Scrittore d’impegno civile

IN QUESTO NUMERO: A sud’Europa
articoli e commenti di: Vincenzo Consolo, Goffredo Fofi, Vito Lo Monaco, Gianni Parisi, Concetto Prestifilippo.
Le foto di questi numero sono tutte di Giuseppe Leone che ringraziamo sentitamente per aver reso possibile un prezioso itinerario iconografico sulla figura di Vincenzo Consolo e di altri protagonisti siciliani della letteratura quali Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino.

La forza della scrittura contro il potere;
Il sorriso di Consolo il Marinaio;
Il mio amico Vincenzo;

Una inedita autobiografia letteraria e linguistica di Vincenzo Consolo che diventa lezione di critica

Una inedita autobiografia letteraria e linguistica di Vincenzo Consolo che diventa lezione di critica

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Abbiamo avuto il piacere di ospitare Vincenzo Consolo per una lezione nell’ambito del Laboratorio di Alice.it che organizzammo tra il 2003 e il 2004.
A lui – come agli altri scrittori che parteciparono – chiedemmo di raccontare semplicemente la propria esperienza di autore.
Fortunatamente abbiamo tenuto traccia di quegli interventi ed ora possiamo ricordare il grande scrittore siciliano Vincenzo Consolo, scomparso in questi giorni, con le sue stesse parole.
Un intervento che solo chi partecipò al seminario ha avuto modo di seguire, ma che oggi proponiamo a tutti perché ci sembra necessario, anzi, doveroso.

Allora non v’era l’affollamento di libri che c’è oggi: i libri si potevano ancora memorizzare, si capiva l’importanza che potevano avere e si sapeva come collocarli.

Naturalmente non avevo inventato niente, ma mi collocavo in una linea stilistica che partiva da Verga, e arrivava a Gadda, Pasolini, Mastronardi o Meneghello.

Non era un cammino dalla corruzione dell’italiano al dialetto, ma l’opposto, era la profondità di certi vocaboli, di certi modi di dire provenienti dall’antichità che veniva immessa nel codice centrale: il vocabolo greco, il vocabolo arabo, mi davano una pregnanza maggiore del vocabolo italiano.

Per mia fortuna ho sempre creduto che la storia è fatta di momenti regressivi e di momenti progressivi, e che l’uomo, stando insieme – come dice Leopardi – “confederato con gli altri uomini” può correggere i mali dell’esistenza.

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Iniziamo dicendo che non ho mai creduto all’innocenza di chi intraprende una strada d’espressione, sia essa letteraria, musicale o pittorica; certo, ci sono stati i naïf, i cosiddetti nativi, ma sono casi rarissimi di felicità innocente. Io credo che quando s’intraprende un cammino espressivo bisogna essere consapevoli di quello che ci ha preceduto nel momento in cui abbiamo deciso di muovere i primi passi e di quello che si sta volgendo intorno a noi nel momento in cui ci accingiamo a scrivere. Questo è successo a me.

C’ERA UNA VOLTA…

Devo ora introdurre delle note autobiografiche: come sapete io sono nato in Sicilia – i miei hanno avuto questa sventura – e ho fatto i miei studi a Milano. Ho conosciuto la Milano degli anni ‘50, una Milano con le ferite della guerra ma pure con un’anima popolare, direi “portiana”, che ancora si conservava in quegli anni. Ho frequentato l’Università Cattolica non per convinzione religiosa, ma perché sono capitato lì per caso; e in quegli anni, in piazza Sant’Ambrogio, dinanzi all’Università, la sera vedevo arrivare in tram senza numero, migranti provenienti dal meridione: lì v’era un grosso casermone, un ex-convento del Settecento, nel quale da una parte vi era la caserma della celere e dall’altra un “Centro orientamento immigrati”. Questi tram provenienti dalla stazione Centrale scaricavano gli emigranti che venivano sottoposti a visite mediche ed erano poi avviati in Belgio, nelle miniere di carbone, in Svizzera o in Francia. Quelli che dovevano andare in Germania venivano smistati a Verona. Io, da studentello privilegiato, osservavo e non capivo cosa succedeva. Mi ricordo però che gli emigranti destinati alle miniere belghe di carbone, erano già equipaggiati con la mantellina cerata, il casco e la lanterna. Spesso erano miei conterranei che avevano lasciato le miniere di zolfo perché la crisi dello zolfo ne aveva causato la chiusura, e quindi dalle miniere di zolfo passavano a quelle di carbone.

LA VOCAZIONE ALLA SCRITTURA

In quegli anni avevo maturato l’idea di fare lo scrittore: pur frequentando la facoltà di giurisprudenza le mie letture erano di carattere letterario. Ero venuto a Milano perché era la città dove era stato Verga, e perché all’epoca c’erano Vittorini e Quasimodo. Inoltre, avevo il desiderio di incontrare Vittorini perché Conversazioni in Sicilia era stato per me una sorta di vangelo. Ma, insieme a Conversazioni in Sicilia, c’era stato tutto un bagaglio di letture di ordine storico-sociologico che mi aveva formato in quegli anni ed era tutta la letteratura meridionalista: le letture di Gramsci o Salvemini sulla questione meridionale, sino a Carlo Doglio, Carlo Levi con Cristo si è fermato a Eboli o con Le parole sono pietre, e Sciascia.
Finita l’Università ho pensato di voler fare lo scrittore di tipo “testimoniale”, storico-sociologico sulla linea non di Vittorini ma di Carlo Levi, di Dolci, e del primo Sciascia. Tornato in Sicilia, dopo la laurea, mi sono rifiutato di fare professioni liberali come il notaio, l’avvocato o il magistrato, e ho insistito coi miei genitori per fare l’insegnante. Così ho insegnato diritto, educazione civica e cultura generale in scuole agrarie, nei paesi sperduti di montagna, perché era questo il mondo che volevo conoscere. In quegli anni poi continuavo, con la mia curiosità e la mia felice voracità di lettore. A quell’epoca non c’era la televisione e quindi il mondo lo si poteva conoscere solo attraverso i libri e la scrittura. Seguivo tutti i dibattiti culturali dell’epoca, quali l’esperienza vittoriniana della collana dei “Gettoni” dove poi sono usciti i maggiori scrittori dell’epoca come Bassani, lo stesso Sciascia, e tanti altri; e poi la rivista letteraria che dirigevano allora Vittorini e Calvino, “Il Menabò”. Inoltre, mi tenevo aggiornato su tutta la letteratura editoriale. Allora non v’era l’affollamento di libri che c’è oggi: i libri si potevano ancora memorizzare, si capiva l’importanza che potevano avere e si sapeva come collocarli.

IL PRIMO LIBRO, I TEMI

Quando mi accinsi a scrivere il mio primo libro, l’intenzione era appunto di restituire la realtà contadina in forma sociologica: l’idea iniziale era stata quella di mettermi sul coté “leviano”, di Sciascia, invece, poi, sia l’istinto, sia la consapevolezza, mi portarono in una direzione letteraria, narrativa nel senso più ampio della parola. Che tipo di narrativa ho scelto di praticare? Ho subito preso la decisione di praticare dei temi storico-sociali non assoluti, ma relativi, e questo mi permetteva di esprimere, attraverso la scrittura, quella che era la mia visione del mondo, una visione storico-sociale, non esistenziale.
Il problema principale era scrivere del mondo che conoscevo, che avevo praticato e di cui avevo memoria, ma con quale stile, con quale linguaggio, con quale tipo di scrittura? In quegli anni si esauriva la stagione letteraria del “Neorealismo”, di tutta quella letteratura del secondo dopoguerra di tipo memorialistico, che era una scrittura mobilissima ma assolutamente referenziale, comunicativa.
Gli scrittori che mi avevano preceduto di una generazione, scrittori autentici, grandi, come Moravia, Elsa Morante, Calvino, lo stesso Sciascia, Bassani e tanti altri, avevano vissuto il periodo del Fascismo e della guerra, e tuttavia avevano continuato a scrivere in uno stile assolutamente comunicativo, razionalista o illuminista che dir si voglia anche nel secondo dopoguerra.

IL PRIMO LIBRO, LA SCELTA DELLO STILE

Io però mi sono reso conto che non potevo scegliere quel registro stilistico, non potevo praticare quella lingua e cercherò di spiegarne le ragioni. Gli scrittori che mi avevano preceduto, avendo vissuto il periodo della guerra e del dopoguerra, avevano nutrito la speranza che, con l’avvento della democrazia, poteva nascere in questo paese una società più giusta, democratica, armonica, con la quale poter comunicare. Avevano come schema la Francia dell’Illuminismo e del Razionalismo, dove la società si era già formata all’epoca di Luigi XIV, e poi, con le istanze della rivoluzione, era giunta al riconoscimento di equità e giustizia nelle società civili. Ho chiamato il registro che avevano scelto quegli scrittori, il “registro della speranza”.
Quando sono nato come scrittore (pur avendo vissuto l’esperienza della guerra da bambino mi ero però formato nel secondo dopoguerra) mi sono reso conto che la speranza che essi avevano nutrito non esisteva più: nel ’47 v’erano state le prime elezioni in Sicilia con la vittoria del blocco del popolo: la sinistra aveva avuto la maggioranza assoluta in questa prima prova elettorale ma, dopo le intimidazioni succedutesi a tali elezioni, v’era stata la strage di Portella della Ginestra; poi le elezioni del ’48 con la vittoria della DC. E io mi rendevo conto, dal mio angolo di mondo, che quella società giusta, armonica, in cui si sperava, a cui si tendeva, non si era realizzata, ed erano rimaste disparità, ingiustizie, e molti problemi ereditati dal passato. Quindi per me, la scelta di una lingua, di uno stile comunicativo, era assolutamente impensabile, non potevo praticare quel codice linguistico che era il codice linguistico centrale, quel toscano che poi, valicando le Alpi, attingeva a una specie di reticolo illuministico francese: questa è la lingua di Calvino, di Sciascia o Moravia, anzi di Moravia si diceva che scriveva con una lingua che pareva tradotta da una lingua straniera, talmente era comunicativa: a lui interessava restituire gli argomenti più che dare attenzione allo stile, un po’ come Pirandello che aveva inventato un mondo inesplorato nel quale la lingua era assolutamente funzionale a quello che voleva comunicare. Pertanto la mia scelta andò in un senso opposto, cioè in un contro-codice linguistico che non fosse quello centrale e che fosse un codice di tipo sperimentale-espressivo.

Cerco di spiegare meglio cosa intendo con codice di tipo sperimentale-espressivo.
Naturalmente non avevo inventato niente, ma mi collocavo in una linea stilistica che partiva da Verga, e arrivava a Gadda, Pasolini, Mastronardi o Meneghello, a quegli sperimentatori o espressivi che dir si voglia: questa linea ha sempre convissuto nella letteratura italiana con la linea del codice centrale, toscano.
Ora, le tecniche degli sperimentatori-espressivi sono personali, variano da autore a autore, per esempio Verga s’era opposto all’utopia linguistica del Manzoni, perché Manzoni nella sua utopia riteneva che l’Italia, dopo la sua unità, dovesse avere una sua lingua unica. Così, dopo aver scritto Fermo e Lucia ha scritto I promessi sposi in questa lingua centrale toscana; in realtà, con la frase “sciacquare i panni in Arno” li aveva già portati umidi dalla Senna, essendosi formato anche lui con l’Illuminismo francese. Verga è stato dunque il primo che ha rivoluzionato l’assunto della centralità della lingua inventando una lingua che nella letteratura italiana non era mai esistita, un italiano che non era dialetto (Verga aborriva il dialetto): si trattava di una lingua appena tradotta dal siciliano all’italiano, quella che Dante, nel De vulgari eloquentia chiama “la lingua di primo grado”.
Pasolini invece definisce la lingua di Verga “un italiano irradiato di italianità”. Verga non avrebbe mai potuto rappresentare i contadini di Vizzini, i contadini siciliani oppure i pescatori di Aci Trezza e farli parlare in toscano, sarebbe stata per lui un’incongruenza, quindi scelse una lingua monocorde come i versetti di un corano, di un vangelo o una Bibbia, una lingua sacra, come i proverbi tramandati dalla sapienza e ripetuti dai personaggi, una lingua chiusa e circolare, sacralizzata, irradiata di dialettalità.

Dunque io mi inquadravo in questa grande ombra verghiana, che passava per gli scapigliati milanesi della prima rivoluzione industriale del 1872 e arrivava al polifonico Gadda e a Pasolini.
La tecnica di Pasolini e di Gadda era un po’ simili: loro partivano dal codice centrale, dalla lingua toscana e poi, man mano, regredivano verso le forme dialettali, con l’immissione, l’irruzione dei dialetti nella lingua scritta, nella lingua italiana. Tuttavia, mentre in Gadda v’è una polifonia di dialetti, soprattutto in quel capolavoro che è Quel pasticciaccio brutto de via Merulana, dove sono orchestrati oltre che al romanesco gli altri dialetti italiani, in Pasolini invece v’è la digressione verso il romanesco del sottoproletariato romano, con una discesa verso il romanesco.

Per quanto mi riguarda la tecnica che mi sono imposto è stata, scegliendo il codice espressivo-sperimentale, la tecnica dell’innesto, nel senso che mi sono trovato a disposizione un giacimento linguistico ricchissimo che era quello della mia terra, la Sicilia.
Ora, senza mitizzare o enfatizzare, in questa mia terribile terra, v’è una stratificazione linguistica enorme: oltre ai templi greci vi sono pure giacimenti linguistici che hanno lasciato le diverse civilizzazioni, a partire dalla Grecia, l’arabo o il latino, lo spagnolo, il francese. Quindi ho pensato che bisognava rimettere nel codice centrale questo glossario, queste forme sintattiche che erano state espunte dal codice centrale, e riprendere queste parole che avevano una loro dignità filologica, una loro storia, e inserirle nella scrittura, nel mio codice, nel mio modo di scrivere. Ma questo non per esigenze di tipo estetico, quanto piuttosto di tipo etico perché, un po’ come Verga, non potevo rappresentare la realtà della mia terra in senso metaforico: i miei libri si svolgono tutti in Sicilia, sarebbe stato difficile prescindere dal luogo della memoria, non potevo raccontare la storia della mia terra in una lingua centrale, in un toscano ideale, in una lingua utopica, antica. L’unico modo era rappresentarla attraverso le radici profonde provenienti dalla storia della Sicilia, che non era di tipo orizzontale ma era di tipo verticale, scavare dal profondo di questi giacimenti, un po’ come fare l’archeologo – io poi lo facevo da dilettante poiché non ero propriamente un filologo -, però mi piaceva molto e sentivo la necessità di usare questo tipo di ricerca, di scandagliare nella profondità della storia siciliana attraverso la lingua, attraverso le forme dialettali e di immetterle nella lingua. Non era un cammino dalla corruzione dell’italiano al dialetto, ma l’opposto, era la profondità di certi vocaboli, di certi modi di dire provenienti dall’antichità che veniva immessa nel codice centrale: il vocabolo greco, il vocabolo arabo, mi davano una pregnanza maggiore del vocabolo italiano, erano portatori di una storia più autentica e ubbidivano a un’esigenza di significato e di significante, cioè di suono, come dicono i linguisti, in quanto si accordavano, nell’organizzazione della frase, con l’armonia delle altre parole.

IL RITMO E LA FORMA

Ecco, la ricerca procedeva proprio in questo senso, mentre l’organizzazione della frase e della prosa, avanzava in senso ritmico, in senso prosodico.
Questo è un altro problema che cerco ora di spiegare. A partire dal primo libro, La ferita dell’Aprile, ho cercato di dare una scansione ritmica alla frase, cercando di accostare la prosa illuministica, la prosa comunicativa, in cui l’autore autorevole, tipo Manzoni, interrompe di tempo in tempo la narrazione, e poi riflette sulla storia che sta raccontando per dialogare con il lettore, per introdurre una riflessione e un ragionamento di tipo filosofico nella narrazione.
Nella Nascita della tragedia Nietzsche descrive il passaggio dalla tragedia antica di Eschilo e Sofocle alla tragedia moderna di Euripide in cui v’è l’irruzione dello spirito socratico: i personaggi iniziano a riflettere, a ragionare e non più a cantare come avveniva nella tragedia antica, in cui l’anghelos, il messaggero, narrava l’antefatto al pubblico con un linguaggio comunicativo. Da quel momento iniziava la tragedia, i personaggi iniziavano ad agire, a parlare; seguiva la parte del coro che commentava la tragedia che si stava svolgendo. Nietzsche sostiene che nella tragedia antica v’è lo spirito dionisiaco, prevale lo spirito musicale, poetico, mentre nella tragedia moderna è lo spirito socratico ad avere la meglio, la filosofia e la riflessione. Ora, prendendo spunto dal discorso nietzschiano ho pensato che in questo nostro tempo, nella nostra civiltà di massa vittima dominata dalla rivoluzione tecnologica, l’anghelos non può più apparire sulla scena: il messaggero non può più usare il linguaggio della comunicazione con cui far iniziare la tragedia perché, mentre prima l’autore sapeva di parlare alla borghesia colta perché gli strati popolari erano ignoranti, ora non sa più a chi si rivolge. Pertanto ho creduto che bisognasse spostare la prosa verso la forma del coro e della poesia, dando alla prosa un ritmo di tipo poetico: ho eliminato la parte autorevole dell’autore e della riflessione, per cui la prosa si presenta come un poema narrativo, come quello che praticavano gli aedi omerici, i quali, quando narravano, dovevano eliminare tutte le scorie non musicali, non ritmiche, per ragioni mnemoniche. Ho spostato dunque la mia ricerca verso la forma poetica perché penso che la scrittura comunicativa non sia più praticabile, poiché credo che, in questo nostro contesto, in questo nostro mondo attuale, sia venuto meno il rapporto tra il testo letterario e il conteso “situazionale.

LA QUESTIONE LINGUISTICA

A questo punto vorrei fare un discorso sulla lingua italiana.
Nel De vulgari eloquentia Dante sostiene che esiste una lingua di primo grado che apprendiamo da bambini dalle persone a noi più vicine, genitori e parenti, e una lingua colta, quella che lui chiama la lingua grammaticale.
Ora, la ricchezza della lingua italiana è dovuta proprio alla confluenza di questi due livelli linguistici, lingua colta e lingua popolare. Il discorso sulla lingua ha impegnato molti scrittori italiani, da Dante a Castelvetro, a tantissimi altri sino a Leopardi che nello Zibaldone si sofferma moltissimo sulla questione della lingua istituendo un paragone tra francese e italiano: la lingua francese, al contrario di quella italiana, ha “perso l’infinito che aveva in sé”, è una lingua che per ragioni storiche e politiche si è “geometrizzata” o anche orizzontalizzata, perdendo quella profondità e quegli echi, quelle infinità che Leopardi riscontrava nella nostra lingua.
Dopo Leopardi e Manzoni, molti altri hanno riflettuto sulla questione linguistica, ma dobbiamo arrivare sino a Pasolini, il quale, scrive proprio nel momento della grande trasformazione italiana, della fine del mondo contadino e della nascita dell’Italia neocapitalistica: con l’inurbamento delle masse meridionali nel triangolo industriale e l’irruzione dei mezzi di comunicazione di massa il Paese subì un mutamento profondo sia dal punto di vista sociale che linguistico. Pasolini colse questa grande trasformazione e, nel 1964, pubblicò un saggio, intitolato Nuove questioni linguistiche in cui svolge un’attenta analisi della situazione linguistica dell’Italia degli anni Sessanta e parla di “sviluppo senza progresso”, di un peggioramento seguito al miracolo economico.

Pasolini sostiene inoltre che l’asse linguistico dal centro-meridione si era spostato verso il settentrione e la lingua italiana era diventata una lingua aziendale e tecnologica: tutti gli italiani parlavano finalmente la stessa lingua, quella dei mezzi di comunicazione di massa. Era la fine della lingua di primo grado di cui aveva parlato Dante a favore della lingua media.
Per la prima volta si era formata una lingua nazionale; se prima, come diceva Leopardi vi erano molte lingue, poi, col neocapitalismo e coll’esplosione dei nuovi mezzi di comunicazione di massa, si era formata una lingua italiana unica, orizzontale, che non era affatto la lingua geometrica e civile francese di cui aveva parlato Leopardi, ma era una lingua assolutamente irrigidita, orizzontalizzata, e impoverita in quanto priva di memoria, di qualsiasi retaggio culturale, sia di cultura alta, sia di cultura bassa.
Questa lingua aveva inorgoglito e fatto gioire scrittori come Umberto Eco e linguisti come Tullio De Mauro, però io credo che avesse ragione Pasolini nel sottolineare la grande perdita subita dal punto di vista linguistico. Dal saggio di Pasolini sono passati 40 anni ma pensate a cosa è avvenuto nella nostra lingua: leggendo i giornali o ascoltando gli speakers della televisione sentiamo che questa nostra lingua è divenuta una koinè fragile, indifesa, continuamente violentata, colonizzata dai gerghi tecnologici e invasa dall’americanismo. La nostra lingua italiana ha una matrice latina e non può diventare una lingua monosillabica perché noi abbiamo un’articolazione sintattica ricchissima che viene proprio dallo sviluppo della civiltà latina. Tuttavia, sebbene la nostra lingua sia fragile e parlata solo in Italia. assistiamo a un fenomeno curioso e molto incoraggiante: nelle Università americane v’è una richiesta di studio dell’italiano da parte degli studenti americani che cresce di anno in anno. Mentre la nostra lingua si impoverisce ed è invasa dall’americanismo, in America v’è un nemico interno, gli studenti che vogliono studiare l’italiano. Io credo queste società sviluppate, tecnologiche e mercantili sentano l’esigenza di praticare un mondo di umanità, di cultura, che loro forse hanno perso e, quindi, scelgono l’italiano come lingua di cultura.

I ROMANZI

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Lasciando questo lungo discorso sulla lingua, torno alla mia ricerca, sempre più accentuata negli anni in direzione della frase metrica, ritmica. Invece di fermare la narrazione e fare delle riflessioni di tipo filosofico, come ha teorizzato Kundera, io interrompo la narrazione per alzare il tono della scrittura in una forma ancora più alta, tra virgolette, e se possibile ancora più poetica, come se fosse il coro della tragedia greca a parlare: vi sono delle parti corali che fanno non da riflessione, ma da commento all’azione che sto raccontando, alle vicende che sto narrando.
Nel mio primo libro, La ferita dell’aprile (1973), in cui un io narrante-adolescente parla del secondo dopoguerra in Sicilia, della riorganizzazione della vita politica, della vita sociale, delle prime elezioni in Sicilia, del ’48 e altro, ho adottato questo stile, usando spesso, anche nell’organizzazione della frase, le rime e le assonanze in senso comico-sarcastico, in senso di parodia della società degli adulti.
Nel secondo romanzo, Il sorriso di un ignoto marinaio (1976) la situazione è quella di un rivoltoso che è costretto a scappare e a nascondersi perché inseguito dalle forze della repressione: “Si, bisogna scappare e nascondersi, bisogna attendere, attendere fermi….. è caduto su punte di cristallo”. Naturalmente c’è la memoria della storia di Pinelli, caduto o fatto suicidare… Il mio secondo libro è uscito a tredici anni di distanza dal primo: questo lasso di tempo ha coinciso con la mia seconda venuta a Milano, nel 1968. Mi ero reso conto che la mia attività di insegnante era assolutamente inutile e che il mio stare in Sicilia era divenuto insostenibile, invece Milano era una città interessante – anche se stentavo a riconoscerla – perché qui si svolgeva la storia più accesa, quella del ’68, con un grande dibattito culturale, politico, e sul piano pratico coi grandi conflitti tra il mondo del lavoro e quello del capitale, tra gli imprenditori e gli operai. All’epoca fui sollecitato anche dalla lettura dei “Menabò” di Vittorini e di Calvino che invitavano, in questo momento storico importante e acuto, i giovani autori ad inurbarsi, a studiare la grande trasformazione italiana e la realtà urbana perché il mondo contadino era finito: vi era un nuovo paese da narrare, da rappresentare.

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Così io mi trovavo a Milano nel ’68, e mi sono sentito spaesato e spiazzato di fronte ad una realtà urbana e industriale che non conoscevo, di cui non avevo memoria e per cui mi mancava il linguaggio. La stessa sorte era toccata a Verga, approdato a Milano nel 1872 al momento della prima rivoluzione industriale. Egli fece una grande rivoluzione stilistica, ma in direzione del capitalismo rurale e medievale del latifondo siciliano, rifiutando cioè il capitalismo progressivo della prima rivoluzione industriale. Anch’io rimasi spiazzato ma agii diversamente da Verga: per mia fortuna ho sempre creduto che la storia è fatta di momenti regressivi e di momenti progressivi, e che l’uomo, stando insieme – come dice Leopardi – “confederato con gli altri uomini” può correggere i mali dell’esistenza: siamo degli esseri finiti, fragili, e forse la letteratura come pure la religione nasce da questo senso di fragilità e di finitezza che avvertiamo, per questo abbiamo bisogno di scrivere, di pregare, di istanze spirituali. Io credo nella storia e credo che l’uomo possa intervenire nella storia, perciò non ho avuto il ripiegamento ideologico che ha avuto Verga, ho pensato che per rappresentare l’Italia e soprattutto la Milano di quegli anni, le grandi istanze, le richieste di mutamento di questa nostra società, dovessi assolutamente ripartire dalla mia terra, dalla Sicilia. Così ho scelto un topos storico, il 1860, poiché mi pareva un momento storico somigliante a quello del 1968: ho scritto un romanzo storico, Il sorriso dell’ignoto marinaio, ambientato al momento della venuta di Garibaldi in Sicilia e delle speranze che si erano accese negli strati contadini e popolari siciliani di un mutamento anche politico e sociale. C’era stata l’unità ma le condizioni degli strati popolari erano rimaste le stesse. Da qui la grande delusione e tutta quella letteratura di tipo sociale, la questione meridionalista trattata da Salvemini e Gramsci, ma pure la letteratura narrativa di riflessione sull’unità d’Italia, come ad esempio I Malavoglia e il Mastro don Gesualdo di Verga, I Viceré di De Roberto, I vecchi e i giovani di Pirandello, fino ad arrivare al Gattopardo di Tomasi di Lampedusa.

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Il primo libro che ho scritto, in prima persona, era una sorta di libro di formazione, di iniziazione, di educazione sentimentale. Tuttavia credo che dopo il primo libro non si possa più praticare la prima persona, bisogna occuparsi del proprio progetto letterario, cercare la propria identità. Per questo, dopo Il sorriso dell’ignoto marinaio, ho concepito un ciclo di romanzi a sfondo storico, una trilogia: Notte tempo, casa per casa (1992) parla di un momento cruciale della storia italiana, gli anni Venti e la nascita del Fascismo, raccontato dall’angolazione di un piccolo paese della Sicilia, Cefalù: qui mi occupo della crisi delle ideologie che sono succedute al primo dopoguerra, dell’insorgere di nuove metafisiche, di istanze di tipo settario, delle sette religiose di segno bianco e nero; ultimo della trilogia, Lo spasimo di Palermo (1998), affronto la contemporaneità, gli anni Novanta in Sicilia, anche se con flashback che partono dal secondo dopoguerra e arrivano al 1992 con la strage di via D’Amelio e la morte del giudice Borsellino.
Sono seguiti altri libri collaterali, per esempio Retablo (1994) oppure L’olivo e l’olivastro (1994), in cui ho cercato sempre di praticare riflessioni sulla realtà. L’olivo e l’olivastro è un libro ambientato in Sicilia in cui non v’è finzione letteraria, si narra di un viaggio nella Sicilia degli anni ’80 e ’90 sullo schema del viaggio di ritorno di Ulisse che non ritrova più la sua Itaca, o meglio, la ritrova ma non la riconosce perché è degradata, è devastata, soggiogata e dominata dai proci, gli uomini del potere politico mafioso, con tutti i disastri che ne sono susseguiti.

LETTERATURA COME MEMORIA

La letteratura è memoria.
Per opporsi alla cancellazione della memoria, che è il segno più eclatante della nostra epoca, è necessario praticare una scrittura che io chiamo “palinsestica”, a dire che noi scriviamo su altre scritture. Bisogna cercare di memorare, attraverso la nostra scrittura, quelle che sono le scritture precedenti, non attravreso citazioni banali ma facendo sentire l’eco del patrimoni memoriali che portiamo in noi, altrimenti rischiamo di diventare dei comunicatori televisivi.

A cura di Giulia Mozzato e Manola Lattanzi

25 gennaio 2012 Di Vincenzo Consolo

Per Vincenzo Consolo

24 gennaio 2012 • pubblicato da minimaetmoralia

Fabio Stassi ci regala un ritratto appassionato dello scrittore Vincenzo Consolo, scomparso qualche giorno fa. L’appendice che segue sono gli appunti che Stassi ha conservato di un passato Salon du livre di Parigi, dove Consolo fu ospite e parlò della sua ricerca stilistica e della sua poetica.
di Fabio Stassi

Ho conosciuto Vincenzo Consolo nella biblioteca di Storia contemporanea della Sapienza di Roma. Era un giorno di maggio del 1995. L’avevamo invitato a parlare delle biblioteche frequentate nella memoria e nel sogno. A quell’incontro con gli studenti avrebbe partecipato anche José Saramago, se il dipartimento non lo avesse ritenuto un personaggio ancora non “di chiara fama”. Consolo intervenne dopo l’inconfondibile barba bianca a due punte di Vittorio Emanuele Giuntella, uno studioso a cui volevo bene e che mi aveva insegnato tutto quello che so sull’età dell’illuminismo. Giuntella aveva scelto di raccontare le biblioteche dei lager nei quali era stato internato, e lo fece in maniera toccante. Consolo parlò invece dei libri della sua infanzia, della biblioteca di Lucio Piccolo, della scoperta della stella polare della letteratura. La sua voce era mite ma affabulatrice, capace di esprimere con la stessa forza sia la nostalgia che l’indignazione.

Fu uno dei primi scrittori che vedevo in carne e ossa, avevo letto tutti i suoi libri e lo consideravo l’ultimo esponente della tradizione del romanzo siciliano post-unitario[1]. Leonardo Sciascia era morto da qualche anno e con Gesualdo Bufalino ci avevo parlato solo per telefono (il Grande Sedentario non usciva mai dalla Sicilia: ci saremmo scritti, ma non l’avrei conosciuto perché rimandai troppo a lungo un viaggio a Comiso). Restava solo lui. Quella sera scegliemmo un piccolo ristorante, in centro, dove poter conversare in pace. E per me fu come andare a cena con la lezione umanizzata di Verga, De Roberto, Pirandello e Borgese, più la luce luttuosa di Brancati, più gli astratti furori di Vittorini e di Sciascia e l’eleganza formale di Tomasi e di Bufalino declinati tutti insieme in un espressionismo dolente. Prendemmo un gelato dietro al Pantheon. Ricordo che Consolo si arrabbiò per come cambiava la letteratura, per la sua spettacolarizzazione, e anche per l’incomprensibile sciatteria delle nostre canzoni e della musica commerciale.

Sull’esempio di chi lo aveva preceduto, il suo lavoro portava avanti quella coerente e quasi cromosomica riflessione sui fatti italiani che gli scrittori siciliani hanno sempre condotto, dalla delusione del Risorgimento e dell’unificazione sino all’omicidio dei giudici Falcone e Borsellino. Una riflessione che tra vicerè, vecchi e giovani, gattopardi, esercizi spirituali e olivastri selvatici suona come un recitativo all’inverso, una implacabile chiosa ai secolari malanni e guasti della nazione. La dominante è una dissonanza cronica: un cosmico e sgomentato discredito della storia. L’eccentrico barone Enrico Pirajno di Mandralisca, catalogatore di molluschi e collezionista d’arte, protagonista de Il sorriso di un ignoto marinaio (Einaudi, 1976), si chiede allo stesso modo dell’abate Vella del Consiglio d’Egitto di Sciascia[2]: “Cosa è stata sin qui la Storia, egregio amico?” La risposta è esemplare e definitiva: “Una scrittura continua di privilegiati.” Per lui il mondo aveva la forma di una chiocciola o di una lumaca: una spirale di ingiustizie e di soprusi, il ripetersi di una stessa mancata speranza.

Si potrebbe dire che il tema privilegiato della narrazione romanzesca, per Consolo come per Bufalino o per Sciascia, è “il tempo febbrile delle pesti”[3]. È lo stesso “mal contagioso” di cui scrive Manzoni, “il seme della peste”[4]. I personaggi che ne faranno esperienza, sono cronisti di epoche tristi e inferme, contemporanei di pestilenze ed esili che lasciano cambiati, per quanti oblii li seguiranno. È il “colera di Palermo”, la pandemia della mafia e quella nera del rimorso e del tragico senso di fallimento di una generazione che non ha saputo costruire dopo la guerra un’Italia civile e si ritrova ora a vivere in un paese franato, tra città stravolte, dove si cancellano memorie e nelle quali esala “un odore dolciastro di sangue e gelsomino”[5]. Segno che l’infezione, ancora, non è passata né che se ne potrà guarire.

Se Bufalino lavorò per decenni alla sua Diceria dell’untore, Consolo intitolò uno dei suoi ultimi libri con il nome dell’antico lazzaretto della città: Lo Spasimo di Palermo. Dalla valle “fetida, infetta” della Conca d’Oro, da questa Palermo immersa in “un sudario molle”, cielo lattiginoso e “mare d’un verdastro torbido”, e “fumi grassi” che s’alzano dalle spiagge, si può risalire fino alla Somalia del sergente di Ennio Flaiano in Tempo di uccidere o all’Algeria di Camus del dottor Bernard Rieux, che aveva proprio l’aria di un contadino siciliano. Lungo questa mappa delle metafore o cosmologia della peste, tutto ritorna all’uomo: la pena, e la rivolta, e il dovere della responsabilità e del bilancio.

Sarà un terremotato di Gibellina, emigrato nelle cave di Meirengen, vicino Basilea, a resocontare in L’olivo e l’olivastro il ritorno nell’isola odiosamata[6] ricoperta ora di gelsomini neri, un sudario di calce al posto del ricordo, una terra di massacro e una terra massacrata, dove di ciclopico è rimasta solo la demenza. Il suo viaggio, speculare a quello del Silvestro di Vittorini[7], è un dialogo con uomini e luoghi trapassati, con l’ansia divorante delle madri, un inoltrarsi nella rovina, un chiedersi cos’è successo, un sapere che si è destinati a ripartire… è l’ultimo mascheramento di Ulisse. Perché più vado avanti e più mi rendo conto che tutto quanto c’era da dire, scriverà in un altro piccolo libro Vincenzo Consolo, era già stato detto da Omero e dopo non si è fatto altro che ripetere: “l’Odissea è matrice di ogni racconto”[8].

Per qualche anno ci scambiammo solo dei biglietti, di tanto in tanto. Perché lo incontrassi  nuovamente, il caso scelse un’occasione privilegiata: il cielo grigio di Parigi e il Salon du livre del 2001. Io ci partecipavo come bibliotecario: quell’anno l’Italia era il paese omaggiato. All’ingresso avevano esposto trentacinque enormi ritratti. In uno di questi, Vincenzo Consolo teneva in mano una lente d’ingrandimento che gli dilatava l’occhio e lo sguardo mentre Rigoni Stern camminava su un sentiero innevato di Asiago. Lessi che teneva una conferenza alla sala Victor Hugo: Une heure avec Vincenzo Consolo. Mi precipitai. La sala era accanto al Padiglione Italia. Una sala gialla, affollata. Dai vetri si vedeva la gente che passava. Entrai mentre un attore stava leggendo un brano di un suo libro. Presi posto e aprii il mio quaderno per gli appunti. Soltanto dopo un po’ mi accorsi che mi ero seduto accanto a Daniel Pennac.

La conferenza di Consolo fu ipnotica. Parlò di molte cose, della letteratura come metafora, delle sue scelte stilistiche, del Sud, di Omero, di Verga e del proverbio siciliano cu nesce arrinesce: chi esce, chi va via, riesce. Alla fine, Daniel Pennac si avvicinò al mio orecchio e mi disse sottovoce, con un gran sorriso entusiasta, che per lui Consolo era semplicemente magnifique. Ci alzammo e andammo ad abbracciarlo insieme.

Nel 2007 lo ritrovai a Siracusa, al Premio Vittorini. Era il presidente di giuria e furono le sue mani a benedire il mio primo romanzo. Ma l’ultima volta che l’ho visto fu a una serata tributo per Pino Veneziano, l’artista siciliano che un giorno dell’84 aveva cantato anche per Borges, commuovendolo. Consolo aveva firmato un appello per Selinunte e l’introduzione a un libretto dal titolo Di questa terra facciamone un giardino[9]. Prese la parola e tracciò un breve elogio della cultura orale. Me lo ricordo così, sotto la luce gialla che illuminava le colonne del tempio, piccolo e incanutito ma con gli occhi che non avevano mai smesso d’essere vivaci, un vecchio cantastorie in piedi tra i ruderi di un’acropoli.

APPENDICE

Un clandestino a Parigi : une journée avec Vincenzo Consolo
(dai miei appunti, Parigi, Salon du livre, 24 marzo 2001)
Sala Victor Hugo, ore 12

La letteratura è metafora. Nostalgia di un tempo e di una patria perduta, desiderio dei personaggi di tornare a un’Itaca che non esiste più. È la nostra condizione. Siamo degli ulissidi che anelano a raggiungere la patria perduta. La memoria di una patria. Io ho sempre avvertito nel mio lavoro di scrittore una discrepanza tra argomento e stile. Sin da quando iniziai a scrivere, nel 1963, capii che dovevo fare una scelta di campo dal punto di vista linguistico e stilistico. Non c’è innocenza in arte, bisogna avere consapevolezza di quello che si sta svolgendo. Io sapevo che gli scrittori della generazione appena precedente alla mia, avevano adottato un registro comunicativo, un codice linguistico comunicativo. Moravia, Calvino, Morante, Sciascia. Io penso che speravano che dopo la fine del fascismo sarebbe potuta nascere in Italia una società civile con la quale comunicare. E questa loro speranza risaliva all’utopia linguistica di Manzoni.
Ma quando cominciai a scrivere io, questa società non si era formata, non esisteva per me. Per questo ho adottato un codice non comunicativo, ma espressivo. Con questa scelta stilistica mi inserivo in una tradizione italiana che partiva da un mio conterraneo, Giovanni Verga. Lui aveva rivoluzionato il codice linguistico manzoniano. Sulla sua linea lo avevano seguito Gadda e Pasolini.
Avevano creato un controcodice espressivo.

In questo sono stato favorito dalla ricchezza della lingua della mia terra, da quel giacimento linguistico che con molta faciloneria viene chiamato dialetto. Nel siciliano sono presenti residui della lingua greca, araba, francese, spagnola e delle altre civiltà transitate dalla mia isola. Io ho utilizzato questo serbatoio, questi residui, per rompere il codice linguistico nazionale, organizzando la prosa in modo ritmico, lirico, più simile alla poesia. Per me non esisteva un rapporto tra testo letterario e contesto storico, situazionale, ma una rottura. L’esempio più efficace lo dà la tragedia greca. Il messaggero appare sulla scena e riferisce quello che è avvenuto in altro tempo e in altro luogo. Solo dopo che lui racconta i personaggi si muovono e il coro commenta. Così, attraverso il rito del teatro, si ottiene la liberazione dalla colpa, la catarsi. Il messaggero, l’anghelos, è lo scrittore. Appare e dice di una vicenda, e cerca di far immedesimare personaggio e lettore. Ma oggi la cavea è vuota. Non c’è più il pubblico. L’unica possibilità è quella di spostare la narrazione sul commento della tragedia che ci riguarda tutti.

Nei miei libri, in tutti i miei libri, ci sono queste parti corali, che i latini chiamavano cantica. Si interrompe il racconto e si alza il ritmo, attraverso l’uso insistito delle assonanze e delle rime. Come dice Bachtin, il romanzo è sempre utopico perché ipotizza un mondo migliore.

Questa è stata la mia ricerca stilistica, una ricerca archeologica e filologica. Noi non abbiamo la fortuna di voi francesi. Leopardi, in un’analisi delle due lingue cugine, l’italiano e il francese, dice che il francese, attraverso la creazione di uno stato e la sua storia unitaria, si è “geometrizzato”. L’italiano, invece, non è una sola lingua, ma tante lingue. Questa è la nostra risorsa ma anche la nostra dannazione, da Dante in poi.

La letteratura, per me, è soprattutto una memoria linguistica. Ho ricercato le radici e usato la tecnica dell’innesto. Ma non ci si deve confondere. Trovo ingiustificato e regressivo l’inserimento dell’elemento dialettale. Come ha scritto Pasolini, Verga usava un italiano irradiato di dialettalità, ma non era un dialetto, era un’altra lingua. Una lingua nuova.

Considero la ricerca stilistica un impegno nei confronti della storia. Capisco che i miei testi non sono di facile lettura. Ma c’è in me un’esigenza di praticare una “letteratura d’intervento” (così l’ha definita Roland Barthes) anche sui giornali. Sento il bisogno di esprimere il mio giudizio sulla situazione politica del mio paese, ma anche su quella internazionale. Domani, insieme ad altri scrittori che fanno parte del Parlamento internazionale degli scrittori, tra cui José Saramago, parto per Tel Aviv e per Ramallah, per portare un appello per la pace. In Francia, l’esempio dello scrittore militante è quello di Zola, che pur pagando di persona alla fine riuscì a far riaprire il processo Dreyfuss. Oggi, in Italia, c’è un ministro della cultura che accusa gli intellettuali di vigliaccheria. Di fronte a tanta volgarità non vale nemmeno la pena di rispondere. Voglio aggiungere che non volevo alcuna ipoteca da parte del governo italiano sulla mia partecipazione a questo Salone del libro. Dopo le nostre dichiarazioni, io, Camilleri e Tabucchi siamo stati cancellati dal catalogo. Non troverete né la nostra foto né la nostra biografia. Per il mio governo, qui sono un clandestino.

Sala Dante Alighieri, pomeriggio. Vincenzo Consolo discute insieme a Erri De Luca, Giuseppe Bonaviri e Raffaele La Capria. Qualcuno gli chiede perché ha lasciato la Sicilia…

Appartengo alla storia infinita di meridionali che hanno abbandonato questa estremità, questo limite, per raggiungere il centro. Alcuni vennero in Francia, nel vagheggiamento di un nord mitico. Il primo è stato Verga. Approda a Firenze, poi a Milano, nella Milano dei salotti e delle contesse. Trova invece un mondo in grande subbuglio. In quegli anni si avvia la Pirelli. Lui rimane spiazzato. E qui si toglie la maschera di scrittore borghese e compie una rivoluzione stilistica. Dopo di lui, a Milano ci piovono Vittorini e Quasimodo. Io ci ho studiato, poi sono tornato in Sicilia. Ho insegnato nelle scuole agrarie. Ma presto mi sono reso conto che la mia presenza nell’isola era un’assurdità. Il mondo che volevo descrivere, il mondo contadino, si stava frantumando. Era in atto un esodo di braccianti che partivano per il nord e diventavano operai. Si pensava ancora che Milano fosse diversa e opposta alla realtà siciliana. Questa mitologia era stata alimentata da Vittorini. Lì ho lavorato in quella che definisco una fabbrica di armi, ossia la televisione, la Rai. Progressivamente il mito di Milano mi si è infranto, stagione dopo stagione, prima con gli anni di piombo, poi col riflusso craxiano, infine con l’era di Berlusconi. Questa è la mia storia.

La sala è strapiena. Gente in piedi, gente seduta per terra. L’affluenza è davvero impressionante. Sembra quella di un concerto. De Luca e La Capria relazionano in francese. Consolo riprende il microfono per spiegare che per la sua isola i Vespri siciliani sono stati una sciagura, al contrario di quanto ha creduto Croce. Perché i francesi se ne sono andati a Napoli, “e oggi i relatori napoletani lo parlano correttamente, mentre da noi sono arrivati gli spagnoli e l’Inquisizione, ma i siciliani non hanno imparato nemmeno lo spagnolo”. Suscita l’ilarità della sala. Poi pacatamente riprende il suo discorso sul recupero di una memoria linguistica, della memoria di un sud più profondo.

Il canale di Sicilia era un canale di grande comunicazione. I pescatori trapanesi andavano a pescare nelle acque del Mahgreb. Poi, con l’inizio dell’età dei conflitti, il Mediterraneo divenne un confine, un luogo di miserie e di atrocità, come ha spiegato Braudel, un mercato di schiavi, il centro di guerre economiche mascherate da guerre di religione. Oggi, purtroppo, assistiamo al ritorno di questi massacri. Ma non bisogna dimenticare che la storia delle civiltà è sempre una storia di incroci e di migrazioni e anche voi francesi ne sapete qualcosa.

L’intensa giornata di Vincenzo Consolo termina la sera, allo stand di France culture. Attorniati dai microfoni e dai giornalisti della radio francese, siedono allo stesso tavolo i membri del Parlament International des Escrivains. Vicino a Consolo riconosco i premi nobel per la letteratura Wole Soynka e José Saramago. Soynka è un po’ invecchiato, con una montagna di capelli bianchi sulla testa. Saramago elegante e autorevole, come sempre. Accanto a loro siedono il sudafricano Breyten Breytenbach, il cinese Bei Dao, Juan Goytisolo per la Spagna e Russel Banks per gli Usa. Con voce ferma e sicura, insieme consegnano a Parigi e al mondo il loro messaggio di pace.

[1] Un sommario elenco delle opere che hanno edificato questa linea siciliana del nostro romanzo comprende: I malavoglia (1881) e la novella Libertà (1882) di Verga, I vicerè (1894) di De Roberto, I vecchi e i giovani (1913) di Pirandello, Rubè (1921) di Borgese, Il gattopardo (1958) di Tomasi, Il Consiglio d’Egitto (1963) e il racconto Il quarantotto (Gli zii di Sicilia, 1958) di Sciascia. Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976) di Consolo è l’estremo tassello di questa antistoria del Risorgimento, un discorso che si protrae da oltre un secolo. Ma, estendendo la riflessione al fascismo, al dopoguerra e al cinquantennio democristiano, bisogna annotare almeno Conversazione in Sicilia (1941) di Vittorini, Il bell’Antonio (1949) di Brancati, Il contesto (1971) e Todo Modo (1974) di Sciascia, Diceria dell’untore (1981) di Bufalino, L’olivo e l’olivastro (1994) e Lo spasimo di Palermo (1998) di Consolo, a cui ora si possono aggiungere le opere e i nomi di Andrea Camilleri, di Giosué Calaciura e di Giorgio Vasta.

[2] L’abate Vella sosteneva “che il lavoro dello storico è tutto un imbroglio, un’impostura: e che c’era più merito ad inventarla, la storia, che a trascriverla da vecchie carte, da antiche lapidi, da antichi sepolcri; e in ogni caso ci voleva più lavoro, ad inventarla: e dunque, onestamente, la loro fatica meritava più ingente compenso che quella di uno storico vero e proprio, di uno storiografo che godeva di qualifica, di stipendio, di prebende. «Tutta un’impostura. La storia non esiste. Forse che esistono le generazioni di foglie che sono andate via da quell’albero, un autunno appresso all’altro? Esiste l’albero, esistono le sue foglie nuove: poi anche queste foglie se ne andranno; e a un certo punto se ne andrà anche l’albero: in fumo, in cenere. La storia delle foglie, la storia dell’albero. Fesserie! Se ogni foglia scrivesse la sua storia, se quest’albero scrivesse la sua, allora diremmo: eh, sì, la storia… Vostro nonno ha scritto la sua storia? E vostro padre? E il mio? E i nostri avoli e trisavoli?… Sono discesi a marcire nella terra né più né meno che come foglie, senza lasciare storia… C’è ancora l’albero, sì, ci siamo noi come foglie nuove… E ce ne andremo anche noi… L’albero che resterà, se resterà, può anch’essere segato ramo a ramo: i re, i viceré, i papi, i capitani; i grandi, insomma… Facciamone un po’ di fuoco, un po’ di fumo: ad illudere i popoli, le nazioni, l’umanità vivente…. La storia. E mio padre? E vostro padre? E il gorgoglio delle loro viscere vuote? E la voce alta della loro fame? Credete che si sentirà nella storia? Che ci sarà uno storico che avrà orecchio talmente fino da sentirlo?»” in L. Sciascia, Il Consiglio d’Egitto, Milano, Adelphi, 1989, p. 59-60.

[3] V. Consolo, Lo Spasimo di Palermo, Milano, Mondadori, 1998, p. 113.
[4] Così suona, in francese, il titolo della Diceria dell’untore.
[5] V. Consolo, Lo Spasimo di Palermo, cit., p. 115.

[6] Consolo aveva già individuato in un piccolo paese nell’entroterra della Sicilia, Caltagirone, l’epicentro di una epidemia e l’emblema di una nazione, “della vecchia Italia che ha generato dopo i disastri del fascismo, nei cinquant’anni di potere, il regime democristiano, la trista, alienata, feroce nuova Italia del massacro della memoria, dell’identità, della decenza e della civiltà, l’Italia corrotta, imbarbarita, del saccheggio, delle speculazioni, della mafia, delle stragi, della droga, delle macchine, del calcio, della televisione e delle lotterie, del chiasso e dei veleni. Il plastico dell’Italia che creerà altri orrori, altre mostruosità, altre ciclopiche demenze.” (L’olivo e l’olivastro, Milano, Mondadori, 1994, p. 71).
In un altro libro di Gesualdo Bufalino, il Guerrin Meschino, il 23 maggio e il 19 luglio del 1992 cala addirittura il sipario, si chiude per lutto. L’Oprante, il puparo si ferma, smonta il teatrino, ripone con cura i legni e, alla fine, rompe la noce del collo al più derelitto degli eroi, al desdichado di cui stava raccontando le avventure: è un tempo, ormai, dove nemmeno per finta, nemmeno per gioco, “il buono vive e il maganzese muore”.

[7] Silvetro Ferrauto è il protagonista di Conversazione in Sicilia.
[8] Vincenzo Consolo e Mario Nicolao, Il viaggio di Odisseo, introduzione di Maria Corti, Milano, Bompiani, 1999.
[9] Di questa terra facciamone un giardino. Tributo a Pino Veneziano, con CD audio, a cura di Rocco Pollina e Umberto Leone, Trapani, Coppola editore, 2009.

L’ulivo e la giara


di Vincenzo Consolo


Nell’estate del 1882 Pirandello a compagnia del padre, compie un viaggio – il primo suo vero viaggio – da Palermo e Sant’Agata Militello, per una Sicilia, per una campagna, per un paesaggio tutt’affatto diversi da quelli che aveva dentro e che conosceva. Scopo di questo viaggio, da parte di Stefano Pirandello, è d’intraprendere, dopo il suo crollo economico a causa dello zolfo, il commercio degli agrumi. II signor Vincenzo Faraci di Sant’Agata, proprietario terriero e agente della compagnia di navigazione Florio-Rubattino, presso cui si reca, dovrebbe aiutarlo nella sua nuova impresa. La famiglia Pirandello, già dalla primavera dell’82, si era trasferita da Girgenti a Palermo, s’era allocata in una casa di via Porta di Castro, a ridosso delle mura del Palazzo Reale. Partono dunque, padre e figlio, per Sant’Agata, alle prime ore del mattino, su un treno che li porta fino a Termini Imerese. Da qui, per l’inesistenza ancora della strada ferrata fino a Messina, proseguiranno in diligenza.
Immaginiamo, in treno e in carrozza, la curiosità, l’attenzione, il rapimento del quindicenne Luigi di fronte a quel nuovo mondo che gli scorreva davanti agli occhi, agli echi che gli suscitavano i nomi dei paesi: Solunto, Himera, Cefalù, Halaesa, Calacte…
Al fitto e profondo verde degli agrumeti, e ai golfi, alle insenature, alle calette, al mare lungo la costa tirrenica; e alla cortina boscosa delle Madonie e dei Nebrodi che separavano questo rigoglio vegetale dalle sconfinate, aride lande dell’interno, della desolata nudità del latifondo e dei grigi e fumosi altipiani dello zolfo. E doveva accorgersi che man mano, dopo Termini, dopo Cefalù, il mondo colorato, vociante e brulicante del Palermitano andava a poco a poco stemperandosi – a spegnersi finanche nelle decorazioni dei carretti che, da chiassosi e spettacolari, si facevano monocromi, giallognoli o verdastri – a prendere gradualmente una misura più dimessa, ma forse più serena.
Sostano a Santo Stefano di Camastra. Un paese, questo, dopo la frana del 1682 che aveva distrutto il vecchio abitato in montagna, concepito e fatto ricostruire in basso-su un promontorio a mare, da Giuseppe Lanza duca di Camastra. L’impianto urbanistico disegnato dal duca ,un rombo inscritto in un quadrato – era ripreso aulicaunque dallo schema del Parco Versailles e della palermitana Villa Giulia. Un paese dunque non affastellato, casuale, di case sopra case, ma “pensato”, moderno, piano, ordinat: un paese “bello” secondo la qualificazione vittoriniana de Le cità del mondo. E’un paese anche di grande attività, di lavoro: la lavorazione dell’argila, di cui quasi tutti gli abitanti vivevano. A margini, lungo la statale, erano le purrere, le cave d’agilla, gli stazzuna, le fabbriche di laterizi, e le putii i robba r’acqua, le botteche delle ceramiche d’uso quotidiano (desumiamo queste notizie dalla monografia di Antonino Buttitta e Salvadore D’onofriono, La terra colorata)  davanti alle qual erano gli spiazi dove la creta veniva ammucchiata e impastata ( dagli impastatura, a piedi nudi seguendo un preciso disegno, a ventaglio, a chiasciola, a spicchi d’arancio o a cerchi concentrici) e venivano esposti i manufatti ad asciugare o messi in mostra per la vendota dopo la cottura.

E davanti a queste botteghe, Luigino, fra i tanti oggetti, tante forme, quartari lémmi, bùmmuli, lumèri, fangotti, mafarati, avrà visto quella grande forma, alta, panciuta, ch’era la giarra.
La fabbricazione d’una giara era un lavoro delicatissimo, di grande precisione e di alta specializzazione dei “mastri”. Veniva eseguito in tempi successivi, al tornio. Sulla base precedentemente asciugata (u piezzu) venivano poi man mano innestate le fasce, su su fino alla parte più convessa della pancia e alla rastremazione delle spalle, del collo e della bocca. Veniva poi stagnata, invetriata con piombo ossidato, all’interno e fino al labbro, prima di essere infornata. In quella stagione, prossima alla raccolta delle olive e alla loro spremitura – le olive dei vasti oliveti della zona del Mistrettese, delle Caronie, di San Fratello – dovevano essercene già molte esposte davanti alle botteghe, di giare, nelle loro varie misure canoniche – da mezzo cantàru, venti litri, fino alle grandi capaci di quattrocento, cinquecento litri d’olio – un solenne corteo di badesse nell’ocra infuocata della luce del tramonto.
A Sant’Agata Luigi e il padre sono ospiti per alcuni giorni della famiglia Faraci, in contrada Muti, in una casina di campagna su una collinetta da dove si domina il piccolo paese col castello dei principi di Trabia al centro, le casupole dei pescatori lungo la spiaggia e quelle dei contadini verso l’alto. Luigi ritrovava qui il suo coetaneo e compagno di scuola, al “Vittorio Emanuele II” di Palermo, Carmelo, figlio di Vincenzo Faraci. Fra i due ragazzi si stabili una solida amicizia. E, ritornata la famiglia Pirandello a Girgenti nell’85, Luigi e Carmelo andranno a abitare insieme in un stanzetta d’affitto in via Mastro d’Acqua, E l’ultimo anno di liceo, Luigi allora ferocemente immerso nei suoi studi e nell’amore per la cugina Lina. Carmelo Faraci si dedicherà a questo suo compagno geniale e stravolto dalla passione d’amore fino ad accudirlo, a preoccuparsi di tute le necessità pratiche. Poi Carmelo, finito il liceo. avrà un triste futuro, si ammalerà di tisi e lascerà Palermo per andare a rifugiarsi in un bosco sopra Sant’Agata, a Mangalavite.
Luigi, da Porto Empedocle, dalla villa del Caos, nell’agosto dell’87, deluso dall’amore, dal lavoro tentato nelle zolfare del padre, in preda al pessimismo più nero, si ricorderà di questo suo mite e fedele amico e gli scriverà. Le cinque lettere che Pirandello invierà al Faraci sono state pubblicate dal professor Giovanni R. Bussino, di San Diego in California nel libro Alle fonti di Pirandello. Scrive in una di queste lettere:

“Tu sei malato di corpo (e io ti voglio intanto in via di guarigione) ed io sono malato di spirito e della mia malattia non si guarisce. Mi credono tutti pazzo, e prima – per maggiore tormento – i miei più cari; il mio vizio dei nervi si è bruscamente accentuato ed io non so trovar pace in nessun luogo: la mia vita mi si è fatta brutta bene… M’indusse a scriverti – non te lo nascondo – una dolcissima memoria del passato…”.
La memoria dolcissima d’una serena campagna: e di due forme, antichissime e significanti: l’ulivo e la giara.
La novella La giara è pubblicata il 20 ottobre 1909 sul “Corriere della Sera”.
Pirandello è chiuso, in questo periodo, in una doppia, tetra prigione: quella burocratica dell’insegnamento al Magistero, dov’era inquadrato nella categoria degli “incaricati” certamente contrassegnato da un mastronardiano “coefficiente”, e quella domestica, dove la gelosia paranoica della moglie gli tesseva intorno ogni giorno di più le sue terribili maglie. La novella La giara è la prima fuga nella memoria e nel ricordo, fuga dalla sua vita e dai fantasmi “pirandelliani” che lo assediavano.
‘A giarra, commedia in dialetto, è del 1916.

E’ tempo di guerra. Il figlio Stefano è prigioniero degli austriaci, la madre appena morta – quella madre che aveva incarnato il suo romantico patriottismo, che ora, nell’urto con la tragica realtà, si lacerava – gli ritornava a colloquio come personaggio, la moglie ormai dentro quella tenebra dove “nessuna voce può raggiungerla più” Si sa che al teatro regionale e dialettale Pirandello fu trascinato dall’amico Martoglio e dalla forza della “Compagnia comica di Angelo Musco, che in quegli anni mieteva successi per tutta la Penisola Successi, certo, di questi istintivi e irresistibili teatranti catanesi, dovuti anche al bisogno di distrazione e di riso da parte degli spettatori angosciati dalla guerra. Pirandello scriverà per quel teatro per ragioni materiali, economiche ma deve anche scrivere quel teatro per ragioni spirituali, in un bisogno crescente di luce e di respiro quanto più si sente precipitare nel pozzo della disperazione. Al momento più basso e più cupo della sua vita, corrisponderà il momento creativamente più luminoso e liberatorio che è Liolà.
Subito seguirà La giara, con la quale chiuderà questo ciclo. E a noi piace credere che nel concepire La giara gli sia tornato il ricordo di quel suo lontano viaggio nel Val Demone, della fertile campagna alle falde dei Nebrodi, delle giare intraviste a Santo Stefano. “Sissignore, della giara grande, per l’olio, arrivata ch’è poco da Santo Stefano di Camastra, dove si fabbricano. Uh, bella: grossa così, alta a petto d’uomo, pare una badessa” dice ‘Mpari Pè, il garzone di don Lollò. L’uomo rimasto prigioniero dentro la giara è una delle trovate sceniche, visive e gestuali, più felici del teatro pirandelliano. Saracena è la giara – giarrat – e saraceno quel conciabrocche dentro, ladro (involontario) della roba altrui, su cui volentieri don Lollò, nella sua furia, butterebbe dell’olio bollente. Ma zi’ Dima è anche un folletto, un imprevedibile ginn, di quelli annidati dentro bottiglie o lampade – egli ha commercio col diavolo, e quella gobba e quella pece nera ne sono la prova – che con le sue argomentazioni da dentro la giara contrasta e distrugge di volta in volta le argomentazioni esterne, giuridiche, codificate, di don Lollò e del suo avvocato.
Ma La giara trapassa questa farsa saracena o questo mimo siceliota, sofroneo o senarcheo, trapassa ogni eclisse solare e storica, va più indietro verso un tempo remoto, verso significati più abissati, archetipici. La giara è allora l’involucro della nascita, l’utero, ed è insieme la tomba (i Siculi seppellivano i loro morti, in posizione fetale, dentro i giaroni). E zi’ Dima non perde, non muore, sapiente, dialettico e sarcastico, vince e rinasce nello splendore d’un plenilunio, nel tripudio dei contadini.
E quell’olio che la giara avrebbe dovuto contenere viene si dall’ulivo saraceno, ma viene anche dall’albero sacro ad Atena, dea della sapienza.
Se Liolà, della stagione della vendemmia, è mimo dionisiaco o fliacico (Phliax era un demone della natura, della fecondità), La giara è mimo apollineo e cavillico, della stagione dell’olio che dà sapore – sapere – e che dà luce. L’ulivo saraceno, un ulivo del Caos, immaginato, sognato, riapparirà in limine, nella notte che precede la morte, sul palcoscenico del palcoscenico, in un terzo atto mai scritto, a reggere un tendone – sudario contro cui si reciterà l’ultima favola. Apparirà quell’albero di forma tormentata, agonica, da cui l’anima anela a uscire, a consumarsi bruciando, come olio dentro una lampada: a ritornare, annullandosi, nella nudità, nella verità, nel flusso infinito.

Un mite guerriero

Un mite guerriero

Nel mucchio disordinato di carte che in maniera alquanto azzardata chiamo ‘il mio archivio’, c’è una cartelletta gialla su cui sta scritto: Vincenzo Consolo.

In questa cartelletta ho raccolto, per anni e con una diligenza che non appartiene al mio carattere, quei suoi interventi che ogni tanto compaiono su quotidiani o riviste e che parlano di sud e di scrittura, di storia e di utopia sociale, di potere, di connivenze, di linguaggio e di responsabilità… Parole fatte di “pietra dura”, perché Vincenzo Consolo è un guerriero (mite, e pur tuttavia guerriero), oltre che un incantatore.

Un incanto che nasce, almeno per me, non soltanto dalla sua ricerca formale, cioè dalle meraviglie stilistiche delle sue opere, dal suo linguaggio e dalla sua espressività, ma anche dalla forza del suo pensiero. Che è pensiero ‘etico’.

Lo scrittore, ha detto una volta Consolo e lo ha ribadito in diverse occasioni, “quando si rivolge a una società ha il dovere dell’etica, perché altrimenti diventa asociale, immorale. E lo diventa perché non scrive in difesa dell’uomo ma contro l’uomo”. E’ da questa concezione etica della letteratura che gli deriva l’idea di una “supremazia della scrittura nei confronti della storia”, di una scrittura intesa come “compenso e costruzione armoniosa contro il disordine della storia”, che pure è il territorio privilegiato, il ‘luogo’ centrale delle sue narrazioni: la sua, si potrebbe dire, ‘ossessione’ tematica.

Non a caso, credo, lo stesso Consolo ha voluto dare più volte (e cito per tutte una lunga intervista comparsa nel 2000 sul bimestrale ‘Tuttestorie’) una scansione temporale a questa sua ricerca storico-politica, e lo ha fatto dividendo il suo percorso letterario in tre grandi tappe, in questo modo ordinando storicamente anche la sua personale storia di scrittore.

La prima tappa muove da una lettura della radicale trasformazione dell’Italia al momento dell’unità, quando alla fine trova compimento l’idea risorgimentale dello Stato unitario. Ed è segnata, questa tappa, dalla composizione di un testo magico e complesso come ‘Il sorriso dell’ignoto marinaio’. La seconda, con ‘Nottetempo casa per casa’, racconta invece quella disgregazione sociale che prelude all’avvento del fascismo e la terza, con ‘Lo Spasimo di Palermo’, entra nell’oggi per confrontarsi con la speranza fallita di un cambiamento sociale e culturale prima ancora che politico. L’unica speranza che resta, dice Consolo, è appunto la speranza nella scrittura, nella sua capacità di mettere ordine nelle coscienze e di portare armonia, cioè fiducia, là dove c’è soltanto caos e quindi impossibilità di comunicare. Ma questa capacità ‘armonica’ della scrittura non è affatto scontata.

In una conversazione con Silvio Perrella, pubblicata sulla rivista Mesogea, Consolo si domanda (o meglio torna a domandarsi) perché gli scrittori che hanno vissuto il fascismo e la guerra, in particolare Moravia, Calvino e Sciascia, abbiano poi optato per un codice razionalistico di scrittura e una concezione illuministica del mondo. Perché, si risponde, “la loro era, appunto, una scrittura di speranza. Speravano che finalmente in questo paese si formasse, dopo la caduta del fascismo e la fine della guerra, una società civile con la quale comunicare.” E invece questa società non è ancora nata e la scrittura di tipo comunicativo, cioè “fiduciosa nel sociale”, non ha ragione di essere. In questo contesto, in questo fallimento della storia, si può ‘scrivere sperando’ solo se si abbandona il codice razionalistico e si opta per un codice di tipo espressivo,  se si lascia la Francia, in sintesi, e si va verso la Spagna. Verso la “dolce follia, simbolica e metaforica” di don Quijote.

La scrittura espressiva, dunque. Le narrazioni. Non il romanzo. “Ho cercato di non scrivere mai romanzi”, afferma Consolo argomentando, spiegando puntigliosamente la sua insofferenza per questa forma letteraria ottocentesca, di “intrattenimento puro”. La narrazione offre invece a chi scrive una maggiore libertà, un respiro più ampio. E’ un genere letterario con una doppia anima, per così dire, perché precede il romanzo ed è quindi preborghese pur essendo, nello stesso tempo, postmoderno.

In questa sua dichiarazione di poetica, a me sembra che Consolo si riveli straordinariamente vicino a certe correnti originali e innovative della letteratura mondiale, a quelle voci che vengono da paesi dove scrivere non è mai stato un ‘atto neutro’, perché la lingua stessa – lingua importata, lingua nemica – grondava sangue e aveva bisogno di essere reinventata e ricreata per poter diventare strumento di autorappresentazione e di speranza. Il suo mistilinguismo, ad esempio, mi ricorda molto da vicino l’operazione culturale tentata dalla scrittrice algerina Assja Djebar, che soltanto dopo aver studiato a fondo l’arabo, dopo un’immersione totale nella lingua madre, riconquista un francese arricchito dai suoni, dalle cadenze e dalle voci di quel mondo colonizzato e strappato a se stesso che è il suo mondo, e così, con questa ricchezza, può tornare a scrivere, dopo un lungo silenzio di anni.

Nel vuoto chiacchiericcio della società letteraria italiana, fa un effetto davvero straniante questa ricerca ostinata di un ‘senso’ oltre che di una ‘forma’, questo desiderio di ‘speranza’, sempre frustrato ma sempre attuale e mai dismesso, che diventa messaggio letterario.

In un intervento sull’Unità del 1994 Vincenzo Consolo scriveva: “oggi il Sud è l’azzeramento, è il deserto da cui si sta cominciando a ripartire”. Ripartire: che, nel contesto di quell’articolo, non stava a indicare solo il movimento negativo dell’andar via, la necessità dell’abbandono che genera un’incurabile nostalgia.

E qui voglio aprire un inciso. Perché su questa nostalgia, che è il malessere profondo e sensibile di ogni uomo e di ogni donna che ha conosciuto l’emigrazione, Consolo ha scritto alcune righe che non posso non riportare per esteso, perché il loro sapore è esattamente il sapore di quel tipo di nostalgia.

“Io”, scrive Consolo nel penultimo racconto delle “Pietre di pantalica”, “io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta d’addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca.”

Il movimento delle parole ha qui la cadenza precisa del sentimento, lo insegue e lo incarna con un’immediatezza morbida e sgomenta. Ma nostalgia, qui, non è semplicemente ‘sofferenza del ritorno’, è qualcosa di più vasto. E’ sofferenza di un desiderio costretto in un limite – il limite umano, che soltanto il movimento delle parole, forse, può spostare un poco più in là.

E allora, tornando all’articolo del 1994, quel ‘ripartire’ a me sembra che non avesse solo un’accezione negativa, non descrivesse soltanto una realtà di fuga dal ‘deserto’ della Sicilia, ma, sottotraccia, indicasse anche un’altra possibilità: quella di ripensare, di tornare a pensare e a dire il Sud, “questo eterno e sempre vivo scandalo”, cominciando di nuovo a raccontarne la storia e a prendersene cura nelle narrazioni come nella politica. Anche se “i tempi della letteratura sono lunghi, lungo il processo di sedimentazione della memoria e della formazione della lingua”.

Sono passati molti anni da quel 1994. La “sintassi del mondo” da allora si è sfasciata molte e molte volte e, per dirla con Consolo, “non sappiamo se si potrà mai ricomporre”.

Così, in questo nostro paese “ormai telestupefatto”, io ho bisogno – sì, bisogno è il termine giusto – delle parole di “pietra dura” di Vincenzo Consolo. Mi sono necessarie quanto le sue narrazioni, che fanno vibrare la mia anima divisa di ‘siciliana in esilio’.

Ed è per questo bisogno che, come ho detto all’inizio, per anni ho ritagliato, raccolto, messo da parte articoli e interventi: i giornali e le riviste, si sa, sono cose fragili, beni effimeri, tendono a sparire ancor più rapidamente dei libri.

Insomma, ho voluto mettere in salvo le sue parole.

E poi l’ho incontrato, Vincenzo Consolo.

E nell’uomo, nel suo modo di parlare, schivo e preciso, nella maniera diretta ed essenziale con cui offre agli amici consolazione, affetto e soprattutto ascolto (anche a me, un giorno che non dimenticherò, mentre stavo andando a trovare mia madre, che giaceva immobile e immemore nel suo letto), ecco, nel modo di essere e di presentarsi di quest’uomo ho riconosciuto la “pasta dura” e luminosa di quelle parole raccolte per anni. Una concordanza fra ‘l’essere’ e il ‘dire’ piuttosto rara.

Mi intimidisce, Vincenzo Consolo. Eppure lo sento ancor più che amico, familiare. Forse per quel suo viso che mi ricorda le sculture di Giuseppe Mazzullo, sculture ricavate dalle pietre del torrente che attraversa il mio paese (un pietroso paese che non per caso si chiama Graniti). Sculture di pietra. Forti. Dolorose e miti. E Vincenzo Consolo, con le sue indignazioni, le sue passioni politiche, la sua scrittura impetuosa e ritmica, questo è ai miei occhi: un mite guerriero.

Maria Rosa Cutrufelli
dal Manifesto  Gen 22, 2012

L’ultimo maestro della triade siciliana


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Ho nel mio studio una fotografia scattata da Giuseppe Leone trent’anni fa. Occupa un’intera parete. C’è Vincenzo Consolo, nella foto. E con lui ci sono Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino. Ridono, contagiandosi a vicenda. Ridono fino a sgangherarsi. Si tengono spalla contro spalla, con le lacrime agli occhi. Sciascia sta in mezzo. Consolo si gira di lato. Vuole evitare di lasciarsi trascinare da Sciascia che quasi si piega sulle ginocchia. Bufalino si gratta la testa e sorregge gli occhiali. Ridono felicemente. Voglio ricordarli così, tutti e tre: i tre grandi maestri della letteratura siciliana del secolo scorso; i tre scrittori che hanno regalato alla letteratura opere indimenticabili. Fu Sciascia a scoprire Bufalino e a sostenere con la sua autorità il singolare liberty funerario di Diceria dell’untore. Fu Sciascia a ispirare sin dall’inizio Vincenzo Consolo, che era nato sì a Sant’Agata di Militello nel 1933, ma alla letteratura era nato all’ombra del Consiglio d’Egitto: dapprima con il felicissimo romanzo d’esordio La ferita dell’aprile (1963) fortemente voluto da Nicolò Gallo, e poi, soprattutto, con Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976). Sciascia, Consolo, Bufalino. E bisogna aggiungere Elvira Sellerio, che nella foto non compare. Ma era presente nella scena, accanto al fotografo. Fu Elvira Sellerio a cementare l’amicizia fra i tre scrittori. E fu Elvira Sellerio a costringere Consolo, con la forza della sua ostinazione, a scrivere quell’altro capolavoro che è il romanzo Retablo (1987). Consolo era lento nella scrittura. Aveva i suoi tempi, e aveva bisogno di essere incalzato.
Consolo è stato l’erede di Sciascia. Ne ha continuato l’impegno civile. Non da epigono, però. Ma con un’autonomia letteraria sostenuta dall’invenzione di una lingua che fa capo alla Scuola poetica siciliana di Federico II, declinando Jacopo da Lentini e Cielo d’Alcamo attraverso le lezioni del barocco Daniello Bartoli, delle avanguardie novecentesche, e del conterraneo Lucio Piccolo autore dei Canti barocchi. Con Sciascia, Consolo ha condiviso l’amore per Manzoni. Ed è dai Promessi sposi e dalla Storia della Colonna infame che discende, nelle opere dei due scrittori, il senso di responsabilità morale e la diffidenza nel lavoro della penna che asservita, o malamente usata, può essere strumento di impostura. Consolo non è mai venuto meno a un’idea di letteratura come indagine sugli errori della storia e della politica. E quando si è sentito sopravanzato, quasi sopraffatto da una realtà politicamente indecorosa e violentemente prepotente, non ha esitato a deporre la penna e a interrogarsi su un silenzio attivo, inteso come dolorosa denuncia della barbarie. Consolo aveva alle spalle una solida esperienza di giornalista. Aveva percorso la Sicilia in lungo e in largo per conto del quotidiano «L’Ora» di Palermo. Aveva seguito processi su fatti tremendi e sondato gli abissi più sciagurati del malaffare. Era scivolato sul sangue di più cadaveri, lungo le strade e le trazzere. La sua penna non dimenticò mai gli scempi dell’isola: la distruzione del paesaggio, la corruzione, la violenza della mafia, le responsabilità di una classe politica abietta, lo sconvolgimento antropologico. La Sicilia divenne per lui un’Itaca presa in ostaggio dai Proci. Lui stesso indossò i panni di Odisseo. Viaggiò lontano dall’isola, con un cruccio dentro e un amore malinconico. Ma rimase fedele a Itaca. Vi tornò spesso. E usò la scrittura barocca come Ulisse usò il suo arco: per lenire un dolore e per cancellare un’offesa.
Incontrò un poeta sulla sua strada. Un poeta antropologo. Ne parla nei racconti saggistici dell’Olivo e l’olivastro (1994). Si chiamava Antonino Uccello. Questo delicato poeta aveva messo su, a Palazzolo Acreide, una casa-museo. Vi aveva sistemato tutti gli oggetti della civiltà contadina siciliana. E aveva ottenuto che tutti i visitatori, venissero dall’Australia o dagli Stati Uniti, dalla Germania o dalla Cina, ritrovassero là dentro un loro sogno, una loro infanzia, l’illusione di una vita piena. Consolo sognò là dentro, in quella serena casa-museo, un’Itaca senza Proci. Ma si rese conto che il suo, come quello di Uccello, era un disperato volo d’Icaro. Si ricordò di Siracusa, di un quadro di Caravaggio, del Seppellimento di Santa Lucia. Al racconto su Uccello accostò un altro racconto, su Caravaggio e il ceroplasta Zummo. Immaginò di scrostare la tela di Caravaggio, alla ricerca del taglio: della ferita mortale inflitta a Santa Lucia dal carnefice. Quella ferita era stata nascosta dalla bellezza della pittura. Solo Zummo, il figlio di una schiava, s’era accorto nel Seicento dell’inganno. Aveva affondato lo sguardo fin dentro la ferita. E da quel taglio aveva estratto le essudazioni, il pus e i vermi delle sue “pesti” di cera. Dietro i colori del barocco di Zummo, e di Consolo, sanguina e impuditrisce una ferita.
Con Consolo scompare l’ultimo rappresentante di quella grande stagione letteraria che la macchina fotografica di Leone ha fissato per sempre in un momento di gioia. Una foto storica, che sorprende i tre protagonisti uniti nella felicità di un momento magico nella spianata di fronte alla casa di campagna di Sciascia.
Vincenzo Consolo si è spento. Ma le sue opere torneranno presto in libreria. Cesare Segre, il critico più amato da Consolo, sta lavorando, insieme a Giovanni Turchetta, al Meridiano a lui dedicato. La Mondadori ha annunciato pure un volume di racconti. E Sellerio ha in preparazione un libro che raccoglie gli articoli apparsi su «L’Ora».

Giovedì • 17 Settembre 2015 •

Enzo Consolo, le battaglie dell’ignoto marinaio

Enzo Consolo, le battaglie dell’ignoto marinaio

Lo scrittore è morto ieri a Milano. Aveva 78 anni. Ha raccontato una Sicilia che non si rassegna

LO scrittore Enzo Consolo

22/01/2012
MARIO BAUDINO
TORINO La Stampa

Vincenzo Consolo è morto ieri a Milano, dopo una lunga malattia. E’ stato uno dei nostri autori più studiati e amati dalla critica, ma anche l’oggetto di un vero e proprio culto filologico in molte università straniere, dall’America alla Spagna. I funerali sono previsti domani a Santagata di Militello, dove era nato nel 1933, in provincia di Messina. E’ stato uno scrittore che coniugava l’attenzione al linguaggio, con punte di fiero sperimentalismo, all’impegno civile, a una critica tra l’acre e il sarcastico della società italiana. E’ stato uno scrittore non facile e a tratti impervio, che tuttavia ha avuto due momenti di grande notorietà mediatica.

Il primo fu quando uscì il suo libro più importante, Il sorriso dell’ignoto marinaio, accolto come una rivelazione. Il secondo, meno piacevole, ha una coloritura politica. Gli accade infatti, fresco vincitore del premio Strega con Nottetempo, casa per casa, di venire molto sbertucciato soprattutto da destra per aver detto ai giornali, correva l’anno 1993, che avrebbe fatto senza esitare le valigie se mai il leghista Marco Formentini fosse diventato sindaco di Milano. Sembrava una boutade radical chic, ma Consolo, da siciliano orgoglioso e intransigente, non cercò di schermirsi. Si ripeté anzi nel 2002, annunciando anche a nome di Tabucchi e Camilleri che non sarebbe andato al Salone del libro di Parigi, dove era Paese ospite l’Italia, non volendo in alcun modo «rappresentare un governo che non ha nulla a che spartire con la cultura».

Le polemiche si sprecarono; lui, gentiluomo cocciuto, evitò sempre di alzare la voce, continuando peraltro a vivere in Italia e ad abitare serenamente nella città lombarda (sindaco intanto era diventato Gabriele Albertini) dove era approdato nel ’68, e dove ha trascorso la sua vita professionale – alla Rai – e intellettuale. Senza mai dimenticare la Sicilia. Alla Cattolica di Milano aveva studiato, nell’isola era tornato per laurearsi in giurisprudenza e persino per un praticantato come notaio. La sua vocazione era però la letteratura, gli amici Leonardo Sciascia e Lucio Piccolo. Ci arrivò per tentativi, provandosi con tutte le forme di narrazione, non solo quella televisiva. Si misurò persino con la cronaca nera. Non era forse il suo campo: ma fu il momento decisivo per lo scrittore.

Era il 1975, e Consolo fu convinto da Vanni Nisticò, direttore dell’Ora di Palermo, a tentare la via del giornalismo. In quel momento aveva alle spalle un romanzo del ’63, La ferita d’aprile, e un racconto pubblicato in un’antologia di Sciascia. Proprio mentre seguiva a Trapani, in corte d’assise, il processo al «mostro di Marsala» (un delitto atroce, tre bambine gettate in un pozzo da un certo Michele Vinci), ricevette le bozze dei primi due capitoli del suo nuovo romanzo. Li stava facendo pubblicare in un’edizione numerata, con un’incisione di Guttuso, da un bancarellaio milanese di origine siciliana. Per caso li vide Corrado Stajano, nell’isola anche lui come cronista, che ne scrisse sul Giorno. Il risultato immediato fu che arrivarono molte telefonate di editori entusiasti, e Consolo dovette tornare al Nord per rimettersi di buona lena al lavoro e finire il romanzo, che uscì l’anno dopo. Era Il sorriso dell’ignoto marinaio.

A Trapani aveva però sentito il rumore di fondo della mafia, raccolto le confidenze di un pm che qualche anno dopo sarebbe stato assassinato, maturato compiutamente la sua idea di impegno civile che lo avrebbe portato a esporsi senza timori, testardo nell’additare i mali della Sicilia, nel chiederne conto. Era una voce critica, e tale è rimasto sempre. Anche nei momenti più imbarazzanti, e in particolare in quell’anno cruciale che fu il ’79. La moglie amatissima cui era dedicato Il sorriso, Caterina Pilenga, venne arrestata nel blitz di dicembre contro gli «autonomi» di Toni Negri. Le accuse contro di lei erano secondarie, come ad esempio quella d’aver partecipato al furto di un quadro per finanziare l’organizzazione.

Leonardo Sciascia la difese pubblicamente, asserendo di non credere «assolutamente che potesse vivere quella doppia vita che le attribuiscono»: «se per caso si è trovata a conoscere qualcuno è stato per questo suo modo di vivere generosamente». Consolo ammise di non averne saputo né tantomeno sospettato mai nulla. Nella Milano degli anni di piombo succedeva anche questo.

Gualberto Alvino La lingua di Vincenzo Consolo* Nuova edizione riveduta e corretta

Esattamente tre lustri or sono pubblicai prima su «Italianistica»,1 poi in una raccolta di studî di materia siciliana,2 una ricognizione linguistico-stilistica ad ampio raggio dell’opera consoliana maggiore giovandomi, quanto al lessico, dei repertorî allora disponibili. La successiva uscita degli ultimi volumi del Grande Dizionario della Lingua Italiana3 e del Vocabolario Siciliano, 4 le infinite risorse offerte in séguito dalla rete e l’avanzamento degli studî, all’epoca poco più che germinali, mi consentono oggi, oltreché di emendare refusi e imprecisioni, di perfezionare alcune proposte interpretative fondandole su solide basi scientifiche. Ringrazio Alfredo Stussi dei preziosi consigli e Salvatore C. Trovato per la sua cordiale e competente disponibilità. A Ghino Ghinassi e Giovanni Nencioni, che vollero generosamente e affettuosamente assistermi durante la prima stesura del lavoro, un pensiero commosso e riconoscente di qua dalla soglia. Roma, 15 gennaio 2012 * * * verticalizzarlo [il romanzo], caricarlo di segni, spostarlo verso la zona della poesia, a costo di farlo frequentare da “felici pochi”. VINCENZO CONSOLO 1. Meraviglia che la critica più avvertita sia sempre stata perfettamente unanime nell’assegnare alla prosa narrativa di Vincenzo Consolo un luogo mediano tra le turbinosità espressive delle scritture macaroniche e il lucido razionalismo nutrito di passione storico-politica avente in Leonardo Sciascia l’interprete egregio. In verità, se l’oltranza dei procedimenti e la speciosità dell’ammasso verbale non possono non richiamare alla tradizione composita che dall’eclettismo comico-caricaturale del Dossi, attraverso gl’impasti di Giovanni Faldella, mena direttamente all’officina gaddiana,5 * Da G. Alvino, La parola verticale. Pizzuto, Consolo, Bufalino, pref. di Pietro Trifone, in corso di stampa per l’Editore Loffredo di Napoli nella collana «Studi di italianistica», diretta da Claudio Giovanardi. 1 «Italianistica», XXVI, 2, 1997, pp. 321-33. 2 G. Alvino, Tra linguistica e letteratura. Scritti su D’Arrigo, Consolo, Bufalino, introd. di Rosalba Galvagno, «Quaderni Pizzutiani IV-V», Roma-Palermo, Fondazione Pizzuto, 1998, pp. 61-101. 3 Grande Dizionario della Lingua Italiana, fondato da Salvatore Battaglia, poi diretto da Giorgio Bàrberi Squarotti, 21 voll., Torino, UTET, 1961-2002. 4 Vocabolario Siciliano, fondato da Giorgio Piccitto, a cura di Giovanni Tropea (il V vol. a cura di Salvatore C. Trovato), 5 voll., Catania-Palermo, Centro di studi filologici e linguistici siciliani-Opera del Vocabolario siciliano, 1977-2002. 5 Operando le debite distinzioni, come avvisa Cesare Segre: «Consolo va certo avvicinato […] a un altro grande romanziere plurivoco e pasticheur, al massimo anzi del nostro Novecento, Gadda. Essi hanno in comune la voracità linguistica, la capacità di organizzare un’orchestra di voci, il risultato espressionistico. Tuttavia […] c’è una differenza sostanziale: la plurivocità di Gadda ha sempre una carica polemica. Gadda irride ai rappresentanti della società di cui parla citando o deformando i suoi ideologemi […]. Consolo realizza soprattutto un , 5 nulla parrebbe confermare la reale consistenza della seconda ipostasi, salvo l’insistita, a tratti viscerale accentuazione tematica di alcuni passaggi nelle opere più lodate e le numerose dichiarazioni programmatiche dello stesso autore (circa le quali dovrà quantomeno invocarsi il più ampio beneficio di inventario): E fare lo scrittore allora, per quelli della mia generazione, significava una cosa sola: indagare e testimoniare la realtà, fare lo scrittore sociale. […] Io credo nel significato non solo letterario ma storico, morale, politico di questa ricerca. Io cerco di salvare le parole per salvare i sentimenti che le parole esprimono, per salvare una certa storia.6 Un tratto indubbiamente significativo, che tuttavia, alla luce d’una ricognizione esauriente, non tarda a confessare la propria indole strumentale, quando non esattamente pleonastica. Il molto celebrato engagement del Nostro meriterebbe, infatti, finalmente studio. Alcuni specimini della sua modestia sociologica: E cos’è stata la Storia sin qui, egregio amico? Una scrittura continua di privilegiati. […] Ed è impostura mai sempre la scrittura di noi cosiddetti illuminati, maggiore forse di quella degli ottusi e oscurati da’ privilegi loro e passion di casta (SIM 96-97) Ma che siamo noi, che siamo? […] Formicole che s’ammazzan di travaglio in questa vita breve come il giorno, un lampo. In fila avant’arriere senza sosta sopra quest’aia tonda che si chiama mondo, carichi di grani, paglie, pùliche, a pro’ di uno, due più fortunati. E poi? Il tempo passa, ammassa fango, terra sopra un gran frantumo d’ossa. E resta come segno della vita scanalata, qualche scritta sopra d’una lastra, qualche scena o figura (Le pietre di Pantalica, Milano, Mondadori, 1990, pp. 73-74) Lingua della cultura come mezzo di sfruttamento dell’uomo sull’uomo; fugacità e insensatezza del vivere subalterno; esecrazione del privilegio sociale; glorificazione degli umili e degli oppressi, catafratti nella santità della loro negletta tribolazione: articolare l’esegesi sopra un così dimesso regesto di tòpoi equivale a snaturare la cifra autentica, e finora esclusiva, dell’arte consoliana, tutta inscritta nel radicale, sdegnoso rifiuto d’una convenzione linguistica giudicata insieme sintomo e causa dell’attuale decadenza morale, civile e culturale. Se, poi, a tal rifiuto corrisponda un sempre risorgente rigoglio inventivo anziché una innocua iterazione di forme e stilemi è questione vitale e centralissima che sarebbe urgente dirimere. Fin dalla prima comparsa7 la portata dell’operazione fu d’altronde sùbito patente: rara perizia nell’amministrazione della cosa linguistica; ripudio dei modelli narrativi convenzionali – segnatamente del genere romanzo –, con la conseguente attivazione d’uno sperimentalismo convulso, non immune da tentazioni eversive; esuberanza dell’elemento retorico con annessa eterogeneità degli ingredienti cromatici; intrepida accostamento vivacissimo, materico di materiali fonici, lessicali, sintattici […]. Si colgono spesso movenze ironiche o parodiche, ma sono equamente indirizzate al mondo ritratto» (La costruzione a chiocciola nel «Sorriso dell’ignoto marinaio» di Vincenzo Consolo, in Id., Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino, Einaudi, 1991, pp. 71-86, alle pp. 85-86). 6 V. Consolo, «Leggere», II, 1988, pp. 8-15. 7 La ferita dell’aprile, Milano, Mondadori, 1963, poi Torino, Einaudi, 1977, edizione cui si fa riferimento con la sigla FA. Questo l’elenco delle altre opere narrative maggiori qui sottoposte ad esame, con le relative abbreviazioni: Il sorriso dell’ignoto marinaio, cit. (SIM); Retablo, Milano, Mondadori, 1992 (R); Nottetempo, casa per casa, Milano, Mondadori, 1994 (NCC); L’olivo e l’olivastro, Milano, Mondadori, 1994 (OO).  mescolanza di codici; esaltazione del livello fonosimbolico, esibito come pura virtualità, crudo istituto, citazione culturale; preponderanza dell’interesse formale congiunta al più sfrenato edonismo pluristilistico. Un’olla podrida ribollente di tensioni difformi, talora esorbitanti da una schietta urgenza poetica, su cui incombe costantemente il pericolo del feticismo lessicale, del funambolismo sintattico e, se si potesse dire, della glottolatria. Di questo converrà qui discutere (in prospettiva diacronica – se s’indulge all’inevitabile ricorsività delle notazioni analitiche –, così da ripercorrere passo passo un itinerario discontinuo e talora eclatantemente contraddittorio), tenendo fermo che scrittori come Consolo – pur tutt’altro che inappuntabili, come vedremo, da ogni rispetto – costituiscono una risorsa preziosa e vitale per la prosa letteraria italiana, oggi più che mai in profondissima crisi. 2. Nell’intento di levare a dignità storica e letteraria l’oralità mutevolissima e transeunte d’un popolo, il siciliano, in odore di mitico emblema tradizionale (l’impianto apparentemente naturalistico tradisce un ruolo in fatto sovrastrutturale), la compagine linguistica di FA – conformemente alle estetiche della verisimiglianza espressiva in voga negli anni Sessanta – è orientata in direzione decisamente demotica anzitutto sul piano dello stile. Oltre alla sistematica, seppur tenuemente indicativa, predilezione di parere e pigliare contro sembrare e prendere, colpisce la disseminazione capillare d’un indiretto libero debordante nel monologo interiore, finalizzato non solo a una mimesi del parlato di forte suggestione, ma alla disgregazione della voce narrante in una coralità impersonale e acremente lirica: S’era inventato l’arte delle lame: rubava chiodi di mulo ai maniscalchi e il resto lo faceva la rotaia col treno che passava; brillavano al sole che parevano d’argento, con cinque lire pretendi pure il manico? allatta qua, gioia di mamma (54) E poi: quella scritta andava in alto, sopra la corona, o ai piedi dell’altare? Tra loro, se la sbrigassero tra loro, Squillace Costa il sorvegliante Seminara, io l’altarino lo vedrò bell’e conciato: dimoro, dimoro qua, alla marina (113) Diffusissime le tematizzazioni, sia nel discorso diretto che in quello autoriale, intese a riprodurre la corposa immediatezza del milieu sociale rappresentato: «Mùstica i temi li faceva buoni» 16, «Aveva due valige e la leggera gliela portavo io» 27, «tutto lo spirito se l’era messo nella tasca dietro» 41. (Si noti che ai nostri fini il rapporto fra stratificazione delle voci e resa verbale è del tutto ininfluente, non solo in quanto «l’orchestra che il narratore dirige è composta di una sola voce infinite volte rifratta: la sua»,8 ma soprattutto perché in Consolo l’incursione del diegetico nel dialogico e il conseguente assoggettamento linguistico del personaggio da parte del narratore sono legge). Di egual segno le duplicazioni di moto rasente luogo, di matrice dialettale9 8 Cesare Segre, Polifonia e punto di vista nella comunicazione letteraria, in Id., Intrecci di voci, cit., p. 5. 9 Nell’accezione proposta da Bruno Migliorini, Lingua d’oggi e di ieri, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1973,  («Sbucarono dalla testa del faro le barche riva riva» 61, «e, muro muro, me n’andai fuori» 130) o adibite a mansioni elative, non solo a livello avverbiale e aggettivale ma perfino di verbo e sostantivo, con esiti cromatici notevoli: «Soffrigge presto presto la cipolla» 89, «E si mise teso teso, quasi sull’attenti» 14, «Con la funzione che dura dura, sempre fermi» 5, «Solo una tralignò, a que’ morti morti dove si trova» 110 (sic. a ddi morti morti unni si ṭṛova). Non meno rilevante l’articolato complesso delle opzioni sintattiche. Spicca su tutte l’uso dell’indicativo in luogo del congiuntivo («C’era bisogno che s’angustiava tanto?» 19, «c’era sempre quella palma nana nana che pareva si seccava» 27), ancorché non manchino casi in avverso, a testimoniare la stridente compresenza di livelli incompatibili (nel secondo esempio ulteriormente marcata dall’omissione del che completivo, estranea al registro popolare): «Si mise a raschiare e a tossire, poveretto, che pareva avesse i gatti dentro il petto» 10, «Filippo non volle lo aiutassi» 28. Se caratteristico del siciliano è il perfetto con valore di passato prossimo («Non sei cangiato. Quando tornasti?» 44, «[…] queste cose si tengono in panza, capisti?» 45), panmeridionale è l’uso di come a ‘come’ («pareva un caruso come a noi» 27) e la sostituzione di da con di nelle espressioni del tipo «vestito di maggiore» 81. Ampiamente profusa la ridondanza pronominale («A Tano Squillace gli morì il papà» 21, «Seminara pareva gli era morto a lui» 21) e l’uso del ci attualizzante, talora con agglutinazioni grafiche proprie della scrittura popolare («gli alza la maglia e che cià per la vita?» 94), nonché l’impiego affettivo-intensivo del pronome: «mi do la licenza magistrale e me ne vado» 38, «mi leggevo un manifesto» 117. Tra i provvedimenti topologici la collocazione postnominale del possessivo («scancellò Sara e ci mise la firma sua» 21) e il più fragrante dei sicilianismi: l’ubicazione clausolare del verbo: «lo stesso odore avete, tutta la casa lo stesso odore ha» 19-20, «tutti cristiani siamo, tutti uniti dobbiamo stare» 57, «La prima volta era?» 63. In àmbito morfosintattico si evidenziano una serie di locuzioni d’area siciliana, quali a cangio ‘invece’ («la poteva accontentare a cangio di smaniare ogni sera» 65), a uso ‘come’ e a uso che ‘come se’ con l’indicativo: «combinata a uso signorina» 92, «inginocchiato, a uso che pregavo» 11. Largamente rappresentati alcuni popolarismi di natura morfologica. Oltre al ci dativo polivalente («O guardaci la roba che ci portarono i mericani a tua sorella!» 15), forme comico-analogiche di coniugazione («protestava che da solo la puoteva» 28, «Se qualche signore vuol toccare […], s’accomodisca» 50) e un tratto tipico dell’oralità siciliana: la preposizione articolata scissa: «Cercai Filì […] a la marina» 130-31. Assai più variegato il bottino fonetico: dall’elisione caricaturale della lingua aulica («culo grosso com’un avvocato» 74, «lo scruta con ansia mentr’egli odora» 89) all’aferesi vocalica – con oscillazioni nell’uso dell’apostrofo – e sillabica nel dimostrativo («na cavallina in caldo» 18, «– Qua, alla bocca dell’anima, ciò sempre ’na vampa» 99, «non capivano ste cose» 15) alla preferenza accordata a forme tipo que’, de’ ecc., in posizione non solo avantonica: «que’ stronzi» 26, «que’ bastardi» 47, «la p. 314. 9  connivenza de’ pezzi da novanta» 71, «[…] se’ tutto bagnato» 137. Ma la tastiera di Consolo è inesauribile: non una nota, non una sfumatura tonale tace all’appello. Ed ecco, all’opposto versante del preziosismo e della suggestione letteraria, l’imponente investimento della convenzione metrica: un connotato originalissimo che riscontreremo in tutte le opere successive.10 Il primato spetta all’endecasillabo, isolato o in gruppi, ma non è raro imbattersi in catene variamente misurate, sempre al governo d’una intenzionalità calcolatissima e sapiente: sia attraverso inversioni funzionali («[…] il baffo me lo taglio, e le basette» 32, «Accanto le sedeva suo nipote» 47) sia mediante apocopi sillabiche o forme sintetiche desuete della preposizione articolata: «All’istituto i preti han già le cotte» 90, «Il padre di Merì ha la dentiera, / le scarpe troppo lunghe pel suo piede, / la donna con i serpi e la coccarda / all’occhiello della giacca / che gli cade sotto il culo» 71.11 Come s’è visto, il secondo campione è nettamente scandito in una sequenza di tre endecasillabi e due ottonarî, anche col sussidio della punteggiatura ritmica. Esempî del genere sono regolarmente distribuiti: sfinita per il pianto e per le grida: / pareva il pavimento l’inghiottiva, / molle com’era^e abbandonata / senza respiro, senza movimento (64) gambe invischiate lente a trascinarsi, / schiene ricurve sotto il cielo basso, / la mano gonfia con le dita aperte; / il gallo sul pollaio / che grida per il nibbio / e il cane che risponde petulante. / Il cane e un altro cane e tutti i cani (69) si portano nel sole a scatarrarsi, / a togliersi l’inverno dalle ossa, / disegnano il terreno col bastone, / spaventano l’uccello e la lucertola. / Le donne sui balconi, alle finestre (73) Lo scampanio entrò dalla finestra, / era la chiesa vecchia e la Matrice, / lontane quelle sorde all’istituto, / fiaccate dalle schegge. / Il mezzogiorno a festa / dura quanto di notte / l’allarme per il fuoco / o per le barche a mare (100) Le mine son le nespole mature / ed i baccelli gonfi delle fave [si noti come l’apocope sillabica nel primo “verso” e la dentale eufonica nel secondo obbediscano a precise necessità mensurali] (115) Il tessuto fonico si presenta oltremodo ricco e composito. Rime e quasi-rime («Ci vuole poco ormai per la sera, il sole se ne calò a Puntalena e l’aria da grigia comincia a farsi nera» 93, «si sbottonò il cappotto ed era nudo SOTTO»12 133, «e allora si scosse, s’accorse» 65), assillabazioni, giochi allitterativi e parallelismi ingegnosi («buio fitto, fino al paese a filo» 31, «coi piatti i timpani i triangoli i tamburi, le trombe a tutto fiato» 78, «– Mia madre mi morì, – mi disse piano» 114, «una luna e l’altre allato due stelle» 134) appesantiscono la scrittura fin quasi a vanificare la tensione narrativa in un’adorazione estenuata del significante. Ma è in campo sintattico che letterarietà e preziosismo vengono perseguiti col più massiccio spiegamento di forze. Le enumerazioni asindetiche con eliminazione della punteggiatura («L’avanzata i cannoni i guastatori i lanciafiamme; la ritirata la steppa il 10 I primi a rilevarlo, in un prezioso studio mirato a SIM, furono Alessandro e Mughetto Finzi, Strutture metriche nella prosa di Vincenzo Consolo, «Linguistica e letteratura», III, 2, 1978, pp. 121-35. 11 Scansione nostra, come nei successivi lacerti. 12 Maiuscolo nel testo. 10 OBLIO II, 5 freddo la fame» 12, «Getsemani la cena le cadute la croce lo spasimo il tabuto» 90-91); il costrutto impersonale preceduto dal pronome di 4ª persona («e noi tutti s’andava al catechismo» 48); la costruzione assoluta del complemento di qualità: «guardava oltre, gli occhi alti e fissi» 29, «Gesù, cuore infiammato su tunica bianca» 55. Due gli aspetti morfologici eminenti: la riduzione dell’imperfetto di 3a persona («e il Costa ch’avea portato il braccio avanti» 6, «la bussìca che gli crescea davanti» 87) e la preposizione articolata sintetica: «mormorava pei trasferimenti» 27, «se ne partiva pel bosco a far carbone» 37-38. Tra i fatti fonetici, se s’ignora l’unico caso di prostesi («per isbaglio» 108), impiegatissima l’apocope vocalica facoltativa, sempre rigorosamente preconsonantica («mi mandò al salone a far le saponate, poi il sarto, ad infilar le aguglie e levar l’imbastiture» 34-35, «per me l’avevan fatto» 74), e l’osservanza d’un tratto toscoletterario quale la regola del dittongo mobile: «moveva le dita tra i ceci» 29, «e il mulo non moveva un piede» 97. È però nel reparto lessicale che l’espressivismo cruento ed estremistico di Consolo si libera nella più ampia e fastosa gamma d’articolazioni: recupero di parole antiche o disusate,13 neologismi d’autore, e soprattutto adattamenti di vocaboli dialettali, in netta prevalenza siciliani.14 3. «Come sono raffigurati i pensieri nel Sorriso dell’ignoto marinaio? V’è una inarrestabile discesa spiraliforme dal palazzo del barone Mandralisca e dalla buona società in cui si congiura contro i Borboni […] all’eremo di Santo Nicolò, alla combriccola di Santa Marecùma, sino ai villici e braccianti di Alcàra Li Fusi […]; le volute diventano gironi infernali con la strage di borghesi perpetrata ad Alcàra […] e bolgia ancora più fonda quando nelle carceri sotterranee di Sant’Agata vengono racchiusi i colpevoli […]. Questa discesa è anche linguistica: al sommo c’è il linguaggio vivido e barocco dei primi capitoli; negli inferi […] le scritte compendiarie dei prigionieri […]. Ma questi due estremi linguistici e le realizzazioni intermedie non si sovrappongono a strati, bensì alternano o si mescolano, sempre secondo uno schema elicoidale».15 Siamo, è evidente, agli antipodi della prova esordiale: una lingua in costume d’epoca stratificata di multiformi varianti stilistiche ma ruotante sul cardine della soggezione fonoprosodica e d’un cultismo latineggiante lussuosamente drappeggiato. Si legga un dialogo come il seguente, frazionato in limpide unità melodico-semantiche da coro greco: — È aceto, malicarni, aceto! — Aceto? — Aceto? — Miracolo! 13 Accanire, p. 124 rigo 1; chiocco 9726; fragoso 1054 ; lontanarsi 589 ; sgravo 5618; spantarsi 1154 ; sprovare 3418, ecc. 14 Cfr., infra, Coniazioni originali e Dialettalismi. 15 Cesare Segre, La costruzione a chiocciola, in Id., Intrecci di voci, cit., p. 81.  Il romito è santo! — Ha stracangiato l’acqua nell’aceto! — Frate Nunzio beato! — Sulla trazzèra ebbe la visione. — E urlò di piacere e meraviglia. — E perse i sentimenti. — E il controllo di sfintere. (62) o si soppesi l’esibita maestria di certe manipolazioni soprasegmentali («dentro la barca, tra barca e barca, tra barca e banchina» 27, «una greca creta cotta di fattura liparitana» 95) e la segnalata subordinazione dei contenuti-significati al conglomerato formale risalterà perentoria, come lo stesso Segre dové rilevare (pur con la titubanza dovuta al fondamentale apprezzamento d’un valore inconcutibile) nelle conclusioni del saggio citato, là dove si afferma che «è difficile respingere l’impressione di un certo manierismo o barocchismo nei risultati formali. Questo manierismo (o barocchismo) è probabilmente inteso a far esplodere il linguaggio medio, spingendolo contemporaneamente verso i livelli più alti e quelli più bassi dello spazio linguistico. Ciò non toglie che il fascino della pagina di Consolo stia proprio (o anche) nella sua ardua giunzione con i principi enunciati».16 Assoluzione con riserva che non si esiterebbe un istante a controfirmare se solo fosse dato sottrarsi alla oggettiva constatazione che «C’è sempre un di più d’indugio, un edonismo fonico-lessicologico in questa, come in ogni scrittura così densa».17 Densa e opulenta fino al parossismo. A partire dalla strabordante congerie delle manovre topologiche, prevalentemente fomentate da una vocazione musicale altrettanto esteriore quanto incontenibile. Sia la dislocazione degli epiteti («urlanti parimenti e agitati» 27) e l’inversione del soggetto («Sembrava, quella, una tovaglia stramba» 45, «S’abbracciarono i due amici sulla scala» 71); l’iperbato – talora violentato fino alla sinchisi – e il collocamento del verbo in clausola («E gli occhi aveva piccoli e puntuti» 5, «– Chi è, in nome di Dio? – di solitaria badessa centenaria in clausura domanda che si perde nelle celle» 8, «niente da invidiare aveva» 83, «castello a carcere adoprato che il principe Galvano visitare mi fece» 114); la posposizione latineggiante del possessivo («covava un amore suo» 3, «il padre suo tornato d’oltretomba» 114) e il legato aggettivo etnico/relazionale-sostantivo («sveva discendenza» 99, «solare luce» 119) o la tmesi servile-infinito e ausiliare-participio («E narrar li vorrei siccome narrati li averìa un di quei rivoltosi» 96); sia, infine, l’enclisi pronominale, con risultati parodistici in tutto gratuiti nella loro inaudita amplificazione: «scogli, sui quali infrangonsi di tramontana i venti e i marosi» 4, «e giù per funi calaronla» 82, «e il territorio popolossi» 116, «faceala, a mio giudizio, ingrandire» 116. L’ordito sintattico è tendenzialmente scabro, nervoso, fratto in blocchi asindetici nominali o in membri paratattici modulati da filze d’infiniti con funzione vivacizzante: Luccichìo, al vacillare de’ moccoli, dei manici di rame del tabuto, piedi a zampe di grifo, impugnatore d’oro a raggera sul manto di velluto nero di sette spade nel cuore di Maria, spalancati occhi d’argento, occhio fisso, 16 Ivi, p. 86. 17 Ivi, p. 85. 12  occhi, cuori fiammanti, canne a salire e scendere d’ottone sopra l’organo. Oltre i lumi, nell’ombra del soffitto e delle mura, precipitare di teschi digrignanti, voli di tibie in croce, guizzare di scheletri da sotto lastre, sorgere da arche, avelli, scivolare da loculi, angeli in diagonale con ali di membrana che soffiano le trombe (65) Frequentissime le enumerazioni caotiche, in cui l’eliminazione della punteggiatura – o il suo esasperato impiego – produce esiti poco meno che ossessivi: dritti soprusi abusi angherie e perangherie … (testatico sopra ogni animale da soma che carico di cereali arriva a Cefalù, dritto del macello cioè sopra ogni bove porco e altro animale che si macella, decima sulla calce, decima sopra tutte le terre cotte, decima sulle produzioni ortilizie e sulle trecce d’agli, decima sulla manifatturazione e immissione delle scope, grana sopra legno e carbone, duodecima sopra vini mostali, dritto di dogane di mare e di terra cioè d’ancoraggio falangaggio e plateatico, decima sopra il pesce cioè sarde acciughe e pesce squamale, dritto di terragiolo (15) Anche presente la sillessi tosco-letteraria e del tipo «Ce n’è tanti» (61) e consistente nel costrutto impersonale introdotto dal pronome di 4ª persona: «La cosa più sensata che noi si possa fare» 98. Ma due i maggiori fatti sintattici conferenti all’impaginazione testuale una togata patina classicheggiante: il participio presente con valore verbale («alte flessuose palme schiudenti le vulve delle spate» 6, «verdi chiocciole segnanti sulla pietra strie d’argento» 6) e la costruzione assoluta del complemento di qualità: «Schiuma l’eremita, voce raggelata nella gola, sudore e tremito tremendo nelle ossa» 61. A livello morfosintattico, oltre al violento arcaismo rappresentato dal gerundio retto da in («ma, in guardandolo, colui mostravasi uno strano marinaio» 5), l’articolo determinativo in forma debole dinanzi a z e a s complicata, sovente d’intenzione prosodica: «proteggevano il zappatore» 15 (novenario), «ne’ sfilacciati albagi» 105 (settenario), «col passo ferragliante dei speroni» 111 (endecasillabo). Più ampio e variegato il ventaglio degli accorgimenti morfologici. Dalla rinunzia, metricamente mirata, alla labiodentale sonora nella 3a persona dell’imperfetto («festeggiare soleano nei quartieri» 80, «Ma giugnea fraditanto una carretta» 109) al condizionale siciliano in -rìa («Il genio mi ci vorrìa dell’Alighieri» 105, «sennò sarìa stato eretico per paganità» 116); dalla preposizione articolata desuetamente scissa («a le vicende loro» 6, «pronti a vergar su le carte» 100) e sintetica («Dieci salme le scassai pel vigneto» 17, in cui, si noti, la forma analitica romperebbe la misura versale) alle varianti analogiche o arcaiche di coniugazione («uno vivuto sempre sulla terra» 5, «noi, che que’ valori abbiamo già conquisi» 97). Foltissimo il fascio delle variazioni fonetiche. Elisioni a facile effetto sonoro: «sicuro […] ch’occhi indiscreti non scoprissero la sua debolezza» 70; apocopi d’ogni tipo: «Torrazzi […] ch’estollon i lor merli» 4, «l’umìl saluto» 86, «passion di casta» 97, «diè ordine» 78; dittonghi discendenti ridotti: «E son peggio de’ corvi e de’ sciacalli» 98 (endecasillabo di 3a e 6a ), «Alle grida s’affacciò da’ cunicoli» 77 (endecasillabo sdrucciolo). Tratto grafico-fonico peculiare delle scritture macaroniche, qui spinto a conseguenze 13 OBLIO II, 5 estreme, l’indiscriminata solerzia nell’apposizione dei segnaccenti18 (càpperi 31, bàsola 33, làstime 42, trazzèra 87, codardìa 88, viòlo 92, ecc.), manifestamente adibita a distrarre l’attenzione dalla sfera semantica per concentrarla sull’architettura formale. Alla maggiore complessità del quadro linguistico non può non corrispondere un più acceso dinamismo lessicale. Mentre s’affinano, moltiplicandosi, le modalità delle procedure onomaturgiche (non più d’esclusiva natura compositivo-dialettale, bensì, coerentemente con la materia trattata, arcaico-letteraria) e s’intensifica il ricorso al tesoro dialettale, lo scenario ottocentesco determina un cospicuo arricchimento del vocabolario arcaico.19 4. Pubblicato dopo un decennio di silenzio rotto solo dall’ispido pastiche favolisticoteatrale Lunaria20 (del quale condivide ambientazione siculo-settecentesca e inappagato oltranzismo barocco), il terzo romanzo di Consolo si colloca all’àpice d’una sperimentazione votata al globale assorbimento della materia e alla pietrificazione dell’impulso narrativo in formula rigidamente preconfezionata. Assoluta mancanza di selettività; abbattimento del confine tra prosa e poesia con l’ineluttabile, perniciosa perequazione di suono e senso; ostentazione di convenzioni e istituti espressionistici squadernati allo stato puro in un cerimoniale orgiastico sostanzialmente inoffensivo: tali i limiti più inquietanti d’una scrittura che, quale quella di R, aspira innanzitutto a significare sé stessa, offrendosi come spettacoloso intrattenimento: Rosalia. Rosa e Lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha róso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia. […] Lia che m’ha liato la vita come il cedro o la lumia il dente, liana di tormento, catena di bagno sempiterno, libame oppioso, licore affatturato, letale pozione, lilio dell’inferno che credei divino, lima che sordamente mi corrose l’ossa, limaccia che m’invischiò nelle sue spire, lingua che m’attassò come angue che guizza dal pietrame, lioparda imperiosa, lippo dell’alma mia, liquame nero, pece dov’affogai, ahi!, per mia dannazione (9-10) È l’incipit, ma si dica pure l’ouverture di questa sinfonia governata da una vis compositiva eminentemente ritmica, affatto scevra da preoccupazioni comunicative, soggiogata dal demone della tecnica e della libera associazione sonora, «con 18 Con oscillazioni e discordanze notevoli: un dato che il Nostro condivide in toto col suo conterraneo e per certi versi omologo Stefano D’Arrigo. 19 Aere 8615; ascoso 8721; binoculo 11118; dappoiché 1014 ; jiumenta 10433; mercatante 2812; poscia 11112; prope 10826; ricolta 10019; ricoverto 11837; tòrre 6324; tuttavolta 10525; unisonanza 177 , ecc. 20 Torino, Einaudi, 1985, su cui Segre ha steso pagine superbe, agevolando l’accesso all’intero universo espressivo consoliano: «La prima [conclusione] è che la scelta delle componenti linguistiche non è fatta corrispondere rigidamente al tipo e livello dei personaggi; la seconda è che la differenza tra prosa e poesia non corrisponde all’opposizione diegetico/dialogico. La prima conclusione significa che Consolo, pur differenziando in linea di massima la lingua dei personaggi, lascia che entro questa, nei momenti della concitazione o dell’emozione o della partecipazione, traspaia la propria, con tutta la gamma dei suoi registri. Il sicilianismo o il termine letterario o latino non fungono da “ideologemi”, ma rientrano nel complesso delle funzioni evocative organizzato dallo scrittore. La seconda conclusione conferma l’osmosi caratteristica di Consolo tra prosa e poesia, con predominio di quest’ultima» (Teatro e racconto su frammenti di luna, in Id., Intrecci di voci, cit., p. 100). profusione vocabolaristica da vecchia scuola accademica».21 Un nome, nulla più che un flatus vocis sezionato nei suoi componenti – Rosa/Lia – s’incarica d’imprimere il movimento iniziale alla sfarzosa, caotica malia melica polifilesca riboccante d’anafore, corrispondenze, marinismi, retoriche agudezas, liturgie mensurali, virulente ibridazioni. Caoticità litanica non ridotta d’un ette dall’ordinamento alfabetico del nome (Lia), del verbo seminventato liato da esso tratto22 e della filza d’apposizioni inizianti per l- come Lia (liana libame licore lilio lima limaccia lingua lioparda lippo liquame: unica eccezione letale, retto in compenso da un altro tipo d’ordine: il chiasmo licore affatturato | letale pozione). Sta in fatto che l’effetto più abbagliante resta quello d’un’arida compulsazione vocabolaristica. Che sarebbe, s’intende, non solo lecito, ma godibilissimo in un autore che non s’impuntasse, come il Nostro, a professar fedi di natura storica e sociopolitica ponendole alle basi del proprio lavoro. Ma torniamo al ritmo. Un compendio del dirompente genio metrico di Consolo: E gli occhi tenea bassi per vergogna (12) La visïon di quegli ordegni bruti (26) fuga notturna in circolo e infinita (28) e qua e là son poggi di riposo (31) privato vale a dire del cervello (42) Ma Mele dico ei doversi dire (68) I’ mi trovai disteso, e non so come, / fra le dune di sabbia sulla riva, / con gente intorno a me che parlottava (104) Si veda come, nel primo caso, la misura sia garantita dall’iperbato e dall’imperfetto arcaico; nel secondo da una caricata apocope vocalica compensata dalla dieresi; nel terzo dalla dislocazione degli epiteti; nel quarto, oltreché dall’apocope, da un enfatizzato polisindeto di profumo ariostesco; nel quinto da un’aspra inversione; nel sesto da un latinismo sintattico (accusativo + infinito) arricchito da insistite allitterazioni23 e dal poliptoto giocato sulle due voci del verbo dire. Il settimo brano, marcato da un arguto avvio stilnovistico,24 valga ad esemplificare la disseminazione nel testo di veri e proprî microcomponimenti poetici non di rado variamente assonanzati (ma qui il secondo e il terzo endecasillabo sono apparentati persino da una quasi-rima: riVA / parlottaVA). Emerge, fin da questa rapida rassegna, l’oceanico profluvio degli ingredienti mescolati 21 Vittorio Coletti, Storia dell’italiano letterario. Dalle origini al Novecento, Torino, Einaudi, 1993, p. 381. 22 Cfr., infra, Dialettalismi. 23 Il libro ne è letteralmente infarcito: «carriole, carretti carichi di sacchi» 15; «Fra merda e fango e fumi di fritture» 15; «un gran gracchiar di nacchere, rimbombi di timballi» 42; «mele o melle, o meliàca, che ammolla e ammalia ogni malo male» 68, ecc. 24 Non mancano citazioni poetiche: «in sul calar del sole» 34, «E sedendo e mirando» 73, quest’ultima presente anche in SIM 98 insieme al manzoniano «scendea per uno di quei vicoli» 107.  e messi a macerare nel capientissimo (e inimitabile) calderone gaddiano. Un tessuto stilistico irto d’incisi richiami rinvii sincopature miranti a riprodurre la libertà costruttiva della sintassi classica: Una più alta onda, a un certo punto, sferzando fortemente la fiancata, fece rotolare ancora, e trasbordare, tranciando salmi, inabissar nell’acqua, salvandoci sicuramente da naufragio, la mia statua (125) o a bruciare nel più parossistico manierismo formale e nell’invasata possessione litanica nevrastenia e risentimento: Vascelli, brigantini, galeoni, feluche, palmotte, sciabecchi, polacche, fregate, corvette, tartane caricavano e scaricavano, nel traffico, nel chiasso, nell’allegria della banchina, le merci più disparate: sale per primo, e in magna quantitate, quindi tonno in barile, di quello rinomato di Formica, Favognana, Scopello e Bonagìa, e asciuttàme, vino, cenere di soda, pasta di regolìzia, sommacco, pelli, solfo, tufi marmi, scope, giummara, formaggi, intrita dolce e amara, oli, olive, carrube, agli, cannamele, seta cruda, cotone, cannavo, lino alessandrino, lana barbarisca, raso di Firenze, carmiscìna, orbàci, panno di Spagna, scotto di Fiandra, tela Olona, saja di Bologna, bajettone d’Inghilterra, velluto, flanella, còiri tunisini, legnami, tabacco in foglie, rapè, cera rustica, corallo, vetro veneziano, mursia, carta bianca (127) col solo esito di raschiare la massa verbale devitalizzandone la polpa in un trionfale quanto edulcorato inno alla musica. A comprovare il sostanziale eleatismo, sotto mentite spoglie eraclitee, del mondo linguistico consoliano, la sconcertante iterazione dei procedimenti: i medesimi, salvo numeratissime eccezioni, già prodigalmente investiti nei romanzi precedenti (pur tanto dissimili, si badi, sia per ambientazione storica sia quanto all’organizzazione del materiale inventivo) e che ritroveremo rotondamente identici nelle opere posteriori. Valga uno schematicissimo excursus. In àmbito sintattico: costruzione assoluta del complemento di qualità («Ansava come mantice d’organo […], grave il respiro fora dalle labbra» 68) e participio presente con valore verbale: «sommessamente mormorante paternostri» 141. Dal rispetto topologico: inversioni («Amenissima, polita e levigata corre la strada» 31, «E più beato ancor si fece e deliziato» 54); tmesi d’ausiliare e participio nonché di fattitivo e infinito («quello loro l’avea Isidoro miracolosamente trasformato» 95, «sparir li faceva in una sacca» 44); ubicazione clausolare del verbo alla latina («sorge dal mare e tutt’il cielo indora» 23, «altr’òmini, che in ozio parevano» 35); dislocazione degli epiteti («a netti cuori e ardenti vi scaldate» 23, «una catena d’alti colli e scabri» 25, «vostro divoto amico e ammirante» 26, «grecanica fattura nobilissima» 38); posposizione del possessivo («nel breve peregrinare mio per il mondo» 134, «che la bellezza tua stava nascosta» 150); enclisi pronominale («E sfigurossi poscia in viso» 55, «lasciavansi crescere la chioma» 59, «lacerossi gli abiti» 143); chiasmi: «siamo fermi, fermi sprofondiamo» 110. In area morfosintattica: infinito sostantivato e gerundio preposizionali («in latteggiar purissimo de’ marmi […], in rosseggiar d’antemurali» 24, «certo, in leggendolo […] vi donerà gran tedio» 136) e articolo in forma debole davanti a z, non di rado a scopi ritmici: «nella ripresa del zufolo e del sistro» 55. Nella morfologia: preposizione articolata sintetica («l’inferno pel rimorso del peccato» 13, «sacconi di bombarde pei legni che vi salpano» 25) e scissa («ne la luce di giugno» 25, «follia dolce de l’ingegnoso hidalgo» 49); coniugazioni arcaiche: «Io mi chiedei allor» 49, «giùnsimo al punto più alto» 52, «vìdimo che si svolgea […] una processione» 140); accumuli preposizionali («con la sua spina velenosa in su nel core» 9, «e disparì in dentro d’una porta» 36); eliminazione prosodicamente funzionale – nell’imperfetto di 1a , 3a e 6a persona – della labiodentale sonora: «venia ad investirmi sulla faccia» 18, «facea sinistramente cigolare» 26, «la sospingeano da una vasca all’altra» 120. Sempre amplissimo, in territorio fonetico, lo spettro delle fattispecie citabili. Dittonghi discendenti ridotti nei monosillabi («preso da’ Turchi, da’ corsari» 17, «que’ bagni celebrati dagli antichi» 55); preferenza per le forme monottongate (ova 12, òmini 15, scotersi 138, foco 149, core 151, ecc.); elisioni con se, da, su e coi plurali («mi chiese s’ero pratico di strade» 16, «mi preservi e salvi d’ogni dolore» 29, «stava immobile s’uno sgabello» 120, «col linguaggio ascoso dell’allusioni» 132); apocopi vocaliche e sillabiche («nell’umile mestier del facchinaggio» 27, «nell’aer lieve dell’ora antelucana» 53, «m’abbracciaro e baciaro a uno a uno» 37); aferesi d’ogni tipo: state ‘estate’ 56, Stambùl 74, sendo 95, straneo 122, ecc. Quanto al registro demotico, da segnalare i numerosi intarsî dialogici pluridialettali (nei quali eccelle la collocazione siciliana del verbo in clausola); l’impiego di tenere per ‘avere’; l’aferesi vocalica dell’articolo indeterminativo («E ’na volta eran l’ova, ’n’altra la cassatella, ’n’altra la cedrata» 12) e sillabica nel dimostrativo: «’sto cavalèr foresto, ’sto galantomo, ’sta perla di cristiano» 59. Pur dominato dall’interesse arcaico,25 il settore lessicale si presenta naturalmente rigogliosissimo tanto in sede onomaturgica che dialettale.26 5. «Eppure, romanzo storico Nottetempo, casa per casa senza dubbio è. […] Lo è per la fitta trama di allusioni che, come è nella tradizione più pura del romanzo storico, rimandano al presente. Lo è per l’acume con cui lo scrittore ha scelto, anche qui secondo il modello più prezioso del genere, un avvenimento particolarmente inedito e intrigante nel mare degli eventi possibili».27 Questo, press’a poco, il tenore degli interventi critici sull’opera consoliana fin dall’epoca dell’entrata in arte: un approccio sostanzialmente contenutistico che oltre a non rendere competente giustizia alla complessità del dettato, ne suggerisce una lettura parzialissima e fallace, proprio in quanto bloccata all’aspetto meno strutturante dell’atto creativo: la stratificazione dell’elemento concettuale. Si legga un qualsiasi avvio di capitolo: Gravava il silenzio sulle case, ad ogni strada, piano, baglio, il silenzio al meriggio dove piombano sui picchi, le 25 Un catalogo puramente indicativo: alma 920; amistà 10613; antichitate 5120; architettore 2724; bontate 13611; civiltate 5720; dua 282 ; frale 4527; imperocché 2811; littra 4020; marmore 1192 ; mercatore 988 ; nullitate 2611; pintore 5316; sustanza 2819, ecc. 26 «Non c’è motivazione tematica che tenga di fronte a tanta esibizione di sapienza lessicografica» (Vittorio Coletti, op. cit., p. 381). 27 Antonio Franchini, Introduzione a NCC, pp. V-VI.  mura della Rocca corvi, gazze, brulicano sui canali, i limi delle gébbie nugoli d’insetti, la vita chiede tregua al fervore del tempo, all’inclemenza dell’ora, chiede ristoro ai rèfoli, alle brezze, alle fragili ombre delle fronde, delle barche, alle fresche accoglienze delle stanze (13) o si prelevi a caso una delle tante caotiche enumerazioni che stipano il “romanzo”: Pensò a Monreale, a San Martino delle Scale, all’Arcivescovado, allo Steri, all’Archivio Comunale, ad ogni luogo con cameroni, studi, corridoi, anditi tappezzati di stipi traballanti, scaffali di pergamene scure, raggrinzite, di rìsime disciolte, di carte stanche, fiorite di cancri funghi muffe, vergate di lettere sillabe parole decadute, dissolte in nerofumo cenere pulviscolo, agli ipogei, alle cripte, alle gallerie sotterranee, ai dammusi murati, alle catacombe di libri imbalsamati, agli ossari, allo scuro regno róso, all’imperio ascoso dei sorci delle càmole dei tarli degli argentei pesci nel mar delle pagine dei dorsi dei frontespizi dei risguardi. E ancora alle epoche remote, ai luoghi più profondi e obliati, ai libri sepolti, ai ritoli persi sotto macerie, frane, cretti di fango lave sale, aggrumati, pietrificati sotto dune, interminate sabbie di deserti. (31-32) e si dica se una così torrenziale, rapinosa ossessione lirica possa ragionevolmente legittimare l’evocazione d’una categoria quale quella di narrazione storica (dove non solo l’epiteto, ma perfino il sostantivo dovrebbe indurre la più disarmante perplessità) o il ricorso al tòpos – non si saprebbe se vieto o semplicemente inadeguato – dell’allusorio rimando al contemporaneo mercé investigazione di compagini d’epoca. Non che, beninteso, passione teoretica e tensione morale siano estranee a un’operazione che, come NCC, si coagula tematicamente intorno alla furia irrazionalistica originata dall’avvento del fascismo e sue conseguenze. Certo si è che, ancora una volta, la scrittura par muovere non da giudizio, riflessione o progetto, ma da un tripudio calligrafico supercilioso e innaturale che solo la fermentazione erosiva e autoironica d’un Gadda o d’un Pizzuto, qui fatalmente assente, riuscirebbe a riscattare. Vi è un limite varcato il quale il vortice plurilinguistico e registruale, se non fortemente necessitato, si cristallizza in grammatica, smarrendo ragione e valore. Se infatti in SIM, e più in R, l’elaborazione d’un linguaggio sfarzoso e prestigiosissimo traeva motivo e alimento dall’esigenza mimetica suggerita dall’ambientazione rispettivamente otto- e settecentesca, si stenta a credere che in NCC essa sia semanticamente funzionalizzata, e soprattutto poeticamente restituita. Non si dice della sempre invasiva laboriosità fonoprosodica con forti connotati di autoriflessività (numerose le scansioni versali – le più strutturate in endecasillabi e settenarî –, incalcolabili le serie allitterative e le corrispondenze dei tipi più svariati),28 né degli stratagemmi topologici sovente radicalizzati oltre i limiti del leggibile;29 ma di forzature incongrue quali gl’imperfetti arcaici di 3a e 6a persona («il giovine ch’avea chiesto la sua mano» 46, «già l’avean punita» 87); la preposizione articolata arcaicamente sintetica («sale pel cielo il turbine di lucciole» 5, «ritiro pei padroni alla 28 Qualche esempio: «col traffico di merci, passeggeri / speravan d’accansare qualche cosa» 44; «Partiva in compagnia di tre paesani, / ch’erano accanto con i lor parenti» 45; «del balenar di lini, / trascorrere di lumi» 18; «allo scuro regno róso, all’imperio ascoso» 32; «la condizione al presente della gente» 109; «uose pelose di vacca becco porco» 121; «Batte con la pala mazza alza polverazzo» 156; «oltre l’intrico dei vichi » 166. 29 Inversione del soggetto, posposizione latineggiante del possessivo, dislocazione degli epiteti, enclisi pronominale. Ma soprattutto sinchisi: «Finsero, facendo galoppar scrosciando il cavallino giù per la discesa, d’esser partiti» 20; «dalle polle celesti della Rocca cascando, per inferi canali, per alvei di granito trascorrendo, sotto piani strade bagli case chiese conventi gorgogliando» 104, ecc. ricolta dell’uva» 17) o vezzosamente scissa («danzando su la musica segreta d’ascosi pifferi» 16, «– O casa mia, – gemeva – casa de la dolora, patimento, casa de l’innocenza» 37); i voraci accumuli preposizionali («mesceva svelta ai clienti, quattro o cinque fedeli in su quell’ora» 13); le apocopi sillabiche e vocaliche frequentemente indotte da pervicacia metrico-ritmica: «con il fior l’amore, la passion tremenda» 26 (coppia di senarî), «tirandogli le dita dolcemente, gli fe’ capire di tornare giù» 76 (endecasillabi), «Fu quello l’inizio d’una industria, d’un commercio che gli diè guadagno» 131 (decasillabi). Il comparto lessicale gronda di neoformazioni ardite, dialettalismi, e soprattutto arcaismi brutali, spesso incastrati a forza in contesti prossimi al rigetto.30 6. Salmodiante poème en prose in bilico tra inchiesta antropologica e impetuosa esecrazione della civiltà contemporanea rappresentata al culmine del suo decadimento, OO segna un punto di svolta cruciale nella poetica del prosatore siciliano. Già variamente debilitato nei lavori precedenti, il genere romanzo subisce qui una recisa sconfessione31 a pro d’una corrente elegiaca seducente e poderosa (benché non priva delle escandescenze enfatiche e degli eccessi oratorî resi inevitabili dall’impianto moralistico-sentenzioso), che da un lato dissolve la diegesi in illuminazioni schierate sull’asse unificante dell’invettiva e dell’evocazione nostalgica, dall’altro reprime ogni pulsione sperimentale e ambizione alla differenza. Infiammata da una sincera quanto estrema disperazione politica, la scrittura si svincola dalle strette del virtuosismo ludico che rischiava d’ingolfare, se non impietrire, un modo di formare innegabilmente potente e costruttivo; tuttavia (questo il nodo che l’ultimo Consolo sembra deciso a sciogliere definitivamente), l’ipoteca del manierismo e della faticosità inventiva, seppure in via d’esaurimento, non cessa di gravare su una configurazione espressiva riluttante ad armonizzarsi fuori dalle coordinate formali. Declina ma non s’estingue del tutto il vitalismo fonoprosodico,32 sempre meno assistito da ordigni topologici e machiavellismi dell’ordine retorico, mentre all’esondante concertazione di toni e voci sottentra un flusso monolingue liricizz volute sintattiche amplissime, cantilenanti, quasi ipnotiche nel loro incatenarsi ato da oordinativo: e c Va dentro il frastuono, la ressa, l’anidride, il piombo, lo stridore, le trombe, gli insulti, la teppaglia che caracolla, s’accosta, frantuma il vetro, preme alla tempia la canna agghiacciante, scippa, strappa anelli collane, scappa ridendo nella faccia di ceffo fanciullo, scavalca, s’impenna, zigzaga fra spazi invisibili, vola rombando, dispare. Va lungo la nera scogliera, il cobalto del mare, la palma che s’alza dai muri, la buganvillea, l’agave ch sboccia tra i massi, va sopra l’asfalto in cui sfociano tutti gli asfalti che ripidi scendono dalle falde in cemento del monte, da Cìbali Barriera Canalicchio Novalucello, oltrepassa Ognina, la chiesa, il porto d’Ulisse, coperti 30 Abissitade 6418; covrire 616; màrmore 619 ; murifabbro 16713; omai 267 ; spiro 1481 ; vocare 2723, ecc. 31 Sull’argomento ha riflessioni istruttive Giuliano Gramigna, «Il Giorno», 7 luglio 1976. 32 «scioglie il lamento, il pianto. / Solo può dire intanto» 9; «la statua della Madonna, / alta sopra la colonna» 10; «Fuggono quindi da quella violenza, / da quella^incivile convivenza» 18; «ignara del segno, del presagio, / ignara d’ogni evento, / è ferma a quell’oltraggio» 32; «innocente e sapiente, / la sirena silente» 33; «chiusa fra il mare e la sciara, / assoggettata a una natura avara» 47; «Acitrezza. La Trezza. ’A Trizza, la treccia, l’intreccio» 48, ecc. 19 OBLIO II, 5 da cavalcavie rondò svincoli raccordi motel palazzi – urlano ai margini venditori di pesci, di molluschi di nafta , oltrepassa la rupe e il castello di lava a picco sul mare, giunge al luogo dello stupro (46-47) nte lente i à nte e di parola : spia clamante d’un llarme non ancora completamente scongiurato. * * * CONIAZIONI ORIGINALI o, per un totale sizione occupano un ruolo più che consistente. Si a dalle mere giustapposizioni e grafie sintetiche: ni in brache» e, NCC 14623: «vorticare degli occhi, delle penneluce, dei colori iridati delle ali». ‘Piuma ecchiapregna, FA 3 : «la corriera, la v.». ‘(A forma di) vecchia gravida’ gli incroci più o meno trasparentemente congegnati: monia per fare, infilando o incastronando con l’oro e – All’intensità del nucleo tematico ispiratore («Un viaggio del ritorno in Sicilia, Itaca perduta che diventa metafora dell’Italia»)33 si deve invece l’ancor nutrito continge di arcaismi e poeticismi nell’ordine delle parole, per la prima volta necessitati da cogenti istanze sentimentali. Inversione del soggetto («Stese la regina il drappo rosso» 9, «Va lo smarrito marinaio» 50); iperbato («Il tono scarno e grave, ermetico e do vorrebbe avere d’Ungaretti» 84, «All’angelo ripensò del suo Riposo» 88); legato sostantivo-possessivo-aggettivo («nel corpo suo sereno» 86); dislocazione degli epitet («secco paese povero e obliato» 78, «solitaria villa decaduta» 107); chiasmi: «la citt s’allontana, s’allontana l’isola» 10, «il cuore s’ingrossava, si smorzava il fiato» 31. Cala vertiginosamente, sin quasi ad annullarsi, l’attenzione rivolta al livello fonetico.34 Sintomatica, quanto al lessico, la contrazione dell’attività onomaturgica non disgiunta da un’altrettanto drastica rarefazione del quoziente dialettale, mentre permane inge il sempre più innaturale ricorso a varianti arcaich 35 a Lo scrutinio ha rilevato 57 neologismi presumibilmente attribuibili all’estro consolian di 67 occorrenze così distribuite: 12 in FA, 14 in SIM, 30 in R, 8 in NCC e 3 in OO. Gli accenti, qui e nella sezione dedicata ai Dialettalismi, sono quelli apposti dall’Autore. Una prima classificazione tipologica consente di rilevare l’estrema elementarità delle procedure onomaturgiche, tra cui l’univerbazione e la compo v capochino, SIM 8630: «uomini capochi chivalà, NCC 1626 : «urla comandi c.» gastrosegato, SIM 11327: «la stimma del tuo g., la tacca per la fuga della bile». Gastro (non come primo elemento di composti, ma direttamente dal gr. gastḗr-trós ‘stomaco’) + part. pass. di segare pennaluc lucente’ 7 v a agrimogno, FA 734 : «nespole agrimogne». Agro + asprigno sul modello di acri gargarella, FA 994 : «il rumore dello sguazzo, la g.». Garganella + gargarozzo incastronare, R 1321 : «sciortinavano gli acini o cocci 33 Quarta di copertina. 34 Si registra qualche rarissima apocope vocalica, esclusivamente in posizione preconsonantica: «Seguivan le bambine» 24; «ulular di cani, strider d’uccelli» 115; «all’apparir delle persone» 148. 35 Màcula 8627; murifabbro 692 ; murmure 5017; ordegno 13015; scerpato 8513; umidore 11029; vanella 8822, ecc. 20 OBLIO II, 5 con l’argento, paternostri». Incastonare + incastrare liconario, SIM 1052 : «frate l.». Licantropo + lupunariu o lupunaru (sic.) di egual significato riballo, R 388 : «anfore oriballi». Oro + ariballo ‘vaso greco arcaico’ lle combinazioni di verbo e sostantivo: parginchiostro, FA 10523: «– […] lo s. non è di quella razza». ‘Scrittorucolo’, ‘imbrattacarte’ uanto alla formazione delle parole, mentre ricorrono due soli casi di verbi deaggettivali: fervorare, R 97 : «l’aere sfervora». Dal raro sfervorato ‘che ha perso il fervore’ i registra un folto gruppo di denominali, deverbali – la più parte a suffisso zero – e parasintetici: Lipari il segretario con l’a. di suo padre». Deverbale a suff. zero IM 676 : «s. d’occhi verso l’alto». Deverbale da stralunare ‘strabuzzare’ + suff. -ìo di ramischie». Deverbale a suff. zero dall’arc. tramischiare omboneggiando». Denominale da trombone ‘antica arma da oco a canna corta dalla bocca svasata’ logico tradizionalmente più roduttivo nell’italiano letterario: quello delle forme pre- e suffissali: ontrofascista, FA 1531: «– […] fetente, ch’era c.». Sul modello di controrivoluzionario battuto, R 9614: «– […] strade scognite, imbattute». Da battuto ‘percorso’. ‘Inesplorato’ ntinuativo: tralunìo, cit. opranatura, R 652 : «non d’elementi di natura ma di s.». Sul modello di soprannaturale ltrapassato, R 114 : «statue di cittate ultrapassate» o a spargeveleno, FA 1303 : «– Porco, vipera schifosa, s.!». ‘Seminatore di zizzania’ s Q sciortinare, R 13129 (cfr. incastronare). Dal sic. sciurtiatu ‘assortito’ s s affoco, FA 5513: «faccia d’a.». Deverbale a suff. zero dal sic. affucari ‘uccidere togliendo il respiro’ attizzo, FA 1532: «– […] lo mandò a dal sic. attizzari ‘istigare’, ‘aizzare’ frastuonare, R 5113: «il chiasso che frastuona». Denominale da frastuono ingozzo, FA 10310: «i. di zuccheri e di grassi». Deverbale a suff. zero da ingozzare spiego, SIM 9316: «ali e coda a s. di ventaglio». Deverbale a suff. zero da spiegare ‘distendere’ stralunìo, S continuità tramischio, R 4120: «pietre mischie e t ‘frammischiare’, intensivo di mischio tromboneggiare, R 1053 : «verso il ciel tr fu Ma non è certo un caso che il primato numerico spetti al comparto neo p contro-: c in- negativo: im -ìo intensivo-co s sopra-: s ultra- (= tra-): u -ame collettivo: asciuttame, R 1277 : «a., vino, cenere di soda». ‘Pesce essiccato’ uddano, FA 547 : «– […] punto debole del popolo s.». Da sud. ‘Meridionale’ ista a gia’ avagliante, R 11824: «bravi travaglianti». Dal sic. ṭṛavagghïari ‘lavorare’ enisolare, R 13111: «città p.». Variante di peninsulare tefanaro, NCC 15716: «la giara stefanara […] suona a ogni tocco». ‘Di S. Stefano di Camastra’ asato, R 6811: «un n. fischio». Lo stesso che nasale torture, angeliche muffoliche cuffiesche». Da cuffia del silenzio ‘antico trumento di tortura’ uffolico, SIM 1610 (cfr. cuffiesco). Dal reg. muffole ‘manette’ Isaac Newton ettorino, R 13214: «degli orecchi, del canale p.». Lo stesso che pettorale isfattivo, R 7813: «dolcemente d.». Da disfatto secondo il rapporto di distrutto a distruttivo nicola, R 10919: «anatre, fenicole, calandre». Da fenice o fenic(ottero) , dalle i per tenerezza’. ‘Sdolcinato’, ‘lezioso’ ermoso, SIM 613 : «occhio tondo v.». Da verme era non tollera nel suo seno il r.» . Da stroppio ‘storpio’ midume, SIM 7536: «un tondo nero d’u.» -ano d’appartenenza: s -ante di mestiere e condizione: chitarrante, OO 332 : «avanza […] in mezzo ai chitarranti». Lo stesso che chitarr paonante, R 4311: «spavaldo e p.». Dal sic. paùni ‘p vone’. ‘Che si pavoneg tr -are di relazione: p -aro d’appartenenza: s -ato (=-ale): n -esco derivativo: cuffiesco, SIM 1610: « s -ico d’appartenenza: m -ino alterativo e derivativo: newtoncino, R 14527: «promettente, il n.». Dal cognome del fisico inglese p -ivo di capacità, disposizione: d -olo alterativo: fe -oso di caratterizzazione e abbondanza: gilepposo, FA 10223: «vino g.». Dal sic. ggilippusu. Lo stesso che giulebboso ‘dolciastro’ sdillinchioso, R 1524 : «signore sdillinchiose»; NCC 4927: «– Vai, vai dalle troie di marmo sdillinchiose». Dal sic. sdillinchiari ‘commuovers v -ume collettivo-spregiativo: ribaldume, SIM 11114: «L’Italia Una e Lib sbirrume, NCC 16927: «– […] tutto lo s.» stroppiume, OO 8627: «s., màcule, lordure» u  Se la compagine prevalentemente mimetica del parlato popolare non può non limitare il ricorso alle ngue classiche e moderne: , OO 3323: «la curòtrofa, la madre possente». Dal gr. kourotróphos ‘che nutre, alleva figli, a cui ERI, 1991, pp. 51-52) arfumo, NCC 2516: «il p. suadente». Adatt. del fr. parfum ‘profumo’ onché l’utilizzo di basi arcaiche: a stelle di j.»; R 1359 : «con buchè di rose e di j. in mano». Dall’ant. ginia e pifània di Palermo». Dall’ant. (e dial.) pifanìa ‘epifania’, on accentazione greca (epipháneia) per nui»; NCC 2512: «La pomelia s.». Comp. dell’ant. sur ‘sopra’ e tutto rattutto’ amischio, cit. ltre ai itati affoco, attizzo, gilepposo, liconario, nascare, sciortinare, sdillinchioso e travagliante: o che trafficavano alla macina al rchio alla lumera al fosso». Dal cal. scudillari ‘rompere la schiena’ onclude la rassegna un drappello di neologismi consistenti in minime variazioni morfologiche: ’intestardo a scrivere»; SIM 7614: «– […] m’intestardo a dimorare qua». 1275 : «in magna q.». O da quantità sul modello di cittate e sim. o direttamente dal lat. pallido o s. in cui si presentava questa pietra». Da squallido (ad evitare irginio, R 2420: occhio tondo v.». ‘Virgineo’

DIALETTALISMI
lie , e li curòtrofo giovani’ eurialo, SIM 1033: «Siracusa bianca, euriala e petrosa». Così l’Autore: «Eu, rao, als: luogo d si vede bene il mare» (V. Consolo, La Sicilia passeggiata, Torino, Nuova lecana, R 389 : «coppe pissidi lecane». Dal gr. lēkánē ‘vassoio’, ‘catino’ p n jasmino, SIM 11910: «le spalle iàsemin o iasmin ‘gelsomino’ pifànio, R 2420: «la visione prima, vir c surtutto, R 401 : «– […] s. (fr. surtout). ‘Sop tr il contingente delle invenzioni lessicali riconducibili al dialetto è proporzionalmente notevole. O c scudilliere, NCC 10416: «gli scudillieri bisunti e incappucciati di sacc to C ammenciare, R 2616: «ricordo […] che in un istante s’ammencia». Lo stesso che ammencire intestardarsi, FA 10519: «m Lo stesso che intestardirsi quantitate, R quantitatem realitate, R 497 : «dalla finzione del teatro nella r. della vita». Cfr. quantitate squallo, R 1324 : «nel rosso omoteleuto con «pallido») v Prescindendo dalle voci contenute negli inserti dialogici interamente dialettali, il glossario accog 184 lemmi per un totale di 254 frequenze (54 in FA, 78 in SIM, 48 in R, 59 in NCC, 15 in OO) precisamente: 1 calabresismo e 183 sicilianismi, di cui 59 non sottoposti ad alcuna modifica (segnalati dalla dicitura «sic.») e 124 («dal sic.») foneticamente italianizzati secondo criterî glottotecnici non sempre coerenti e persuasivi, gravando sul dettato l’ipoteca d’un impetuoso 23 OBLIO II, 5 estremismo barocco. Cui saranno da attribuire sia le oscillazioni nel regime dei segnaccenti (càs cascia, cianciàna / cianciana, gèbbia / gébbia / gebbia, nutrìco / nutrico, sipàla / sipala, traz trazzera, viòlo / violo) sia, soprattutto, le flagranti discordanze procedurali in materia di adattamento: si noterà, ad esempio, come l’assimilazione progressiva tipica delle parlate centromeridionali sia sottoposta a normalizzazione in blundo (sic. bblunnu) e smandare (sic. smannari), ma non in abbanniare, banneggiare (rispettivamente dal sic. bbannïari e abbannïari, di identico significato), ciònnolo (sic. ciùnnuli); e come il suffisso meridionale intensivo-continuati -ïari sia regolarmente vòlto in -eggiare nel caso di banneggiare, ma resti pressoché invariato in cia / zèra / vo bbanniare, fanghiare, lampiare, ecc., a testimoniare la vocazione mimetica della lingua consoliana. ri, speravan d’a. qualche cosa». Dal sic. estare’, ‘mollare’. ratu ‘stantio’. ‘Putrefatto’. a. e la buffetta»; armuarro, NCC 12025: «letto comò a.». Dal sic. armuaru o ato’. u ‘lontano’. va ferma per lungo tempo provvisa’. co’. occiola’. nelle, bagli e piani»; OO 13412: «i bagli, le torri merlate». Dal sic. bagghiu somino, b. e viola»; NCC 1267 : «rose bàlichi giaggioli». nneggiava un uomo con la carrettella». Dal sic. bbannïari ‘gettare il aresco’, detto di pecora o montone. ‘abbeveratoio’. za visiera’. a abbanniare, SIM 11412: «il banditore abbanniò». Dal sic. abbannïari ‘gettare il bando’. accalarsi, FA 1326 : «– Chi sta in faccia al mare, prima o poi si deve a., anche col pesce più meschino»; NCC 1429: «La regina col re solo s’accala». Dal sic. accalàrisi ‘piegarsi’. accansare, NCC 447 : «col traffico di merci, passegge accanzari ‘acquistare’, ‘ottenere’, ‘mettere da parte’. acceppare, FA 5316: «Il sorvegliante glien’acceppò una». Dal sic. accippari ‘ass accianza, R 1517: «quell’a. d’oro»; NCC 7423: «una mala a.». Sic. ‘Occasione’. addimorato, SIM 10630: «morti addimorati». Dal sic. addimu anciova, SIM 2723: «sàuri sgombri anciove». Sic. ‘Acciuga’. angarioso, OO 9121: «la soldataglia prepotente e angariosa». Dal sic. angariusu ‘soverchiatore’. armuaro, FA 568 : «l’ armuarru ‘armadio’. arraggiato, SIM 10620: «corvi […] arraggiati in cielo a volteggiare». Dal sic. arraggiatu ‘arrabbi arrasso, FA 1101 : «– […] a. di qua»; R 988 : «a. dalla Milano attiva». Dal sic. arrass arrere, R 6419: «– […] l’ereditò dal padre suo, e così a.». Dal sic. arreri ‘indietro’. attassare, FA 3633: «Il muro era gelato, mi attassava»; NCC 6021: «resta come attassata». Dal sic. attassari ‘gelare’ ‘far agghiacciare il sangue’. attasso, NCC 428 : «nell’a. del cuore». Dal cal. attassu ‘forte paura im babbalèo, SIM 946 : «b., mammolino». Dal sic. bbabbalèu ‘scioc babbaluci, SIM 2913: «asparagi finocchi b.». Sic. ‘Chi babbìa, FA 378 : «pazzia, se non b.». Sic. ‘Stupidità’. baccaglio, NCC 1426: «frasi a parabola, a b.». Dal sic. bbaccagghiu ‘gergo furbesco’. baglio, SIM 3231: «va ‘cortile di una casa’. bajettone, R 12714: «saja di Bologna, b. d’Inghilterra». Dal sic. baiettuni ‘panno da lutto’. bàlico, SIM 6017: «leandro e b.»; R 94 : «gel Dal sic. bbàlicu (o bbarcu) ‘violacciocca’. banneggiare, FA 1147 : «ba bando’ (cfr. abbanniare). barbarisco, R 12712: «lana barbarisca». Dal sic. bbarbariscu ‘barb baviolo, FA 472 : «b. di merletto». Dal sic. bbaviuòlu ‘bavaglino’. beveratura, NCC 10621: «Oltre la b. di porta di Terra». Dal sic. bbiviratura birritta, SIM 894 : «la b. calcata». Sic. ‘Copricapo di stoffa sen blundo, SIM 7036: «testa blunda». Dal sic. bblunnu ‘biondo’. brogna, FA 3315: «suonavano le brogne a tutto fiato»; R 1421 : «suonò la b.». Sic. ‘Buccina’. buatta, FA 5429: «concerto di buatte e di gavette». Sic. ‘Scatola di latta per conserve alimentari’. buffetta, FA 4134: «preparava la b.»; SIM 1315: «appoggiò le braccia sopra la b.»; R 6326: «sopra ’na b. dispose del formaggio»; NCC 1313: «i litri e le gazzose alle buffette». Sic. ‘Tavola da pranzo’, lia) ‘la carne del tonno vicina all’addome o alla lisca centrale, di colore scuro …] e ordinò agli altri di farsi di lato». Dal sic. botti barilotti»; NCC 1047 : «i cafìsi di vergine». Dal sic. cafìsu etteratura, traduzione. 9). sic. a cangiu ‘in luogo di’. 282 : «l’altri dua di fora, uno a cavallo come c.». Dal sic. capurrètina ‘guida’, ino’. ‘Panno cremisi’. acellaio’. ti, a scossoni della c.». Sic. dio a muro’. re’. io di tessere che invadeva il c. dentro la fortezza del suo Duomo». Sic. (e ‘tavolo rustico da cucina’. burnìa, SIM 318: «unguentarî alberelli scatole burnìe». Sic. ‘Vaso di terracotta’. buzzonaglia, SIM 316 : «– […] ficazza, lattume e b.». Dal sic. bbuzzunagghia (bbuzzinagghja, bbusunagghja, bbusunàg e qualità poco pregiata’. cacocciola, FA 4414: «fece uno che pareva c. [ cacòcciula ‘carciofo’; qui ‘capobanda’ (fig.). cafìso, SIM 10532: «coffe cafìsi ‘misura da olio’, ‘brocchetta’. calacàusi, SIM 385 : «– […] un imbecille o c.». Sic. ‘Calabrache’. calasìa, SIM 948 : «– […] presciutto tesoro c.». Sic. ‘Bellezza’. «Un giorno mi ha telefonato un dialettologo dell’Università di Catania e mi ha chiesto dove avessi preso la parola calasìa che nei vocabolari siciliani non esiste. Gli ho risposto: è semplice, viene dal greco kalòs che vuol dire bello. Calasìa significa bellezza, come si dice nella mia zona che è greco-bizantina» (V. Consolo, intervista con Sergio Buonadonna, «Repubblica», 12 giugno 2011). Il dialettologo era S. C. Trovato, che così nota: «Si tratta sicuramente di una parola del lessico familiare dello scrittore, che non ha riscontri lessicografici nel siciliano, né, in quanto non improbabile grecismo (> kalós + suff., probabilmente sul modello di gherousía), nelle parlate della vicina Calabria» (Italiano regionale, l Pirandello, D’Arrigo, Consolo, Occhiato, Enna, Euno Edizioni, 2011, p. 31 càlia, NCC 12717: «andando per la c., per i gelati». Sic. ‘Ceci abbrustoliti’. cangio (a), FA 2215: «– […] la maestra a c. dell’avvocato». Dal caniglia, SIM 5912: «cenere e c.». Dal sic. canigghia ‘crusca’. caporedina, R ‘mulattiere’. carbàno, SIM 421 : «– Carbàni e montanari!». Dal sic. carbànu ‘zotico’. carcarazza, SIM 1073 : «corvi e carcarazze». Sic. ‘Gazza’, ‘cornacchia’. carmiscìna, R 12712: «raso di Firenze, c., orbàci». Dal sic. carmuscinu ‘chermis carnezziere, SIM 2910: «lo c., il pescivendolo». Dal sic. carnizzèri ‘m carruggio, OO 7214: «carruggi, cortili». Dal sic. carruggiu ‘vicolo’. càscia, SIM 10530: «ossa càscie crozze»; cascia, R 1014: «piansi a singul ‘Cassa da morto’ nel primo caso, ‘petto’ (‘cassa toracica’) nel secondo. casèna, R 6415: «– Qua, per intanto, nella mia c.». Sic. ‘Piccolo arma cassariota, R 1023: «magàra, cassariota». Sic. ‘Donna di malaffa catanonno, NCC 4228: «Saliba la catanonna». Sic. ‘Bisnonno’. catarratto, R 1205 : «vino d’inzòlia e c.». Dal sic. catarrattu ‘uva da mosto’. cato, FA 325: «correvo col c. alla fontana»; SIM 11012: «cati e lemmi»; R 321 : «nel concavo del c.»; NCC 383 : «l’immenso d panmerid.). ‘Secchio’. catoio, FA 6823: «la fila di catoi e magazzeni»; SIM 1064 : «pozzo, sarcofago o c.»; NCC 519: «spenti 25 OBLIO II, 5 catoi melanconici»; OO 918: «dammusi, catoi murati». Dal sic. catuju o catoju ‘stanza sotterranea o grottesco, logorò le lettere». 127: «si mutavano in carbone, c.». Dal sic. cinisa . ciràulu ‘imbroglione’. r di : «col suono sordo delle lor cianciàne»; NCC 1711: «tintinnar di a pesca’. ‘rana’. arùni ‘tazzone’. ie sotterranee, ai dammusi ell’impasto. Fanghìa principiando a caso». Dal racotta’. fardali ‘grembiale’. Dal sic. fezzaru a e ssa ad asciugare in ambiente arieggiato» (http://www.divinocibo.it/cibo/301/ficazza-dito!»; NCC 12918: «– Che culo, ’sto g., ’sto CC »; gèbbia, OO 2421: «Tra sènie e gèbbie». Sic. ‘Cisterna per conservare terrena’, ‘stambugio’. catùso, SIM 11811: «pioggia di secoli che, cadendo a perpendicolo da c. Dal sic. catùsu ‘grondaia’, ‘canaletta per lo sfogo delle acque piovane’. cenisa, R 7229: «il crine sciolto o di c. sparso»; OO 4 ‘carbonella’ (cfr. il nap. cenisa ‘cenere’). ‘Cenere’. ceraolo, R 1024: «quella ceraola, quella vecchia bagascia». Dal sic chianca, NCC 10722: «forni, chianche, saloni». Sic. ‘Macelleria’. cianciana, FA 982 : «parte con un balzo tra lo scroscio di cianciane»; SIM 8621: «allegro tintinna ciancianelle»; cianciàna, R 168 ciancianelle». Sic. ‘Sonaglio’. cianciòlo, SIM 7913: «stendevano il c. sulla ghiaia». Dal sic. cianciuòlu ‘rete d ciarana, FA 11432: «i granchi e le ciarane». Dal sic. ciranna o cirana cicarone, SIM 11918: «scifi e cicaroni». Dal sic. cic cinìsa, SIM 10532: «c., bragia e tizzi». Cfr. cenisa. cinisia, FA 13133: «la brace accesa sotto la c.». Cfr. cenisa. ciònnolo, FA 13130: «– Ciònnoli e muletti». Dal sic. ciùnnuli ‘ornamenti’. cisca, R 6325: «le cische con il latte». Dal sic. çisca ‘secchia da mungere’. criato, SIM 826: «il c. era appena giunto». Dal sic. criatu ‘domestico’, ‘inserviente’. crozza, FA 11514: «la c. bianca e gli ossi in croce»; SIM 10531: cfr. càscia. Sic. ‘Teschio’. dammuso, FA 732 : «La conca s’appende nel d.»; NCC 321 : «alle galler murati»; OO 918: cfr. catoio. Dal sic. dammùsu ‘stanza a pianterreno’. fanghiare, NCC 1568 : «È il momento dell’acqua e d sic. fanghïari ‘vangare’. ‘Mescolare con una pala’. fangotto, NCC 15523: «Dal fango nasce ogni f.». Dal sic. fangottu ‘piatto di ter fanniente (don), NCC 1676 : «– sti don f.». Dal sic. don fannenti ‘fannullone’. fardale, FA 9226: «le mani […] nascoste nel f.». Dal sic. fezza, SIM 10633: «fezze, sughi, chiazze». Sic. ‘Feccia’. fezzaro, NCC 1049 : «l’olio d’inferno che prendevano i fezzari pel sapone». ‘raccoglitore di feccia d’olio per farne sapone o combustibile da lampada’. ficazza, SIM 315 : cfr. buzzonaglia. Sic. «Insaccato di carne di tonno tritata, salata e fortemente pepata’ (S. C. Trovato, Lessico settoriale, regionale e traduzione. A proposito del «Sorriso dell’ignoto marinaio» di Vincenzo Consolo, Atti del Convegno su L’Italia dei dialetti, a cura di Gianna Marcato, Sappada\Plodn, 27 giugno-1 luglio 2007, Padova, Unipress, 2008, pp. 403-411). «La ficazza viene preparata con la parte del tonno che, dopo la sfilettatura, resta attaccata alla lisca. Separata con cura, l carne del tonno viene poi macinata e condita con sale e pepe, ed insaccata nel budello, proprio com un classico salame di carne. Dopo una pressatura che dura circa tre settimane, la ficazza di tonno viene me tonno/). frascarolo, NCC 1576 : «Giunge il f. dai boschi». Dal sic. frascarolu ‘chi raccoglie legna’. garruso, SIM 9412: «– Garrusello e figlio di g. allettera fascista!». Dal sic. garrùsu ‘pederasta’, ‘mascalzone’. gebbia, FA 2819: «Andammo fino alla g.»; R 8819: «la grande g. ove natavano pesci»; gébbia, N 134 : «i limi delle gébbie 26  l’acqua d’irrigazione’. gerbo, SIM 9314: «fiori gialli del ficodindia g.». Dal sic. gerbu ‘acerbo’, ‘non maturo’. 127: «le giummare dello Zingaro, gli eucalipti». Sic. ‘Foglia di cerfreglione’, ‘palma tipatico’. «la g. tonda smozzicata»; NCC 604: «guastelle di pane». Dal sic. guastedda uscolò per tutto il corpo». Dal sic. ammusculari o mmusculari Peppe, ostia, mi pare che qua l’i. ci pigliammo!». Dal sic. mprusatura a Piluchera con cui s’era intrezzato fortemente». ‘tribolare’. rtara». Dal sic. lemmu ‘catino’, ‘secchio’, ‘vaso di are’, ‘allegare’, ‘passare dallo stato di o, a il l.». Dal sic. lupunariu ‘licantropo’. cotta smaltata’. . ana ‘dolce di «mascarata di fuoco e di oro». Dal sic. mascaratu ‘persona vestita in maschera tasi corre impazzita»; R 1229: «la m. poi in quel budello». Dal gilecco, NCC 5818: «il g. di fustagno». Dal sic. ggileccu ‘panciotto’. giummara, R 10116: «il seccume di spighe e di giummare»; NCC 722 : «verde di ficodindia g. euforbia»; OO 4 nana’, ‘agave’. grevio, R 4111: «il prete g., untuoso». Dal sic. greviu ‘grave’, ‘pesante’, ‘an guaiana, SIM 9215: «cogliere la g. della fava». Dal sic. vaiana ‘baccello’. guastella, SIM 2826: ‘specie di focaccia’. guglielma, FA 1431: «tirò fuori il pettinino e si rifece la g.». Sic. ‘Ciuffo’. immuscolarsi, NCC 776 : «s’imm ‘aggrovigliarsi’, ‘attorcigliarsi’. improsatura, FA 4019: «– Don ‘bidone’, ‘inganno’, ‘raggiro’. intinagliare, R 13129: «perciavano, intinagliavano». Dal sic. ntinagghiari ‘attanagliare’. intrezzarsi, NCC 13513: «Petro fumava nel letto dell Dal sic. ntrizzari ‘intrecciare’, ‘legare strettamente’. jisso, SIM 11836: «le pareti […] levigate a malta, j.». Dal sic. jissu ‘gesso’. lampiare, FA 7927: «lampiò un orologio d’oro». Dal sic. lampïari ‘lampeggiare’, ‘scintillare’. làstima, SIM 4234: «– Scrive in particolare delle làstime e delle sofferenze». Sic. ‘Lamento’. lastimare, SIM 884 : «– Animo, Sirna, finimmo il l.!». Dal sic. lastimari ‘lamentarsi’, lattume, SIM 316 : cfr. buzzonaglia. Dal sic. lattumi ‘ghiandola seminale del tonno’. lemmo, FA 639 : «i piatti dentro il l.»; SIM 932: «piatti lemmi e mafaràte»; R 778 : «– […] un l. pieno d’acqua»; NCC 15524: «mafàra l. bòmbolo qua terracotta smaltata a forma di tronco di cono’. liare, R 913: «Lia che m’ha liato la vita». Dal sic. lïari ‘matur fiore a quello di frutto’; ma anche denominale da (Rosa)lia. lippo, R 919: «l. dell’alma mia»; OO 9222: «grommi, lippi». Dal sic. lippu ‘sporcizia’, ‘untume’. luponario, FA 6413: «irruppe nella stanza come un l.»; R 1915: «balzai all’impiedi come un ossess un l.»; NCC 71 : «Di là della tonnara muoveva or mafàra, NCC 15524: cfr. lemmo. Sic. ‘Tappo’. mafaràta, SIM 932: cfr. lemmo. Sic. ‘Grande piatto concavo di terra magàra, R 1023: cfr. cassarioto. Sic. ‘Megera’, ‘donna immorale’. malannata, FA 3227: «scampati a sette malannate». Sic. ‘Anno di carestia, di cattivo raccolto’. male catubbo, NCC 1011: «– […] ti salvi dal male mio c.». Dal sic. mali catubbu ‘mal caduco’. marranzano, SIM 8621: «basso mormorar di marranzani». Dal sic. marranzanu ‘scacciapensieri’ martorana (pasta), R 1012: «pasta m. fatta carne». Dal sic. pasta (o frutta) martur mandorla in forma di frutta varia, confezionato specialmente nel mese d’ottobre’. mascarato, FA 907 : con colori vistosi’. mascata, FA 112 : «pacche e mascate». Sic. ‘Schiaffo’. massacanaglia, FA 432: «La m. dei bas 27  sic. mazzacanàgghia ‘orda’, ‘branco’. matre, FA 798 : «patre e m.»; R 1421: «e la matrazza a dire». Dal sic. maṭṛi ‘madre’. Mammella’. llo mozzo’. e dei nipoti’. pet ; nutrico, NCC 8723: «come un n. che non si oglitori correvano col p.»; NCC 10316: «mettere nel p. le giarraffe». Sic. (e era’. al sic. pasturìa ‘pane di Pasqua con uova sode’. perciato dalle stelle»; OO 8821: «La Mastra Rua era perciata da CC 1414: «la vera p., da sempre di casa in casa a fare crocchie». Sic. ‘Parrucchiera a ] una saccoccia di rena asciutta dalla p.»; SIM 795 : «E s’udivano i rumori sulla a a la p.»; SIM 1311: «fermarsi a la p.»; NCC 1364 : «davanti alla p.». Dal sic. FA 731 : «Primavera prescialora che non lascia di dire è cominciata». Dal sic. prescialòru che’. ola brocca’. 1722: «– […] marmi policromi, a mischio, r. e tramischio». Dal sic. rrabbiscu fiore a r. sopra l’albero». Dal sic. a rringu ‘a occhio’. ‘Senza l’aiuto ddi rrizza menna, FA 531: «gonfiano le menne». Sic. (e panmerid.). ‘ mèusa, R 1511: «mèuse, arrosti di stigliole». Sic. ‘Milza’. mozzone, SIM 10736: «quartarella o m.». Dal sic. muzzuni ‘brocca di terracotta dal co nipotanza, SIM 728 : «figlioli e nipotanze». Dal sic. niputanza ‘l’insiem nascare, SIM 9321: «nascando in aria». Dal sic. naschïari ‘annusare’. nucàtolo, SIM 197 : «biscotti […], nucàtoli». Dal sic. nucàtulu ‘dolce natalizio’. nutrìco, SIM 831: «– […] attaccato al to come un n.?» stacca dal latte nella poppa». Dal sic. nuṭṛìcu ‘lattante’. ortilizio, SIM 1526: «produzioni ortilizie». Dal sic. ortilìzziu o ortalìzziu ‘coltura ortiva’. panaro, FA 13630: «i c panmerid.). ‘Paniere’. panzéra, FA 9434: «una larga cintura di cuoio come una p.». Sic. (e panmerid.). ‘Panc paràngolo, SIM 7913: «dipanavano il p.». Dal sic. paràngulu ‘attrezzo per la pesca’. paranzo, R 12417: «il carraio ci procurò un p.». Dal sic. paranzu ‘tipo di imbarcazione’. pastorìa, FA 1063 : «un mostacciolo, poi na p.». D patre, FA 798 : cfr. matre. Dal sic. paṭṛi ‘padre’. perciare, SIM 8011: «l’orecchino di metallo che gli perciava il lobo»; R 13129: «polivano, perciavano»; NCC 13922: «il cielo rocchi». Dal sic. pirciari ‘forare’. piluchera, N domicilio’. pirrera, NCC 1564 : «Va nella p., nei cunicoli». Sic. ‘Cava’, ‘pietraia’. plaia, FA 2934: «– [… p.». Sic. ‘Spiaggia’. portiniere, FA 10719: «suora portiniera». Dal sic. purtinèri ‘portiere’, ‘guardiano’. potìa, FA 1335 : «la bevut putìa ‘osteria’. prescialoro, ‘frettoloso’. puranco, R 2921: «p. la famiglia di Fauno […] si è pietrificata». Dal sic. puranchi ‘an quartara, SIM 10736: cfr. mozzone; NCC 15524: cfr. lemmo. Sic. ‘Picc ràbato, OO 1294 : «di mercati, di ràbati». Dal sic. ràbbatu ‘sobborgo’. rabisco, SIM ‘arabesco’. ràiso, SIM 1034: «Palermo rossa, ràisa, palmosa». Dal sic. rràisi ‘capo, chi comanda, dirige o guida’. ringo (a), FA 7512: «si compra il di strumenti di misura appositi’. rizza, SIM 3234: «riparare rizzelle e nasse». Sic. ‘Rete da pesca’. rizzo, FA 727: «fanno la pelle rizza»; SIM 3627: «Nel porto fatto r. per il vento». Dal sic. pe ‘pelle d’oca’ nel primo caso; ‘increspato’ nel secondo (in riferimento all’acqua del porto). 28 ròtola, R 693 : «rompendo la cagliata con la r.»; NCC 7111: «tra cazza r. fiscelle». Dal sic. rròtula cagliata durante la 0510: «e tiravano innanti a santioni». : «Nell tro l’altro». Sic. (e panmerid.). ‘Piccone’, cutulari . S.»; OO 2421: cfr. gèbbia. 2 e sipale». Sic. e’, solitudine’. av . tabbùtu ‘cassa un barbecue’. ‘bastone con all’estremità inferiore un dischetto di legno, usato per frantumare la lavorazione del formaggio’. 29 rua, R 133 : «passeggiare nella r.». Sic. rua ‘vicolo nel paese, rione, vicinato’. santiare, SIM 8726: «sputi, lazzi, turco s.». Dal sic. santïari ‘bestemmiare’. santione, FA 348 : «Ma era un’abitudine, come i santioni»; SIM 1 Dal sic. santiuni ‘bestemmia’. 35 sardisco, SIM 66 : «ragli di s.». Dal sic. sardiscu ‘asino sardo’. 9 scapozzatore, OO 138 : «scapozzatori di gamberi». Dal sic. scapuzzaturi ‘chi leva la testa ai pesci’. scattìo, FA 12429 o s. del caldo delle due». Dal sic. scattìu ‘l’ora più assolata’. scecco, SIM 10433: «scecchi in groppa»; R 1319: «– […] carico come uno s. di Pantelleria». Dal sic. sceccu ‘asino’. sciamarra, SIM 854 : «dava forte con la sua s., un colpo die ‘vanga’. 17 sciarmère, R 53 : «sciarmèri e questuanti». Sic. ‘Mago’. sciume, R 472 : «sciumi trasparenti». Dal sic. çiumi ‘fiume’. scognito, R 9614: «– […] strade scognite, imbattute»; NCC 15514: «Altra gente scognita». Dal sic. scògnitu ‘sconosciuto’. scotolare, NCC 571 : «un colpo secco di mortaro che scotolò la terra». Dal sic. (e panmerid.) s ‘scuotere’. scrèpia, R 13717: «roselline della s.»; NCC 1205 : «la s. e la menta». Sic. ‘Fior di cera (pianta rampicante delle Asclepiadacee)’. sènia, SIM 8528: «cigolar di secchia della s.»; NCC 3825: «Terra. Pietra Sic. ‘Specie di noria’. sgrigna, FA 56 0 : «tirava sgrigne soffocate». Sic. ‘Ghigno’, ‘ringhio’. sipàla, SIM 9314: «faceva capolino una s.»; sipala, NCC 4624: «il muro la torre l ‘Siepe’. smandare, FA 617: «smandò quei due a casa». Dal sic. smannari ‘allontanare’. smorfiarsi, FA 10421: «Smorfiandosi tutta sulle scarpe alte». Dal sic. smurfïàrisi ‘fare smorfi ‘gongolare’, ‘fare lo smorfioso’. 24 solità, SIM 67 : «– S. e privazioni gli hanno fottuto la ragione». Dal sic. sulità ‘ 1 sosizza, R 95 : «sosizze, fellata, soppressata». Sic. ‘Salsiccia’. 7 spanto, FA 98 : «non c’era s. poi che s’affacciava». Dal sic. spantu ‘spavento’. 27 spetittato, SIM 43 : «s., non ha voglia di niente». Dal sic. spitittàtu ‘inappetente’. sticchio, SIM 5910: «per paura di s. romito e santo». Dal sic. stìcchiu ‘vulva’. stracangiare, FA 222 : «tutto stracangiato»; SIM 6219: «– Ha stracangiato l’acqua nell’aceto!»; NCC 7822: «si ritrov a stracangiato». Dal sic. ṣṭṛacangiari (ṣṭṛacanciari) ‘trasformare’. tabuto, FA 2127: «Tano era vicino al t.»; SIM 6434: «un t. di tavole bianche». Dal sic da morto’. 31 tallarida, SIM 64 : «volo di tallaride tra colonne». Dal sic. taddarìta ‘pipistrello’. 4 tangeloso, NCC 135 : «tempo t. dell’infanzia». Dal sic. tangilùsu ‘fragile’, ‘delicato’. 17 tannura, NCC 106 : «sventagliava nel buco della t.». Sic. ‘Fornello simile a taratuffolo, NCC 603 : «funghi taratuffoli». Dal sic. taratùffulu ‘tartufo’. 29  30 rida. 857 : «pane t. e acqua»; NCC 7117: «un pane duro e un pezzo di t.». Dal sic. tumazzu , NCC 16417: «discese alla t.»; OO 514 : tre’. 13: «il v. che saliva serpeggiando»; OO in cima agli spuntoni del recinto dello z.». Dal sic. zàccanu ‘luogo dove si a palma nana’. zotta, SIM 8118: «con schiocchi in aria di z.»; R 166 : «schioccò pigro la z.». Sic. ‘Sferza’. tarderita, NCC 474 : «volo avvolgente delle tarderite». Variante di talla timpa, SIM 9213: «deviavano ogni tanto s’una t.». Sic. ‘Erta scoscesa’. tinchitè (a), R 15113: «cibarie sopraffine a t.». Sic. ‘A profusione’, ‘senza limite’. tomazzo, SIM ‘formaggio’. travagliare, FA 1292 : «– […] se ne vanno a t.». Dal sic. ṭṛavagghïari ‘lavorare’. trazzèra, SIM 6231: «– Sulla t. ebbe la visione»; trazzera «vanno per viottole, trazzere». Sic. ‘Sentiero campes trìscia, R 10914: «poseidonie e trìscie». Sic. ‘Alga’. truscia, SIM 877 : «raccolse la t.». Sic. ‘Fagotto’, ‘pacco con la colazione’. tuma, R 6327: «una forma di t. o fresco pecorino». Sic. ‘Cacio fresco non salato’. vèrtola, NCC 5821: «mise nelle vèrtole […] i caciocavalli». Sic. (e panmerid.). ‘Bisaccia’. viòlo, SIM 878 : «a precipizio giù per il v.»; violo, NCC 10 9216: «Scese la brigata per il v.». Dal sic. viòlu ‘viottolo’. vròccolo, NCC 1197 : «cardi vròccoli finocchi». Dal sic. vruòcculu ‘broccolo’, ‘cavolfiore’. zàccano, NCC 5718: « ricoverano le bestie’. zafarano, R 956 : «odor di z.». Dal sic. zafaranu ‘zafferano’. zammara, FA 5934: «buttarsi dietro un piede di z.». Dal sic. zzammàra ‘foglia dell zammù, SIM 1313: «una spruzzatina di z.»; NCC 1319: «acqua e z.». Sic. ‘Anice’
zotta, SIM 8118: «con schiocchi in aria di z.»; R 166 : «schioccò pigro la z.». Sic. ‘Sferza’.
Oblio Roma 15 gennaio 2012