nel caso della violenta industrializzazione dell’isola. Mette cioè in evidenza che i luoghi non sono uno sfondo e che, se smettono di essere quello che sono in maniera rapida e feroce – fagocitati dall’omologazione, da interessi economici, dalla costruzione di barriere –, inevitabili e funeste sono le conseguenze anche sugli esseri umani. Così strettamente interrelate sono l’identità degli uomini e quella degli spazi. La sua opera invita dunque – e in ciò risiede la grande attualità del messaggio consoliano – a conservare le radici, a prendercene cura, perché solo nella salvaguardia di ciò che è rimasto possiamo sperare di non perdere noi stessi. Il passato, come insegnava anche Pasolini nella sua strenua definizione dell’ambiente storico e umano come territorio composito e stratificato nel tempo, insieme universo linguistico, identità dei luoghi, creazione artistica, può non essere un ricordo perduto: può anzi configurarsi come forza a cui attingere. Mi piace pensare allora che nei versi di Accordi, con l’ignoto tu, Consolo alluda ad un’identità sua e di tutti i figli del Mediterraneo, un’identità nata da una relazione vecchia di secoli con la terra, le piante, i muri a secco, con i paesaggi: tolto tutto questo, cosa saremmo? Sei nato dal carrubo e dalla pietra da madre ebrea e da padre saraceno. S’è indurita la tua carne alle sabbie tempestose del deserto, affilate si sono le tue ossa sui muri a secco della masseria Brillano granatini sul tuo palmo per le punture delle spinesante17. Solo se ripartiamo da questo, quindi, da ‘Itaca’, attraverso un cammino, senz’altro faticoso, difficile, di consapevolezza degli spazi e della nostra relazione con essi, possiamo avere qualche opportunità di sopravvivere anche noi. Solo salvando le radici, come le piante, possiamo avere speranza di non perire.
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3 V. Jankélévitch, L’irréversible et la nostalgie, Flammarion, Paris 1983, pp. 370-371. 4 B. Westphal, Le miroir barbare. Géocritique de la Tauride, in A. Le Berre (a cura di), De Prométée à la machine à vapeur: cosmogonies et mythe fondateur, Pulim, Limoges 2005, pp. 13-33. 5 V. Consolo, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, Mondadori, Milano 2015, p. 869. 6 V. Consolo, Le pietre di Pantalica, in Id., L’opera completa, pp. 615-621. 7 Ifigenia fra i Tauri, trad. di Vincenzo Consolo e Dario Del Corno, Istituto Nazionale del Dramma Antico-XXVII ciclo di spettacoli classici (27 maggio-4 luglio 1982), INDA, Siracusa 1982. 8 «Non si ritorna più nei luoghi da cui si è partiti, perché quelli non sono più i luoghi che noi abbiamo lasciato. Non si è più di nessun luogo», V. Consolo, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Donzelli, Roma 1993, p. 69. 9 La percezione di un luogo e la sua rappresentazione, come insegna la geocritica, non si possono limitare all’unica componente visiva. B. Westphal, Geocritica: reale, finzione, spazio, trad. di L. Flabbi, Armando editore, Roma 2009, p. 184. Sulla necessità di cogliere la presenza delle percezioni sensoriali nella caratterizzazione letteraria dei luoghi reali, si veda anche D. Papotti, Istruzioni geopoetiche per la lettura della città di Napoli, in F. Italiano, M. Mastronunzio (a cura di), Geopoetiche. Studi di geografia e letteratura, Unicopli, Milano 2011, pp. 43-63, a p. 49. 10 V. Consolo, Replica eterna, in Id., La mia isola è Las Vegas, a cura di N. Messina, Mondadori, Milano 2012, p. 180. 11 Id., L’opera completa, cit., p. 403. 12 A proposito W. Geerts, L’euforia a tavola. Su Vincenzo Consolo, in B. Van den Bossche (a cura di), Soavi sapori della cultura italiana, Atti del XIII Congresso dell’A.I.P.I., Verona/Soave, 27-29 agosto 1998, Cesati, Firenze 2000, pp. 307-316. 13 «Quando sono da solo mi sfogo a mangiare le cose più salate e piccanti. Evito finalmente la minestrina, la paillardina e la frutta cotta. Mangio bottarga, sàusa miffa, olive con aglio e origano, peperoncini, caciocavallo, cubbàita… Poi, nel pomeriggio, non c’è acqua che basti a togliermi la sete», V. Consolo, Un giorno come gli altri, in “Il Messaggero”, 17 luglio 1980, ora in Id., La mia isola è Las Vegas, pp. 87-97, a p. 92. 14 Id., E poi la festa del patrono, in “Corriere della sera” 15 agosto 1990, ora in La mia isola è Las Vegas, pp. 139-42, a p. 141. 15 Id., Ritorno al paese perduto, in “Il manifesto” 5 aprile 1992; ora in La mia isola è Las Vegas, pp. 146-149, a pp. 146-147. 16 «Ecco, io allora infilzerò con lo spiedo un rocchio di quella salsiccia fresca, condita con grani di pepe e semi di finocchio, lo farò arrostire sopra la brace, e l’offrirò a te, gentile lettrice, a te, caro lettore, insieme a un bicchiere rosso dell’Etna e a una mela d’oro, di quelle che mandava a casa nostra il compare Panascì. […] Erano mele gialle e lucide, dolcissime, che impregnavano la casa di profumo. Sovrastava il loro odore di pomelia e cedro, quello delle arance, dei fichi secchi, delle sorbe, delle zizzole, dei melograni e delle cotogne», Id., Natali sepolti, in AA.VV., Cantata di Natale. Racconti per venticinque notti di attesa, San Paolo, Milano 2001, pp. 83-89; ora in La mia isola è Las Vegas, pp. 191-194, a p. 193. 17 Id., Accordi. Poesie inedite, a cura di F. Zuccarello e Claudio Masetta Milone, Zuccarello editore, Sant’Agata di Militello 2015.

Giugno 2022 Editora Comunità Rio de Janeiro – Brasil

Il posizionamento di Consolo: per un’etica dell’iperletterario

foto Giovanna Borgese

Daniel Raffini

In una recensione del 5 maggio 1985 pubblicata su «Il Messaggero» alla favola teatrale Lunaria di Vin­cenzo Consolo il poeta Giovanni Raboni scriveva:
Ciò che il testo, nella realtà delle sue risultan­ze espressive, lascia affiorare, è piuttosto un’i­perletterarietà elusiva, elegante e malinconica, una stravaganza capace di conciliare liricità ed erudizione, un’ossessione verbale alleviata da una sorta di pietas ironico-illuministica1

1 G. Raboni, E nevicò con cocci lucenti di luna, «Il Messaggero», 5 maggio 1985, p. 5. .

Nel giro di una frase Raboni riesce a condensare alcune delle caratteristiche salienti della scrittura consoliana. Per iperletterarietà in questo contesto si intende una scrittura che si configura come spic­catamente letteraria. Tale risultato è raggiunto da Consolo principalmente attraverso due vie: da una parte una scelta linguistica caratterizzata dal plurilin­guismo, volta al recupero della ricchezza della lingua a livello geografico, temporale e diastratico; dall’altra c’è l’ipertestualità, definita da Gérard Genette come «ogni relazione che unisca un testo B (che chiamerò ipertesto) a un testo anteriore A (che chiamerò, natu­ralmente, ipotesto)»2

2 G. Genette, Palinsesti. La letteratura di secondo grado, Einaudi, Torino,

1997, pp. 7-8. . Nelle sue pagine Consolo riesce a incastonare tutta, o quasi, la tradizione letteraria: vi ritracciamo Omero, Dante, Eliot, Leopardi, Manzoni – l’elenco sarebbe davvero lungo. La pagina di Consolo è un distillato di letteratura: lo scrittore seleziona dal­le pagine degli altri scrittori e dalla storia linguistica ciò che gli sembra utile o degno di essere salvato e lo 4 passa attraverso un filtro che ci restituisce una scrit­tura pura, che a tratti si fa eterea, nella sua smania di nominare le cose e nella sua difficoltà di farlo.

I tre aggettivi scelti da Raboni per definire l’iperlet­terarietà consoliana appaiono quanto mai esatti: essa è elusiva, i rimandi alla tradizione infatti si inseriscono all’interno di un contesto in cui i riferimenti si confon­dono, si amalgamano con la scrittura, diventano allu­sione, tonalità di un racconto; è elegante, perché spes­so sceglie i registri alti della comunicazione e anche quando vira verso quelli più bassi (come il dialetto o il gergo), riesce a conferirgli un’aura di particolare ricer­catezza; infine, l’iperletterarietà di Consolo è malinco­nica, perché fa riferimento a qualcosa di perduto, che sia il distacco dalla terra natale, la fine del mondo con­tadino, il livellamento operato dalla lingua dei media.

La letteratura di Consolo è una letteratura dal li­mite, ci regala lo sguardo sulla cosa un secondo prima che essa decada nel non essere. È proprio questa ma­linconia ciò che collega l’iperletterarietà all’altro ele­mento centrale, e apparentemente discordante, della scrittura di Vincenzo Consolo: l’etica, la compromis­sione costante della scrittura con il contemporaneo e dunque l’impegno. Consolo affida ai suoi romanzi una funzione “metaforica”: parlare della storia per parlare del presente. In realtà c’è più di questo: attraverso il racconto degli eventi del passato Consolo scandaglia i mali imperituri della storia, la sopraffazione dell’uo­mo sull’uomo, il dolore e la tentazione dell’annienta­mento. «La storia è sempre uguale»3

3 V. Consolo, Lo spasimo di Palermo, Mondadori, Milano, 2013, p. 5. ,

scrive Consolo nella prima pagina de Lo spasimo di Palermo, roman­zo che fin dal titolo ci fa percepire lo strazio e che in epigrafe riporta significativamente una battuta di Prometeo dal Prometeo incatenato di Eschilo: «Il rac­conto è dolore, ma anche il silenzio è dolore». La lette­ratura di Consolo si fa carico di questo dolore, decide di rompere la barriera del silenzio per cercare una via di comunicazione che interrompa il male.

In un’intervista rilasciata a Irene Romera Pintor, Vincenzo Consolo ha parlato in questi termini delle ragioni profonde delle sue scelte narrative:

Credo di avere un progetto letterario che per­seguo da parecchi anni. Consiste nel cercare di raccontare quelli che sono i momenti critici della nostra storia: momenti critici in cui c’è stato uno scacco, una sconfitta, un’offesa dell’uomo.4

4 V. Consolo, Autobiografia della lingua. Conversazione con Irene Romera Pintor, Ogni uomo è tutti gli uomini, Bologna, 2016, p. 13.

In un’altra intervista, Consolo lega tale scelta al conferimento di una funzione alta ed etica alla letteratura:

Io credo che la letteratura debba […] impor­si appunto come contro-storia, come qualcosa di diverso rispetto alla cronaca ufficiale. In ogni epoca sono sempre esistite e continueranno ad esistere, oggi più che mai, le zone anonime della marginalità, le sacche di maggior dolore, umilia­zione e sfruttamento (isolate ed estranee al flus­so principale della storia). Supremo compito del­la letteratura è proprio quello di rappresentare e dar voce a questo perenne ghetto di esistenze.

In questa propensione verso gli offesi e gli sconfitti c’è la valenza etica della scrittura consoliana. Ancora nell’intervista rilasciata a Irene Romera Pintor, parlan­do del suo sguardo sul Risorgimento siciliano espres­so nel romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio, Consolo affermava di aver narrato «con gli occhi degli emargi­nati, dei contadini, autori di una rivolta popolare e di una strage, e poi condannati e fucilati» (p. 13). Il sorriso dell’ignoto marinaio racconta, tra le altre cose, la rivol­ta contadina di Alcara Li Fusi, terminata tragicamente con l’uccisione dei ricchi del paese e con una serie di altri crimini, che saranno poi condannati all’arrivo del­le truppe garibaldine. Da questa scelta notiamo come lo sguardo di Consolo sia più complesso di quanto po­trebbe sembrare: non è una difesa delle vittime, ma una condanna della storia, in cui meccanismi millenari di sopraffazione determinano un circolo vizioso di vio­lenza e dolore. In una delle pagine finali del romanzo, il barone Mandralisca si fa portatore di quello che pos­siamo considerare il pensiero dell’autore: «E cos’è stata la Storia sin qui, egregio amico? una scrittura continua di privilegiati»6

6 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano, Mondadori, 1987, p. 88. .

La scrittura di Consolo, allora, cerca di ridare voce a chi ne è stato privato. Il codice linguistico pare però inappropriato a questa restituzione, perché costruito dagli oppressori a loro uso e vantaggio. La

5 riflessione è ancora veicolata dal personaggio di Man­dralisca: «Ed è impostura sempre la scrittura di noi co­siddetti illuminati, maggiore forse di quella degli ottusi e oscurati da’ privilegi loro e passion di casta»7 7 Ibidem. .

Si nota insomma come la questione della lingua non sia per Consolo un fatto neutro; ma viene comun­que da chiedersi come si concili la scelta di una lingua iperletteraria con l’impegno professato dallo scrit­tore. A spiegarcelo è Consolo stesso, nell’intervista a Irene Romera Pintor (pp. 8-11). La scelta linguistica di Consolo pare connotata storicamente, è il risultato dell’epoca: scrittori come Sciascia, Moravia e Calvino – appartenenti a una generazione precedente, quella che aveva vissuto direttamente il fascismo e la guerra – scelgono «uno stile di tipo razionalistico, di assoluta comunicazione […] uno stile alla maniera illuministica di stile francese». Consolo si colloca cronologicamen­te e idealmente dopo di loro, quando «la speranza nei confronti di una nuova società che si sarebbe dovuta formare, di un nuovo assetto politico e di un maggiore equilibrio sociale, […] era caduta» a causa dell’instau­rarsi «di un potere politico che replicava esattamente quello che era crollato». La scelta stilistica di Consolo, dunque, non è più «nel segno della speranza», ma è «nel segno dell’opposizione» e rappresenta «la rottura con il comune codice linguistico, con l’adozione di un altro codice che rappresentasse anche le periferie della società». Le motivazioni della scelta linguistica di Con­solo non sono «solo di tipo estetico», ma anche «di tipo etico e politico». «Il grande deposito linguistico» lascia­to in Sicilia dallo stratificarsi di popoli diversi è così di­ventato il primo repertorio della scrittura di Consolo, uno stile di opposizione, contro l’appiattimento della lingua della comunicazione, che rappresentava un im­portante ingranaggio di quella macchina di integrazio­ne e asservimento che negli stessi anni Pasolini andava descrivendo, con concetti e parole assai simili a quelli consoliani. La consonanza con Pasolini si nota, d’al­tronde, anche nell’insistenza sul concetto di mutazione antropologica, sul racconto della fine del mondo con­tadino sopraffatto dalla nuova realtà industriale, che è una delle fonti di quella malinconia che pervade la scrittura consoliana. La perdita delle radici, la cancella­zione del passato, che sia storico o linguistico, è ciò che angoscia maggiormente Consolo. Se il mutamento non si può fermare, tuttavia ci si deve sforzare per conser­vare la memoria di ciò che era prima:

Credo che sia proprio questo il dovere della let­teratura, il dovere della memoria. Non perdere il contatto con le nostre matrici linguistiche, che era­no anche matrici etiche, matrici culturali profonde. Perdere questo contatto significa perdere identità e perdere anche la funzione della letteratura stessa, perché la letteratura è memoria e soprattutto me­moria linguistica. (Autobiografia della lingua, p. 12)

La trasmissione della memoria, fine ultimo della scrittura, che in essa trova il suo valore etico, non vuol dire per Consolo solamente raccontare i fatti del passato, ma vuol dire anche inglobare all’inter­no dell’opera la tradizione linguistica e letteraria, in protesta contro il livellamento della lingua italiana sul linguaggio dei media e la perdita dei valori che l’arte ha saputo esprimere nel corso dei secoli. Per questo possiamo affermare che l’iperletterarietà in Consolo è prima di tutto una missione etica, uno strumento per incidere sul presente, una voce di protesta. Consolo è insomma uno di coloro che me­glio hanno saputo inserirsi nell’etichetta di “scrit­tore impegnato”, riuscendo a rendere pienamente onore a entrambi i termini del sintagma. 6

Giugno 2022 Editora Comunità Rio de Janeiro – Brasil

L’IGNOTO ANTIGATTOPARDO

“Mese Consolo”, una serie di eventi per celebrare i dieci
anni dalla scomparsa dello scrittore Vincenzo Consolo

Sbeffeggiando chi lo accusava di essere anacronistico, con un sorriso sardonico, rispondeva che era anche anacreatico. Sono trascorsi dieci anni dalla scomparsa di Vincenzo Consolo, uno dei più grandi scrittori del Novecento italiano. Era un gelido pomeriggio milanese del 21 gennaio 2012. L’anniversario sarà ricordato nel corso di un intenso “Mese Consolo”, una serie di eventi curati da Ludovica Tortora de Falco, regista nel 2008 del film “L’isola in me, in viaggio con Vincenzo Consolo”. Manifestazioni che si snoderanno dalla Sicilia a Milano in collaborazione con la “Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori”. Vincenzo Consolo, per tutta la vita, ha difeso, custodito, una lingua feriale che non esisteva più, conferendo incessantemente asilo alle parole espunte dall’imperante linguaggio televisivo plastificato.Ma ad un certo punto della sua carriera è come se l’autore di “Retablo” avesse avvertito la fatale stanchezza della parola.

“Aborriva il romanzo, questo genere scaduto, corrotto, impraticabile. Se mai ne aveva scritti, erano i suoi in una lingua diversa, dissonante, in una furia verbale ch’era finita in urlo, s’era dissolta nel silenzio”. Così scriveva Vincenzo Consolo ne “Lo Spasimo di Palermo” (1998). La riflessione maturata tra le pagine del romanzo era affidata al protagonista, Gioacchino Martinez, scrittore di libri difficili, fratti, complessi. Il protagonista, invecchiando, si sentiva uno sconfitto, un vinto verghiano. Si interrogava sul significato, sull’efficacia del suo lavoro, sulla funzione della letteratura. Vincenzo Consolo raccontava spesso del triste finale di partita scelto da Giovanni Verga, l’afasia, il suicidio del narratore. Il grande scrittore catanese, abbandonata Milano, fece ritorno in Sicilia e decise di non scrivere più. Il rimando all’autore de “I Malavoglia”, alla sua scelta estrema, Consolo lo aveva affidato al suo duale letterario Martinez. Il silenzio, come già per l’Empedocle di un altro suo testo, “Catarsi”.

Scrittore eccentrico e irregolare.

Consolo aveva dunque deciso per la progressiva ritrazione. Disubbidienza e continua sottrazione che lo avevano sempre caratterizzato. Non aveva mai ceduto alle lusinghe dell’esposizione televisiva. Non aveva mai accettato di affollare talk-show, librerie e classifiche. Le scansioni temporali che separano le uscite dei suoi libri non attengono ai continui singulti nevrotici dell’industria letteraria. Consolo era un irregolare, non era irreggimentabile, era un eccentrico. Non gli hanno perdonato la sistematica diserzione delle adunate, delle parate. Un conto che ha pagato caro a Milano e anche in Sicilia. “È siciliano, non scrive in italiano. È barocco. È oscuro. È pesante come una cassata. Le sue narrazioni non sono filanti: ma chi si crede di essere, ma come si permette?”.  Era questo il paradigma declinato dai suoi detrattori. Erano tanti i suoi nemici: cardinali della letteratura italiana, maggiordomi untuosi di consorterie politiche, raccontatori a cottimo delle gazzette di palazzo, maestri di inenarrabili gilde e di buie consorterie. Avevano ragione a detestarlo, perché a ognuno di loro aveva dedicato parole di disprezzo ineguagliabili. Vincenzo Consolo era un impertinente, irriguardoso, sprezzante, fiero, severo e inflessibile. “Credo che uno scrittore debba essere comunque contro, scomodo. Se un intellettuale non è critico, diventa cortigiano. È stato così per Vittorini, per Pasolini e per Sciascia, intellettuali contro che il sistema non è riuscito a fagocitare, assoldare, arruolare, ostentare”. Un intellettuale contro, questo è stato il suo paradigma esistenziale.

Milano approdo di ragione.

Come l’amato Verga, Consolo era approdato a Milano. La città lombarda era stata per una fitta schiera di scrittori siciliani luogo di speranza, approdo di ragione.  La stessa città che, presto, si trasformerà per lui in illusione infranta, amara realtà. La città lombarda dell’approdo e la Sicilia disperante sono state il suo cruccio, una Tauride duale. Come lo zio Agrippa di vittoriniana memoria, Consolo continuava a fare la spola tra la Sicilia e Milano.  Operava un continuo dettato esplicito di denuncia all’indirizzo di una Sicilia irredimibile e disperante. Non perdevano occasione per rinfacciarglielo i sicilianuzzi dileggiati. Facevano garrire sul pennone più alto lo stendardo abusato della Trinacria rinfacciandogli la fuga, l’abbandono. Un proclama di palazzo aveva messo al bando i libri di Consolo. Libri bollati come inadeguati, colpevoli di un insopportabile rimando a una Sicilia cupa, operando così l’isolamento e la sconfessione, consolidate pratiche criptomafiose. Il continuo dileggio operato da certa intellettualità isolana è stato un vero tormento per Consolo. Non amava le piccole patrie lo scrittore di Sant’Agata di Militello, non firmava manifestini autonomisti, non rivendicava insulse predominanze culturali.

Ignoto antigattopardo

La sua è stata una letteratura alta, di respiro internazionale. Lo testimoniano i numerosi riconoscimenti, come il “Premio dell’Unione Latina”, una sorta di Nobel per gli scrittori di lingua latina. Lauree honoris causa gli sono state conferite dagli atenei più autorevoli. Riconoscimenti accademici tributati a Parigi, Madrid, Salamanca, Dublino, Amsterdam. Mirabile l’attacco del suo romanzo Retablo :  “Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha ròso, il mio cervello s’è mangiato (…)”. Libro che gli varrà il “Premio Grinzane Cavour” nel 1988. La figura centrale è il pittore lombardo, Fabrizio Clerici giunto a Palermo in un vago Settecento. Il libro fu pubblicato dalla casa editrice “Sellerio” con una nota introduttiva di Leonardo Sciascia. Scrittura icastica quella consoliana, connaturata da un’intensa immaginazione pittorica. La pittura era la sua seconda grande passione.  Esemplari le sue prefazioni di mostre. Inserti, racconti, prove d’autore che lo scrittore traslava, successivamente, nei capitoli dei suoi libri. Raffinata la pittura delle sue ricercatissime copertine, opere di grandi artisti: Antonello da Messina, George de la Tour, Fabrizio Clerici, Ruggero Savinio, Caravaggio, Raffaello. Giungevano sempre dal mare i protagonisti dei romanzi di Consolo. Dal mare giunge il protagonista del suo primo grande successo, “Il sorriso dell’ignoto marinaio” (1976). Cesare Segre fu il primo a intuire la specificità dell’invenzione linguistica consoliana. Lo studio di Segre era incentrato sull’eccentricità di quel giovane scrittore siciliano che non forniva al lettore nessuna indicazione didascalica. Il lettore attento di Consolo, aveva dunque fatto l’abitudine all’improvviso cambiamento di registro, all’enciclopedismo ipnotico della sua scrittura, alle scansioni ritmiche in battere e levare, ai capovolgimenti di fronte. Era una compitazione musicale da cuntista, quella dello scrittore di Sant’Agata di Militello. Parole antiche che tracciavano l’ordito complesso delle sue pagine. Come accade per i grandi, per i classici, ogni successiva rilettura dei libri di Consolo disvelava una trama invisibile, texture impercettibili, un’architettura accennata, una raffinatezza impareggiabile, il recupero di una lingua extraletteraria, financo del dialetto. Il rinvenimento di memorie antiche, forme dialettali è stata la sua cifra stilistica controcorrente: “Fin dal mio primo libro ho cominciato a non scrivere in italiano. Ho voluto creare una lingua che esprimesse una ribellione totale alla storia e ai suoi esiti. Ma non è dialetto. È l’immissione nel codice linguistico nazionale di un materiale che non era registrato, è l’innesto di vocaboli che sono stati espulsi e dimenticati”. Come ha scritto il critico Massimo Onofri, rileggere i libri di Consolo è come entrare a occhi chiusi in una miniera e uscirne, ogni volta, con un’insospettata nuova pietra preziosa. “Il Sorriso dell’ignoto marinaio” è stato il libro risolutore, non solo nel senso della rivelazione dell’autore. Un libro che, a distanza di anni, appare quanto mai attuale e urgente. Il protagonista è Enrico Pirajno, barone di Mandralisca, un aristocratico siciliano ottocentesco. Vive un’esistenza di ordinaria beauté aristocratique, sconvolta dall’incontro con il rivoluzionario Giovanni Interdonato e dalle rivolte dei contadini. Accadimenti che gli imporranno di mettere cultura e ricchezze al servizio della causa risorgimentale. Nell’edizione parziale del romanzo (1975), Corrado Stajano salutava l’opera come: “Un nuovo Gattopardo, ma più sottile, più intenso”. Il critico Antonio Debenedetti scrisse un articolo dal titolo “L’ignoto Antigattopardo”.

Il sorriso di Consolo il marinaio

Il falso ritratto che di lui si tratteggiava, quello di uno scrittore scorbutico e irriverente, non corrispondeva all’immagine privata, quella vera. Un uomo che appariva invece solare, ironico, dal sorriso ineffabile, quello di un Vincenzo Consolo privato, insospettato, autoironico. Scherzava spesso prendendo in giro la radice stessa del suo cognome: “Da quel cognome suo forse di rinnegato, di marrano di Spagna o di Sicilia, che significava eredità di ansime, malinconie, rimorsi dentro nelle vene. O dall’incrocio, di questo di Giudea o Samaria, con semierranti per venti d’invasioni terremoti carestie, d’Arabia, Bisanzio Andalusia”. Come accade per le grandi invenzioni della letteratura, Vincenzo Consolo, ha anticipato con i suoi libri gli avvenimenti della storia di questa nazione infetta. Così come è accaduto con il romanzo “Nottetempo, casa per casa” (1992). Il libro, ambientato nei primi anni Venti del Novecento, racconta dell’avvento del fascismo. I luoghi del romanzo sono quelli che vanno da Cefalù a Palermo. Si narra delle vicende della famiglia Marano. In realtà tratteggia l’Italia della fine degli anni Novanta, con l’avvento della destra violenta, l’insorgere di nuove metafisiche, misticismi e sette misteriche. Milano, Cefalù e Palermo, nella sua personale geografia letteraria compongono l’invisibile triangolo della complessa scenografia linguistica di Consolo.  

Odiosamata Palermo

Palermo era, dopo Milano, l’altra città-tormento dello scrittore siciliano. Come si fa con i grandi amori e le passioni insopprimibili, all’odiosamata Palermo, Consolo ha riservato pagine di esaltazione e invettive furibonde.  Il suo snodo centrale era l’Isola, la Sicilia il tema dominante di tutti i suoi libri:  “Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta di addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca”. Consolo operava un distinguo ineludibile tra scrittore e narratore. La sua scrittura sconfinava con rapide incursioni nella poesia, come nella favola teatrale “Lunaria”. Il protagonista è un viceré malinconico e misantropo, costretto a vivere in una città solare e violenta di cui è l’unico a vedere la reale decadenza. Sogna la caduta della luna. E la luna cade davvero, in una contrada del vicereame, gettando scompiglio tra i contadini ma ancor più tra gli accademici chiamati a spiegare il prodigio con la loro povera scienza. La poesia è legata anche a un grande personaggio che compare tra le pagine del suo libro “Le pietre di Pantalica”, il barone magico Lucio Piccolo. Consolo ricordava spesso l’immenso poeta aristocratico di Capo d’Orlando e i suoi versi lunari: “Spento il rigore dei versetti a poco a poco / il buio è più denso / sembra riposo ma è febbre: / l’ombra pende al segreto / battere di un immenso / Cuore / di / fuoco”.

Tragico finale di partita

In una gelida Milano, Vincenzo Consolo lascia tutti orfani della bellezza delle sue parole. Consolo il marinaio lascia libri straordinari, un romanzo inedito al quale lavorava da anni che non sarà mai pubblicato, l’amata moglie Caterina, l’inseparabile compagna: “A Caterina devo tutto. Mi ha conferito coraggio, fiducia, serenità”. Un addio crudele dunque. Ogni finale di partita è sempre tragico, solenne. Come accade all’Empedocle consoliano tra le righe del testo teatrale Catarsi:

Ánthropoi therés te kai ichthúes”.

                                                                                               Concetto Prestifilippo

Centro di studi e iniziative culturali Pio la Torre
Rivista: ASud’europa direttore Angelo Meli
16 gennaio 2022

Dieci anni senza Vincenzo Consolo. Articoli, lettere reportage: ecco la sua “officina” di parole

di Salvatore Ferlita

Vincenzo Consolo 

Da ogni testo emerge il rigore della sua scrittura. “Su un’opera lavorava anche dieci anni”

Un tonnellaggio di carte, pressappoco. Tra epistolari, manoscritti e dattiloscritti, articoli per riviste e quotidiani, reportage, ricerche, bozze di stampa tormentate dalle correzioni, materiali di studio, soggetti, appunti di lavoro, documenti legati all’attività di lettore di professione, la rassegna stampa della critica nazionale e internazionale. Ecco servito, in sintesi, l’archivio di Vincenzo Consolo, sul quale si accendono i riflettori in occasione del decennale della morte del grande scrittore siciliano. Si intitola “Mese Consolo” il tributo reso dalla società di produzione Arapàn, dall’associazione “Amici di Vincenzo Consolo” e dalla Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, al romanziere di Sant’Agata di Militello. Sono previsti più di dieci appuntamenti, spalmati tra il 21 gennaio e il 18 febbraio da Nord a Sud: incontri, conferenze, rappresentazioni, proiezioni, presentazioni di libri. Tra le sedi prescelte c’è proprio la Fondazione Mondadori, dove l’archivio dell’autore di “Lunaria” è custodito e che per tre anni, in realtà quando ancora aveva sede nell’abitazione dello scrittore, è stato compulsato forsennatamente da Gianni Turchetta, ordinario di Letteratura italiana contemporanea alla Statale di Milano. Dall’estate del 2011 alla fine dell’autunno del 2014 lo studioso e critico letterario ha passato al vaglio le carte di Consolo, in vista della realizzazione del Meridiano Mondadori, uscito poi l’anno successivo col titolo “L’opera completa”.

Proviamo a entrare, dunque, nell’officina dello scrittore, a varcare la soglia della sua stanza d’alchimia, assistiti da Turchetta appunto, massimo conoscitore di Consolo e oggi indiscusso sacerdote della sua memoria: “La valanga di materiale che l’archivio allinea – spiega l’italianista che di recente ha curato la ristampa del volume “La Sicilia passeggiata” con le foto di Giuseppe Leone – e che riguarda l’elaborazione dei suoi testi letterari ma pure i saggi, le conferenze, gli articoli giornalistici e gli epistolari, dà perfettamente la misura dell’entità dell’impegno di Consolo, della sua etica feroce della scrittura. Si tratta di un autore che ha tenuto insieme la vocazione sperimentale e l’impegno civile, occupando la scena del dibattito culturale e politico per un lungo periodo, intervenendo su questioni grosse, diciamo così, e di dettaglio. Dalla difesa di Sciascia, quando uscì il pezzo incriminato sui professionisti dell’antimafia, alla presa di posizione in merito a questioni che potevano riguardare il Teatro Biondo di Palermo, quando si dimise da presidente, come pure la gestione di un premio letterario”.

Stiamo parlando, infatti, di uno degli ultimi intellettuali italiani: spesso Consolo, alla maniera di Paul-Louis Courier, usava la penna come la spada. Una penna che quasi sempre incrudeliva sulla pagina: da “variantista” accanito quale era, lo scrittore tornava di continuo su una frase, su una parola, nel tentativo di trovare la quadratura stilistica del cerchio. “Attraverso le carte dell’archivio – spiega Turchetta – si può perfettamente cogliere in profondità la dedizione, la vocazione, la tensione che l’hanno animato. Era in grado di lavorare anche dieci anni di seguito su un’opera. Ma c’è di più: le carte del “Sorriso dell’ignoto marinaio”, ad esempio, ci conducono dalle parti di “Nottetempo casa per casa”. Voglio dire che le ricerche su Cefalù, svolte da Consolo per scrivere il romanzo che trae spunto dal ritratto di Antonello da Messina, confluiranno poi nel libro in cui compare la figura perturbante di Aleister Crowley. Dagli anni Sessanta dunque ai Novanta: tre decenni di vera e propria ossessione narrativa”.

Una volta lo stesso Consolo spiegò a Grazia Cherchi il suo modus operandi: le disse che elaborava una sola stesura, lavorando molto su un giro di frase, su una pagina. Scriveva a mano, trasferendo subito i brani o lacerti che gli sembravano definitivi sul foglio della sua vecchia Olivetti studio 44. In realtà, precisa Turchetta, le dinamiche della scrittura consoliana erano più complesse: “Ci sono dattiloscritti sui quali Consolo scriveva a mano, oppure su di essi attaccava a volte dei pezzi di carta che erano a loro volta riscritture a macchina di periodi interi. Ma non finiva qui: ogni tanto interveniva a penna sui pezzi di carta incollati. Riscriveva un periodo intero sul margine del foglio del dattiloscritto, anche cinque o sei volte. In certi casi cambiava un dettaglio, ma non si placava fino a quando non aggiustava il tiro a dovere. Poi tutto questo lo ricopiava di nuovo con la sua Olivetti.

Insomma, i dattiloscritti di Consolo sono veri e propri materiali di battaglia. In alcuni casi siamo in possesso di otto, nove versioni dattiloscritte. Da qui anche la difficoltà di ricostruire la cronologia interna delle opere. Ne viene fuori un lavoro portato avanti fino allo sfinimento, di grande attenzione e di grande concentrazione nel tempo”. Tra le tante carte dell’archivio spiccano pure gli epistolari, che testimoniano una vita di relazioni molto ricca: ci sono quelli più corposi con gli amici Basilio Reale, il poeta e psicoanalista di Capo d’Orlando che lo fece esordire, e Leonardo Sciascia (quest’ultimo scambio di missive è uscito nel 2019): due figure che hanno giocato un ruolo assai rilevante anche nella vita professionale di Consolo. Ma sono pure da segnalare i carteggi con Sebastiano Addamo, Ignazio Buttitta, Gesualdo Bufalino. Quelli con colleghi e amici: Fabrizio Clerici, Andrea Zanzotto, Roberto Cerati, il giovane Roberto Saviano, che Consolo accolse come un figlio a casa sua a Milano e col quale però poi entrò in rotta di collisione. C’è poi la corrispondenza con Corrado Stajano che ci riserva una sorpresa: il libro “Le pietre di Pantalica” era nato dall’adesione alla proposta di scrivere un reportage storico-giornalistico sul processo ai frati di Mazzarino, per una collana dedicata ai processi celebri diretta da Giulio Bollati e, appunto, da Corrado Stajano.

“Consolo – racconta Turchetta – firma il contratto per un lavoro storico e giornalistico. Ma poi la storia gli si dilata tra le mani e diventa qualcos’altro. La narrazione, infatti, avrebbe dovuto raccontare il periodo dello sbarco americano in Sicilia, nell’estate del 1943, le lotte contadine per la proprietà delle terre. Ma anche questo progetto venne poi nuovamente riorganizzato. Stajano si scoccia e lo minaccia in un certo senso, intimandogli di pagare una penale”.

Non c’è traccia cartacea, invece, del famigerato romanzo pornografico che Consolo, con uno pseudonimo, pubblicò in vita: “Si sa qual era l’editore.

Vincenzo si divertì moltissimo a scriverlo, l’avevano pure pagato bene. Ogni tanto leggeva con grande spasso pagine di questo romanzo, la sera, a qualche amico e alla moglie Caterina”.

La repubblica 15 gennaio 2022 ediz. Palermo