Rosalba Galvagno
La critica considera abitualmente Retablo, il romanzo di Vincenzo Consolo uscito nel 1987, come un libro di viaggio. Consolo d’altronde si era ispirato a un viaggio fatto in Sicilia nel 1984 insieme a Renato Guttuso, Fabrizio Clerici, Sebastiano Burgaretta e altri artisti e intellettuali, tutti invitati a un importante matrimonio. In una conferenza tenuta all’Accademia di Belle Arti a Perugia il 23 maggio del 2003 Consolo affermerà che proprio da un: «Pittore straordinario, intelligente e raffinato mi è venuta l’idea di trasferire nel ’700 il mio Fabrizio Clerici e il trasferimento significava che volevo scrivere un libro che non avesse una matrice storica, ma che fosse una fantasia, fosse un viaggio in una Sicilia ideale».
Retablo si rivela infatti essere il racconto del sogno di un viaggio, che obbedisce alla dinamica originaria del sogno, dinamica centrata, com’è noto, su un punto cieco che Freud ha denominato l’ombelico del sogno, e da dove nasce, si compone e si articola la rappresentazione. Da questa prospettiva il personaggio di Rosalia, la protagonista di Retablo, non è che l’oggetto di un sogno (secondo le parole del testo di «un sogno angustiante»), oggetto del desiderio inseguito da frate Isidoro lungo tutta la narrazione. E questo fin dal prologo che ho scelto di intitolare Inno a Rosalia. D’altronde Fabrizia Ramondino legge l’intero Retablo come «un’ode alla Sicilia».
Retablo è diviso, come un ideale trittico, in tre portelli rispettivamente intitolati Oratorio Peregrinazione, Veritas, e narra le peripezie dell’artista milanese Fabrizio Clerici e della sua guida Isidoro, un monaco del convento della Gancia, nella Sicilia del XVIII secolo (1760-1761 circa). Ciò che spinge al viaggio questi due personaggi è fondamentalmente una pena d’amore, Fabrizio avendo lasciato Milano per allontanarsi dalla donna amata Teresa Blasco e mettersi, curiosamente, alla ricerca delle origini siciliane di quest’ultima. Isidoro costretto ad allontanarsi da Rosalia avendo rubato, per amor suo, il denaro ricavato dalla vendita delle Bolle dei Luoghi Santi.
In Retablo ci sono due riferimenti letterari a due Inni greci antichi, ad Asclepio e a Demetra, donde la mia scelta del termine Inno inteso come la forma più arcaica dell’invocazione rivolta all’Altro ossia, con le parole di Retablo: alla «Madre e alla Figlia».
Mi limiterò qui a illustrare soltanto questo Inno caratterizzato da un singolare e inconfondibile ritmo poetico. Ora, il ritmo della prosa consoliana è certamente prodotto dall’ordine sintattico delle parole, ma anche dal loro ordine prosodico e metrico, dall’inserzione di versi endecasillabi specialmente, e perfino dalla disposizione fonetica delle parole, cioè dalla materialità dei timbri e dei suoni, in breve da ciò che si potrebbe definire una fonetizzazione generalizzata della scrittura. Sempre nella Conferenza prima citata Consolo afferma: «La mia scrittura, per la mia ricerca, è contrassegnata da questa organizzazione della frase in prosa che ha un suo metro, un suo ritmo che l’accosta un po’ al ritmo della poesia».
L’Inno si compone di tre lasse separate da un punto e un a capo. La prima è un canto attorno al nome Rosa, la seconda si articola attorno al nome lia, e la terza ritorna sul nome intero, Rosalia, questa volta associato a quello di Santa Rosalia, la patrona di Palermo. A queste tre lasse, bisogna aggiungere il primo rigo del paragrafo che le segue e che contiene l’emistichio, «Ahi!, non ho abènto», tratto dal celebre Contrasto di Cielo D’Alcamo, Rosa fresca aulentissima.
Il soggetto lirico dell’Inno è frate Isidoro, pazzo d’amore per Rosalia, il quale dopo averla posseduta una sola volta, la perderà per sempre. Nella prima lassa, l’oggetto cantato da Isidoro è giustamente la rosa (segnalo en passant la coppia paronomastica Rosa-Isidoro), il fiore le cui lettere formano la prima parte del nome dell’amata; a cui si aggiungono altri fiori, che ne costituiscono delle variazioni sinonimiche.
Ciascuna lassa è costituita da sequenze che contengono a loro volta delle piccole frasi, separate da virgole, un punto e virgola e, a due riprese, da un punto esclamativo seguito da una virgola. Questa punteggiatura, perfettamente calcolata, separa dei segmenti narrativi allineati per asindeto o polisindeto, seguendo un ordine principalmente paratattico ed enumerativo. Una prima e fondamentale scansione ritmica discende da questa struttura paratattica, che fa sì che una pausa intervenga alla fine di ogni piccola frase, di un sintagma, o di un semplice vocabolo, marcati da un segno di interpunzione.
Prima lassa (5 sequenze):
Rosalia. Rosa e lia.
Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha róso, il mio cervello s’è mangiato.
Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia.
Poi il tramonto, al vespero, quando nel cielo appare la sfera d’opalina, e l’aere sfervora, cala misericordia di frescura e la brezza del mare valica il cancello del giardino, scorre fra colonnette e palme del chiostro in clausura, coglie, coinvolge, spande odorosi fiati, olezzi distillati, balsami grommosi.
Rosa che punto m’ha, ahi!, con la sua spina velenosa in su nel cuore.
In questo mirabile incipit, risalta in posizione enfatica il nome di Rosalia, un nome proprio immediatamente diviso in due lessemi, Rosa e lia. Si possono contare dodici occorrenze del lessema rosa: la prima parte del nome Rosalia (Rosa), le varianti participiali e aggettivali róso e odorosi, e anche, la disseminazione sonora delle lettere r – o – s – a: misericordia, scorre, chiostro, grommosi, cuore. Inoltre il termine rosa (il fiore) è il soggetto grammaticale della frase che chiude la prima lassa: «Rosa che punto m’ha, ahi!, con la sua spina velenosa in su nel cuore». Pertanto la maggior parte delle occorrenze (nove, precisamente) denotano il fiore, salvo quella incorporata in Rosalia, che rinvia sia al nome proprio sia al fiore. Rosalia dunque, l’oggetto del desiderio che Isidoro non cessa di inseguire, è assimilata a una panòplia di fiori (datura, gelsomino, bàlico, viola, pomelia, magnolia, zagara, cardenia), di cui alcuni contengono almeno due lettere del termine rosa, e altri almeno due lettere appartenenti al termine lia. Questa rosa dunque, che non è solamente una rosa, ma che s’innesta su tutti gli altri fiori menzionati, produce su Isidoro curiosi e inebrianti effetti di felicità e insieme di infelicità, conformemente a una lunga tradizione letteraria.
Inoltre il ritmo di questa prosa sembra obbedire a una scansione sintattica marcata dalla pausa, l’arresto della voce e al contempo a una scansione che, sovrapponendosi alla precedente, ne modifica l’andamento. A una prima lettura, in effetti, il cambiamento d’accento tonico di alcune parole, dalla penultima alla terzultima sillaba, genera una sorta di inciampo, una interruzione del ritmo più spesso regolare, piano e quasi monotono («gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia. Poi il tramonto, al vespero, quando nel cielo appare la sfera d’opalina, e l’aere sfervora»). Bisogna leggere e rileggere la lassa per accorgersi che non è così, poiché la regolarità, apparentemente ostacolata dall’irruzione dell’accento sulla terzultima sillaba di alcuni vocaboli, è in realtà rimodulata su un’altra linea di sonorità, che è quella del livello soprasegmentale della scrittura (come per i termini: bàlico, zàgara, vèspero, àere, vàlica, bàlsami). Questa prima parte dell’Inno a Rosalia si rivela così estremamente ricca di figure di fonetica come: allitterazioni (rosa/rosa ecc.; sfera/aere/sfervora; cancello/scorre/coglie/coinvolge), rime (Rosalia/Rosa e lia; inebriato/sventato/mangiato; pomelia/magnolia; datura/frescura/clausura; fiati/distillati; odorosi/grommosi ecc.), e figure metriche, tra cui una dialefe, m’ha, hai!, messa in evidenza da un polisindeto, un’elisione iniziale e un punto esclamativo finale.
Nella seconda lassa (2 sequenze) prevalgono invece le variazioni attorno a lia, termine lungamente reiterato, che si congiungerà alla fine della lassa col termine Rosa, dunque di nuovo Rosalia, seguito da un chiasmo: «Rosalia, sangue mio, mia nimica, dove sei?», che contiene, per di più, una sintomatica citazione petrarchesca («De la dolce et amata mia nemica», Canzoniere, v. 2 del sonetto CCLIV «I’ pur ascolto, et non odo novella»):
Lia che m’ha liato la vita come il cedro o la lumia il dente, liana di tormento, catena di bagno sempiterno, libame oppioso, licore affatturato, letale pozione, lilio dell’inferno che credei divino, lima che sordamente mi corrose l’ossa, limaccia che m’invischiò nelle sue spire, lingua che m’attassò come angue che guizza dal pietrame, lioparda imperiosa, lippo dell’alma mia, liquame nero, pece dov’affogai, ahi!, per mia dannazione.
Corona di delizia e di tormento, serpe che addenta la sua coda, serto senza inizio e senza fine, rosario d’estasi, replica viziosa, bujo precipizio, pozzo di sonnolenza, cieco vagolare, vacua notte senza lume, Rosalia, sangue mio, mia nimica, dove sei?
Infine la terza lassa (3 sequenze) delinea, attraverso un’originalissima ekphrasis, il corpo (piuttosto il simulacro) di Rosalia:
T’ho cercata per vanelle e per cortigli, dal Capo al Borgo, dai colli a la Marina, per piazze per chiese per mercati, son salito fino al Monte, sono entrato nella Grotta: lo sai, uguale a la Santuzza, sei marmore finissimo, lucore alabastrino, ambra e perla scaramazza, mandola e vaniglia, pasta martorana fatta carne. Mi buttai ginocchioni avanti all’urna, piansi a singulti, a scossoni della cascia, e pellegrini intorno, “meschino, meschino…”, a confortare.
Ignoravano il mio piangere blasfemo, il mio sacrilego impulso a sfondare la lastra di cristallo per toccarti, sentire quel piede nudo dentro il sandalo che sbuca dall’orlo della tunica dorata, quella mano che s’adagia molle e sfiora il culmo, le rose carnacine di quel seno… E il collo tondo e il mento e le labbruzze schiuse e gli occhi rivoltati in verso il Cielo…
Rosalia, diavola, magàra, cassariota, dove t’ha portata, dove, a chi t’ha venduta quella ceraola quella vecchia bagascia di tua madre?
Ciò che sembra emergere dall’analisi dell’Inno a Rosalia è la scrittura dello slancio di un desiderio verso un oggetto femminile, forse inedito nella tradizione letteraria italiana ed europea. Alle due tradizionali Venere celeste e Venere terrestre (amor sacro e amor profano), subentra in Retablo una sola figura femminile dalle molte sfaccettature, che è al contempo idealizzata e intensamente desiderata. Ciò che il lavoro dello stile, della prosodia specialmente, rivela grazie all’accordo stabilito da un certo ritmo tra elementi verbali appartenenti a ordini linguistici differenti e perfino opposti, è l’ibridazione di queste due Veneri, ottenuta attraverso la coalescenza della corrente tenera dell’amore e della corrente sensuale del desiderio, che fa sì che i tratti ideali e i tratti erotici si intrecciano.
L’Inno a Rosalia si svolge dunque seguendo un ritmo regolare, e tuttavia interrotto da alcuni inciampi o sospensioni. Una sorta di deviazione viene così prodotta dall’irruzione allucinatoria dell’oggetto del desiderio che il Soggetto crede finalmente di potere attingere e possedere. È l’impossibile cattura di questo oggetto meraviglioso o mostruoso, che impone al tempo regolare dell’Inno di arrestarsi, per poterlo aggirare e mascherarne il vuoto per mezzo di una momentanea discordanza ritmica.
Breve estratto dal volume di Rosalba Galvagno L’oggetto perduto del desiderio. Archeologie di Vincenzo Consolo (Milella 2023), presentato a San Mauro Castelverde per il III° Festival di Poesia Paolo Prestigiacomo (25-26-27 agosto 2023).