Retablo di Vincenzo Consolo

Circola nell’intero, avvincente racconto di Vincenzo Consolo il melodioso canto di una Sicilia luminosa e al tempo stesso attraversata da una condizione di arretratezza sociale in pieno secolo dei lumi; un’alternanza, a dirla con Traina, “di inferno e paradiso”.

Federico Guastella
Pubblicato il 21-10-2024

Retablo

Retablo

Nella quarta di copertina dell’edizione Sellerio del 1987, Leonardo Sciascia scrive:

“Retablo” – dice uno dei più sintetici e usuali dizionari della lingua castigliana – “è conjunto de figura que rapresentan la serie de una historia ò suceso”: e la scegliamo questa definizione, che può sembrare angusta […]. Perché “retablo” è questo racconto non soltanto per il suo alludere alla pittura e, con quasi medianico gioco à rebours, a un pittore; ma per il suo svolgersi in figure di incantata e incantevole fissità, pur circonfuse di un movimento, di un cangiare e trepidare di linee, di colori, di eventi luministici che si direbbe aspirino, al di là delle parole, ma restando certa ogni parola, a una più ineffabile condizione.

E così conclude:

Con questo racconto Vincenzo Consolo […] raggiunge una sua perfezione e compie, nella tradizione della narrativa siciliana, una specie di “rovesciamento della praxis” realistica che a questa tradizione è peculiare.

L’attenzione viene dunque rivolta al titolo dell’opera con la precisazione che il termine “retablo” in catalano indica la successione di “quadri” di una storia figurata: singole scene che, divise da una cornice, sono corrispondenti alle varie sequenze della storia.

Giuseppe Traina in Vincenzo Consolo (Fiesole, 2001), afferma che Retablo è

una narrazione che scommette se stessa nel gioco dialettico fra movimento e fissità, tra metafora del viaggio come conoscenza e metafisica immobilità rispetto alla storia.

La struttura del libro a tre pannelli, uscito pochi anni dopo l’assassinio di Pio La Torre e di Carlo Alberto della Chiesa, è fondata sull’intreccio di letteratura e arti figurative: un omaggio al pittore Fabrizio Clerici, rappresentante del surrealismo degli anni Cinquanta che, amico di Vincenzo Consolo, è il protagonista del viaggio settecentesco in una porzione della Sicilia occidentale, dedicato a dona Teresa Blasco. Alcuni disegni del Clerici impreziosiscono il libro in cui, di pagina in pagina, s’avverte l’onda poetica della grecità: dunque, un giornale di viaggio “in quest’isola lontana, in questa terra antica degli dèi, delle arti, delle conquiste e dei disastrosi avanzi”.
Ad accompagnarlo è Isidoro, un ragazzo siciliano svestitosi di fraticello questuante per amore di Rosalia. Ed è la loro storia a farsi racconto nei racconti, a rivelarsi a più riprese da vivaci sorprese. È in “Oratorio”, il primo dei tre, che proprio Isidoro racconta le sue vicende che introducono a quel che nel libro si svolge. Al porto di Palermo, dove cerca lavoro, vede giungere il packet-boat “Aurora”, dove viaggia il

gentiluomo di Milano, il cavaliere Clerici […] che sbarcò in Palermo con la fortuna mia, per viaggiare l’isola, scoprire l’anticaglie e disegnar su pergamene con chine e acque tinte templi e colonne e statue di cittate ultrapassate.

Il viaggio, narrato nel secondo portello, è intitolato “Peregrinazione”; l’itinerario, che è quello dei viaggiatori del “Gran Tour”, comincia con la voce del protagonista: lo dedica all’amata Teresa Blasco per narrarle la terra originaria, “quella materna e cara”, ma in realtà va in Sicilia

per lo scontento del tempo che viviamo, della nostra vita, di noi, e il bisogno di staccarsene, morirne, e vivere nel sogno d’ere trapassate, antiche, che nella lontananza ci figuriamo d’oro, poetiche, come sempre è nell’irrealtà dei sogni, sogni, intendo come sostanza de’ nostri desideri.

Mostrando la Sicilia del Settecento, severo è il giudizio di Consolo sulla decadenza di Milano e dell’Italia degli anni Ottanta anche se il viaggio si svolge secoli prima. Più piani di finzione espressiva s’intrecciano intanto che scorrono le immagini del paesaggio siciliano a partire dal portello “Oratorio” in cui la descrizione attiene a vagabondi e ruffiani, parassiti e camorristi entro il racconto di Isidoro sulla storia d’amore con Rosalia.
Nel porto di Palermo regna il caos: lo caratterizzano scaricatori, casse, carriole, barili, bestemmie e sgradevoli olezzi, “sciarre di pugni e sfide di coltelli”, “il brulicare d’òmini, animali, carrette e mercanzie”. Ma l’immagine della città, all’arrivo di Clerici, è luminosa di luce chiarissima:

Il sole sul filo in oriente d’orizzonte, mi vedea venire incontro la cittate, quasi sognata e tutta nel mistero, come nascente, tarda e silenziosa, dall’inno della notte.

A interessarlo è la ricerca della Sicilia classica, greca e arcadica per ricavarne sensazioni e sentimenti di atarassia, di distacco dalle pene d’amore. Lo suggestiona la terra fertile, una natura tanto rigogliosamente gentile che si apre allo sguardo passando per Monreale, Burghetto e Partinico, ma le strade sono insicure e accidentate, asperrime e colme d’ogni insidia tra cui l’incontro con i ladri.

Ad Alcamo, ricca d’abbondante natura, il comportamento degli uomini è maschilisticamente contrapposto alle donne: i primi sono “scuri, guardinghi e sospettosi, immobili ai lati della strada” che scrutano il passare del convoglio, parlando tra loro “sommessi e concitati”; le seconde si presentano talmente “intabarrate” di cui non si scorge il viso “o il dito d’una mano”, pronte a “scivolare svelte”, “al richiamo d’uno scampanio, nell’antro d’una chiesa”.
Vistoso il barocchismo nel comportamento dei signorotti che si configura in una vivacità esasperata, nell’opulenza e nella nauseante boriosità in stridente contrasto con la miseria di vecchi e bambini. Chiara la denuncia sociale di Consolo nel rilevare le disuguaglianze: sotto stanno coloro che faticano lavorando “senza inizio e fine”, sopra quelli che oziano “ben armati di trombe e lame, in stivaloni, casacca e cappellaccio”. La condizione d’una miseria ingiusta si tocca poi con mano quando Isidoro e Clerici scorgono “innumerevoli fanciulli, cenciosi e magri” e un’orda “di mendichi, ciechi, storpi, nani, malformati, sconciati sulla pelle di ripugnanti mali”.

Non manca la violenza della prepotenza. Da qui il contrasto tra la bellezza della Sicilia e la vita miserabile della povera gente.

C’è una doppia realtà nell’isola: di una bellezza assoluta di quest’isola, che è al centro del Mediterraneo, che è ricca di cultura, per tutte le stratificazioni culturali che ci sono state lì […] E penso anche alla violenza che c’è.

È la violenza esercitata da chi possiede e dalle categorie intermedie al servizio del potere economico:

Non parliamo poi della mafia. E poi taglieggiano e opprimono i sottomessi.

Sono le donne “impotenti, sottomesse, vittime” in un quadro a fosche tinte. Ma è la meravigliosa natura a favorire l’abbandono al sogno. Anche la generosità siciliana spicca: quella dell’accoglienza dell’ospite derivante sicuramente dai greci. Dinanzi al granitico tempio di Segesta, Clerici resta estasiato; ne descrive ogni dettaglio che esprime un’aura di sacralità agli antipodi dell’imbarbarimento e del degrado. E ci sarebbe da soffermarsi sui “Bagni Segestani” o sull’incontro con i briganti o col pastore don Nino che li accoglie dopo essere stati derubati d’ogni bene. Avvincente la storia del brigante in cui si parla della fanciulla Rosalia, avente lo stesso nome della donna amata da Isidoro.

Incantano le descrizioni delle tappe del viaggio; sono delicatamente visive nell’intrecciarsi di narrazioni d’incontri e mostrano il pullulare immaginoso relativo al paesaggio della Selinunte greca:

Io scesi da cavallo e baciai la terra del Selìno, sacra per tanta vita e tanta morte umana. E come richiamato da voci che solamente a me si rivelavano, voci antiche e sepolte, di sacerdoti, vergini e fanciulli, dentro le pietre immense dei tumuli dei templi, e suscitate, quali suoni dalle corde d’una cetra o arpa, per la forma evocante e per l’amore mio di pellegrino, e per l’aere sciamanti […] m’inoltrai mezzo le pietre […] e tutte come in un grande gorgo vorticando attorno a un’unica colonna che ritta al centro, possente e alta, era rimasta a simbolo del grande, del santo monumento, come preghiera estrema e duratura a un dio ignoto, come meridiana o sosta alla sua ombra in questa ignuda vastità e assolata, come segnale e guida per le carovane che dall’interno si portavano agli empori della costa.

La costruzione del tempio sacro, commenta Vincenzo Consolo, è speranza che va verso il cielo, “oltre il confine misero dell’uomo”, mentre la vista nel “mar di pietra” di metopi e di sculture gli fa sorgere interrogativi esistenziali.

Cos’è mai questa terribile, meravigliosa e oscura vita, questo duro enigma che l’uomo sempre ha declinato in mito, in racconto favoloso, leggendario, per cercar di rispecchiarla, di decifrarla per allusione, per metafora?

Le descrizioni incalzano e affascinano per l’ampio sguardo rapace che fissa plurimi dettagli in un linguaggio scorrevolmente rapido e colto. A Mothia ridono i villani “con gran diverimento”, essendo stati informati che i viaggiatori cercavano “l’antichitate” e li invitano a pigliarsi tutto per liberare il campo. Quasi a far dimenticare la strage sacrificale di innocenti, fa luce di splendida bellezza la statua greca del cosiddetto “Auriga” (o “il Giovinetto di Mozia”), trovata dagli archeologi nell’ottobre del 1979 presso il forno di un vasaio. Sicuramente l’artefice dovette essere un esperto scultore conoscitore dell’arte di Fidia e forse era stata comprata da qualche ricco signore del luogo. Nulla si sa di certo. Chissà dove fosse stata scolpita (forse in una città greca della Sicilia, Selinunte o Agrigento). Lo stile e il secolo in cui si possa collocare sono ignoti. Permangono i dilemmi, gli interrogativi, le ricerche. Il V secolo a.C la datazione possibile, probabilmente la prima metà. Ecco un brano di come Consolo ne parla:

Era la statua, poco più grande della misura naturale, d’un giovine robusto, atleta o auriga, che, pur coperto d’una tunica o chitone a fitte pieghe come rivoli d’acqua scivolanti fino ai piedi, si leggea in trasparenza in corpo sano. Il quale, gravando su una gamba e portando avanti l’altra, parea offrirsi in posa dopo la conquista d’una vittoria. E il viso ancora, incorniciato di ricci sulla fronte, era quello fiero e lontano d’ogni vincitore. Privo di braccia, il residuo d’una mano era attaccato a un fianco, mentre l’altra, sicuramente protesa, dovea reggere in alto il premio o la palma della sua conquista.

Finita in mare la statua, lungo il tragitto per Trapani, che Clerici aveva portato con sé, questi rassegnato dice: “Tutto viene dal mare e tutto nel mare si riduce”.
Trapani, “quella città bianca di marmore e di sale”, ha il porto ricco di commercio e di merci; nella bella cittadina “agile e sciroccosa”, ”attiva e sensuale”, dove la grazia greca s’incrocia “con la carnalità ubertosa e ambrata d’un harem saracino”, poteva fiorire l’arte della pesca e della lavorazione del corallo.
Pagana e apparente la religiosità; folclorica e divertente la venuta a pranzo nella casa ospitale di don Sciaverio, esperta guida della città che, dopo un breve terremoto, pronuncia una frase crudele:

Andate, andate via subito, signor maestro Clerici, andate don Fabrizio. Quest’è terra insicura, traballante.

A Palermo incontrano lo scultore Giacomo Serpotta; prima di lasciare la Sicilia, da alcuni mercanti lombardi il Clerici apprende che donna Teresa, la sua amata,

è appena convolata a nozze […] con l’intraprendente Cesare Beccaria.

Riconoscendo le profonde stratificazioni della Sicilia e i contrasti di povertà e di ricchezza, Clerici non ignora la variegata e complessa umanità che la popola. Certo, le sue aspettative vengono incrinate. Di naufragio parla Traina. Ma a rimanere è un senso di meraviglia insieme ad uno sguardo illuministico.

Il terzo portello, “Veritas”, attiene al racconto di Rosalia dalle cui vicende balzano in primo piano le violenze subite dopo la partenza di Isidoro. È il giuramento di fedeltà ad essere l’epilogo della loro storia d’amore.

E io monaca sono, Isidoro mio, monaca per amore del ricordo più bello e interrotto, monaca per amore dell’amore, in clausura d’anima per te, fino alla morte

invitandolo a rientrare nel convento:

Saperti ancora monaco mi dona contentezza. Monaco tu e monaca io, nel voto e nel ricordo del nostro grande amore.

In definitiva, con questo racconto Vincenzo Consolo descrive storie come isole di un arcipelago, l’una all’altra rinviando personaggi, incanti e disincanti a far giungere il melodioso canto d’una Sicilia luminosa e al tempo stesso attraversata da una condizione di arretratezza sociale in pieno secolo dei lumi.
Federico Guastella per Sololibri.net

Moniti per la contemporaneità dal palinsesto consoliano

Pubblicato il 1 luglio 2024 

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di Ada Bellanova

Nel 2008 Daragh O’Connell ha utilizzato il termine «palincestuoso» per definire Consolo evidenziando come, nell’imponente polifonia che caratterizza la sua scrittura, la voce letteraria acquisti un rilievo particolare e quanto intensa sia, rispetto ad altri autori pure attenti alla tradizione, la relazione con i testi anteriori. «La poetica della ri-scrittura o, meglio, della soprascrittura»[1] che ne scaturisce è fortemente legata alla tensione etica dell’autore: la rottura che ne deriva nei confronti delle mode letterarie del momento è un tramite che concorre a definire la scelta dell’impegno. Ma questa modalità convive con la componente memoriale e autobiografica, con l’uso e il riuso dei propri testi, con le citazioni e le allusioni iconiche, in un’attenzione sempre presente per la Storia e per la contemporaneità. È allora arduo e perciò ancora più gratificante scavare alla ricerca del senso.

L’indagine in un’opera così densa di innesti può riservare sempre nuove sorprese, a seconda di dove si va a ‘scavare’. Ma è ancora più degno di interesse che i ‘reperti’ continuino a veicolare messaggi preziosi per il nostro tempo.  «Da paesi di mala sorte e mala storia». Esilio, erranza e potere nel Mediterraneo di Vincenzo Consolo (e di Sciascia) è l’ultimo libro di Giuseppe Traina su Vincenzo Consolo, pubblicato da Mimesis, nella collana Punti di vista diretta di Gianni Turchetta. La raccolta di saggi, in parte inediti in parte rielaborazione di interventi già pubblicati, si riallaccia alla monografia del 2001 (Vincenzo Consolo, Cadmo, Fiesole 2001). Pur uscendo, come ammette lo stesso studioso nella premessa, in una fase particolarmente fertile degli studi su Consolo e pur toccando questioni variamente dibattute dalla critica, queste pagine presentano un taglio nuovo, individuando come corpus di indagine l’ultima fase dell’opera dell’autore – i testi che vanno dagli anni Novanta alla morte, ovvero da L’olivo e l’olivastro del 1994 (ma con riferimenti anche ai precedenti Retablo e Le pietre di Pantalica) ai vari contributi parzialmente confluiti ne La mia isola è Las Vegas (2012) e nel postumo Cosa loro (2018) –, e riconoscendovi una netta presa di posizione, ancora preziosa e illuminante, in merito a questioni socio-culturali, ambientali e politiche dell’Italia e del mondo.

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Il primo saggio I molti volti dell’ulisside, tra Sicilia e Mediterraneo: Retablo, Le pietre di Pantalica, L’olivo e l’olivastro, che rielabora quello già uscito su Recherches (Studi per Vincenzo Consolo. Con lo scrivere si può forse cambiare il mondo, n. 21, automne 2018: 99-111) si sofferma su una questione già molto presente nella critica consoliana, ovvero sulla presenza di Ulisse. La mappatura delle ricorrenze tende all’esaustività perché, partendo dal bagaglio degli studi precedenti, in particolare quello di Massimo Lollini [2], Traina passa in rassegna una serie di aspetti, anche minori e in parte trascurati, componendo le tracce e guidando alla comprensione del senso.

La precocità del tema del viaggio già presente ne La ferita dell’aprile, sebbene non in maniera massiccia; la struttura ‘a stazioni’ non sempre programmate ma anche determinate da accidenti di varia natura in RetabloL’olivo e l’olivastro, Lo Spasimo di Palermo; le allusioni omeriche in episodi o motivi riconducibili all’Odissea; l’influsso epico nelle scelte stilistiche (l’imperfetto durativo come tempo della ciclicità e il passato remoto come traccia epica nei verbi di dire o in quelli di movimento); la predilezione per protagonisti sempre in movimento, come Fabrizio Clerici, l’io di Le Pietre di Pantalica e di L’olivo e l’olivastro e Chino Martinez: il rilievo dato a tutti questi aspetti è testimonianza del dialogo intenso con l’ipotesto. Traina inoltre non manca di sottolineare che a questa ricorrente scelta di intertestualità si legano elementi autobiografici o caratteriali dell’autore, come il gusto-ossessione per il viaggio periplo in Sicilia o l’esilio a Milano. Proprio del tema dell’erranza, così pervasivo, precisa l’ambivalenza: intanto perché, anche se è ‘in esilio’ a Nord e pur non essendo un privilegiato, Consolo, per sua stessa ammissione, non vive la condizione degli emigrati poveri e ammassati in transito verso altre destinazioni, e poi perché c’è l’autoesilio generato dall’invivibilità della Sicilia, in L’olivo e l’olivastro, ma, accanto all’erranza generata dalla tragedia civile della mafia, in Lo Spasimo di Palermo, c’è anche quella che scaturisce dalla propria vicenda personale. Né mi sembra «una piccola divagazione» la nota finale sulla possibile conoscenza dell’Ulisse di Tennyson per il rifiuto di un nostos compiuto che coinciderebbe con il regno su un’Itaca imbarbarita dalla logica economica e la scelta di un nuovo viaggio che lascerebbe il potere a un più accomodante Telemaco. D’altra parte questo particolare referente viene forse evocato ma per negazione anche ne Lo Spasimo perché l’esilio ora tocca al figlio – neppure per lui c’è posto in un’Itaca distorta – e al padre non resta che un’erranza senza pace, senza slanci di conoscenza.

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Traina non si lascia sfuggire neppure l’occasione di precisare quanto il «monito periodico» dell’eliotiano Morte per acqua sia profondamente legato alla tematica odissiaca per la paura antica del viaggio per mare e del rischio della morte senza seppellimento. Tutti i compagni di Ulisse perdono la vita durante il difficile viaggio di ritorno e l’epos incarna il sentimento degli antichi Greci, mentre i morti per acqua di oggi, i migranti, sono ulissidi alla ricerca di una patria ideale che mai vedranno. C’è in queste tracce odissiache un fortissimo monito alla contemporaneità per quanto riguarda i drammi del Mediterraneo ma anche, come giustamente mette in evidenza Traina, l’avviso della profonda ambivalenza del rapporto dell’essere umano con la Natura.

A questo si collega un’altra riflessione interessante, sebbene più rapida, contenuta in questo primo saggio, sulla techne. Consolo ha senza dubbio pagine polemiche nei confronti della cultura tecnico-scientifica nella sua versione tecnologica. I poli industriali siciliani in particolare sintetizzano ne L’olivo e l’olivastro un’idea di sviluppo deteriore, che nega l’identità dei luoghi, distrugge la civiltà preesistente [3]. Altra cosa è la techne non meccanizzata, nei confronti della quale l’autore nutre un notevole interesse, evidente ad esempio nell’attenzione per botanica e arboricoltura in Retablo o ne Lo Spasimo di Palermo. In ciò Traina coglie una traccia ulissiaca perché riconduce queste aperture alla dicotomia tra olivo e olivastro e vi riconosce la valorizzazione di «una forma tra le più alte dell’intelletto umano e di una misura umana del vivere». Un altro avviso urgente per il nostro tempo.

Anche il secondo saggio, Nottetempo casa per casa: il potere, la lingua, l’esilio, rielaborazione di un intervento precedente, costruito attorno al tema chiave ‘lingua’, soffermandosi su una questione estremamente viva nella riflessione consoliana ovvero sulla peculiarità dello strumento linguistico con le sue ambivalenze, evidenza l’attualità del messaggio dello scrittore. Nel romanzo oggetto di analisi attraverso la narrazione di fatti misti di storia e invenzione degli anni Venti – la vicenda di Pietro Marano in una Cefalù che ha rinunciato a ogni forma di razionalità, stravolta dall’avvento del satanista Aleister Crowley e dai suoi riti orgiastici seducenti per alcuni cefaludesi pronti poi a schierarsi con il nascente fascismo – Consolo allude, per sua stessa ammissione, agli anni Novanta, «anni di crisi ideologica e politica, di neo-metafisiche, di chiusure particolaristiche, di scontri etnici, di teocrazie, integralismi…» [4], ovvero all’irrazionalismo della cultura di massa a lui contemporanea, alla caduta delle ideologie e alla deriva degli italiani pronti a sostenere nuove forze politiche, Lega Nord e Forza Italia, e quindi a consegnarsi a un sistema di potere illiberale.

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Ma la violenza sembra essere ben più profonda e enigmatica di quella storico-politica: ha genesi antropologica e probabilmente anche autobiografica la malattia dei Marano, ma è solo apparenza, come ha messo in evidenza Galvagno [5], il legame esclusivo con la famiglia del protagonista e le implicazioni sono molto più vaste e riguardano la soggettività dolorosa dell’essere umano. L’indagine di Traina consegna al lettore alcuni importanti ‘ritrovamenti’, ipotesti della tradizione solo in parte affioranti, per riflettere sul ruolo della lingua nel romanzo. La parola poetica è per Petro Marano una possibilità di resistenza al dolore, mentre è nociva la retorica del linguaggio della politica, fascismo o antifascismo poca importa, perché anche nella lingua del vate poetico dell’anarchico Schicchi, Rapisardi, è rivelabile l’impostura. «Petro, con la sua sensibilità linguistica […] coglie il rischio che il terremoto grande che sconvolge politicamente l’Italia implichi una corruzione della lingua, uno slittamento tra significanti e significati che solo in apparenza può apparire un buffo calembour», e, nella sua alternanza tra melanconia, male catubbo da una parte e tentativo di resistere ad essi attraverso la scrittura, rappresenta dunque proprio la posizione dello scrittore che è consapevole dell’agguato in atto nei confronti della cultura umanistica e della razionalità, ma ha ancora fiducia in esse.

Alla base di questa riflessione Traina pone alcune sollecitazioni: l’idea di funzione utopica della lingua di Barthes, il principio di vacuità del linguaggio di Foucault, ma soprattutto il valore della leggerezza nelle Lezioni americane di Calvino. L’apparente distanza delle considerazioni calviniane – forse quelle che sorprendono di più tra i riferimenti suggeriti – è superata nella sottolineatura della presenza nel romanzo della «rutilante vitalità del fascismo», che è aggressivo, rumoroso, quindi facilmente ascrivibile a quello che Calvino definisce «regno della morte» [6], ma anche della coscienza della necessità di una riappropriazione della concretezza delle cose da parte del linguaggio. Inoltre se la pietrificazione dei Marano si lega alla pesantezza di cui le Lezioni americane invocano il superamento, nella percezione da parte di Petro del dolore individuale e nella  possibilità di una risposta collettiva alla sofferenza del mondo, Traina individua l’intreccio tra riflessione calviniana e echi leopardiani, in particolare nel passo del capitolo VIII: «Una suprema forza misericordiosa potrebbe forse sciogliere l’incanto, il grumo dolorante, ricomporre lo scempio, far procedere il tempo umanamente. O invocare ognuno, il mondo intorno, a capire, assumere insieme l’enorme peso, renderlo comune, e lieve» [7].

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Il terzo saggio, finora inedito, cala il lettore nel mistero del marabutto (Nel marabutto: Lo Spasimo di Palermo) e dell’ultimo dei romanzi consoliani, portando alla luce, attraverso considerazioni sui molti significati del termine, anche il senso sepolto (inabissato) della narrazione. Il termine è di per sé polisenso – eremita, tomba mausoleo, cisterna sotterranea – ma a contare sono i significati che esso assume per Chino Martinez. Dapprima luogo sotterraneo, scoperto nell’infanzia con l’amico Filippino, il marabutto prelude forse al difficile destino di scrittore che deve impegnarsi a trovare ‘il motto giusto’. Ma diventa subito anche ricovero per sfuggire alla collera paterna e sarebbe segreto da condividere con Lucia, la sola che possa godere della bellezza delle pitture murali, ma i gemiti del padre e della siracusana lì rifugiatisi per fare l’amore lo rendono emblema del rimosso. Chino infatti, spinto da molteplici sentimenti, non ultimi odio e rivalsa, contribuisce suo malgrado alla morte del genitore e della sua amante per mano dei tedeschi e ciò diventa per lui causa di rimorso perenne e radice della futura pazzia per la ragazzina che è l’unica a vedere i cadaveri di sua madre e del padre del protagonista.

Così il marabutto è l’aleph, il punto di partenza e, nel senso borgesiano, il luogo in cui sono riassunti tutti i luoghi, la storia che le riassume tutte. Ma indica anche l’eremita e, se – è la premessa di Traina – nell’opera di Consolo questa figura è ricorrente e significativa e spesso ridotta all’afasia o ad un’ecolalia che non comunica, come nel caso del frate belga di L’olivo e l’olivastro, questa accezione è valorizzata nell’ultimo romanzo in vari modi. Innanzitutto Chino Martinez «opta per una sorta di romitaggio laico» che è illusorio nel caos di Palermo, ma soprattutto sceglie un’afasia di scrittore che diventa anche afasia nei rapporti umani, persino nei confronti del figlio. Inoltre l’auspicio «T’assista l’eremita» che chiude il proemio, ricondotto da Traina proprio all’incontro con il frate belga, va inteso in relazione con l’effetto del marabutto sulla vicenda di Chino e va collegato al motto del fioraio che precede l’esplosione letale alla fine del romanzo, «Ddiu ti scanza di marabutta». Ma lo studioso, provando a indagare tutte le accezioni della parola marabutto, suggerisce che forse eremita è anche il giudice obiettivo dell’attentato mafioso e la sua condizione rinvia alla vera solitudine sperimentata da Paolo Borsellino la cui vita si è svolta tra l’aleph della farmacia di famiglia di quel quartiere poverissimo che è la Kalsa, di cui Consolo si ricorda in Le macerie di Palermo, e il tremendo isolamento finale da cui nessuno l’ha protetto.

Il saggio successivo si concentra sulla scrittura d’intervento e sui testi confluiti in La mia isola è Las Vegas e Cosa loro verificando analogie e specificità di questi rispetto a quelli confluiti nel Meridiano curato da Turchetta. In particolare Traina si sofferma sull’uso dell’ironia costruita attraverso l’elencazione nominale, la deformazione onomastica, la scelta del dialetto o di forme regionali anche sul modello gaddiano, i rifacimenti mimetici ancora gaddiani, o con la prospettiva dell’io narrante, straniante e eticamente indifendibile come nel racconto La mia isola è Las Vegas. Inoltre in tutta la scrittura d’intervento, che si tratti di interventi sulla mafia o di articoli di politica internazionale, è riscontrabile un grande scrupolo documentario. Infine Traina segnala nella produzione estrema di Consolo una tendenza ad analizzare fenomeni di portata mondiale, a partire dal tema delle migrazioni del Mediterraneo e, a tal proposito, si sofferma sull’interessante ma poco noto Civiltà sepolta [8], articolo che nel richiamo del titolo all’archeologico Civiltà sepolte di C. W. Ceram allude antifrasticamente al «seppellimento morale della nostra attuale civiltà, emblematizzato dal perdurante ricorso alla tortura». Nel testo lo scrittore si sofferma sulle tante violazioni dei diritti umani, a partire da quelle compiute da fascisti e comunisti per arrivare alle moderne torture statunitensi. Traina vi rileva un ricorso preciso a toponomastica e onomastica – per citarne alcuni, Abu Ghraib, Baghdad, Nassiriya, Maurizio Quattrocchi, Nicholas Berg – fondato sulla convinzione che il nome possa facilmente, fissato sulla pagina, diventare emblema per tutti, in un crescendo apocalittico che l’ecfrasi finale del monumento ispirato alla fotografia di Lunchtime può, compensando la voragine angosciante di Ground Zero moltiplicata nelle immagini televisive dell’11 settembre 2001, riscattare con un moto di speranza – la profezia di una ricostruzione nella particolare scelta iconica che si riallaccia alle modalità dei grandi romanzi – la logica della guerra.

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L’ultimo saggio, Consolo e il Mediterraneo arabo: «tra un mare di catarro e un mare di sperma», rielabora un precedente intervento su «Italianistica» (n1, gennaio-aprile 2020). Vi si collega, per l’attenzione rivolta al tema del mare e alle modalità con cui si manifesta la presenza araba, l’appendice sciasciana, del tutto inedita. Ma in Consolo la componente araba mediterranea non esiste da sola, bensì mescolata con l’identità greca, ebraica, spagnola, con individuazione dell’arricchimento che nasce proprio dalla fusione di civiltà e culture diverse. Traina passa in rassegna le differenti forme della presenza araba nell’opera dell’autore: quella geografico-artistica che valorizza l’eredità monumentale, soprattutto a Palermo e a Trapani, e la valenza civilizzatrice della dominazione araba in Sicilia non senza mettere in risalto in controcanto la distruttiva barbarie mafiosa contemporanea; quella storico-sociologica che, partendo dall’arrivo degli arabi in Sicilia, sulla scorta di Michele Amari, giunge ad analizzare la doppia migrazione tra l’isola e il Nord Africa e gli esiti tragici delle traversate dei nostri giorni; quella letteraria che dalla conoscenza di Ibn Giubayr e degli altri antichi scrittori arabi siciliani giunge all’interesse per autori contemporanei palestinesi o maghrebini; infine quella politica con le riflessioni sulle guerre del Mediterraneo, su eventi come l’11 settembre, e, ancora una volta, sulle migrazioni.

Il saggio mette in luce un aspetto, secondo me, fondamentale nella riflessione consoliana, ovvero la forza vivificatrice della mescolanza tra popoli. La stessa rappresentazione, entusiastica, della Sicilia come museo a cielo aperto, che accoglie rovine elime, greche, puniche testimonia nell’opera dell’autore il valore degli incontri, degli scambi tra popoli di culture diverse, ciò che è, da sempre, motivo del cammino della civiltà.

Le considerazioni di Traina per l’interesse di Consolo nei confronti di Tahar Ben Jelloun, che evidenziano tra l’altro una comune predilezione per la dimensione dell’oralità, permettono di cogliere un auspicio di meticciato anche sul piano letterario. La soluzione alla crisi linguistica e letteraria – in particolare del romanzo, minacciato dalla comunicazione del potere in virtù della sua valenza comunicativa – risiederebbe in un incontro straordinario tra lingua della memoria e lingua scelta per comunicare, proprio come nel caso dello scrittore marocchino che pur scegliendo il francese – la lingua degli ex colonizzatori – per scrivere non ha rinunciato alla sua identità maghrebina. Ma il meticciato dovrebbe essere l’esito anche sul piano biopolitico: l’Europa vecchia – «un mare di catarro» – ha bisogno della vitalità giovane che possono portare i migranti. In consonanza con l’aforisma zanzottiano [9], Consolo evidenzia la necessità e la positività della mescolanza, non tanto o non solo per spirito umanitario ma per evidenti ragioni politiche e economiche: si tratta, d’altra parte, di riconoscere il cammino della Storia, tanto più della Storia di un siciliano, segnata da così tanti popoli e commistioni.

meridiano

In un Mediterraneo dilaniato da guerre e morte la speranza risiede, a sorpresa, in San Benedetto, nel santo nero di origini popolari. Soffermandosi in chiusura sull’analisi del racconto Il miracolo, che, con tono sarcastico e grottesco, narra di come una ragazza semplice e chiusa nella fede in un vicolo del centro storico di Palermo si convince di essere stata messa incinta da San Benedetto e non da un migrante nero che ha bussato alla sua porta, e sugli articoli dedicati al santo – con la proposta di eleggerlo copatrono accanto alla bianca e aristocratica Santa Rosalia proprio in virtù della presenza significativa di immigrati – Traina mette evidenzia la forza del simbolo che Consolo ci lascia in eredità: a Palermo, nell’isola e in tutto il Mediterraneo dovrebbe essere finita l’epoca delle madri sofferenti che piangono i loro figli, dovrebbe esserci invece «un nuovo tipo di padri, non legati all’atavica cultura mafiosa ma capaci di tenere in braccio un bambino, come il santo nero nell’allucinata narrazione della ragazza del Miracolo».

Resta, alla fine della lettura di questi saggi, oltre ad una rinnovata vertigine di fronte alla ricchezza del palinsesto consoliano, l’apprezzamento per la pregevole opera di scavo operata da Traina il cui denso resoconto testimonia una cura attenta e consapevole dell’eredità dell’autore. Questa è percepita come propria nell’atto dell’indagine ma, nella scelta di uno specifico corpus di indagine e nel focus su questioni care a Consolo e assolutamente non risolte, come le migrazioni, la violenza, la violazione dei diritti umani, l’uso distorto della lingua, il rapporto tra uomo e natura, è proposta anche, ancora e urgentemente, a tutti.

Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024
Note
[1]   D. O’Connell, Consolo narratore e scrittore palincestuoso, «Quaderns d’Italià», 13, 2008: 161-184 (:163).
[2]   M. Lollini, Intrecci mediterranei. La testimonianza di Vincenzo Consolo, moderno Odisseo, in «Italica», LXXXII, I, 2005: 24-43.
[3]  Ne ho diffusamente parlato in A. Bellanova, Un eccezionale baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo, Mimesis, Milano 2021, in particolare: 230-245.
[4]  V. Consolo, Fuga dall’Etna. La Sicilia e la Milano, la memoria e la storia, a cura di Renato Nisticò, Donzelli, Roma, 1993: 47.
[5]  R. Galvagno, L’oggetto perduto del desiderio. Archeologie di Vincenzo Consolo, Milella, Lecce, 2022: 199.
[6]   I. Calvino, Lezioni americane, Mondadori, Milano,2023: 16.
[7] V. Consolo, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di G. Turchetta e uno scritto di C. Segre, Mondadori, Milano, 2015: 712.
[8] V. Consolo, Civiltà sepolta, in L’Unità, 15 maggio 2004. L’articolo è reperibile per intero online https://vincenzoconsolo.it/?p=2928
[9]  A. Zanzotto, In questo progresso scorsoio, Conversazione con M. Breda, Garzanti, Milano, 2009: 68-69.
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Ada Bellanova, insegna lettere in un liceo pugliese. Si interessa di permanenza della letteratura greca e latina nel contemporaneo, di ecocritica, della percezione dei luoghi, dei temi della memoria, delle migrazioni e dell’identità. Si dedica da alcuni anni allo studio dell’opera di Vincenzo Consolo: da qui è nata la monografia Un eccezionale baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo (Mimesis 2021). Ha collaborato con La macchina sognante, Erodoto108.  Nel 2010 ha pubblicato il libro di racconti L’invasione degli omini in frac, con prefazione di Alessandro Fo e nel 2016 Papamusc, un breve romanzo edito da Effigi.

Lo spasimo di Palermo di Vincenzo Consolo

– Storia di un lungo viaggio dal procedimento memorialistico intrecciato con la coscienza civile di un personaggio-scrittore siciliano che acquista coscienza del fallimento generazionale e della pervasività del potere mafioso.

Federico Guastella

Lo spasimo di Palermo, romanzo dal tono elevato e dotto dalle ardite scelte stilistiche scritto da Vincenzo Consolo e pubblicato per la prima volta da Mondadori nel 1998, ha il primo capitoletto caratterizzato dal segno del corsivo e senza denominazione. In merito, Giuseppe Traina in Da paesi di mala sorte e storia (Mimesis, 2023), ha scritto che lo stile è: Misterioso, oracolare, zeppo di criptocitazioni e presenta una voce – più evocante ed esortante che narrante – che invita un interlocutore ad “andare”: questi acquista quasi subito i connotati di Ulisse, grazie a diverse allusioni alla materia ulissiaca. Un “proemio”, dunque, da potersi intendere come un “invito al viaggio” da fare insieme. Vi si legge un’affermazione che fa riflettere sul tempo identico nel suo scorrere: “la storia è sempre uguale”, cui segue un invito alla maniera di Eliot: Ora la calma ti aiuti a ritrovare il nome tuo d’un tempo, il punto di partenza. Inizia così l’oscuro tragitto che è ricerca d’identità: Ricerca nel solaio elenchi mappe, riparti dalle tracce sbiadire, angoscia è il deserto, la pista che la sabbia ha ricoperto. T’assista l’eremita l’esule il recluso, ti guidi la fiamma di lucerna, il suono della sera, t’assolva la tua pena, il tuo smarrimento. Ramificato l’intreccio che costringe il lettore alla ripresa delle pagine già lette e ad un procedere con tanti interrogativi. Il capitolo che segue, denominato I, introduce in un piccolo albergo di Parigi denominato “La dixième muse”, dove lo scrittore Gioacchino Martinez, Chino, mentre aspetta d’incontrare il figlio esule per terrorismo, rievoca la sua infanzia in Sicilia, da cui affiora un trauma: Fluttuava nel fondo dell’acqua catramosa il nome della remota visione, dell’oblunga sagoma implacabile. Si domandava da quale muffito sotterraneo, da quali strati dimentichi del tempo poteva esser sorto, nel tempo dell’infanzia, quell’arcaico incunabolo. Il brano è psicoanalitico; segna la riappropriazione dell’inconscio dal cui abisso si profila la visione d’un film con un personaggio chiamato Judex, il gran giustiziere e vendicatore. L’aveva visto quel film all’oratorio proprio quando un bombardamento incuteva terrore e seminava morte in paese. Da qui la decisione del padre di Chino di rifugiarsi in campagna, a Rassalemi, dove li raggiunge “La siracusana” con la figlia Lucia: la sua amante, dato che era rimasto vedovo. Suggestiona l’inventività a proposito della scoperta d’una tana effettuata col compagnetto Filippo: Filippo gli mostrò l’entrata ad arco, schermata dalle frasche, d’una cisterna o marabutto sepolto dal terriccio. Dentro era una stanza vasta, la lama d’una luce che per lo spacco nella cuba colpiva il suolo muffo, schiariva i muschi sopra i muri, e le strame, i nòzzoli di capre presso i canti. In una nicchia, sopra la malta liscia, era la figura d’un uomo accovacciato, un gran turbante, gli occhi a calamaro, che pizzicava le corde d’un liuto, d’una donna allato fra viticchi e uccelli che ballava. Chiarisce Traina: Il nome “marabutto”, dunque, indica qui una cisterna sotterranea, utilizzata forse per accumularvi acqua (lo farebbero pensare la presenza di muschi e il suolo muffito) oppure come rifugio per capre: usi recenti e degradati, rispetto alla destinazione primitiva a tomba o mausoleo, testimoniata dalle decorazioni murarie. Il dialogo fra i due ragazzini corrobora la consistenza di “altrove siciliano” in un’arcaica magia: – C’è qui la trovatura – disse Filippo – Ci vuole il motto giusto, e appaiono pignatte, cafisi di tarì. Sai uno strammotto, una rima per spegnare? E a Chino viene in mente una canzone appresa all’oratorio. Da allora il “marabutto” diventa il luogo privilegiato, “autoreclusivo” e nascosto, incognito e segreto, un piccolo eremo dove rifugiarsi in solitudine per sfuggire all’ira paterna e contemplare, incantato, le pitture murali che gli evocano le figure femminili a lui familiari. Lo condivide con Lucia e le mostra il boschetto curato dallo zio (conoscitore della botanica e amante dell’arboricoltura), conducendola fino alla grotta dei Beati Paoli dal cammino “oscuro e tortuoso” verso il regno ctonio; sull’arco d’ingresso l’incisione: PER ARTE E PER INGANNO Chiaramente alludeva all’artificio e all’inganno che sono di ostacolo a chi vuole agire per giustizia a favore del popolo siciliano. Dal “marabutto” a Nico giungono gemiti erotici da cui riconosce la presenza del padre intento a fare all’amore con la siracusana. Da qui il sorgere del rapporto ostile con lui fino a denunciarlo ai tedeschi. Intanto il marabutto diventa rifugio nel corso dei bombardamenti. E in quel rifugio, il piano architettato da Chino, favorito dalle circostanze, causa la morte del padre e della siracusana: un trauma per il ragazzo che rimuove l’accaduto al punto di non ricordarlo più. Di vicenda in vicenda, si susseguono le sue scoperte nel corso della devastante guerra. Poi il difficoltoso dopoguerra e Chino, ormai orfano, si ritrova con lo zio in città, a Palermo. Chino e Lucia: lui libero di muoversi e di andare in gita coi compagni; lei reclusa in un collegio di suore, privata di visite e di vacanze. Chino, preso da rammarico e da pena, ottiene, per intercessione dello zio, che Lucia trascorra un periodo nella loro casa. La passeggiata al mare si ramifica in vari episodi, in altri itinerari. Dinanzi alla grotta di Santa Rosalia, Lucia, pallida e tremante, fugge: Non so, non so, mi prende sempre il tremito, il terrore sulle porte del buio, dell’umidore… io… io ricordò tutto, Rassalèmi, il marabutto, rivedo sempre mia madre, quei corpi insanguinati sul carretto… Piange lei stretta forte a Gioacchino: Lui no, non aveva visto, era fuggito, una fuga era stata la sua vita. Vale ora la pena di accennare alla nascita di Mauro, figlio di Chino e di Lucia, lei tenerissima destinata alla follia. Anni dopo avviene lo scoppio d’una bomba: un attentato nell’ingresso della loro villa, ereditata dallo zio. L’investigatore, un commissario di polizia, così gli si rivolge: Professore, qui c’è una guerra, non la sente? Spari per le strade, kalashinikov nei cantieri. Mai tanta furia insieme. Si sterminano tra loro. La posta ora in gioco sono i terreni, gli appalti, le licenze… Ha mai sentito di un certo Scirotta Gaspare? […]. Uno stracciaiolo divenuto il più grosso costruttore, prestanome di politici potenti… Ha capito adesso? Chiaro l’avvertimento della mafia: impossessarsi a bassissimo costo del terreno su cui sorge la villa per affari loschi di speculazione edilizia. Mauro, che ormai studia filosofia, convince il padre a trasferirsi in una città lontana: Fuggire dal pantano, dal luogo infetto, salvare forse così la madre, lasciare quella terra priva ormai di speranza, nel dominio della mafia. All’arresto di Mauro, che all’università ha elaborato la sua filosofia e politica, segue la perquisizione della casa. Ecco la coincidenza. Nico stava scrivendo un racconto “La perquisizione” e aveva lasciato i fogli sopra il tavolo. Il borghese li nota e scorge rapido l’inizio, soffermandosi sulla scena in cui fa irruzione la polizia che butta a terra i libri e scruta dietro gli scaffali. Legge dunque ciò che stanno facendo i gendarmi: “Mi sembra di sognare”, disse. Lei sapeva, prevedeva. Avviene la scarcerazione prima del processo, poi la latitanza a Parigi per sfuggire alla repressione politica. Da qui l’accorato addio di Nico a Milano e il ritorno da vedovo in Sicilia col pensiero del figlio e “Lo confortava saperlo con Daniela, quella donna generosa, intelligente” (abile mediatrice fra padre e figlio). Egli, dunque: Tornava nell’isola, il porto da cui era partito, in cui si sarebbe conclusa la sua avventura, la sua vita. Si ritrova non più nella lussuosa villa d’allora, ma in un brutto appartamento condominiale. È l’uomo colto e scrittore civilmente impegnato Martinez (“Aborriva il romanzo, questo genere scaduto, corrotto, impraticabile. Se mai ne aveva scritti, erano i suoi in una diversa lingua, dissonante, in una furia verbale ch’era finita in urlo, s’era dissolta nel silenzio”); forse per l’esigenza di una mappatura culturale, oltre che topografica, del territorio, legge libri anche in lingua spagnola e si ritrova nella Biblioteca Comunale di Casa Professa; compie il giro per la città, pensando alla povera signora, sua dirimpettaia, che attende l’arrivo del figlio magistrato. Rari i contatti con le persone, l’unico con cui si intrattiene è il fioraio mastr’Erasmo. Siamo nel capitolo X, dal tenero inizio, dove si parla dell’incontro di Martinez con Borsellino (Judex, il giustiziere antimafia), che accenna ad uno dei suoi libri, riportando la frase dello scritto ne “Le pietre di Pantalica”: Palermo è fetida, infetta. In questo luglio fervido esala odore dolciastro di sangue e gelsomino… Il pessimismo è totale: – Sono passati da allora un po’ di anni… – disse Gioacchino. – Ma nulla è cambiato, creda. Vedrà, il prossimo luglio sarà uguale… o forse peggio. Dalla profonda crisi di Nico la decisione di scrivere al figlio, spinto dal bisogno di confessare e di chiarire (un consuntivo potrebbe dirsi personale e intellettuale): … Non sono mai riuscito a ricordare, o non ho voluto, se sono stato io a rivelare a quei massacratori, a quei tedeschi spietati il luogo dove era stato appena condotto il disertore. Sono certo ch’io credevo di odiare in quel momento mio padre, per la sua autorità, il suo essere uomo adulto con bisogni e con diritti dai quali ero escluso, e ne soffrivo, come tutti i fanciulli che cominciano a sentire nel padre l’avversario. Quella ferita grave, iniziale per mia fortuna s’è rimarginata grazie a un padre ulteriore, a un non padre, a quello screziato poeta che fu lo zio Mauro. Ma non s’è rimarginata, ahimè, in tua madre, nella mia Lucia, cresciuta con l’assenza della madre e con la presenza odiosa di quello che formalmente era il padre. È questo il brano d’una lunga lettera dove confessa al figlio il fallimento della sua generazione, il bisogno della rivolta nell’ambito della scrittura, il profondo sentimento per Lucia, nonché il senso della sconfitta a seguito degli attentati contro i giudici Falcone e Borsellino. Si conclude il romanzo con il gran boato a seguito del gesto del giudice che preme il campanello del condominio in cui abita la madre. È il 19 luglio 1992. Evidente il fallimento d’ogni speranza nell’Italia degli anni Ottanta-Novanta, sotto il segno della sconfitta, di fronte alla pervasività del sistema mafioso, si conclude la storia d’un lungo, terrificante viaggio.

Pubblicato il 30-05-2024

L’arte di Vincenzo Consolo: melos in prosa

La prosa di Vincenzo Consolo, scrittura poetica, non è mero artificio formale. Traduce il concetto di una letteratura che affranca dall’ordinarietà mediocre e offre un’occasione di riscatto dall’abiezione della routine.

 di Anna Maria Tata                                                                                           

Canto e prosa è il periodare di Vincenzo Consolo. Rime, assonanze e crescendi di catene nominali. Una melodia di rispondenze, che si affollano ad acclamare l’infinito potere della parola, la sua allusiva opulenza. Rapide chiuse, cadenze efficaci, evocatrici e seducenti, talvolta gravide di mistero.

L’orgogliosa essenza del linguaggio si consacra nei primi capolavori, Il sorriso dell’ignoto marinaio e Retablo, ma i medesimi connotati permangono, con toni e nuances sempre nuovi, nelle opere successive. 

Verba cuiusque artis l’idioma di marinai, pastori, principi, servi e baroni. È potente il realismo comunicativo, una creatività loquente che si diverte col sermo plebeo e si compiace della solennità classica.

Nimbo, longa, repente, contra, memento, strenue, foco, pugna, diuturno, fora, cattivitate, ruinare, estollere, fibule, militi, murmure: voci latine che sanno di sicilianità. Di radice ellenica tanti elementi del lessico, fra cui cufini, Kalasìa, kato, estiatorio, trapezi, merida, glikì. Parimenti gli austeri costrutti: sciolti i capelli…, gli occhi dilatati e fissi…, labbra dischiuse e occhi spalancati… 

Nel sapiente plurilinguismo si innestano echi danteschi e leopardiani: dicea, calato avea, scendea, rendea, che si intrecciano a sostantivi e aggettivi del registro elevato, a termini rari quali tremuoto, più volte impiegato.

In morti e testamenti, suicidi e ammazzamenti…, vorticare di giorni e soli e acque…le donne con i figli al petto e fra le gonne…, dopo tre notti e giorno di fuoco fitto e botti… palpitano la musicalità e la metrica della versificazione.

Luce che brucia, morde, divora lati spigoli contorni…, regole numeri misure e armonie: ritmo avvolgente e vorace, accelerazione del tempo narrativo, pittura fluida che ingurgita persino l’indugio dell’interpunzione.

Lo stesso utilizzo del dialetto, in genere legato all’estrazione sociale dei personaggi, diviene inserto prezioso, che ricorda le citazioni manzoniane o verghiane. Vividi i lemmi apricocca, panze, carusi, vastasi, malecreati. Turco santiare o idea strologa, gradevoli espressioni mutuate dal gergo.

La straordinaria commistione dei linguaggi, che include il gallo-sanfratellano, il provenzale e pure l’inglese, non è ricerca estetica fine a se stessa, quasi ossessiva aspirazione a una veste singolare della scrittura. Quel barocco cumulo di enumerazioni, lo studiato polistilismo, le interminabili possibilità sonore e semantiche rappresentano l’idea di una letteratura che è difesa e consolatio dinanzi alla degradazione imperante, alla superficialità e al qualunquismo che fagocitano ogni sacro valore. La bellezza della forma e la poesia delle immagini sono porto di salvezza, questo l’anelito del lirismo di Consolo.  

Le litterae, nutrite di tessere inusuali e arditi vagheggiamenti, si impongono come riscatto dalla barbarie morale. Ci sorreggono nel dolore della conoscenza, anzi sono le sole che riescano a sciogliere i grumi del dolore.

Una laboriosa sollecitudine verso gli esiti del dire è parallela a un percorso ideologico. Dalla visione del Sorriso dell’ignoto marinaio di una letteratura impostura, appannaggio delle classi agiate incapaci di penetrare le istanze degli umili, si perviene alla concezione di una scriptura catarsi in Nottetempo, casa per casa e in altri testi, coevi o posteriori.

L’impegno etico-politico e la speranza in un futuro più dignitoso oppongono radicalmente l’arte di Vincenzo Consolo a quella del pessimismo verista o dello scetticismo di Tomasi di Lampedusa.

Il sapere è libertà, diventa alternativa di palingenesi, entità altra che sublima lo spirito, prima che nella quotidianità si contamini o si perda.

Istituto d’Istruzione Superiore “Leonardo Sciascia”
Prof. Susanna Villari, Prof. Irene Romera PIntor, Prof. Giuseppina Leone, Prof. Anna Maria Tata

Il profumo delle parole: Vincenzo Consolo

“Il profumo delle parole: Vincenzo Consolo, Irene Romera Pintor e i giovani” .
Le amicizie sono consonanze spirituali intrise di odori di famiglia, nutrite da affetti corrisposti e resistenti, illuminate da dialoghi fluenti, ed è amicizia vera quella che lega Irene Romera Pintor, “Profesora Titular de filologia italiana” – come tiene a sottolineare lei – presso l’ateneo spagnolo di Valencia, e Vincenzo Consolo. Da questo sentimento inossidabile, forgiato da studi tenaci e consolidato da affinità intellettuali, sono scaturite le opere che hanno legato Romera Pintor e Vincenzo Consolo , quali “Autobiografia della lingua” e le traduzioni in spagnolo di “Lunaria” e “Filosofiana” da cui la studiosa ispanica ha preso le mosse nella lectio magistralis tenuta il 14 marzo agli allievi del liceo “Sciascia” di Sant’Agata Militello, grazie alla collaborazione con Claudio Masetta Milone, in rappresentanza dell’associazione “Amici di Vincenzo Consolo” . “Il profumo delle parole”, questo il titolo della lezione, nato dall’idea condivisa di Claudio Masetta e di Irene Romera Pintor, ha aperto una riflessione personale, densa di emotività e ricchezza interiore sull’espressività letteraria e sulle parole di Vincenzo Consolo, che schiudono mondi consonanti uniti da polisemie di corrispondenze linguistiche che non temono equivoci nella traduzione, laddove questa è il frutto di un lavoro di continui contatti, suggerimenti e scelte audaci. Tra queste , la filologa ha segnalato il ricorso al dialetto murciano, una variante regionale dello spagnolo , ricca di regionalismi, con una melodia più ampiamente vocalica ed echi aragonesi, arabi e catalani, per la resa di consonanze e allitterazioni affini alla lingua consoliana. La letteratura, dalle parole di Romera Pintor, che interpreta la concezione letteraria di Consolo, schiude lo scrigno della memoria e dipana i fili dei ricordi dell’identità, alla ricerca di affinità impreviste, come quelle tra Consolo stesso , Cervantes, e Calderón de la Barca , nel nome del sogno e dell’ esistenza, tra l’asimmetria geniale dello spagnolo e la pregnanza promiscua del siciliano. A tanta ricchezza hanno fatto da degno preludio la presentazione precisa , personale e delicata della prof.ssa Susanna Villari, docente ordinario di Filologia italiana presso il Dicam dell’Università di Messina e la relazione colta e raffinata della prof.ssa Anna Maria Tata, che ha avviato gli allievi alla lettura consoliana. La discussione è stata introdotta dalla prof.ssa Giuseppina Leone, Vice Preside del Liceo santagatese, la quale ha sottolineato come questa attività si inserisca all’interno di un percorso volto a far conoscere e valorizzare la figura e l’opera di Vincenzo Consolo , un cammino iniziato nel 2006 , grazie ad un “Incontro con l’Autore”, presentato dal prof. Faraci, e proseguito con l’istituzione del Certamen Nebrodeum Vincentio Consolo dicatum, di cui quest’ anno ricorre la V edizione.
In ogni lezione è protagonista la scuola , qui rappresentata dall’Assessore all’Istruzione , dottoressa Ilaria Pulejo e dai giovani : non si possono tacere i saluti garbati e le domande autenticamente curiose degli studenti ispanisti della V B linguistico , proposti nella lingua madre di Irene Romera Pintor, la lettura espressiva ed appassionata di Retablo della IV B scientifico e gli interventi puntuali e colti della V B classico. Ogni cosa al suo posto , in una mattinata preziosa per chi ama sapere studiare per recuperare una parte di sé.

Patrizia Baldanza

Vincenzo Consolo, “Di qua dal faro”

Alfio Pelleriti
10 gennaio 2024

In “Di qua dal faro” Vincenzo Consolo veste i panni del critico letterario conservando tuttavia la prosa ammaliante e piena di vibrazioni emotive, regalando ai lettori un saggio ineludibile per cogliere sentimenti, contraddizioni, tragicità e poesia nell’universo siciliano nel quale l’autore conduce il lettore in una esplorazione culturale, storica, antropologica. Della Sicilia presenta gli elementi costitutivi della sua storia e delle sue tradizioni, oltre che le più importanti produzioni letterarie, non tralasciando informazioni che attengono i settori produttivi: la pesca del tonno, le miniere di zolfo, gli eventi tragici relativi ai terremoti del 1693 in Val di Noto e a quello di Messina del 1908; il mondo dei vinti nella produzione verghiana; lo smarrimento dell’identità personale nelle opere di Pirandello; l’analisi socio-politica della Sicilia pessimistica e scettica nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa o nei romanzi di Leonardo Sciascia, fino alle “Parole come pietre” di Carlo Levi.

In “Di qua dal faro”, come in tutte le opere di Consolo, da Retablo al Sorriso dell’ignoto marinaio, alle “Pietre di Pantalica”, anche il paesaggio sembra indissolubilmente legato all’analisi delle caratteristiche comportamentali dei siciliani: “nei loro fianchi, negli anfratti, cresce lo spino, l’agave, l’ampelodesmo, il cardo, la giummara, la ginestra spinosa, il pomo di Sodoma… e sopra vi volteggiano i neri corvi… sembrano luoghi, questi, di maledizione biblica, luoghi come la disumana, barbara, d’atroce esilio per Ifigenia, terra dei tauri.”[1]

Un elemento che accomuna buona parte della letteratura siciliana, dice il Nostro, è il Nòstos, il ritorno in patria dopo esperienze in altri mondi, in altre culture, per riscoprire un legame forte e profondo con la cultura della propria terra, che si rivela unica, prodotto di molteplici influssi linguistici, storici e culturali. Alcuni intellettuali hanno negato tale peculiarità, in nome di un’apertura alla modernità e al progresso, chiudendo con lo stereotipo di una Sicilia contadina, chiusa alle novità e rassegnata ad una subalternità culturale, orgogliosa e velleitaria nel volersi isolare in nome di una unicità ormai inesistente. Fu questa la posizione di Elio Vittorini, dice Consolo, antesignano del neorealismo e dello sperimentalismo in letteratura, aperto alla cultura anglosassone e alla letteratura americana in particolare, convinto assertore della posizione gramsciana dell’intellettuale organico per approdare ad una egemonia culturale che potesse aprire le porte alla nuova società democratica, moderna e liberale. Era questa una posizione molto critica col dialetto, pur vivendo in un periodo di sperimentalismo linguistico come quello di Gadda, di Pasolini, di Stefano D’Arrigo, di Ignazio Buttitta. D’Arrigo, in particolare, viene presentato da Consolo come un autore appassionato e originale con il suo splendido “Horcynus orca”, pubblicato poi in una nuova edizione con il titolo di “I fatti della fera”, un romanzo straordinario che si colloca nella scia dei Malavoglia di Verga, che adopera una lingua aperta a vari innesti culturali ma al cui fondo c’è comunque il dialetto. Nel romanzo di D’Arrigo emerge una visione rassegnata e pessimistica sulla possibilità di riscatto della Sicilia in un’opera monumentale e affascinante, dalla scrittura affabulatoria e poetica che si può accostare, senza false modestie, all’Ulisse di Joyce, quanto a ricerca di nuovi canoni espressivi.

Vincenzo Consolo

Consolo, in questo suo viaggio nella produzione letteraria siciliana, non poteva tralasciare la presentazione di Pirandello, lo scrittore che cerca di uscire dalla “prigione” isolana e dai confini linguistici segnati dal dialetto con i riferimenti ad una tradizione piegata spesso ad anti valori, rassegnata al prevalere del male, all’inutilità dell’impegno politico. Pirandello è voluto uscire da tali confini, da lui percepiti come solide sbarre d’un carcere, per approdare ad una riflessione sull’uomo inserito in un mondo dai più vasti orizzonti e con uno sguardo volto al futuro, alla ricerca di soluzioni nuove. I risultati, tuttavia, saranno quelli tipici di un approdo allo smarrimento e all’angoscia esistenziale, alla necessità dell’isolamento rispetto a un contesto sociale che annulla e reifica.

Altre pagine interessanti sono quelle dedicate a Zola e al tema del rapporto tra intellettuale e scrittore. Afferma Consolo che lo scrittore francese col suo J’accuse contro i giudici che avevano condannato il capitano Dreyfus, ha vestito i panni di un intellettuale prestato alla politica e tuttavia egli avverte che quello non è il suo ruolo, poiché più che dalla politica e dall’impegno sociale egli è attirato da “altro”, cioè da quella dimensione del reale in cui lo scrittore indaga sull’uomo cercando le risposte al senso della vita.

E a proposito dell’impegno sociale degli scrittori italiani emerge in Consolo una certa amarezza dopo aver constatato che spesso preferiscono non accostarsi a problematiche sociali e politiche che porterebbero a scontrarsi con chi s’è assunto la responsabilità di amministrare quegli ambiti. Dice Consolo: “Gli scrittori italiani, i letterati, considerati dal potere superflui o esornativi, hanno da sempre stabilito col potere stesso un patto di silenziosa servitù e di convenienza per ricevere protezione ed emolumenti. Solo pochi scrittori, isolati, ‘non protetti’, hanno sentito il dovere morale di parlare, di battersi per la verità e la giustizia. Pasolini, tra gli ultimi, è stato uno di questi: da poeta s’era fatto intellettuale, polemista, lanciando dalle prime pagine dei giornali i suoi j’accuse, processando il palazzo per farsi processare… e Leonardo Sciascia. Scrittori isolati.[2]

Il saggio di Vincenzo Consolo è essenziale per la comprensione del contesto culturale nel quale si inscrive la produzione letteraria italiana e siciliana in particolare. Non manca niente e nessuno in questa sua analisi e, a ragione, essa può definirsi completa, esaustiva, con uno stile elegante e leggero, qui e là venato dal rosso della passione, perché della sua terra egli parla e dei suoi amici scrittori, di quelli con cui s’è accompagnato, come Sciascia, e di quelli che ha apprezzato leggendone le opere, sulle quali s’è formata la sua sensibilità e la sua peculiarità creativa. Costoro si ritrovano in questo suo lavoro, insieme ad autori che, sbrigativamente, sono considerati “minori”, come lo storico Michele Amari, di cui parla nel capitolo “La Sicilia e la cultura araba”[3], davvero illuminante per cogliere il profondo apporto dato da quella cultura alla lingua, all’architettura, alla letteratura, all’economia, all’agricoltura con l’inserimento di colture che diventeranno fondamentali in tale settore economico: l’ulivo, la vite, il limone, l’arancio, il cotone. E ancora, grazie a quello scambio culturale e commerciale, la pesca divenne un importante settore economico, soprattutto con la lavorazione del tonno. Ma la presenza araba in Sicilia fece registrare anche un miglioramento della macchina amministrativa: fu in quel periodo che si introdusse la divisione dell’isola in tre valli: Val di Mazara, Val Demone, Val di Noto e si affermò un nuovo spirito di tolleranza e di pacifica convivenza tra popoli di cultura, razza e religione diverse.

Del resto, tutti gli interventi di Consolo in questo suo prezioso viaggio nella storia e nella cultura siciliana, sono chiarificatori e illuminanti per capire le radici di quella che viene definita “sicilianità”, ma qualcuno dei suoi capitoli risulta davvero interessante oltre che elegante come, ad esempio, quello sul rapporto tra spazio fisico e produzione letteraria. Esso presenta un percorso che ha inizio con i poemi omerici, in particolare con l’Odissea seguendo il Nòstos di Ulisse, ma anche il viaggio di Telemaco alla ricerca del padre e della sua iniziazione e maturazione, e continua con l’Eneide di Virgilio, “seconda grande Odissea”, e ancora l’Odissea di Dante, La Divina Commedia, con i luoghi adibiti alla condanna dei peccatori, all’espiazione delle colpe nel Purgatorio e ai premi nel Paradiso celeste. E presenta ancora lo spazio vasto (Europa, Africa, Asia) in cui si svolgono le vicende dell’Orlando furioso di Ariosto, e poi segue La Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, il cui spazio tocca Gerusalemme, l’Egitto e Costantinopoli, e ancora il Don Chisciotte di Cervantes, la letteratura anglosassone con Robinson Crusoe, Moby Dick, L’isola del tesoro.

Infine, afferma Consolo, per ciò che riguarda la letteratura italiana moderna, gli spazi riguardano soprattutto la provincia e qualche città, ma si tratta sempre di spazi ristretti, dai Promessi sposi di Manzoni, ai Malavoglia di Verga, per giungere a Pirandello, che restringe ulteriormente gli spazi dove si muovono i suoi personaggi. Con lui si passa alla “stanza” come luogo in cui si svolgono le sue storie e spesso diventano “stanze di tortura”, lì “dove si compie ogni violenza, lacerazione, crisi, frantumazione della realtà, perdita di identità. Il movimento in quella storia è solo verbale.[4] L’analisi del tema del rapporto tra spazio e letteratura si chiude con “Conversazione in Sicilia” di Elio Vittorini, dove il protagonista, Silvestro, ritorna dopo tanti anni in Sicilia, nei luoghi della sua infanzia e lì ritrova la sua casa, la madre, che da Torino avevano assunto l’aura del mito ma che si rivelavano adesso senza più quei riferimenti ideali che aveva custodito nella lontananza. Col ritorno si dipana ogni velo e la realtà appare povera, esangue, banale perfino. Riferendosi ad una successiva pubblicazione di Vittorini, “L’olivo e l’olivastro”, Consolo chiude il capitolo con un’amara considerazione che riguarda anche la sua condizione di esule: “Noi oggi, esuli, erranti, non aneliamo che a ritornare ad Itaca, a ritrovare l’olivo. Lo scacco consiste nel fatto che sull’olivo ha prevalso l’olivastro, l’olivo selvatico.[5]


[1] Ibidem, pag. 12

[2] Ibidem. Pag. 197

[3] Dall’827 al 1072 si colloca la dominazione araba in Sicilia. Ad essa succederà quella normanna.

[4] Ibidem, pag. 269

[5] Ibidem, pag. 270
foto postate di Giuseppe Leone e Claudio Masetta Milone

L’oggetto perduto del desiderio: L’inno a Rosalia. In Retablo di Vincenzo Consolo

Rosalba Galvagno

La critica considera abitualmente Retablo, il romanzo di Vincenzo Consolo uscito nel 1987, come un libro di viaggio. Consolo d’altronde si era ispirato a un viaggio fatto in Sicilia nel 1984 insieme a Renato Guttuso, Fabrizio Clerici, Sebastiano Burgaretta e altri artisti e intellettuali, tutti invitati a un importante matrimonio. In una conferenza tenuta all’Accademia di Belle Arti a Perugia il 23 maggio del 2003 Consolo affermerà che proprio da un: «Pittore straordinario, intelligente e raffinato mi è venuta l’idea di trasferire nel ’700 il mio Fabrizio Clerici e il trasferimento significava che volevo scrivere un libro che non avesse una matrice storica, ma che fosse una fantasia, fosse un viaggio in una Sicilia ideale».

Retablo si rivela infatti essere il racconto del sogno di un viaggio, che obbedisce alla dinamica originaria del sogno, dinamica centrata, com’è noto, su un punto cieco che Freud ha denominato l’ombelico del sogno, e da dove nasce, si compone e si articola la rappresentazione. Da questa prospettiva il personaggio di Rosalia, la protagonista di Retablo, non è che l’oggetto di un sogno (secondo le parole del testo di «un sogno angustiante»), oggetto del desiderio inseguito da frate Isidoro lungo tutta la narrazione. E questo fin dal prologo che ho scelto di intitolare Inno a Rosalia. D’altronde Fabrizia Ramondino legge l’intero Retablo come «un’ode alla Sicilia».

Retablo è diviso, come un ideale trittico, in tre portelli rispettivamente intitolati Oratorio Peregrinazione, Veritas, e narra le peripezie dell’artista milanese Fabrizio Clerici e della sua guida Isidoro, un monaco del convento della Gancia, nella Sicilia del XVIII secolo (1760-1761 circa). Ciò che spinge al viaggio questi due personaggi è fondamentalmente una pena d’amore, Fabrizio avendo lasciato Milano per allontanarsi dalla donna amata Teresa Blasco e mettersi, curiosamente, alla ricerca delle origini siciliane di quest’ultima. Isidoro costretto ad allontanarsi da Rosalia avendo rubato, per amor suo, il denaro ricavato dalla vendita delle Bolle dei Luoghi Santi.

In Retablo ci sono due riferimenti letterari a due Inni greci antichi, ad Asclepio e a Demetra, donde la mia scelta del termine Inno inteso come la forma più arcaica dell’invocazione rivolta all’Altro ossia, con le parole di Retablo: alla «Madre e alla Figlia».

Mi limiterò qui a illustrare soltanto questo Inno caratterizzato da un singolare e inconfondibile ritmo poetico. Ora, il ritmo della prosa consoliana è certamente prodotto dall’ordine sintattico delle parole, ma anche dal loro ordine prosodico e metrico, dall’inserzione di versi endecasillabi specialmente, e perfino dalla disposizione fonetica delle parole, cioè dalla materialità dei timbri e dei suoni, in breve da ciò che si potrebbe definire una fonetizzazione generalizzata della scrittura. Sempre nella Conferenza prima citata Consolo afferma: «La mia scrittura, per la mia ricerca, è contrassegnata da questa organizzazione della frase in prosa che ha un suo metro, un suo ritmo che l’accosta un po’ al ritmo della poesia».

L’Inno si compone di tre lasse separate da un punto e un a capo. La prima è un canto attorno al nome Rosa, la seconda si articola attorno al nome lia, e la terza ritorna sul nome intero, Rosalia, questa volta associato a quello di Santa Rosalia, la patrona di Palermo. A queste tre lasse, bisogna aggiungere il primo rigo del paragrafo che le segue e che contiene l’emistichio, «Ahi!, non ho abènto», tratto dal celebre Contrasto di Cielo D’Alcamo, Rosa fresca aulentissima.

Il soggetto lirico dell’Inno è frate Isidoro, pazzo d’amore per Rosalia, il quale dopo averla posseduta una sola volta, la perderà per sempre. Nella prima lassa, l’oggetto cantato da Isidoro è giustamente la rosa (segnalo en passant la coppia paronomastica Rosa-Isidoro), il fiore le cui lettere formano la prima parte del nome dell’amata; a cui si aggiungono altri fiori, che ne costituiscono delle variazioni sinonimiche.

Ciascuna lassa è costituita da sequenze che contengono a loro volta delle piccole frasi, separate da virgole, un punto e virgola e, a due riprese, da un punto esclamativo seguito da una virgola. Questa punteggiatura, perfettamente calcolata, separa dei segmenti narrativi allineati per asindeto o polisindeto, seguendo un ordine principalmente paratattico ed enumerativo. Una prima e fondamentale scansione ritmica discende da questa struttura paratattica, che fa sì che una pausa intervenga alla fine di ogni piccola frase, di un sintagma, o di un semplice vocabolo, marcati da un segno di interpunzione.

Prima lassa (5 sequenze):

Rosalia. Rosa e lia.

Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha róso, il mio cervello s’è mangiato.

Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia.

Poi il tramonto, al vespero, quando nel cielo appare la sfera d’opalina, e l’aere sfervora, cala misericordia di frescura e la brezza del mare valica il cancello del giardino, scorre fra colonnette e palme del chiostro in clausura, coglie, coinvolge, spande odorosi fiati, olezzi distillati, balsami grommosi.

Rosa che punto m’ha, ahi!, con la sua spina velenosa in su nel cuore.

In questo mirabile incipit, risalta in posizione enfatica il nome di Rosalia, un nome proprio immediatamente diviso in due lessemi, Rosa e lia. Si possono contare dodici occorrenze del lessema rosa: la prima parte del nome Rosalia (Rosa), le varianti participiali e aggettivali róso e odorosi, e anche, la disseminazione sonora delle lettere r – o – s – a: misericordia, scorre, chiostro, grommosi, cuore. Inoltre il termine rosa (il fiore) è il soggetto grammaticale della frase che chiude la prima lassa: «Rosa che punto m’ha, ahi!, con la sua spina velenosa in su nel cuore». Pertanto la maggior parte delle occorrenze (nove, precisamente) denotano il fiore, salvo quella incorporata in Rosalia, che rinvia sia al nome proprio sia al fiore. Rosalia dunque, l’oggetto del desiderio che Isidoro non cessa di inseguire, è assimilata a una panòplia di fiori (datura, gelsomino, bàlico, viola, pomelia, magnolia, zagara, cardenia), di cui alcuni contengono almeno due lettere del termine rosa, e altri almeno due lettere appartenenti al termine lia. Questa rosa dunque, che non è solamente una rosa, ma che s’innesta su tutti gli altri fiori menzionati, produce su Isidoro curiosi e inebrianti effetti di felicità e insieme di infelicità, conformemente a una lunga tradizione letteraria.

Inoltre il ritmo di questa prosa sembra obbedire a una scansione sintattica marcata dalla pausa, l’arresto della voce e al contempo a una scansione che, sovrapponendosi alla precedente, ne modifica l’andamento. A una prima lettura, in effetti, il cambiamento d’accento tonico di alcune parole, dalla penultima alla terzultima sillaba, genera una sorta di inciampo, una interruzione del ritmo più spesso regolare, piano e quasi monotono («gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia. Poi il tramonto, al vespero, quando nel cielo appare la sfera d’opalina, e l’aere sfervora»). Bisogna leggere e rileggere la lassa per accorgersi che non è così, poiché la regolarità, apparentemente ostacolata dall’irruzione dell’accento sulla terzultima sillaba di alcuni vocaboli, è in realtà rimodulata su un’altra linea di sonorità, che è quella del livello soprasegmentale della scrittura (come per i termini: bàlico, zàgara, vèspero, àere, vàlica, bàlsami). Questa prima parte dell’Inno a Rosalia si rivela così estremamente ricca di figure di fonetica come: allitterazioni (rosa/rosa ecc.; sfera/aere/sfervora; cancello/scorre/coglie/coinvolge), rime (Rosalia/Rosa e lia; inebriato/sventato/mangiato; pomelia/magnolia; datura/frescura/clausura; fiati/distillati; odorosi/grommosi ecc.), e figure metriche, tra cui una dialefe, m’ha, hai!, messa in evidenza da un polisindeto, un’elisione iniziale e un punto esclamativo finale.

Nella seconda lassa (2 sequenze) prevalgono invece le variazioni attorno a lia, termine lungamente reiterato, che si congiungerà alla fine della lassa col termine Rosa, dunque di nuovo Rosalia, seguito da un chiasmo: «Rosalia, sangue mio, mia nimica, dove sei?», che contiene, per di più, una sintomatica citazione petrarchesca («De la dolce et amata mia nemica», Canzoniere, v. 2 del sonetto CCLIV «I’ pur ascolto, et non odo novella»):

Lia che m’ha liato la vita come il cedro o la lumia il dente, liana di tormento, catena di bagno sempiterno, libame oppioso, licore affatturato, letale pozione, lilio dell’inferno che credei divino, lima che sordamente mi corrose l’ossa, limaccia che m’invischiò nelle sue spire, lingua che m’attassò come angue che guizza dal pietrame, lioparda imperiosa, lippo dell’alma mia, liquame nero, pece dov’affogai, ahi!, per mia dannazione.

Corona di delizia e di tormento, serpe che addenta la sua coda, serto senza inizio e senza fine, rosario d’estasi, replica viziosa, bujo precipizio, pozzo di sonnolenza, cieco vagolare, vacua notte senza lume, Rosalia, sangue mio, mia nimica, dove sei?

Infine la terza lassa (3 sequenze) delinea, attraverso un’originalissima ekphrasis, il corpo (piuttosto il simulacro) di Rosalia:

T’ho cercata per vanelle e per cortigli, dal Capo al Borgo, dai colli a la Marina, per piazze per chiese per mercati, son salito fino al Monte, sono entrato nella Grotta: lo sai, uguale a la Santuzza, sei marmore finissimo, lucore alabastrino, ambra e perla scaramazza, mandola e vaniglia, pasta martorana fatta carne. Mi buttai ginocchioni avanti all’urna, piansi a singulti, a scossoni della cascia, e pellegrini intorno, “meschino, meschino…”, a confortare.

Ignoravano il mio piangere blasfemo, il mio sacrilego impulso a sfondare la lastra di cristallo per toccarti, sentire quel piede nudo dentro il sandalo che sbuca dall’orlo della tunica dorata, quella mano che s’adagia molle e sfiora il culmo, le rose carnacine di quel seno… E il collo tondo e il mento e le labbruzze schiuse e gli occhi rivoltati in verso il Cielo…

Rosalia, diavola, magàra, cassariota, dove t’ha portata, dove, a chi t’ha venduta quella ceraola quella vecchia bagascia di tua madre?

Ciò che sembra emergere dall’analisi dell’Inno a Rosalia è la scrittura dello slancio di un desiderio verso un oggetto femminile, forse inedito nella tradizione letteraria italiana ed europea. Alle due tradizionali Venere celeste e Venere terrestre (amor sacro e amor profano), subentra in Retablo una sola figura femminile dalle molte sfaccettature, che è al contempo idealizzata e intensamente desiderata. Ciò che il lavoro dello stile, della prosodia specialmente, rivela grazie all’accordo stabilito da un certo ritmo tra elementi verbali appartenenti a ordini linguistici differenti e perfino opposti, è l’ibridazione di queste due Veneri, ottenuta attraverso la coalescenza della corrente tenera dell’amore e della corrente sensuale del desiderio, che fa sì che i tratti ideali e i tratti erotici si intrecciano.

L’Inno a Rosalia si svolge dunque seguendo un ritmo regolare, e tuttavia interrotto da alcuni inciampi o sospensioni. Una sorta di deviazione viene così prodotta dall’irruzione allucinatoria dell’oggetto del desiderio che il Soggetto crede finalmente di potere attingere e possedere. È l’impossibile cattura di questo oggetto meraviglioso o mostruoso, che impone al tempo regolare dell’Inno di arrestarsi, per poterlo aggirare e mascherarne il vuoto per mezzo di una momentanea discordanza ritmica.

Breve estratto dal volume di Rosalba Galvagno L’oggetto perduto del desiderio. Archeologie di Vincenzo Consolo (Milella 2023), presentato a San Mauro Castelverde per il III° Festival di Poesia Paolo Prestigiacomo (25-26-27 agosto 2023).

GIUSEPPE DI MAIO INCONTRA VINCENZO CONSOLO: UNA TESTIMONIANZA INEDITA SULLE FESTE PATRONALI SICILIANE

Miguel Ángel Cuevas (Universidad de Sevilla)

Una mattina dell’agosto 2005 ho accompagnato il documentarista siracusano Giuseppe Di Maio ad un incontro con Vincenzo Consolo nella sua casa di Sant’Agata di Militello. Il regista, alle prese con le sue ricerche sulle feste patronali isolane, ne avrebbe ricavato la testimonianza dello scrittore. L’intervista-conversazione tra i due, finora inedita (e sotto trascritta), costituisce la più articolata riflessione consoliana sull’argomento; solo paragonabile ad un intervento, altrettanto azzeccato ma di portata molto minore, riguardante le fotografie sulle feste religiose di Ferdinando Scianna (Consolo 1980).
Nel 2003, Giuseppe Di Maio aveva fondato a Catania, con Alessandro Aiello, l’Associazione Documenta – Osservatorio Tradizioni Popolari, che nel 2004, con il contributo alla regia di Angelo Di Cataldo, presentò il suo primo film, Di luni s’accumincia lu ran chiantu, un lungo documentario sui lamenti della Passione nell’entroterra isolano, nell’ennese e nel nisseno,[1] che ottenne il premio al miglior documentario nel Festival Taranto Cinema 2005, da una giuria presieduta da Morando Morandini. In questo 2005 Di Maio e Aiello, allontanandosi alquanto dalla prospettiva iniziale (ma dando pure l’avvio ad un interesse che li avrebbe portati a documentare la presenza in Sicilia di svariate manifestazioni artistiche e letterarie, autoctone o meno), girano un breve filmato, 47 frammenti,[2] sulla mia omonima antologia di poesie. Riprendono subito, però, la strada iniziale per dare corso al più proficuo forse dei loro impegni: quello appunto di documentare le tradizioni popolari. Alla fine dell’anno montano Diario di viaggio. Immagini e suoni delle feste patronali in Sicilia,[3] una serie di 24 microdocumentari, a mo’ di schede, girati tra maggio 2004 e settembre 2005, in altrettanti paesi delle province di Agrigento, Catania, Enna, Messina e Siracusa. Un Viaggio a Sutera nel 2009 rinsalda l’incontro con il «suono osseo, di pietra»[4] della musica dei Fratelli Mancuso, già incrociati per De luni s’accumincia lu ran chiantu. E, nel 2011, una serie di sette mediometraggi dal titolo complessivo Pianeta Sicilia illustra l’intento culturale e antropologico su cui poggia l’operato di Documenta: «raccogliere e accostare tanti frammenti, tasselli di un ideale mosaico. […] Stravaganze e stranezze, credenze, cerimonie religiose e riti pre-cristiani si alternano in maniera caotica e magari incoerente formando per sovrapposizione un’immagine […] dell’Isola e dei suoi abitanti».[5] Fanno parte della serie, tra gli altri, i filmati sul catanese Cuntu di Peppa ’a Cannunera; sulla Casa Museo Antonino Uccello a Palazzolo Acreide; sulla Pasqua indiavolata a San Fratello, Prizzi e Adrano; ancora sui Fratelli Mancuso a Sutera o su Maria Attanasio e Caltagirone.[6] Le consonanze con alcuni degli interessi (e con taluni spunti narrativi) che testimoniano certe pagine di Vincenzo Consolo[7] e della stessa Maria Attanasio sono evidenti, così come – per quanto riguarda le feste religiose – la prospettiva che li accomuna: che, scrive l’autrice in Viaggio nel nero, vede le feste religiose come «superstite memoria – che nel sacro riscatta la violenza della storia – di transiti, invasioni, mescolanza di razze […]» (Attanasio 2005: 47).[8]
Sempre nel 2011, Documenta – questa volta è Davide Brusà l’aiuto regista di Di Maio – porta a termine il montaggio di Uocchiu di crapa. Le voci di Sciascia, presentato in anteprima nel novembre 2009 all’Università di Siviglia.[9] L’organizzazione del convegno Diverso è lo scrivere. Scrittura poetica dell’impegno in Vincenzo Consolo (Università di Catania, marzo 2013), ne affida ad Aiello e Di Maio la documentazione.[10] Gli ultimi lavori di Documenta risalgono al biennio ’13–’14, in buona misura legati all’esperienza di Viù Arti Visive:[11] sul pittore catanese Kranti. Segni di un ladro di segni;[12] sull’artista americano Philip Hipwell, Everithyng is abstract;[13] Escribir el hueco – Scrivere l’incàvo, sui versi del mio omaggio allo scultore basco Jorge Oteiza[14], tra gli altri.
Alessandro Aiello continua la sua attività nel collettivo artistico canecapovolto, fonda la Scuola fuori Norma (dove prosegue con le proprie ricerche nel campo del radiodramma, del cinema e la musica sperimentali); già docente all’Accademia di Belle Arti di Palermo, passa a insegnare in quella di Catania. Giuseppe Di Maio, da anni educatore sociale in centri pubblici d’accoglienza per ragazzi disagiati, viene invece nominato nel 2015 giudice onorario del tribunale dei minorenni cittadino.[15] Il regista siracusano è scomparso prematuramente nell’agosto 2020.
Vincenzo Consolo, quella mattina d’agosto a Sant’Agata, mordendosi con gesto caratteristico il labbro inferiore, ironico ma fermo, mi invitò a fare una passeggiata nel paese mentre loro due parlavano di quel che dovevano parlare. C’è attestazione audiovisiva di quell’incontro tra lo scrittore e il documentarista, ma non è stata mai resa pubblica.[16] La registrazione, una ventina di minuti, parte ex abrupto, senza alcuna domanda. L’inquadratura è sempre la stessa: lo scrittore seduto nel divano del soggiorno, qualche incisione antica sul muro dietro lui, e in un angolo il piccolissimo Cristo ligneo che conoscono i frequentatori della casa, trovato tra le macerie di una chiesa diroccata sui Nebrodi.[17]  Ripreso di mezzobusto, lateralmente, non guarda la cinepresa, gesticola poco, tranne quando la testimonianza finisce col diventare conversazione, momenti in cui fissa l’operatore. Eccone il montaggio verbale delle riprese: Nella mia infanzia, adolescenza, non ho memoria di particolari feste religiose, qui nel mio paese, perché è un paese giovane, e quindi si è formato, diciamo, in tempi relativamente recenti. È un paese di pescatori, di contadini, e non avevano delle grandi tradizioni di feste popolari. Ma quando ho preso consapevolezza del luogo dove abitavo, cioè della Sicilia, e ho cominciato a girare, a inoltrarmi in questi paesi dei Nebrodi, che sono dei paesi con antica storia, ho incominciato a vedere le prime feste religiose: per esempio la festa di San Fratello, dei Giudei[18], durante la Settimana Santa; e poi la festa di San Giovanni ad Alcara Li Fusi, che va sotto il nome della festa del Muzzuni;[19] la festa di San Calogero a San Salvatore di Fitalia…[20] Ma sempre qui, in questa zona dei Nebrodi. A San Marco d’Alunzio c’erano anche la festa di San Luca, la festa dell’Aracoeli, cogli incapucciai.[21] Poi, quando incominciavo a frequentare le altre parti dell’Isola, la Sicilia occidentale, la Sicilia orientale, e soprattutto quando ho conosciuto Leonardo Sciascia[22] e andavo a trovarlo a Caltanissetta, allora ho visto la festa delle Vare del Giovedì Santo. Mi ricordo che la prima volta che ho assistito a questa festa c’era, ospite, una ragazza tedesca, che stava facendo la tesi su Leonardo; abbiamo assistito da un balcone alla festa, e alla fine Sciascia ha chiesto alla ragazza: —Cosa te ne sembra?— e lei, da perfetta tedesca, ha detto: —Mi sembra un po’ troppo disordinata—. Disordinata perché questi portatori delle vare, naturalmente, alzavano un po’ il gomito, bevevano… Poi siamo andati a vedere il Venerdì Santo la festa a…
In questo momento, sorridendo, persa forse ogni minima concentrazione nel ricordo cordiale dell’amico e dell’aneddoto, taglia lo scrittore: «Ecco, mi sono inceppato, scusami». Si ferma la registrazione; riparte, e dopo un «Via!» di Di Maio, riprende Consolo: Dopo la festa chiassosa, diciamo, siamo andati il giorno dopo a vedere la processione del Venerdì Santo a Enna, che è una festa severa, con queste confraternite di incapucciati, con i simboli della Passione, che si svolgeva nel silenzio più assoluto, con queste nebbie di Enna che calavano: era veramente una visione suggestiva, una festa un po’ di tipo sivigliano, con queste tuniche bianche e questo capuccio in testa…[23] Ci accompagnava a volte, c’era con noi in queste feste il giovane Ferdinando Scianna,[24] che incominciava allora a fotografare le feste religiose, e da lì poi scaturì il libro che fecero assieme con Sciascia, appunto sulle feste religiose in Sicilia…[25] Poi, naturalmente, ho visto altre feste, la festa di Trapani, le vare bellissime, tutte monocrome in legno scolpito, del Seicento…[26]
Lo scrittore fa un breve silenzio; e continua:
Nei miei libri, questa esperienza e conoscenza delle feste religiose… Nei miei libri narrativi ma anche saggistici, ci sono pagine dedicate a queste feste. Conoscevo poi, naturalmente, i vari folcloristi siciliani, dal Pitrè a Salomone Marino e tutti gli altri. E ho trasferito, a partire dal mio primo libro, La ferita dell’aprile, il momento dello snaturamento, diciamo, e della trasformazione, nel subito dopoguerra, della festa dei Giudei di San Fratello: dove racconto che questi giudei, che erano, che rappresentavano gli antagonisti, gli uccisori di Cristo… ed erano i pastori, i contadini che recitavano questa parte, con questi costumi diavoleschi… erano gli antagonisti di una società, diciamo, più abbiente, i proprietari terrieri… Infatti, in anni lontani questi giudei diventavano anche violenti, perché compivano delle vendette, con delle catene che tenevano in mano, approfittando del fatto che erano mascherati… Ho raccontato appunto di loro, quando alle prime elezioni siciliane del ’47 sono stati portati giù, alla marina come si dice da noi, e usati per fini elettorali: insomma, questi giudei, sviliti, sono stati trasformati in propagandisti elettorali, distribuivano dei volantini per i vari candidati. E mi sembrò il primo svilimento di una tradizione popolare antichissima.[27] Poi anche in altri libri ho raccontato delle feste religiose in Sicilia, dalla Sicilia passeggiata[28] sino allo Spasimo di Palermo, in cui racconto della visita che fa il protagonista Gioacchino Martinez con la moglie a Enna, dove assistono appunto alla processione degli incapucciati del Venerdì Santo…[29] Un anno ho partecipato anch’io al Festino di Santa Rosalia, a Palermo: ho scritto un testo sulla peste di Palermo del 1623…[30]
E qui Consolo, facendo ancora un silenzio, fissa Di Maio con gli occhi spalancati, l’unica volta che questo gesto si presenta in tutta la registrazione: a sottolineare inconsapevolmente quella storia, che avrebbe dovuto essere la cornice del romanzo mai scritto, Amor sacro, del quale restano appunto quelle poche pagine pubblicate in occasione del Festino palermitano del 2000, e qualche appunto sparso qua e là; e a sottolineare, pure, e pure inavvertitamente, il proprio smarrimento: pur essendosi affidato per anni a libri e documenti letti e riletti sull’Inquisizione in Sicilia, su Fra Antonino di Mistretta, sugli ebrei isolani, sull’eresia molinista a Palermo, tra i tanti altri, cercando una saldezza di scrittura dove approdare, mai raggiunta. E procede: La scoperta della Santa sul Monte Pellegrino, insomma tutte le vicende che conosciamo, che sono fra la storia e la leggenda. Quello che sempre mi ha incuriosito è che non c’è una festa popolare per San Benedetto che viene chiamato da Palermo. È un santo questo… era figlio di uno schiavo di San Fratello, era anche lui eremita sul Monte Pellegrino, è stato beatificato. Ma quando c’era la peste a Palermo c’e stata una lotta fra francescani (questo frate era francescano) e gesuiti, per nominare, diciamo, il protettore della città. Vinsero i gesuiti, e allora fu inventata (dico inventata nel senso di inventio) la Santa Rosalia: furono scoperte le ossa sul Monte Pellegrino e quindi la Santuzza divenne la santa protettrice di Palermo. San Benedetto, sconfitto, venne dal re di Spagna esportato in Sudamerica, naturalmente con intenti politici, per tenere buone le popolazioni di colore. Questo santo è molto popolare in Argentina, in Perú, in tutta l’America Latina. E quel quartiere di Borges, che lui chiama Palermo, in effetti è San Benito de Palermo, intitolato appunto a questo santo nero, a questo santo schiavo che viene proprio da San Fratello, beatificato per il suo essere stato eremita sul Monte Pellegrino. Ecco la contrapposizione fra questo santo di colore e la Santa, Rosalia, che discendeva addirittura (perché le è stato creato un albero genealogico, suo padre si chiamava Sinibaldo), discendeva addirittura da Carlomagno, era nobile, vergine, bianca, e quindi prevalse. Dico che bisognerebbe riscoprire questi santi di colore in Sicilia, per esempio la Madonna del Tindari, i San Calogeri. Bisognerebbe veramente, in questo nostro mondo che ormai si sta trasformando, con l’arrivo di questi poveri immigrati disperati, bisognerebbe riscoprire la storia di questi santi di colore in Sicilia.[31]
Ancora uno stacco nella registrazione. E ancora il via! dell’operatore: In quest’isola dove l’uomo è solo, come ci ha insegnato Pirandello, è chiuso nella sua individualità, nella poca attesa che ha dalla parte sociale, dalla parte esterna, nella chiusura nell’ambito famigliare…, le feste religiose, come ci ha insegnato Sciascia, erano un momento di grande socialità, di aggregazione sociale, il momento in cui il siciliano usciva dalla sua solitudine e dove avveniva la comunicazione, avvenivano gli incontri, ed erano momenti assolutamente unici, e importanti anche per cercare di liberare le chiusure dell’uomo siciliano. Cogli anni poi queste feste religiose, rivedendole qualche volta come mi capita, si sono assolutamente snaturate, sono diventate molto esteriori, sono in mano alle varie pro loco… Voglio dire che i partecipanti alla festa ripetono per gli altri, sopratutto per quelli che li riprendono: finisce il momento religioso, e finisce anche il momento della comunicazione sociale, della partecipazione collettiva, e quelli che partecipano alla festa non sono più spettatori e partecipi ma, come dire, attori, attori di uno spettacolo che poi rivedranno a casa loro alla televisione. La televisione, senza demonizzarla, ma forse bisognerebbe farlo, ha trasformato la nostra vita, e quindi ormai l’individuo vive nella solitudine della sua casa, vive nei momenti di pausa, così, guardando quello che Quasimodo chiama il video della vita: io lo chiamo il video della morte. Questo nostro ormai è un paese che io chiamo telestupefatto, e i risultati poi si vedono in ogni campo, insomma, nel campo religioso ma anche politico e culturale, in ogni senso, in ogni aspetto della vita: chi non appare non è, non esiste, quindi bisogna cercare in tutti i modi di apparire, come sto facendo io in questo momento. C’è un’assoluta trasformazione che non sappiamo a cosa ci porterà: certo, a una omologazione del tutto in cui siamo immersi e che stiamo vivendo anche nel modo di esprimersi, nei modi di abbigliarsi, di vestirsi: basta guardare le nostre ragazze, i nostri ragazzi, col ventre al vento e i pantaloni sul ginocchio, il borsetto a tracolla e la testa rapata, così come hanno visto il commissario Montalbano alla televisione. C’è questo uniformarsi ai messaggi televisivi. E quindi anche le feste religiose, ahimè!, che avevano una loro verità e una loro profondità storica, ne hanno sofferto in questa trasformazione culturale.[32]
A questo punto interviene l’osservatore delle tradizioni popolari Di Maio, il documentarista delle feste patronali, e la testimonianza diviene infine conversazione, sotto l’unico sguardo attento che registra la cinepresa, quello dello scrittore Consolo: «Però —dice Di Maio—, a questo proposito ti volevo chiedere una cosa. Tra le tradizioni popolari nell’ambito siciliano, forse la festa popolare di tipo religioso è quella che invece resiste di più. I canti popolari già è difficile riscontrarli, e anche i lamenti stessi di cui abbiamo già trattato.[33] Quelli, con difficoltà resistono. Invece, ancora oggi, quasi a ogni paese, la festa popolare religiosa si mantiene. Come mai? Avresti una risposta?» «Ci devo pensare, Giuseppe —risponde lo scrittore—. Tu, come la interpreti questa qui, questa conservazione? Ci sono ormai delle piccole isole, qua e là…» «No —incalza Di Maio—, io quello che dico è che però ogni paese riesce ancora a conservare la propria festa del Santo». «Sì» —annuisce Consolo. «Quindi —prosegue l’operatore—, da un punto di vista sociale, in qualche modo, ancora il ruolo della Chiesa… io da questo punto di vista la volevo impostare… riesce ancora ad attecchire…» «Sì» —ripete lo scrittore. E continua Di Maio: «Allora, è un problema ancora di fede, nonostante tutto…» E Consolo: «Io dubito, sinceramente. Forse non lo è mai stato un fatto di fede; era un fatto, appunto, di tradizione popolare, di tradizione culturale, perché insomma… u siciliano[34] non crede in Dio, crede nei Santi» —e sorride sornione.
«Non so» —si sente la voce di Di Maio. Di nuovo uno stacco. Siamo alla conclusione delle riprese. Parla Consolo: Ricordo, col fenomeno dell’emigrazione meridionale nel nord dell’Italia, collaboravo allora con il«Tempo illustrato», un giornale molto bello dove scriveva Pasolini, Giorgio Bocca, Davide Maria Turoldo… Sono andato a fare un’inchiesta in un quartiere periferico di Milano che si chiama Pioltello Limito, dove c’era una comunità di Pietraperzia, perché c’erano le trafile del ricamo e si era formata questa comunità di pietraperziesi[35]. E lì questi siciliani avevano trasferito anche la loro festa popolare, che era quella del Venerdì Santo con il Cristo morto e con i lamenti. Si erano fatti rifare la statua come quella del paese che avevano lasciato, identica, e quindi facevano questa processione il Venerdì Santo. Il parroco a un certo punto gli impedì di fare i lamenti, dicendo: —Ma cosa è questo, questi lamenti arabi? —chiamandoli con disprezzo arabi; veramente non sopportando l’intrusione, diciamo, di una cultura, di una tradizione siciliana antichissima in questo contesto industriale di Milano, della Lombardia.[36] Fine della registrazione. Ma, tra parentesi, un’ultima postilla: come non la sopportava nemmeno, questa intrusione, pur in ben diverse chiavi e progressive, Elio Vittorini; testimone Stefano D’Arrigo[37].

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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[1] Presentato in anteprima all’Università di Aquisgrana nel gennaio 2004, in occasione di un Incontro con la cultura siciliana organizzato dal Prof. Hans Felten (trailer disponibile in https://vimeo.com/156239216).[2] Prima alla Biblioteca Comunale di Caltagirone nel luglio 2005, per la presentazione dell’antologia (edita da Altavoz, 2005) a cura di Josephine Pace.[3] Presentato in anteprima, in fase ancora di riprese e quindi di montaggio, nel corso della rassegna La paura mangia l’anima (Teatro Club, Catania, marzo 2005).[4] Sottotitolo del documentario; disponibile in https://vimeo.com/140891538. Prima al Palazzo Reburdone di Caltagirone in occasione del 4º Festival Internazionale di Poesia (dicembre 2009).
[5] Dal comunicato stampa per la presentazione di Pianeta Sicilia al cinema King Cinestudio di Catania nel febbraio 2012 ((trailer disponibile in https://vimeo.com/156239996. [6] Il documentario completo sulla scrittrice calatina disponibile in codice QR in Adamo, Cuevas 2023: 17; anche in https://www.youtube.com/watch?v=9YeqDw3nmgA. [7] Oltre a quanto ha a che fare con le feste religiose (su cui infra), cfr. la testimonianza consoliana su Antonino Uccello in La casa di Icaro [1981] (Consolo 1988: 582-589). [8] Sulla festa religiosa cfr. pure Attanasio 2000: 23-29; anche le poesie della prima sezione (Gorgo della parola infanzia) della silloge Blu della cancellazione (Attanasio 2016: 17-33), che erano state già stampate con qualche variante nel libro di fotografie sulle feste patronali di Massimo Siragusa Credi (Siragusa 2003) nel quale partecipa anche Vincenzo Consolo con il racconto Il teatro del sole (già pubblicato da Interlinea nel ’99). [9] Il documentario venne proiettato a chiusura delle giornate di studio su Leonardo Sciascia Per un ritratto dello scrittore (trailer disponibile in https://vimeo.com/156240347); cfr. Trapassi 2012. [10] Sul convegno, organizzato da Doroty Armenia, tra i primi – se non il primo – dedicato alla memoria dello scrittore scomparso l’anno precedente, cfr. Galvagno 2015. [11] Sede temporanea dell’Associazione Documenta, Viù Arti Visive apre nel centro storico di Catania nel 2013 uno spazio espositivo che per due anni ospita mostre fotografiche e pittoriche, presentazioni di libri, letture poetiche, proiezioni cinematografiche. Altri documentari del periodo: La Sicilia di Peter Waterhouse [sul poeta tedesco] (2013; trailer disponibile in https://vimeo.com/138844456; filmato completo in https://www.youtube.com/watch?v=34Pw2kyA2Ws), Quattro canti [sull’omonimo gruppo musicale] (2013; disponibile in https://vimeo.com/140886375), Percorsi siciliani. Outsider art. Viaggio alla scoperta dell’arte clandestina siciliana [2014] (trailer disponibile in https://vimeo.com/143537241). [12] Prima a Viù Arti Visive per la mostra dell’artista, dicembre 2013; disponibile in https://vimeo.com/156246106. [13] Prima alla mostra del pittore a Viù, curata da Giovanni Miraglia, aprile 2014; disponibile in https://vimeo.com/156247381. [14] Libro edito da Il Girasole, 2011. Prima del filmato a Viù nel maggio 2014 (trailer disponibile in https://vimeo.com/90202763), per la chiusura della mostra Mànnara. Operette umorali di Navamuel, con il titolo La vanga nell’aria. Poesie per Jorge Oteiza. [15] Gli appunti precedenti rendono conto inevitabilmente parziale di un’attività e di un materiale cinematografico ancora tutto da inventariare e catalogare; sarebbe auspicabile un’attenta ricognizione negli archivi personali di Alessandro Aiello e Giuseppe Di Maio, allo scopo di un’accurata ricerca sul loro lavoro di documentazione antropologica. Altri filmati di Documenta: Festa della Focara di San’Antonio Abate a Novoli (2006; trailer disponibile in https://vimeo.com/156241049), Teatrabilità (2006), Tarantafest (2007), Le donne e la guerra (2008), Santo Stefano Quisquina. Il ritorno in Wolfswagen (in Pianeta Sicilia, 2011), L’incanto. Puntalazzo (ivi), Il bastone siciliano (2012; trailer disponibile in https://vimeo.com/122986412), L’anti-Gattopardo [su Goliarda Sapienza] (2012; trailer disponibile in https://vimeo.com/122960172). [16] Ringrazio della generosa disponibilità la compagna di Giuseppe Di Maio, Mariagrazia Spedale. L’intervista-conversazione rimase inedita in attesa di un contributo – più volte richiesto e mai concesso – dalla Regione Siciliana per un film che avremmo realizzato su La Sicilia passeggiata. Allo stato di solo soggetto è rimasto pure un altro progetto comune, che riguardava un percorso cinematografico sui testi di Consolo nel suo risvolto visivo, ovvero sui riferimenti figurativi della sua opera. [17] Mi informa Claudio Masetta Milone, che cura con ammirevole zelo il sito ufficiale https://vincenzoconsolo.it/ e la casa letteraria dedicata allo scrittore nel Castello Gallego di Sant’Agata di Militello, che il Cristo (32x29x2 cm. circa), probabilmente settecentesco, è stato rinvenuto in una chiesa rasa a terra da una frana nella campagna dell’antico borgo di Castania, abbandonato tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento; restaurato, venne disposto su una lastra di cristallo (45x35x1 cm.), montata su un piccolo cubo di marmo rosso. [18] Documentata da Aiello e Di Maio nel documentario Pasqua indiavolata, in Pianeta Sicilia, cit. [19] Documentata da Diario di viaggio, cit. (riprese il 24-6-04). [20] Ivi (riprese il 20-08-05). [21] La cosiddetta festa dei Patroni a San Marco d’Alunzio porta in processione le statue di San Marco e San Nicola. Diario di viaggio documenta la festa di San Basilio (riprese il 2-8-04). [22] Sul rapporto tra i due scrittori cfr. Cuevas 2012. [23] Sullo stesso argomento, e quasi con le stesse parole, cfr. Consolo 2016b: 73s. [24] Il fotografo bagherese collaborò qualche anno dopo con Consolo in una sorta di reportage (Consolo 1969), «un racconto scandito sotto forma di otto didascalie numerate a corredo di altrettante fotografie», come scrive Nicolò Messina (Messina 2017), che ha esumato il testo come una tra le fonti di L’olivo e l’olivastro (1994). Sul rapporto tra i due si veda Consolo 1980. [25] Sciascia 1965, Il discorso di Consolo sull’argomento è mutuato in buona misura da questo scritto sciasciano: particolarmente per quel che riguarda l’interpretazione della festa dei Giudei a San Fratello, le riflessioni sulla festa religiosa come quasi unica occasione conviviale di uscita dall’isolamento coatto, o sulla non religiosità stricto sensu di tali manifestazioni nel popolo siciliano (cfr. ivi: 1162ss.). D’altronde, non è da escludere che Consolo si sia imbattuto nel saggio di Sciascia per la prima volta in quel frate Antonino da Mistretta, che tanta parte avrà nella praticamente non-scrittura dell’ultimo progettato romanzo, Amor sacro (cfr. ivi: 1150). [26] Cfr. Consolo 2009. [27] Cfr. il capitolo VIII de La ferita dell’aprile (Consolo 1963: 79-81); cfr. anche una breve sequenza del IV ne Il sorriso dell’ignoto marinaio (Consolo 1976: 202; un intero paragrafo di Conversazione a Siviglia s’intitola «La sarabanda dei giudei» (Consolo 2016b: 69s.); cfr. Pasqua indiavolata, cit.Nello stesso capitolo del romanzo d’esordio una brevissima sequenza riprende l’usanza di offrire dei soldi alle statue in processione (Consolo 1963: 82), particolare documentato in ben sei delle schede di Diario di viaggio. [28] Nell’explicit del capitolo secondo e per una gran parte di quello successivo (cfr. Consolo 1990a: 42, 45-50, 58s.). Alcuni di questi brani passano nei capitoli XI e XIII de L’olivo e l’olivastro e nel saggio La rinascita del Val di Noto [1991] confluito in Di qua dal Faro (Consolo1999) (per le procedure della manipolazione testuale cfr. Consolo 2016a: 97, 99; note 14 e 29).Alcune delle feste a cui fa riferimento Consolo sono state documentate in Diario di viaggio: San Paolo a Palazzolo Acreide (riprese il 23-6-04), la corsa dei “Nudi” per Sant’Alfio a Lentini (riprese il 10-5-04), Sant’Alfio, Cirino e Filadelfo a Trecastagni (ripreseil 10-5 del ’04 e ’05). Una filastrocca sui nomi dei tre santi ritorna nel cap. I de La ferita dell’aprile (Consolo 1963: 7). [29] Cfr. Lo Spasimo di Palermo, cap. VI (Consolo 1998: 932). [30] Cfr. i testi di Consolo, senza titolo, scanditi da apparenti sottotitoli tra cui ricompaino alcune didascalie goyesche già presenti nel cap. VII de Il sorriso dell’ignoto marinaio,nella brossura del Festino palermitano del 2000 (Consolo et. al. 2000: 13, 26-31). [31] La presenza di San Benedetto di San Fratello detto il Moro ricorre nella scrittura di Consolo, dalle Notizie che corredano il testo di Lunaria (Consolo1985: 341s), ai saggi La pesca del tonno in Sicilia [1986](Consolo 1999: 1023s.) e La retta e la spirale [1995] (Consolo 1999: 1235), al racconto Il miracolo [2000](Consolo 2012: 175-177); l’autore gli dedica diversi articoli su periodici e giornali (Consolo 1990b, 1995, 2000); compare pure nelle pagine per il Festino palermitano (Consolo et.al. 2000). In una stanza dell’appartameno milanese di Vincenzo Consolo e Caterina Pilenga era appesa un’icona raffigurante San Benedetto, opera dell’artista Beppe Madaudo (CIC esemplari numerati, interventi serigrafici e manuali ad olio su tavola preparata a gesso e colla, 60×50 cm.); il quadro si conserva nella casa letteraria del Castello Gallego nel paese natio dello scrittore (ringrazio ancora Claudio Masetta Milone per queste informazioni).Santa Rosalia (oltre a Consolo et. al. 2000., e soprattutto alla malia del nome – della santa, della fanciulla, della cantatrice, della modella – che impregna Retablo, Consolo 1987) è presente in Lunaria, sia nella favola teatrale che nelle note riportate nelle Notizie (Consolo 1985: 289, 349s., 355s.). Diario di viaggio documenta tre feste di San Calogero: due nell’agrigentino, nel capoluogo (riprese il 3-7-05) e a Naro (riprese il 8-6-04; al San Calogero di Naro assomiglia, «nerissimo di barba e pelle», frate Agrippino in Le pietre di Pantalica, Consolo 1988: 484); una nel messinese, a San Salvatore di Fitalia (riprese il 20-8-05; durante le feste per il santo in «Fitalia di montagna» si svolge parte del capitolo V de La ferita dell’aprile, Consolo 1963: 44-48); sempre in Diario di viaggio, ancora un’altra scheda documentaria sulla festa di San Cono di Naso (ME; riprese l’1-9-04), la cui statua presenta le sembianze di un gigante nero, come secondo la leggenda apparve per cacciare gli invasori turchi (sul santo e la suggestione dei nomi cfr. Il barone magico, Consolo 1988: 601). [32] Un risvolto satirico di questa riflessione nel racconto E poi la festa del patrono [1990] (Consolo 2012: 139-142). [33] Fuoricampo, c’è da supporre; ché, ripeto, non ero presente alla registrazione. [34] Così si sente nell’audio della registrazione, con l’articolo dialettale. [35] Sulla colloraborazione a «Tempo illustrato» cfr. Consolo 1993: 36; di questi reportages si legge pure nell’autobiografia appena velata del racconto E Ciro vide Anna Magnani [2008] (Consolo 2012: 228-230]). L’«inchiesta» in questione in Consolo 1970. [36] Altri testi consoliani in cui sono presenti in vario modo festività religiose: Befana di novembre [1960-70] (Consolo 2012: 11-13), Fra Contemplazione e Paradiso [1988] (Consolo 1999: 1058-1065, 1061), Il flusso perenne (Consolo 2003) Sicilia in festa (Cosolo 2007). [37] Cfr. Cuevas 2021. [Da: Coriasso, Cristina, Varela-Portas, Juan (eds.), «Con angelica voce…». Studi in onore di Rosario Scrimieri Marín, Ledizioni, Milano, 2023, pp. 293-310]
[1] Presentato in anteprima all’Università di Aquisgrana nel gennaio 2004, in occasione di un Incontro con la cultura siciliana organizzato dal Prof. Hans Felten (trailer disponibile in https://vimeo.com/156239216).[2] Prima alla Biblioteca Comunale di Caltagirone nel luglio 2005, per la presentazione dell’antologia (edita da Altavoz, 2005) a cura di Josephine Pace.[3] Presentato in anteprima, in fase ancora di riprese e quindi di montaggio, nel corso della rassegna La paura mangia l’anima (Teatro Club, Catania, marzo 2005).[4] Sottotitolo del documentario; disponibile in https://vimeo.com/140891538. Prima al Palazzo Reburdone di Caltagirone in occasione del 4º Festival Internazionale di Poesia (dicembre 2009).
[5] Dal comunicato stampa per la presentazione di Pianeta Sicilia al cinema King Cinestudio di Catania nel febbraio 2012 ((trailer disponibile in https://vimeo.com/156239996. [6] Il documentario completo sulla scrittrice calatina disponibile in codice QR in Adamo, Cuevas 2023: 17; anche in https://www.youtube.com/watch?v=9YeqDw3nmgA. [7] Oltre a quanto ha a che fare con le feste religiose (su cui infra), cfr. la testimonianza consoliana su Antonino Uccello in La casa di Icaro [1981] (Consolo 1988: 582-589). [8] Sulla festa religiosa cfr. pure Attanasio 2000: 23-29; anche le poesie della prima sezione (Gorgo della parola infanzia) della silloge Blu della cancellazione (Attanasio 2016: 17-33), che erano state già stampate con qualche variante nel libro di fotografie sulle feste patronali di Massimo Siragusa Credi (Siragusa 2003) nel quale partecipa anche Vincenzo Consolo con il racconto Il teatro del sole (già pubblicato da Interlinea nel ’99). [9] Il documentario venne proiettato a chiusura delle giornate di studio su Leonardo Sciascia Per un ritratto dello scrittore (trailer disponibile in https://vimeo.com/156240347); cfr. Trapassi 2012. [10] Sul convegno, organizzato da Doroty Armenia, tra i primi – se non il primo – dedicato alla memoria dello scrittore scomparso l’anno precedente, cfr. Galvagno 2015. [11] Sede temporanea dell’Associazione Documenta, Viù Arti Visive apre nel centro storico di Catania nel 2013 uno spazio espositivo che per due anni ospita mostre fotografiche e pittoriche, presentazioni di libri, letture poetiche, proiezioni cinematografiche. Altri documentari del periodo: La Sicilia di Peter Waterhouse [sul poeta tedesco] (2013; trailer disponibile in https://vimeo.com/138844456; filmato completo in https://www.youtube.com/watch?v=34Pw2kyA2Ws), Quattro canti [sull’omonimo gruppo musicale] (2013; disponibile in https://vimeo.com/140886375), Percorsi siciliani. Outsider art. Viaggio alla scoperta dell’arte clandestina siciliana [2014] (trailer disponibile in https://vimeo.com/143537241). [12] Prima a Viù Arti Visive per la mostra dell’artista, dicembre 2013; disponibile in https://vimeo.com/156246106. [13] Prima alla mostra del pittore a Viù, curata da Giovanni Miraglia, aprile 2014; disponibile in https://vimeo.com/156247381. [14] Libro edito da Il Girasole, 2011. Prima del filmato a Viù nel maggio 2014 (trailer disponibile in https://vimeo.com/90202763), per la chiusura della mostra Mànnara. Operette umorali di Navamuel, con il titolo La vanga nell’aria. Poesie per Jorge Oteiza. [15] Gli appunti precedenti rendono conto inevitabilmente parziale di un’attività e di un materiale cinematografico ancora tutto da inventariare e catalogare; sarebbe auspicabile un’attenta ricognizione negli archivi personali di Alessandro Aiello e Giuseppe Di Maio, allo scopo di un’accurata ricerca sul loro lavoro di documentazione antropologica. Altri filmati di Documenta: Festa della Focara di San’Antonio Abate a Novoli (2006; trailer disponibile in https://vimeo.com/156241049), Teatrabilità (2006), Tarantafest (2007), Le donne e la guerra (2008), Santo Stefano Quisquina. Il ritorno in Wolfswagen (in Pianeta Sicilia, 2011), L’incanto. Puntalazzo (ivi), Il bastone siciliano (2012; trailer disponibile in https://vimeo.com/122986412), L’anti-Gattopardo [su Goliarda Sapienza] (2012; trailer disponibile in https://vimeo.com/122960172). [16] Ringrazio della generosa disponibilità la compagna di Giuseppe Di Maio, Mariagrazia Spedale. L’intervista-conversazione rimase inedita in attesa di un contributo – più volte richiesto e mai concesso – dalla Regione Siciliana per un film che avremmo realizzato su La Sicilia passeggiata. Allo stato di solo soggetto è rimasto pure un altro progetto comune, che riguardava un percorso cinematografico sui testi di Consolo nel suo risvolto visivo, ovvero sui riferimenti figurativi della sua opera. [17] Mi informa Claudio Masetta Milone, che cura con ammirevole zelo il sito ufficiale https://vincenzoconsolo.it/ e la casa letteraria dedicata allo scrittore nel Castello Gallego di Sant’Agata di Militello, che il Cristo (32x29x2 cm. circa), probabilmente settecentesco, è stato rinvenuto in una chiesa rasa a terra da una frana nella campagna dell’antico borgo di Castania, abbandonato tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento; restaurato, venne disposto su una lastra di cristallo (45x35x1 cm.), montata su un piccolo cubo di marmo rosso. [18] Documentata da Aiello e Di Maio nel documentario Pasqua indiavolata, in Pianeta Sicilia, cit. [19] Documentata da Diario di viaggio, cit. (riprese il 24-6-04). [20] Ivi (riprese il 20-08-05). [21] La cosiddetta festa dei Patroni a San Marco d’Alunzio porta in processione le statue di San Marco e San Nicola. Diario di viaggio documenta la festa di San Basilio (riprese il 2-8-04). [22] Sul rapporto tra i due scrittori cfr. Cuevas 2012. [23] Sullo stesso argomento, e quasi con le stesse parole, cfr. Consolo 2016b: 73s. [24] Il fotografo bagherese collaborò qualche anno dopo con Consolo in una sorta di reportage (Consolo 1969), «un racconto scandito sotto forma di otto didascalie numerate a corredo di altrettante fotografie», come scrive Nicolò Messina (Messina 2017), che ha esumato il testo come una tra le fonti di L’olivo e l’olivastro (1994). Sul rapporto tra i due si veda Consolo 1980. [25] Sciascia 1965, Il discorso di Consolo sull’argomento è mutuato in buona misura da questo scritto sciasciano: particolarmente per quel che riguarda l’interpretazione della festa dei Giudei a San Fratello, le riflessioni sulla festa religiosa come quasi unica occasione conviviale di uscita dall’isolamento coatto, o sulla non religiosità stricto sensu di tali manifestazioni nel popolo siciliano (cfr. ivi: 1162ss.). D’altronde, non è da escludere che Consolo si sia imbattuto nel saggio di Sciascia per la prima volta in quel frate Antonino da Mistretta, che tanta parte avrà nella praticamente non-scrittura dell’ultimo progettato romanzo, Amor sacro (cfr. ivi: 1150). [26] Cfr. Consolo 2009. [27] Cfr. il capitolo VIII de La ferita dell’aprile (Consolo 1963: 79-81); cfr. anche una breve sequenza del IV ne Il sorriso dell’ignoto marinaio (Consolo 1976: 202; un intero paragrafo di Conversazione a Siviglia s’intitola «La sarabanda dei giudei» (Consolo 2016b: 69s.); cfr. Pasqua indiavolata, cit.Nello stesso capitolo del romanzo d’esordio una brevissima sequenza riprende l’usanza di offrire dei soldi alle statue in processione (Consolo 1963: 82), particolare documentato in ben sei delle schede di Diario di viaggio. [28] Nell’explicit del capitolo secondo e per una gran parte di quello successivo (cfr. Consolo 1990a: 42, 45-50, 58s.). Alcuni di questi brani passano nei capitoli XI e XIII de L’olivo e l’olivastro e nel saggio La rinascita del Val di Noto [1991] confluito in Di qua dal Faro (Consolo1999) (per le procedure della manipolazione testuale cfr. Consolo 2016a: 97, 99; note 14 e 29).Alcune delle feste a cui fa riferimento Consolo sono state documentate in Diario di viaggio: San Paolo a Palazzolo Acreide (riprese il 23-6-04), la corsa dei “Nudi” per Sant’Alfio a Lentini (riprese il 10-5-04), Sant’Alfio, Cirino e Filadelfo a Trecastagni (ripreseil 10-5 del ’04 e ’05). Una filastrocca sui nomi dei tre santi ritorna nel cap. I de La ferita dell’aprile (Consolo 1963: 7). [29] Cfr. Lo Spasimo di Palermo, cap. VI (Consolo 1998: 932). [30] Cfr. i testi di Consolo, senza titolo, scanditi da apparenti sottotitoli tra cui ricompaino alcune didascalie goyesche già presenti nel cap. VII de Il sorriso dell’ignoto marinaio,nella brossura del Festino palermitano del 2000 (Consolo et. al. 2000: 13, 26-31). [31] La presenza di San Benedetto di San Fratello detto il Moro ricorre nella scrittura di Consolo, dalle Notizie che corredano il testo di Lunaria (Consolo1985: 341s), ai saggi La pesca del tonno in Sicilia [1986](Consolo 1999: 1023s.) e La retta e la spirale [1995] (Consolo 1999: 1235), al racconto Il miracolo [2000](Consolo 2012: 175-177); l’autore gli dedica diversi articoli su periodici e giornali (Consolo 1990b, 1995, 2000); compare pure nelle pagine per il Festino palermitano (Consolo et.al. 2000). In una stanza dell’appartameno milanese di Vincenzo Consolo e Caterina Pilenga era appesa un’icona raffigurante San Benedetto, opera dell’artista Beppe Madaudo (CIC esemplari numerati, interventi serigrafici e manuali ad olio su tavola preparata a gesso e colla, 60×50 cm.); il quadro si conserva nella casa letteraria del Castello Gallego nel paese natio dello scrittore (ringrazio ancora Claudio Masetta Milone per queste informazioni).Santa Rosalia (oltre a Consolo et. al. 2000., e soprattutto alla malia del nome – della santa, della fanciulla, della cantatrice, della modella – che impregna Retablo, Consolo 1987) è presente in Lunaria, sia nella favola teatrale che nelle note riportate nelle Notizie (Consolo 1985: 289, 349s., 355s.). Diario di viaggio documenta tre feste di San Calogero: due nell’agrigentino, nel capoluogo (riprese il 3-7-05) e a Naro (riprese il 8-6-04; al San Calogero di Naro assomiglia, «nerissimo di barba e pelle», frate Agrippino in Le pietre di Pantalica, Consolo 1988: 484); una nel messinese, a San Salvatore di Fitalia (riprese il 20-8-05; durante le feste per il santo in «Fitalia di montagna» si svolge parte del capitolo V de La ferita dell’aprile, Consolo 1963: 44-48); sempre in Diario di viaggio, ancora un’altra scheda documentaria sulla festa di San Cono di Naso (ME; riprese l’1-9-04), la cui statua presenta le sembianze di un gigante nero, come secondo la leggenda apparve per cacciare gli invasori turchi (sul santo e la suggestione dei nomi cfr. Il barone magico, Consolo 1988: 601). [32] Un risvolto satirico di questa riflessione nel racconto E poi la festa del patrono [1990] (Consolo 2012: 139-142). [33] Fuoricampo, c’è da supporre; ché, ripeto, non ero presente alla registrazione. [34] Così si sente nell’audio della registrazione, con l’articolo dialettale. [35] Sulla colloraborazione a «Tempo illustrato» cfr. Consolo 1993: 36; di questi reportages si legge pure nell’autobiografia appena velata del racconto E Ciro vide Anna Magnani [2008] (Consolo 2012: 228-230]). L’«inchiesta» in questione in Consolo 1970. [36] Altri testi consoliani in cui sono presenti in vario modo festività religiose: Befana di novembre [1960-70] (Consolo 2012: 11-13), Fra Contemplazione e Paradiso [1988] (Consolo 1999: 1058-1065, 1061), Il flusso perenne (Consolo 2003) Sicilia in festa (Cosolo 2007). [37] Cfr. Cuevas 2021.
[Da: Coriasso, Cristina, Varela-Portas, Juan (eds.), «Con angelica voce…». Studi in onore di Rosario Scrimieri Marín, Ledizioni, Milano, 2023, pp. 293-310]

Foto Ferdinando Scianna

«Nulla è sicuro, ma scrivi»: il citazionismo etico in ‘Retablo’ di Vincenzo Consolo

di Agnese Macori

«Veritas»: è questo il titolo di una delle tre parti che compongono Retablo, romanzo pubblicato da Sellerio nel 1987.[1] Il titolo fa riferimento al termine spagnolo utilizzato per indicare un polittico, una pala d’altare composta da tre pannelli: tre infatti sono le sezioni del libro, giustapposte una all’altra, in quanto tre versioni diverse della medesima vicenda. Ma retablo è anche una citazione del Retablo de las maravillas di Cervantes, la cui trama viene dichiaratamente ripresa per farne un breve episodio incastonato tra le pagine del romanzo: il Cavalier Clerici, nobile milanese in viaggio attraverso la Sicilia, assiste per le strade di Alcamo a una truffa da parte di due artisti di strada ai danni dei loro ingenui spettatori, e si accorge che l’inganno è lo stesso sui cui si basa l’atto unico di Cervantes.[2] Ma non è questa l’unica citazione presente nel romanzo, che anzi è fittamente intessuto di riferimenti ipertestuali. Un’altra fonte importante, per esempio, individuata tra gli altri da Bellanova, è l’Italianische Reise di Goethe:

In Italianische Reise di Goethe, in particolare, Consolo coglie la ricerca di una rinascita, un cammino a ritroso verso le radici della civiltà e della cultura che ha la sua necessaria conclusione proprio in Sicilia. Qui si svelano al viaggiatore del Nord, come in una iniziazione misterica, gli straordinari prodigi dei templi e dei marmi e, in questo, l’Odissea diventa “parola viva”: attraverso l’arte figurativa gli si svela la grandezza della poesia epica antica.[3]

Per comprendere a pieno questi riferimenti ad altre opere letterarie, è utile rifarsi al saggio La metrica della memoria, in cui Consolo ripercorre brevemente la sua produzione narrativa, fornendo le coordinate per interpretare ciascuna delle sue opere, affermando, a proposito di Retablo, che «per i rimandi, le citazioni esplicite e no, per la struttura, il risultato del racconto è di un ipertesto letterario e di un palinsesto».[4] Proprio alla luce di queste considerazioni dell’autore, si rende necessario soffermarsi brevemente sulla nozione di «palinsesto» nell’uso specifico e particolare che ne fa Consolo. A tal proposito credo possa essere illuminante un aneddoto di Cesare Segre, il quale ricorda, a proposito di Lunaria:

Quando Consolo mi mise tra le mani il meraviglioso libretto, e io gli mostrai di riconoscerne alcune fonti, invece di chiudersi nell’enigma mi procurò la fotocopia dei testi cui più si era ispirato, lieto che io ripercorressi i suoi itinerari. Mai come in questo caso la letteratura cresce su se stessa, e se ne vanta. Il lettore deve partecipare, come in un gioco, all’invenzione dello scrittore.[5]

Alla base delle citazioni di Consolo vi è dunque l’idea che non si scrive mai nel vuoto, e la convinzione che «bisogna sapere con esattezza cosa ci ha preceduto e cosa si sta svolgendo intorno a noi», abbandonando qualsiasi illusoria pretesa di una letteratura ingenua e vergine.[6] Le citazioni e le riscritture sono in questo senso il segno evidente del fatto che si scrive sempre su una pagina già scritta: da qui l’idea di una scrittura palinsestica. È da notare che la nozione stessa di «palinsesto» sia una evidente assonanza al lavoro di Genette che, proprio in quegli anni, aveva tracciato un’esaustiva mappa di quella che aveva definito «la letteratura al secondo grado».[7] In particolare, dei cinque tipi di transtestualità individuate in Palimpsestes, sono due quelle che riguardano più da vicino l’opera di Consolo: l’intertestualità e l’ipertestualità. L’intertestualità viene definita come «la relazione di copresenza fra due testi», che solitamente si risolve nella «presenza effettiva di un testo in un altro»: in questa categoria rientrano la citazione, il plagio e l’allusione.[8] Mentre il termine ipertestualità fa riferimento a «ogni relazione che unisca un testo B […] a un testo A […] sul quale si innesta in una maniera che non è quella del commento»: in questa categoria molto ampia rientrano le varie forme di riscrittura o di pastiche.[9]

Le due forme di transtestualità agivano già nella prima produzione di Consolo. In particolare Turchetta, a proposito de La ferita dell’aprile, suggerisce la presenza di alcune riprese intertestuali di testi fondamentali del modernismo europeo: non solo già il titolo La ferita dell’aprile si presta a essere letto come un rimando ad «April is the cruellest month», verso incipitario di The Waste Land com’è noto, ma vengono individuate analogie strutturali e tematiche (l’educazione di un giovane in una scuola di preti) anche con A Portrait of the Artist as a Young Man di Joyce.[10]

Ma il gioco intertestuale raggiunge il suo apice in Lunaria, la cui natura di riscrittura al quadrato è segno di un mutato rapporto tra la letteratura e il mondo, nella misura in cui alla letteratura sembrano essere necessari un numero sempre maggiore di «livelli di realtà» da frapporre tra sé e il suo oggetto. L’intertestualità non si riduce però a quella che Genette ha definito ipertestualità, ma assume in Lunaria l’aspetto di un’infinita trama di citazioni a tema appunto lunario, che attinge a piene mani dalla tradizione letteraria italiana e non solo. Sono citati, e si nominano solo i casi più lampanti a una prima lettura, Dante, Ariosto, ovviamente Leopardi, ma anche Cyrano de Bergerac, Pascal, Galileo Galilei e Pirandello.[11] In Lunaria la realtà sembra essere sempre più distante e intangibile; il sogno, l’evasione letteraria, la citazione come forma di presa di distanza dal reale possono essere interpretati come chiari segni di un cedimento a istanze tipicamente postmoderne, posizione qui non accolta per motivi che cercheremo di spiegare più avanti.

In Retablo queste modalità di riscrittura diventano il fulcro stesso della narrazione, e la natura di palinsesto del romanzo non è solo riconosciuta a posteriori dallo scrittore, ma è apertamente dichiarata all’interno delle pagine del libro. Il cavalier Clerici, protagonista della vicenda, esprime infatti la convinzione che l’essenza di ogni arte sia di «essere un’infinita derivanza, una copia continua, un’imitazione o impunito furto».[12] Inoltre, quest’idea di letteratura che scrive sempre su qualcosa di già scritto è resa icasticamente in un episodio emblematico del romanzo: il cavalier Clerici, nella sua «peregrinazione» per la Sicilia, viene derubato delle sue carte e delle sue chine, con le quali avrebbe voluto disegnare le antichità di cui è alla ricerca, e con cui, soprattutto, avrebbe continuato a scrivere il diario del viaggio – dedicato alla donna amata, Teresa Blasco – che è, naturalmente, il testo che il lettore ha tra le mani. Per non interrompere la narrazione, il Cavaliere riesce a rimediare delle vecchie pergamene da un convento, sul cui verso è raccontata la storia a tinte fosche di una fanciulla dal nome Rosalia, ingannata da un frate e vendicata da un converso che si farà in seguito bandito, e sul cui recto può proseguire il suo diario. Il gioco metatestuale è portato da Consolo alle sue estreme conseguenze: e così, nella parte centrale del romanzo, si alternano effettivamente pagine scritte in corsivo, in cui sono raccontate le vicende di Rosalia, e pagine in tondo in cui prosegue il resoconto di Clerici, in quello che è un «palinsesto» nel senso letterale del termine a dimostrazione che «qualsivoglia nuovo scritto che non abbia una sua tremenda forza di verità, d’inaudito, sia la controfaccia o l’eco di altri scritti».[13]

Questo motivo dell’«infinita derivanza» e del «furto continuo» ha portato la critica a considerare Retablo «uno degli esempi più consapevoli e meglio riusciti di una via italiana alla letteratura postmoderna».[14] Flora di Legami a tal proposito ha messo in evidenza come proprio questi tratti facciano sì che «la funzione del romanzo novecentesco, e di questo in particolare, si avvicina […] a quella del teatro barocco», nella misura in cui la scrittura diviene il mezzo «con il quale si percepisce la molteplicità e il disordine dei dati oggettivi, che la macchina del romanzo ricostruisce».[15] Questo accostamento tra il postmoderno e il barocco non è nuovo – si ricorderà la celebre definizione di Eco di postmodernismo come manierismo della modernità – ed è stata più volte chiamata in causa per definire l’opera di Consolo nella sua totalità, e di Retablo in particolare. Se Traina fa riferimento a Lunaria e Retablo come a un «dittico barocco», forse la definizione migliore del secondo elemento del «dittico» rimane quella proposta da Sciascia, che lo ha definito «un delirio barocco riflesso in uno specchio illuministico».[16] Per comprendere questa definizione apparentemente paradossale occorre soffermarsi brevemente sulla struttura e sul contenuto del romanzo.

L’elemento illuministico è facilmente identificabile: la vicenda è ambientata nel Settecento e il protagonista è un pittore milanese, appartenente alla cerchia dei fratelli Verri e di Cesare Beccaria, suo rivale in amore. Proprio perché la parte centrale del romanzo non è nient’altro che il diario del suo viaggio in Sicilia, la narrazione è filtrata dal suo occhio di intellettuale illuminista, con tanto di citazioni da Rousseau e accorati appelli contro la tortura e la pena di morte.[17] Lo spirito razionalista di Clerici si manifesta in tutto il racconto, a partire dal suo infelice amore per donna Teresa, sul quale cerca sempre di tenere uno sguardo sereno e misurato, facendo da contraltare al furor amoris di Isidoro, il fraticello smonacato che lo accompagna nel suo viaggio. È stato notato come, in questa parte centrale del romanzo, «invertendo lo schema diegetico ariostesco in cui un chierico, Turpino, narrava la furia del cavaliere Orlando – il cavaliere Fabrizio narra le penose conseguenze della passione del fraticello “che per amor venne in furore e matto”».[18]

Il romanzo, sebbene il diario di Clerici ne costituisca la parte centrale, nonché la più corposa e articolata, è in realtà – come si è detto – tripartito, e a ognuna delle tre sezioni corrisponde un diverso narratore che fornisce la sua versione dei fatti: da cui deriva appunto il titolo Retablo.  Dunque la prima parte, «Oratorio», è il racconto, portato avanti da frate Isidoro, del suo amore per una giovane ragazza del popolo di nome Rosalia (che, nonostante alcune somiglianze non è la Rosalia della pergamena su cui scrive Clerici), per la quale ha smesso la veste monacale. Al fine di guadagnare i soldi necessari a sposare la ragazza, Isidoro accetta di accompagnare Clerici, incontrato per caso al porto, nel suo viaggio ma, ritornato a Palermo dopo qualche settimana, scopre che la sua Rosalia lo ha abbandonato, e, riconosciutene le fattezze in una statua (non a caso, allegoria della Verità), impazzisce di dolore. La Rosalia amata da Isidoro, divenuta cortigiana, è la modella da cui effettivamente lo scultore Serpotta si ispira per la sua statua, e il povero frate, ignaro di tutto, riconoscendo i tratti della fanciulla, «davanti a la Verità, divenne matto». Ma proprio perché incarnata da Rosalia, personaggio sfuggente e inafferrabile, che inganna e mente, la sovrapposizione tra i due volti assume valore antifrastico, mostrando che la verità, per quanto possa essere «bella», sia una vana chimera, la cui ricerca non può che rimanere frustrata.[19] La terza parte «Veritas» è lo speculare racconto di Rosalia, la quale, venuta a conoscenza delle disgrazie occorse al povero Isidoro, gli scrive per dirgli addio, spiegando che, sebbene non abbia mai smesso di amarlo, ormai vive come cortigiana a palazzo ed è prossima a partire per una tournée come cantante d’opera.

Le tre tavole che formano il Retablo sono quindi tre punti di vista sulla medesima storia, che viene però raccontata da prospettive diverse che si integrano a vicenda.[20] Se infatti Isidoro liquida in poche parole le settimane di viaggio, da lui intrapreso solo nell’ottica di tornare al più presto a Palermo dalla sua amata Rosalia, quel medesimo viaggio viene raccontano nei minimi dettagli dal Cavalier Clerici, che al contrario annota solo di sfuggita la scena di disperazione di Isidoro di fronte all’allegoria della Verità. Il romanzo si configura quindi come un gioco di specchi decisamente barocco, in cui la medesima vicenda assume connotati differenti in funzione del punto di vista da cui è osservata, e in cui anche la Veritas è una immagine illusoria dinnanzi alla quale la ragione può venire meno. La moltiplicazione prospettica dei punti di vista è l’elemento strutturale forte da cui prende le mosse l’intero impianto romanzesco. Il gioco degli sguardi ricorda al lettore come ogni narratore sia inevitabilmente inattendibile in quanto portatore di uno sguardo parziale, che si focalizza su aspetti che, visti da una differente prospettiva, sono assolutamente marginali e trascurabili. Come è stato giustamente notato, «Retablo avrebbe quindi la funzione di rappresentare la realtà non nel senso di una manierata mimesi, ma in quello di un avvertito e moderno racconto iconico. Il retablo diventa dunque una metafora dell’arte, della sua inadeguatezza a rappresentare il reale in maniera univoca e attendibile».[21]

Ma il barocchismo del romanzo raggiunge il suo vertice a livello stilistico, in una lingua che, su una base di italiano sostenuto e arricchito da arcaismi, atti a simulare quello settecentesco dei personaggi, innesta virtuosismi, citazioni nonché innumerevoli inserti metrici. Sono numerosi i passi che sarebbe possibile riscrivere in versi, ottenendo serie endecasillabiche, con sporadici inserti settenari, sul modello della canzone leopardiana.[22] Si veda ad esempio, nelle prime pagine del diario di Clerici: «Mosse la carrozza dal mio albergo / nel crepuscolo incerto del mattino, / io dentr’a la vettura col valletto / e l’altri due di fora uno a cavallo / come caporedina e l’altro a terra / come palafrenero / armati si schioppi e di terzette./ I passi nel silenzio delle bestie, / il dondolio di cuna lo stridere / monotono dei cuoi, precipitaro / nel sonno, se mai n’uscì levandosi / il povero Isidoro».[23] O ancora l’incipit «Ga/i/gian/net/ti e/ no/vi/ let/ti/ca/ri», che peraltro riprende il verso dantesco «Novi tormenti e novi tormentati».[24] O, per rimanere nelle citazioni della più alta poesia italiana: «E sedendo e mirando, e ascoltando»,[25] in cui il calco leopardiano è talmente evidente da non dover essere esplicitato (a cui sono da aggiungere anche calchi montaliani, e specificamente da Ossi di seppia e Occasioni).[26]   

Fin dal vertiginoso incipit, lunghissima invocazione di Isidoro alla donna amata, lo stile si impone come protagonista indiscusso del romanzo, in un gioco di suggestioni e di assonanze che fin da subito annulla la funzione referenziale della parola, per restituirle il suo ruolo poetico e evocativo primario:

Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha róso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia. Poi il tramonto, al vespero, quando nel cielo appare la sfera d’opalina, e l’aere sfervora, cala misericordia di frescura e la brezza del mare valica il cancello del giardino, scorre fra colonnette e palme del chiostro in clausura, coglie, coinvolge, spande odorosi fiati, olezzi distillati, balsami grommosi. Rosa che punto m’ha, ahi!, con la sua spina velenosa in su nel cuore.[27]

Per questo inizio tutto giocato sul nome nella donna amata è stato giustamente chiamato in causa il celeberrimo incipit di Lolita, ma, e non è niente di più che una suggestione, un simile gioco sul termine «rosa», e sul suo ruolo centrale nella storia della letteratura italiana, era stato accennato anche da Eco nelle sue postille a Il nome della rosa.[28] Queste righe sono inoltre rivelatrici anche della propensione di Consolo per la paratassi, e per quelle «enumerazioni a catena» che vengono da lui ricondotte a «un bisogno di realismo», in quanto, eliminati i passaggi sintattici, diventa possibile isolare il sostantivo «che indica immediatamente la cosa».[29]

È questo un passaggio su cui occorre soffermarsi: quando Consolo afferma che il suo «bisogno di realismo» viene appagato dal sostantivo isolato, sta implicitamente dando una definizione ontologica della sua scrittura. E, sia detta come precisazione metodologica, nel momento in cui si chiarisce il rapporto di un autore con la realtà, si definiscono anche le sue implicazioni con la nozione di verità, e quindi, nel caso di Consolo, la sua eventuale collocazione nell’alveo del postmodernismo. Appare evidente come il termine «realismo» venga inteso da Consolo in un’accezione particolare, che di sicuro non fa riferimento a quella dominante nella seconda metà dell’Ottocento e rivitalizzata, almeno in Italia, tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta del Novecento. Eppure, anche assumendo con cautela «uno degli ‘ismi’ più ambigui e controversi di tutta la cultura occidentale, la cui imprecisione nomenclatoria è direttamente proporzionale alla quantità e alla varietà dei fenomeni che intende rubricare», è difficile comprendere in che senso lo stile elencatorio di Consolo possa essere ricondotto nell’alveo del realismo.[30] Se è vero che, per dirla con Pellini, «a diverse idee di realtà corrispondono diversi realismi», occorre allora in primo luogo capire quale sia la nozione di realtà a cui lo scrittore fa riferimento.[31]

Spostando il baricentro del discorso dai generi letterari a un livello più propriamente ontologico, si può dire che il realismo di Consolo, per cui il nome designa «immediatamente» l’oggetto a cui si riferisce, sembra indagare soprattutto la natura del rapporto tra le parole e le cose. Se il romanzo di Eco – sette anni prima – si chiudeva con il trionfo del nominalismo e con l’accettazione, tipicamente postmoderna, di un’assoluta alterità tra i «nudi nomi», convenzionali ed effimeri, e la realtà, il tentativo quasi ossessivo di Consolo di definire il suo oggetto con lunghissimi elenchi di sostantivi, può al contrario essere letto come sintomo di una perdurante fiducia nelle possibilità del linguaggio di afferrare e dire l’oggetto, la cosa in sé. In quest’ottica il realismo è quindi da intendersi nel senso di una concezione forte della parola, che, per quanto convenzionale, ha ancora un rapporto diretto con il suo oggetto, e può – e deve – dire qualcosa di esso. Infatti, se da una concezione assolutamente nominalista del linguaggio, per cui questo non ha un legame forte con la realtà, discende la logica conseguenza che la letteratura, proprio in quanto artificio linguistico, non può avere nessun appiglio sul «mondo non scritto», una concezione realista può al contrario condurre a esiti di maggior impegno sul reale, o quantomeno a una problematizzazione, anche sofferta, del valore della parola scritta. Appare quindi evidente come Consolo non possa in alcun modo essere accostato a un postmodernismo per cui la letteratura è un gioco su sé stessa e con sé stessa, e per cui la parola non ha più nessun contatto con il reale.

È proprio questa riflessione della letteratura su sé stessa a rappresentare il filo rosso di tutta la narrativa di Consolo; e Retablo, pur nella sua apparenza di «svago affabulativo» e di «vacanze rispetto agli altri, più esplicitamente impegnati romanzi», è, secondo Traina, il frutto più maturo di una questa meditazione letteraria condotta alla luce del «confronto costante fra storia e metafisica, tra destini collettivi e privati».[32] Ancora una volta, come avveniva nel Sorriso, in cui Consolo lasciava la parola al Barone Mandralisca, il demandare l’atto narrativo a uno dei personaggi consente la rappresentazione della scrittura nel suo farsi e la conseguente apertura a riflessioni metanarrative nonché a definizioni di campo quasi programmatiche. Clerici, nello scrivere il suo diario indirizzato a Teresa Blasco, si interroga innanzitutto su quale debbano essere gli argomenti accolti nel suo racconto:

Ma pure lo scrivente, io stesso intendo, che mi riprometto d’osservare, di disegnare e riprodurre le sole antichitate, ogni residuo o testo di remoto o evo, quieto e fermo, bagnato dall’incantanto e smemorante, dall’estatico mare metafisico, non posso qualche volta dispensarmi di guardare immagini attuali, di vita bruta, dolente e indecorosa.[33]

Nell’opposizione dell’«estatico mare metafisico» alla «vita bruta» è racchiusa quella tensione tra ricerca stilistica e impegno etico, che Turchetta ha indicato come motore primo di tutta la narrativa di Consolo.[34] Per quanto in Retablo prevalga effettivamente un concezione della letteratura come consolazione e fuga dal vivere quotidiano, esemplificata da alcune riflessioni di Clerici sulla scrittura come sogno, la storia, nella sua drammaticità, non può essere completamente esclusa dalla narrazione.[35] E la storia entra nel racconto in forma duplice, come è proprio dei romanzi storici (Retablo essendo anche un romanzo storico): da un lato sono infatti i tempi in cui svolge la vicenda ad essere sottoposti a critica («peggiori di quanto noi pensiamo sono i tempi che viviamo!» esclama a un certo punto il narratore), ma ancora una volta è la contemporaneità di Consolo che emerge, metaforizzata e nascosta dietro i velami della distanza cronologica. È già stato da altri notato, per esempio, come l’invettiva di Clerici contro la Milano settecentesca sia anche un’allusione alla «Milano “da bere” degli anni Ottanta e dell’era Craxi, cioè di un presente di superficialità, consumismo e corruzione».[36]

È tuttavia innegabile che il nucleo tematico forte di Retablo non sia più da ricercare nelle riflessioni sui destini collettivi, o nell’indagine dei rapporti di egemonia culturale tra le diverse classi sociali, ma sia, evidentemente, l’amore, autentico motore di tutte le azioni del romanzo. Anche il razionalista Clerici, dietro il sorriso olimpico, cela un grumo di sofferenza amorosa, per fuggire il quale ha intrapreso il suo viaggio erudito.[37] È lo stesso Consolo ad ammettere che «Fabrizio Clerici è la rivendicazione di quanto l’ideologia politica non poteva comprendere e contemplare: i sentimenti umani».[38] Il ritorno al privato non è in alcun modo negato e, anzi, sembra anche in questo caso essere accolto con un certo sollievo, ma non è mai portato avanti in chiave intimistica o psicologica. Proprio la natura di palinsesto del romanzo mette in salvo da un eccesso di intimismo e fa sì che la rivitalizzazione del motivo amoroso avvenga sotto l’egida dei grandi modelli della tradizione letteraria italiana e non solo: sono chiamati in causa Boiardo, Ariosto, Shakespeare, massimi interpreti di quell’amore che è «inseguimento vano, è inganno e abbaglio, fuga notturna in circolo e infinita, anelito mai sempre inappagato»; sono inoltre evocati i sempre presenti Dante, Petrarca e Leopardi, le citazioni dai quali non si contano, ma anche il Cyrano di Rostand e alcune novelle del Decameron.

La chiusura della stagione dell’engagement aveva definitivamente svincolato gli scrittori dall’obbligo morale di una letteratura in grado di agire direttamente sulla realtà. A questa mutata situazione Consolo non reagisce però con una reazionaria chiusura della scrittura su sé stessa, ma, proprio perché ormai libero da qualsiasi istanza ideologica proveniente dall’esterno, giunge alla consapevolezza che «lo scrittore deve fare il proprio mestiere, fino in fondo, senza compromessi: solo così la scrittura può guadagnare lo spessore etico adeguato alle proprie aspirazioni, conoscitive non meno che estetiche».[39] Nel momento in cui la letteratura è di nuovo solo letteratura, può effettivamente interrogarsi sul suo valore e sulle sue possibilità. E questa riflessione nulla concede all’autocompiacimento dell’arte per sé stessa, se si pensa all’episodio del giovinetto di Mozia, che si conclude con queste parole: «Ma tu, squisita fattura d’uomo, fiore d’estrema civiltà, estrema arte, tu, com’ogni arte, non vali la vita, un fiato del più volgare o incolto, più debole o sgraziato uomo».[40]

La medesima alterità profonda tra arte e vita è dichiarata a chiare lettere da Consolo nelle ultime pagine di Retablo, in cui don Gennaro, il protettore di Rosalia, grande artista, cantate lirico di fama mondiale, ma, proprio per questo, castrato, esprime tutto il suo rimpianto per un’esistenza vissuta da spettatore:

Siamo castrati, figlia mia.[…] Siamo castrati tutti quanti vogliamo rappresentare questo mondo: il musico, il poeta, il cantore, il pintore… stiamo ai margini, ai bordi della strada, guardiamo, esprimiamo, e talvolta, con invidia, con nostalgia struggente, allunghiamo la mano per toccare la vita che ci scorre davanti.[41]

Sebbene l’arte sia altro rispetto alla vita, e sebbene anche la scrittura sembri tendere irrimediabilmente verso il silenzio, la posizione di Consolo, ancora a questa altezza cronologica, rimane quella di una concezione etica della letteratura, costantemente tesa ad afferrare il mondo, seppur consapevole dell’inevitabile sconfitta. Ha pertanto ragione dunque Turchetta quando afferma che

Consolo non smette mai di essere scrittore profondamente etico, che muove dalla percezione, intimamente tragica, profondissima, e patita fino allo spasimo, del proprio essere scrittore come una limitazione, una condizione fatalmente segnata da un non medicabile distacco dal mondo: un modo che pure egli intende cambiare, denunciandone senza sosta l’ingiustizia e la violenza.[42]

D’altro canto Martinengo ha potuto notare come nella produzione consoliana «la sperimentazione linguistica [sia] il corrispettivo letterario della fiducia dell’autore nel ruolo civile e sociale della letteratura e dei letterati; i picchi della sperimentazione si raggiungono nei momenti in cui questa fiducia è massima».[43] In questo senso si può affermare che Retablo rappresenta un momento di medietas stilistica, in cui i picchi sono presenti (si pensi al già citato incipit), ma vengono immediatamente ricondotti a una scrittura certamente meno sperimentale rispetto a quella del Sorriso, ma comunque ancora impegnata in un confronto corpo a corpo con il reale.

In conclusione, possiamo affermare che è necessaria una sofferta indagine della scrittura su sé stessa, affinché questa possa prendere autocoscienza di sé e, non più succube di obblighi morali, assumere una piena e coerente consapevolezza etica: ricorda Adamo che «Consolo non credeva nell’innocenza dell’arte: gramscianamente sosteneva che bisogna sempre sapere da dove si parte per sapere dove si vuole andare».[44] In questo senso si è potuto parlare di «aperta politicità e senso di colpa dell’intellettuale, sempre abitato dalla sofferta consapevolezza della sua distanza dall’azione reale», consapevolezza che avvicinerebbe Consolo ad alcune riflessioni di Sereni e Fortini.[45] Di fronte alla scoperta che «la poesia / non muta nulla», la risposta di Consolo sembra infatti essere la medesima formulata da Fortini, in un imperativo categorico che non ammette repliche: «nulla è sicuro, ma scrivi».[46]

SINESTESIEONLINE SUPPLEMENTO DELLA RIVISTA «SINESTESIE» XI, n. 37, 2022


[1] V. Consolo, Retablo, Sellerio, Palermo 1987, ora in V. Consolo, L’opera completa, a cura di G. Turchetta, Mondadori, Milano 2015.
[2] «L’invenzione di far veder nel quadro ciò che si vuole, dietro ricatto d’essere, se non si vede, fortemente manchevole o gravato d’una colpa, non mi sembrò originar da loro. E mi sovvenni allora ch’era la trama comica de l’entremés del celebre Cervantes, intitolato appunto El retablo de las maravillas, giunto di Spagna in questa terra sicola e dai due fanfàni trasferito dalla finzione del teatro nella realitate della vita per guadagnar vantaggi e rinomanza.» (V. Consolo, L’opera completa cit., p. 397).
[3] A. Bellanova, Un eccezionale Baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo, Mimesis, Milano-Udine 2021, p. 190.
[4] V. Consolo, La metrica della memoria, in La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo, a cura di G. Adami, Manni, San Cesario di Lecce 2006, pp. 177-189.
[5] C. Segre, Un profilo di Vincenzo Consolo, in V. Consolo, L’opera completa cit., p. XV.
[6] S. Gentili, Letteratura, storia e realtà. Conversazione con Vincenzo Consolo, in «Bollettino di italianistica», Carocci, anno V, n. 2, 2008, p. 70.
[7] G. Genette, Palimpsestes. La littérature au second degré, Éditions du Seuil, Parigi 1982.
[8] Ivi, p. 5. [9] Ivi,pp. 7-8.
[10] G. Turchetta, Da un luogo bellissimo e tremendo, in V. Consolo, L’opera completa, cit., p. XXXVIII. Sul rapporto tra Consolo e Dedalus si veda anche M. Martinengo, Il debito modernista di Vincenzo Consolo: ‘La ferita dell’aprile’ e ‘Dedalus’, in La funzione Joyce nel romanzo italiano, a cura di M. Tortora, A. Volpone, Ledizioni, Milano 2022.
[11] Sui riferimenti intertestuali in Lunaria si vedano: C. Segre, Teatro e racconto su frammenti di luna, in Id., Intrecci di voce. La polifonia nella letteratura del Novecento, Einaudi, Torino 1991; N. Messina, ‘Lunaria’ dietro le quinte, in  Lunaria vent’anni dopo, a cura di I. Romera Pintor,Generalitat Valenciana-Universitat de València, Valencia 2006 pp. 179 – 191; I. Romera Pintor, Introduzione a Lunaria: Consolo versus Calderón, in La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo cit., Manni, San Cesario di Lecce 2006, pp. 177-189; P. Baratter, ‘Lunaria’: il mondo salvato dalla luna, in «Microprovincia, n. 48, 2010, pp. 85-93.
[12] V. Consolo, Retablo, cit., p. 398.
[13] Ivi, pp. 421-423.
[14] G. Traina, Vincenzo Consolo, Cadmo, Fielsole 2001, p. 82.
[15] F. Di Legami, Vincenzo Consolo. La figura e l’opera, Pungitopo, Marina di Patti 1990, p. 43.
[16] L. Sciascia, Il sogno dei Lumi tra Palermo e Milano, in «Corriere della Sera», 18 dicembre 1987 (citato in F. Di Legami, Vincenzo Consolo cit. p. 43). [17] Cfr. ad esempio la seguente citazione: «Fu allora che m’accorsi, dal
punto alto ove mi trovava, che sotto, confusi tra merce d’ogni ragione, erano istromenti strani e paurosi. Istromenti giudiziali di tortura e di condanna, gabbie di ferro ad altezza d’uomo, tine che si rivelano per gogne, e ruote infisse al capo delle pertiche, e letti e croci, tutti di ferro lustro e legno fresco e unto. Il più tristo era poi lo stipo d’una gran porta issato su un palchetto, porta di grossi travi incatramati, vuota contro la vacuità celestiale, alta sul ciglio della prora, le grosse boccole pendenti per i cappi ch’ogni piccola onda o buffo facea sinistramente cigolare. […] La vision di quegli ordegni bruti sulla plancia farebbe inorridire, al par di me, e indignare i fratelli Verri e il giovin Beccaria, vostro divoto amico e ammirante.» (V. Consolo, Retablo cit., p. 381).
[18] N. Izzo, Nello scriptorium barocco di Vincenzo Consolo: riprese e ribaltamenti letterari in Retablo, in «reCHERches» [Online], 21, 2018, online dal 05 ottobre 2021, p. 116.
[19] V. Consolo, Retablo cit., p. 465.
[20] A proposito di questa moltiplicazione dei punti di vista, interessante è l’osservazione di Bisanti, che ha notato come «la pluralizzazione dei punti di vista e delle verità possibili avvenga proprio a partire dalle varie figure di donne sedotte o seduttrici, che sembrano confluire in un volto solo: quando infatti Clerici si accinge a disegnare un profilo di donna che nelle sue intenzioni dovrebbe ritrarre l’amata Teresa Blasco, don Vito vi riconosce la Rosalia per amor della quale aveva ucciso il seduttore fra’ Giacinto, mentre Isidoro è convinto che si tratti della propria Rosalia. Il fulcro su cui convergono tutti questi percorsi sono dunque le fattezze, ma soprattutto il nome di Rosalia, personaggio dall’identità fluttuante e incerta.» (in T. Bisanti, Seduzione amorosa e seduzione artistica in ‘Retablo’ di Vicenzo Consolo, in «Cahiers d’études italiennes», 5, 2006, pp. 62-63).
[21] A. Chmiel, Rompere il silenzio. I romanzi di Vincenzo Consolo, Wydawnictwo Uniwersytetu Śląskiego, Katowice 2015, pp. 64-65.
[22] Sul rapporto tra la prosa consoliana e la poesia si veda M. Attanasio, Struttura-azione di poesia e narratività nella scrittura di Vincenzo Consolo, in «Quaderns d’Italià», 10, 2005, pp. 19-30, in particolare: «Una vera e propria “struttura-azione” di poesia potentemente interviene a costituire il corpo stesso della narratività di Vincenzo Consolo, restringendo gli spazi di comunicazione, dissolvendo ogni ordinata sequenzialità di tempi e di sintassi, travalicando ogni rigida separazione tra i generi; ed emergendo in punte espressive — disancorate dalla narrazione — con due difformi e spesso simultanei riporti: tragico nei confronti della storia, lirico nei confronti della natura; una dimensione, quest’ultima, vissuta quasi con un senso di imbarazzo dalla coscienza etica e ideologica dell’autore, che ne teme la smemorante e avvolgente bellezza fuori dalla storia» (p. 21).
[23] V. Consolo, Retablo cit. p. 382.          
[24] Ivi, p. 400. [25] Ivi, p. 415.
[26] Ivi, pp. 442-443. Per i rimandi montaliani mi permetto di rimandare a quanto ho già scritto in A. Macori, Tra modernismo e postmoderno. Echi montaliani in Retablo, in «Mosaico italiano», n. 213, agosto 2022, pp. 12-15. [27] V. Consolo, Retablo cit., p. 369.
[28] «L’idea del Nome della rosa mi venne quasi per caso e mi piacque perché la rosa è una figura simbolica così densa di significati da non averne quasi più nessuno: rosa mistica, e rosa ha vissuto quel che vivono le rose, la guerra delle due rose, una rosa è una rosa è una rosa è una rosa, i rosacroce, grazie delle magnifiche rose, rosa fresca aulentissima» (U. Eco, Postille al nome della rosa, Bompiani, Milano 2010, p. 508).
[29] S. Gentili, Letteratura, storia e realtà. Conversazione con Vincenzo Consolo cit., p. 72.
[30] F. Bertoni, Realismo e letteratura. Una storia possibile, Einaudi, Torino 2007, p. 17.
[31] P. Pellini, Realismo e sperimentalismo, Il modernismo italiano, a cura di M. Tortora, Carocci, Roma 2018, p., 138.
[32] G. Traina, Vincenzo Consolo cit. p. 79.
[33] V. Consolo, Retablo cit. p. 399.
[34] G. Turchetta, Vincenzo Consolo, in Il romanzo in Italia. vol. IV – Il secondo Novecento, a cura di G. Alfano, F. de Cristofaro, Carocci, Roma 2018, p. 356.
[35] «Perché viaggiamo, perché veniamo fino in questa isola remota, marginale? Diciamo per vedere le vestigia, i resti del passato, della cultura nostra e civiltate, ma la causa vera è lo scontento del tempo che viviamo, della nostra vita, di noi, e il bisogno di staccarsene, morirne, e vivere nel sogno d’ère trapassate, antiche, che nella lontananza ci figuriamo d’oro, poetiche, come sempre è nell’irrealtà dei sogni, sogni, intendo, come sostanza dei nostri desideri. Mai sempre tuttavia il viaggio, come distacco, come lontananza dalla realtà che ci appartiene è un sognare. E sognare è vieppiù lo scrivere, lo scriver memorando del passato come sospensione de presente, del viver quotidiano» (V. Consolo, Retablo cit., p. 413).
[36] G. Turchetta, Il luogo della vita: una lettura di ‘Retablo’, in Visitare la letteratura. Studi per Nicola Merola, a cura di G. Lo Castro, E. Porciani, C. Verbaro, ETS, Pisa 2014, p. 650.
[37] «Ah, doña Teresa, cos’è mai questa febbre malsana dell’innamoramento, quest’insania, questo furore che riduce l’uomo, come quel paladin famoso a nuda e pura bestia, privato vale a dire del cervello, che come colombella o essenza sublimata se n’è volato al cielo, alle silenti valli della luna! Io avvertii il male al suo apparire, come s’avverte il sole al primo rosseggiar dell’aurora, e assunsi subito il mio contravveleno del viaggio, laonde posso serenamente stendere per voi le note che qui stendo, e nel contempo parlare serenamente dell’amore. Siete felice voi, o mia signora, siete felice?» (V. Consolo, Retablo cit., p. 393).

[38] S. Gentili, Letteratura, storia e realtà. Conversazione con Vincenzo Consolo cit., p. 73.
[39] G. Turchetta, Da un luogo bellissimo e tremendo, in V. Consolo, L’opera completa cit., p. XXIX.
[40] V. Consolo, Retablo cit., p. 453.
[41] Ivi, p. 473.
[42] G. Turchetta, La letteratura come nostalgia della vita. ‘Retablo’ di Vincenzo Consolo, in Sguardi sull’Asia e altri scritti in onore di Alessandra Cristina Lavagino, a cura di C. Bulfoni, E. Lupano, B. Mottura, LED, Milano 2017, p. 349.

[43] M. Martinengo, Quando teoria e prassi non vanno all’unisono. Sperimentazione formale e impegno civile nell’opera di consolo, in «L’Ellisse», XV, 2020, 2, p. 134.
[44] G. Adamo, Ricordo di Vincenzo Consolo, in «Italica», Winter 2012, Vol. 89, n. 4, p. V.
[45] Ibidem
[46] F. Fortini, Traducendo Brecht, in Una volta per sempre [1963], ora in F. Fortini, Opere, Mondadori, Milano 2014, p. 238.

Vincenzo Consolo. La storia, il mito, l’impegno (II)