Nicolò Messina, Lunaria dietro le quinte

NICOLÒ MESSINA

UNIVERSITAT DE GIRONA

Il mio posto fu per anni su una poltrona davanti al poeta […]

VINCENZO CONSOLO, Le pietre di Pantalica1 È manifesto il debito di Lunaria con L’esequie della luna di Lucio Piccolo2. Nella Nota che funge da Postfazione al libro,Consolo lo ammette, anzi lo dichiara apertamente e svela anche il processo che da quell’opera l’avrebbe portato al suo cuntu:“Di quella prosa di Lucio Piccolo, de L’esequie della luna s’era innamorato un giovane palermitano, Roberto Andò, voleva farne un’opera teatrale e si rivolse a me per lavorare a quel progetto3. Con lui discussi allora impostazione scenica, soluzioni teatrali,consultai libri e mi trovai poi inevitabilmente di fronte alla scrittura, solitaria avventura, alla creazione cioè di un pianetino 1 CONSOLO, V. (1988: 141): Le pietre di Pantalica, Milano: Mondadori (d’ora in poi Pantalica).2 PICCOLO, L.: «L’esequie della luna», Nuovi Argomenti, N. S. 7-8 (1967): 152-169; nunc:L’esequie della luna e alcune prose inedite, ed. G.[IOVANNA] MUSOLINO, «Acquario», Milano:All’insegna del pesce d’oro, 1996. Si cita dalla princeps, purtroppo infestata di refusi(d’ora in poi Esequie).3 Il progettò si arenò, ma nel 1991 a Gibellina, nella rassegna delle Orestiadi, andò in scena L’esequie della luna, Narrazione fantastica di R. ANDÒ da L. PICCOLO, Musica di F.[RANCESCO] PENNISI. L’opera poetica di Piccolo ha ispirato anche altri allestimenti teatrali,tra cui: Il raggio verde… o dell’esequie della luna, di Ninni BRUSCHETTA (con Pino Censi);Cerchio di melodie per Lucio Piccolo, di e con Pino CENSI, prodotto dal Centro Culturale Mobilità delle Arti e rappresentato al Teatro Comunale di Marsala il 14 ottobre 2004 e al Teatro Quadro di Città Giardino (Siracusa) il 15 e il 16 dello stesso mese.180 indipendente che, come quello di Piccolo, ruotasse attorno a Leopardi”4. Il processo scrittorio fu cosí di contaminatio ed amplificatio di varie fonti: non solo Piccolo e la fonte comune a Piccolo e Consolo, il Leopardi dell’Odi, Melisso: io vo’ contarti un sogno5 e di tanti altri indimenticabili Idilli lunari, ma anche, indietro nel tempo, e con una citazione letterale, l’Ariosto della luna meta del “protoastronauta” Astolfo6.Il sempre puntuale Cesare Segre –in un saggio di Intrecci di voci– registra con precisione i non pochi passi in cui Lunaria riecheggia L’esequie. Perciò stesso, per il dettaglio, basterà rimandare a questo studio, sia per trovarci la collatio delle due opere,sia per derivarne un regesto delle consonanze7. Di piú; da par suo, efficacemente, Segre tiene anche ad indicare dove e come Consolo va oltre: il sogno, si direbbe, non solo sognato, ma per giunta rappresentato del Vicerè, quale persona, cioè latinamente ‘maschera’, attore. Si scorge, insomma, nel cuntu l’ombra di Calderón de la Barca, ma in buona compagnia, viene da aggiungere,di Pirandello: un La vida es sueño che approda a Sei personaggi o piuttosto all’apparente delirio di un Enrico IV8.Milano: Mondadori (1996: 134). Si cita da ambedue le edizioni: il primo rimando sarà a Lunaria1, il secondo (tra parentesi) a Lunaria2.5 Registrato con i titoli Il sogno (1819) e Spavento notturno (1826); in ultimo, finito acefalo tra i Frammenti (XXXV, 1835 e infine XXXVII, 1845). Del cadere degli astri Leopardi si era occupato anche nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (capp. IV e X).6 ARIOSTO, L.: Orlando furioso, XXXIV, 73, 3-8 in Lunaria, pp. 47-48 (67). Per la presenza lunare nella letteratura, non solo italiana, ben a proposito TRAINA, G. (2001: 73), Vincenzo Consolo, «Scritture in corso», Fiesole (Firenze): Cadmo, rimanda alla documentata recensione di H.[ÉCTOR] BIANCIOTTI, «Vincenzo Consolo de la Sicile à la Lune», Le Monde (22 aprile 1988), ora in versione tradotta in Nuove Effemeridi, VIII, 29 (1995: 107-109).7 SEGRE, C. (1991: 87-102): «Teatro e racconto su frammenti di luna», in Id., Intrecci di voci.La polifonia nella letteratura del Novecento, «Einaudi Paperbacks 214», Torino: Einaudi.Il saggio è, insieme a quello proemiale, l’unico inedito tra i dieci che compongono la raccolta e sembra perciò scritto ex professo per Intrecci.8 Pirandello s’intravede d’altronde in almeno due passi dietro una parafrasi o citato direttamente.Da un lato, cfr. Lunaria, p. 48 (68): «Hai guardato nello squarcio, anche tu hai visto dietro le scene del teatro?» e PIRANDELLO, L. (1973: 467) Il fu Mattia Pascal, cap.XII (Tutti i romanzi, ed. G. MACCHIA, con la collab. di M.[ARIO] COSTANZO, I, «i Meridiani»,Milano: Mondadori): «Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che 181 Tuttavia, ciò detto, per questo nostro curiosare dietro le quinte di Lunaria (e en passant per chiarire il senso del titolo e l’oggetto di queste pagine), preme qui e subito sottolineare come quest’opera sia nel corpus di Consolo soltanto l’espressione letteraria più risolta del riconoscimento del magistero di Piccolo, ma certo non l’unico suo atto di riconoscenza. Ci si limiterà così ad alcune manifestazioni –precedenti e successive a Lunaria– di quella che si potrebbe definire con il Contini esegeta di Montale «una lunga fedeltà»9. È una fedeltà10 che si materializza in una fitta rete di giochi intertestuali: in primo luogo, naturalmente, Consolo-Piccolo (però al riguardo le cose andrebbero per le lunghe, sarebbe esteso il terreno da dissodare e al momento non ne verrebbero che intuizioni impressionistiche, nulla di fondato e verificabile), ma anche Consolo-Consolo, quindi una intertestualità tutta interna alla sua prosa e i cui segni è dato intravedere chiari dove subito chiunque frugherebbe, nel trittico Il barone magico di Le pietre di Pantalica11, ma anche meno evidenti nella storia del capolavoro consoliano, Il sorriso dell’ignoto marinaio12.Di fatto, Lucio Piccolo sembra in Consolo una presenza carsica:una sorta di corrente che affiora, scompare, riaffiora. Visto dall’osservatorio del Sorriso, che è quasi una trincea dalla quale si rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Dica lei.» Dall’altro, in Lunaria, pp. 60-61 (83): «“allunga un formidabile calcio alla giara, che rotola giú per il sentieruolo tra le grida di tutti. Poi si sente il fracasso della giara che si spacca urtando contro un albero”.» è citazione virgolettata dell’intera didascalia della scena finale di PIRANDELLO, L.: ’A giarra (1916) e La giara (1925).9 CONTINI, G. (1974): Una lunga fedeltà. Scritti su Eugenio Montale, Torino: Einaudi.10 La frequentazione è cosí ricordata in Pantalica, p. 141: «Il mio posto fu per anni su una poltrona davanti al poeta, che sedeva con le spalle alla finestra sempre chiusa, anche d’estate (la luce filtrava fioca nella sala attraverso le liste della persiana). Lì, due, tre volte la settimana si faceva “conversazione”, ch’era un lungo monologo di quell’uomo che “aveva letto tous les livres”, come scrisse Montale, ch’era un pozzo di conoscenza,di memoria, di sottigliezza, di ironia.» E piú avanti, p. 149: «Lo frequentai per tanti anni,fino a quando non decisi di lasciare la Sicilia. Ma ogni volta che ritornavo nell’Isola, non mancavo d’andare a trovare il poeta.»11 Pantalica, pp. 133-1a49.12 Un profilo dei momenti chiave del decantarsi dell’opera in (mihi liceat): MESSINA, N.: «Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo», Quaderns d’Italià 10 (2005: 113-126).182 spera –da editori– di uscire indenni, il filo rosso di Il barone magico si dipana dall’ipòstasi unica dell’omonimo, cronologicamente alto, articolo su L’Ora13 al più basso trittico di Pantalica, e tra il primo punto e l’altro s’incrocia e s’intreccia con il farsi del dettato multiforme del libro che impose Consolo all’attenzione generale.In principio, dunque, è l’articolo apparso su L’Ora con quattro inediti del barone di Calanovella, tra cui proprio un frammento delle Esequie14. Il testo viene recuperato, sfoltito e tesaurizzato ad altro fine, ora decisamente commemorativo15, in quel dattiloscritto intitolato Carte per gioco, che rappresenta un seme non destinato a germogliare, un rogetto di cui costituisce il «Terzo Tempo – Magico (o poetico)»: la terza carta, allora, come le altre,non certo ‘ludica’, ‘per celia’, nuga o nugella, ma à jouer, to play,13 CONSOLO, V. (1967: 9).14 Il quarto degli inediti, intitolato esattamente «Esequie della luna» e presentato come:«Balletto in tre tempi di Lucio Piccolo di Calanovella per le musiche di Emanuele d’Astorga », è un brano del «II Tempo: Fantastico o Conventuale», con limiti testuali: «[…] era lei che scivolava sullo smalto delle fronde delle muse […] tutt’altro che una giovinetta,–aprile calmo già insediato– tra la malvetta e il garofano.», che qualche mese dopo (luglio – dicembre) si sarebbe potuto leggere in Esequie, pp. 165-166, di cui aiuta peraltro a emendare due refusi: foses [p. 165] : fosse; suricolari [p. 166] : auricolari. L’idea del balletto è carezzata e perseguita da Piccolo, il quale era buon conoscitore dei più noti compositori primonovecenteschi e ambiva a far musicare la sua operetta da Gian Francesco Malipiero, il suo preferito. Da ultimo, cfr. TEDESCO, N.: «I versi di Lucio Piccolo come armonie musicali. Così la poesia diventò politonale», La Repubblica, ed. Palermo (Mercoledì 27 luglio 2005): XIII: «[…] alla formazione di Piccolo concorrono gli studi musicali che egli intraprese e portò avanti fino ad un certo punto della sua vita: la scrittura di un testo liturgico, un Magnificat, di stile malipieriano, a detta di Gioacchino Lanza Tomasi, mescolava interessi per epoche diverse. A questo proposito, va tenuto presente il particolare rapporto di studio che nel tempo egli istituì con alcuni musicisti degli anni Dieci, Venti e Trenta, precisamente con Alfredo Casella, Ildebrando Pizzetti, Goffredo Petrassi, Franco Alfano e in particolar modo con Gian Francesco Malipiero le cui opere quasi tutte possedeva. Quel Malipiero che curò Monteverdi, altro interesse musicale del poeta nostro che leggeva e rileggeva l’Orfeo. Ma il rapporto con Malipiero si svolse oltre questi anni iniziali e a questo compositore si pensò per mettere in musica le “Esequie della luna”, forse per il ricordo dei “Poemetti lunari” del 1918 del musicista veneziano.In una lettera a Gioacchino Lanza Tomasi […], per la verità Lucio accenna pure alla possibilità che il balletto venga musicato da Sylvano Bussotti.» Si noti inoltre che Emanuele d’Astorga è il musicista siculo-spagnolo studiato da Chino Martinez, protagonista del consoliano Lo spasimo di Palermo (Milano: Mondadori, 1999).15 Basta leggere la dedica: «In ricordo del barone/ Lucio Piccolo di Calanovella/ autore dei Canti Barocchi», curiosamente quasi identica (unica variante: «In ricordo del cavaliere ecc.») a quella di «Il sorriso dell’ignoto marinaio», Nuovi Argomenti, N. S., n. 15

(1969: 161-174). Il testo avrà allora nella morte di Piccolo (26 maggio 1969) e nella prima uscita del Sorriso (luglio-settembre 1969) i suoi termini a quibus.183 quindi da ‘giocare’ ed ‘eseguire’, da ‘recitare’ come un copione o ‘suonare’ come uno spartito, nel quale a Piccolo si attaglia il felicissimo pseudonimo di «barone Merlino», un hapax rimasto purtroppo tale. La prima di queste Carte sarebbe il Sorriso della lezione di Nuovi Argomenti [1969], aumentata però dell’«Antefatto»a tutti noto e della prima delle due Appendici del futuro capitolo I («Primo Tempo – Narrativo»). La seconda consiste invece in una serie già programmaticamente16 grezza di materiali documentari diretti e indiretti: certificati, bollettini, stralci di pamphlets contemporanei alla strage di Alcara Li Fusi e ai suoi postumi («Secondo Tempo – Storico»), cioè all’evento storico catalizzatore delle dinamiche del Sorriso17.Il progetto di Carte per gioco, però, non si realizza e, con un buon margine di approssimazione, è dato supporre che nel frattempo (fine di questi anni Sessanta – prima metà anni Settanta)Consolo dovesse riprendere e sviluppare in quel che sarà il capitolo II del Sorriso gli appunti sparsi delle pagine iniziali di un primo Quaderno in cui lo spazio scenico è Cefalù, con il Duomo e lo scampanio delle sue chiese, il fervore della marina, e in primo piano si prospetta l’arrivo di un naviglio (un S. Bartolomeo che si trasformerà poi in S. Cristoforo) e con una zoomata non si scorge però Enrico Pirajno, come i lettori del Sorriso si aspetterebbero,ma un tale marinaio Onofrio Palomara (sic, sarà poi ribattezzato Giovannino), l’accompagnatore del deuteragonista Giovanni Interdonato, nascosto sotto le mentite spoglie del mercante Gaetano Profílio. Insomma, è proprio la carrellata d’apertura di L’albero delle quattro arance (cap. II). Allora, con la conoscenza che si ha adesso del libro, posto che questo Quaderno tramanda, in una 16 Non è da escludere. Risale agli anni Sessanta-Settanta il sorgere dell’attenzione consoliana per i tedeschi del Gruppo 47, gli «analitici» Hans Magnus Enzensberger, Alexander Kluge ed altri, di cui lo scrittore aveva dovuto leggere pagine sul Menabò vittoriniano (9, 1966) e nelle traduzioni dei primi anni Settanta. Cfr. la testimonianza diretta in CONSOLO,V. (1993: 49): Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, «Interventi / 7», Roma: Donzelli, ed anche C.[ARLA] RICCARDI, «Inganni e follie della storia », in PAPA, E. (ed.) (2004: 91), Per Vincenzo Consolo. Atti delle giornate di studio in onore di Vincenzo Consolo (Siracusa, 2-3 maggio 2003), San Cesario di Lecce: Manni.17 Nel regesto dei testimoni dell’edizione critico-genetica del Sorriso il dattiloscritto è stato denominato Ds 11.184 lezione di getto che sarà solo lievemente ritoccata, il celeberrimo passo in cui Consolo descrive il sorriso dell’inquietante marinaio incontrato sulla nave dal Mandralisca nell’ouverture del cap. I, è come se nel magma creativo iniziale le materie narrative dei futuri primi due capitoli non fossero decantate, si confondessero e non fossero ancora esattamente delineate le sequenze temporali interne del Sorriso (il prima e il poi, i protagonisti, le motivazioni delle due scene marinare, dei due viaggi Lipari-Cefalù: l’uno poi fissato al 1852 e l’altro al 1856). Ed è, volando d’ipotesi in ipotesi,come se questo fosse il possibile incipit del libro, con un Interdonato destinato da Consolo ad arrivare a Cefalù, non a portare al Mandralisca il dono della Kore, ma a “consegnargli” il ritratto di Antonello, per mitigare le pene e le furie della fidanzata Catena Carnevale o, con maggiore fondamento testuale, a regalargli il nettare delle Eolie, giacché l’Autore titola i due attacchi: «I / La Malvasia» e «Capitolo I / –La malvasia di Lipari–»18.Un secondo affioramento di Piccolo nella storia del Sorriso è rappresentato dalle quasi “prove di penna”, non piú di un flash di avvio di stesura di un quid indefinito in cui si presagisce l’incipit di una rimembranza del poeta, forse un articolo commemorativo,o qualcosa di simile, a giudicare dalla possibile datazione dei due Quaderni in cui le note albergano insieme alle attestazioni autografe superstiti, nel primo, dei futuri capitoli III Morti sacrata,IV Val Dèmone, V Il vèspero e di interpolazioni del cap. I; e, nel secondo, dei capitoli IV e VI Lettera di Enrico Pirajno a Giovanni Interdonato19. Negli appunti volanti si accenna al primo incontro Piccolo – Sciascia avvenuto a Villa Vina di Capo d’Orlando, dimora dei Calanovella, nel giorno capitale della celebrazione della prima messa in italiano (7 marzo 1965)20.18 Il Quaderno è stato registrato con la sigla Ms 1. I due avvii sono traditi rispettivamente dai ff. 3 e 4.19 I cosiddetti Ms 3 e Ms 4 potrebbero precedere la stessa ed. Manusè del 1975 e, in forza del tenore di questi appunti, datarsi post 1965 (la messa) e 1969 (26 maggio, morte di Piccolo). Cfr. MESSINA, N. «Per una storia …» cit., p. 124.20 In particolare, i due autografi riportano rispettivamente, Ms 3, f. 17v, un primo appunto:«Data cambio di liturgia (dal latino in italiano) – 7 marzo (domenica) 1964 [sic]./ —/185 Il fiume qui –siamo nella prima metà degli anni Settanta– si risommergerebbe per sfociare, da un lato, e prima, in quel chiaro omaggio che è Lunaria, con tutta l’intenzione di emulare L’esequie e l’ambizione di voler trasformare in atto quel che in potenza sarebbe nella prosa piccoliana. Qua e là, infatti, nel testo che per il poeta è «relazione» e «racconto»21, ma anche «balletto»22, si scorgono quasi delle didascalie da canovaccio da rappresentare:Ora sarebbe utile che non fossero più le parole a cercar di far muovere il Vicerè, ma che si muovesse lui da sè medesimo.[Esequie, p. 155].La narrazione del Villano viene immaginata come la proiezione d’una lanterna magica dell’ottocento23: disegni a mano, colori d’ametiste, di rubini, di zaffiri e di topazi simili a quelli delle corone nei racconti di fate.La descrizione verrà quindi fatta in quadri. [Ib., p. 160].La [scl. la luna] si può rappresentare come quei disegni infantili:un cerchio la faccia e semplici linee gli arti. [Ib., p. 161].La Fontana della Nocera è in centro, ma la visione o scenario si è molto ampliata, si scorgono aie, casali, vallette, ecc. [Ib.,p. 161].Dall’altro lato, e poi, Piccolo rispunta nel trittico di Le pietre di Pantalica, piú volte citato, che adatta e ingloba l’articolo di presentazione degli inediti e lacerti del necrologio firmato da Consolo per lo stesso giornale24, e in cui non poche sono le spie Incontro Piccolo – Sciascia / dopo 16 secoli che nella [ex abrupto explicit]»; f. 20, un secondo appunto: : «Il Era il giorno del 196 [spazio intenzionato], domenica, la prima domenica in cui si celebra la messa in italiano, dopo [explicit]»; e Ms 4, f. guardia 1v, altri due appunti: «7 marzo 1965 -/ 1ª domenica di [q]Quaresima// // È il giorno in cui si celebra per la prima volta dopo – – – – – – secoli, la messa in italiano. [explicit]». Cfr.Pantalica, p. 142: «L’incontro di Piccolo con Sciascia avvenne una domenica, il primo giorno in cui, dopo secoli, nelle chiese si celebrava la messa in italiano».21 Esequie, pp. 166 e 169.22 Cosí vengono definite L’esequie in CONSOLO, V. (1967: 9).23 Sarebbe un chiaro anacronismo, se il riferimento non s’intendesse come un inciso didascalico.24 CONSOLO, V. «Con Lucio Piccolo a Capo d’Orlando. Ricordo del poeta scomparso», L’Ora (Martedì 27 – Mercoledì 28 Maggio 1969). In particolare, vi si rimemora l’ultimo incontro avuto con Piccolo nel quale il barone racconta un aneddoto di risonanze iberiche: «L’ho 186 intertestuali con il Sorriso25, in una dinamica di autocitazioni che fa venire in mente la scrittura e i modi di contaminatio musicale di un Bach. Solo qualche esempio. Si collazionino:Sulla destra, vicino a una finestra, tre poltrone di broccato e velluto controtagliato dai braccioli consumati attorno a un avolinetto.Al muro, un monetario siciliano di ebano e avorio;piú in là, un grande tavolo quadrangolare con le gambe a viticchio e con sopra panciuti vasi Ming blu e oro, potiches verdi e bianche, turchesi e rosa della Cocincina, draghi, galli e galline di Jacobpetit. Di fronte, sulla sinistra, una grande vetrina con dentro preziose ceramiche ispano-sicule, di Deruta, di Faenza.Negli angoli, colonne con sopra mezzibusti di antenati. Sopra le porte che si aprivano verso il resto della casa, medaglioni del Màlvica, bassorilievi in terracotta incorniciati da festoni di fiori e di frutta a imitazione dei Della Robbia. E ancora, per tutte le pareti, ritratti a olio di antenati o quadretti a ricamo o fatti dalle monache coi fili di capelli. [Pantalica, p. 141].e:Il salone del barone Mandralisca aveva quasi ormai l’aspetto d’un museo. I monetarî d’ebano e avorio, i comò Luigi sedici, i canapè e le poltrone di velluto controtagliato, i tondi intarsiati,i medaglioni del Màlvica26, tutto era stato rimosso e ammassato nell’ingresso e nello studio, lasciando sopra la seta delle pareti i segni chiari del loro lungo soggiorno in quel salone. Restavano solo le consolle coi piani di peluche che sostenevano vasi di Cina blu e oro, potiches verdi e bianche, turchesi e rosa della Cocincina.E porcellane di Meissen e Mennecy, le frutta d’alabastro,visto, l’ultima volta, nello scorso aprile. Mi diceva di un suo recente viaggio a Roma,ultima grande avventura di un uomo che viveva nella solitudine. Mi raccontò del suo incontro con Rafael Alberti<:> “In un primo momento il poeta spagnolo era diffidente.Sentiva in me l’odore dei miei terribili antenati Moncada. Ma quando cominciammo a parlare di poesia spagnola, quando si accorse che conoscevo ed amavo la poesia spagnola,allora ci intendemmo”./ Mi parlò di altre cose, di molte altre cose. Mi disse ancheche non stava molto bene, la salute non andava bene. E vidi, per la prima volta, sul suo volto, una incrinatura di tristezza».25 Per la piú facile accessibilità, si cita da Il sorriso dell’ignoto marinaio, «Oscar classici moderni 193», Milano: Mondadori, 2004 (d’ora in poi Sorriso), riedizione dell’ultima licenziata dall’A.: Il sorriso dell’ignoto marinaio. Romanzo, «Scrittori italiani», Milano:Mondadori, 1997.26 Nella sua edizione scolastica del Sorriso (Torino-Milano: Einaudi-Elemond Scuola, 1995:18, n. 74), Giovanni TESIO annota cosí: «il barone Giuseppe Màlvica che, sotto il patrocinio di Ferdinando I, fondò nel 1781 una fabbrica di maioliche artistiche, in località La Rocca di Palermo, sulla strada che conduce a Monreale.»187 fagiani chiocce e gallinacci di jacob-petit27, orologi di bronzo dorato e fiori di cera sotto campane di vetro. [Sorriso, p. 18].Nella descrizione degli ambienti principali delle case dei due baroni sono singolari le coincidenze, dovute forse alla presenza di analoghi arredi in certe dimore patrizie. Ma come escludere che gli interni ideali di Palazzo Mandralisca possano essere stati modellati da Consolo sull’immagine realmente sperimentata del salone della Villa dei Piccolo?E ancora si confronti:Mi favoleggiava del libro28 Lucio Piccolo, e di grandi che per quelle contrade erano passati lasciando impronte, segni poetici e regali.Come Ruggero il Normanno che, dopo vittoriosa battaglia contro i saraceni, lascia per voto al convento di Fragalà il suo stendardo.O Federico di Svevia, che al castello de’ Lancia, in Brolo, ama Bianca e genera Manfredi (“biondo era e di gentile aspetto”). E Piccolo chiedeva: «Non nota lei, non nota che da queste parti aleggia ancora il vento di Soave?» [Pantalica, p. 145].con:Al castello de’ Lancia, sul verone29, madonna Bianca sta nauseata30.Sospira e sputa, guata l’orizzonte. Il vento di Soave la contorce31. Federico confida al suo falcone Deonomastico, dal nome del creatore di queste porcellane. Diversa (jacobpetit) la lezione delle edd. 1995, 1976, 1975 e dei Dss 4, 3 e 2. Identica a quella di Pantalica ( Jacobpetit), la lezione dell’ed. 1969.28 Si tratta di C.[ARLO] INCUDINE, Naso illustrata. Storia e documenti di una civiltà municipale (1882), rist. anast., Milano: Giuffrè, 1975.29 Lemma poetico per antonomasia. L’eco leopardiana risuona chiara, e. g.: D’in su i veroni del paterno ostel lo / Porgea gli orecchi al suon della tua voce (A Silvia, 19). Lo sguardo di Bianca si perde nell’orizzonte vuoto per l’assenza e la lontananza del suo innamorato.Il sospiro, reazione tra le piú umane in simili circostanze, sarà pure e comunque, per i personaggi qui coinvolti, da ricondurre tra i topoi dei canti di se parazione e lontananza di quel tempo e luogo. Tra tutti, e piú consono a quel particolare ambiente cortese,come non ricordare: Già mai non mi conforto / nè mi vo’ ralegrare; / le navi sono al porto / e vogliono collare di Rinaldo d’Aquino, o: O dolze mio drudo, e vatène dello stesso Federico II?30 Bianca Lancia d’Agliano, di cui si è invaghito Federico II Hohenstaufen, ha le nausee tipiche della gravidanza: porta in grembo Manfredi, il monarca con il quale soccomberà il progetto di unità e afferma zione imperiale del padre.31 Citazione dantesca. Nel ventre di Bianca si agita il frutto del seme di Federico II, per Dante il terzo ed ultimo monarca svevo (Soave, Soàvia <Schwaben ‘Svevia’). Cfr. Par.3,118-20: Quest’è la luce della gran Costanza / Che del secondo vento di Soave <Enrico VI> / Generò il terzo e l’ultima possanza.32 È nota la passione dell’imperatore per la caccia al falcone, tanto da essere considerato autore del Tractatus de arte venandi cum avibus. O Deo, come fui matto quando mi dipartivi là ov’era stato in tanta dignitate E sí caro l’accatto e squaglio come Nivi…33 [Sorriso, pp. 6-7].A quanto si vede, i luoghi sono propizi alle rievocazioni poetiche,nella fattispecie due-trecentesche, e Consolo e Piccolo s’incontrano sul sintagma dantesco.Gli echi interessano anche la toponomastica delle due opere:Qui era un tempo la città antica d’Agatirno, una delle città lungo questa costa che, coi loro nomi comincianti in A (Abacena,Alunzio, Apollonia, Amestrata, Alesa…) fanno pensare ai primordi,alle origini della civiltà. [Pantalica, p. 147].Dietro i fani, mezzo la costa, sotto gli ulivi giacevano città. Erano Abacena e Agatirno, Alunzio e Apollonia, Alesa… Città nelle quali il Mandralisca avrebbe raspato con le mani, ginocchioni,fosse stato certo di trovare un vaso, una lucerna o solo una moneta. Ma quelle, in vero, non sono ormai che nomi, sommamente vaghi, suoni, sogni34. [Sorriso, p. 7].I due brani sembrano postulare un rapporto  bidirezionale: da antiquiore a recenziore e viceversa, se si considera che l’ultimo ne varietur consoliano sostituisce nel Sorriso del ventennale [1997]all’originaria coppia Alunzio – Calacte quella Alunzio – Apollonia derivata da Pantalica35.33 È la canzone fridericiana Oi lasso! non pensai di cui si citano alcuni versi della st. 3(ed. Panvini, XLIII, 12,21-25). L’attribuzione è però incerta (Panvini 1962), perché i mss discordano: per il Vaticano Latino 3793 l’autore sarebbe Rugierone di palermo, per il Laurenziano-Rediano 9, Rex Federigo.34 Non può passare inosservato che alcuni di questi toponimi volteggiano anche in una delle tirate finali del Viceré. Cfr. Lunaria, p. 61 (84): «Dov’è Abacena, Apollonia, Agatirno,Entella, Ibla, Selinunte? Dov’è Ninive, Tebe, Babilonia, Menfi, Persepoli, Palmira? Tutto è maceria, sabbia, polvere, erbe e arbusti ch’hanno coperto i loro resti. Malinconica è la storia.» È l’orizzonte da terra desolata di tante altre pagine consoliane, in cui la civiltà soccombe ciclicamente alla forza della natura e alle aggressioni autodistruttive dell’uomo.Si rileggano almeno quelle del Cap. I del Sorriso con “cerniera” testuale Quindi Adelasia,regina d’alabastro [pp. 10-11].35 Per l’esattezza, il binomio è Alunzio e Calacte nelle edd. 1995, 1987, 1976, 1969, nelle bozze dell’ed. 1975 e nei dattiloscritti preparatori denominati Dss 4, 3, 2. La lezione preferita dall’ed. 1997 e confermata da quella del 2004, oltre a concordare con la serie di Pantalica, p. 147, sembra quasi rispondere alla sollecitazione implicita nel commento di G. TESIO, ed. cit., p. 6, n. 9: «Fantastici e stranianti suonano anche i nomi sonori dei luo189 Concludendo, in questo fugace scrutare dietro le quinte di Lunaria,l’opera senz’altro più piccoliana di Consolo, si sono intraviste tracce del decantarsi della commemorazione piú compiuta del poeta, il trittico di Pantalica, e ne sono stati anche rilevati i punti che hanno forse avuto piú a che vedere con la storia del Sorriso.Ora, stando alla nostra incompleta escussione dei documenti del Fondo Consolo, di questo trittico, del suo farsi, non si può dire che, oltre quelle indicate, emergano altre pezze d’appoggio testimoniale. Tuttavia, sorprese, si sa, non se ne possono escludere,nell’assoluto ecdotico. E nel relativo consoliano, lo scrigno delle carte del Fondo personale milanese può sempre riservarne,sorprese, a chi erto possa e sappia guardarci dentro, Catharina et Vincentio faventibus36.ghi evocati, ai quali l’occhio sognante del Mandralisca si abbandona (tutti nomi, tranne uno, curiosamente inizianti con la prima lettera dell’alfabeto).» Non sono da escludere però, insieme al riuso del segmento di Pantalica, l’omaggio da parte dell’A. all’erudizione enciclopedica del Mandra lisca, ma anche la parodia della meticolosità e precisione scientifiche e un po’ pedanti di chi, come il protagonista, tutto vede e ripone nella sua memoria come volumi ben ordinati sugli scaffali della propria biblioteca. E cosa c’è di piú ordinato di un elenco alfabetico? Qui forse basterebbe solo il ritocco di una doppia inversione: Abacena e Agatirno, Alesa e Alunzio, Apollonia…, che però avrebbe soppresso l’effetto del doppio settenario suggerito dai binomi prescelti.36 Ancora un’altra manifestazione di fedeltà si può scorgere nello scritto consoliano che accompagna l’edizione del centenario della nascita del poeta: PICCOLO, L. (2001): Canti barocchi e Gioco a nascondere, Milano: Scheiwiller, in cui si puntano di nuovo le luci sul ritratto del 1967.190

BIBLIOGRAFIA
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Incontro con Vincenzo Consolo La voce della storia

Intervista di Giulia e Piero Pruneti

«Insieme ai resti dei templi i viaggiatori del Grand Tour trovavano le rovine della società siciliana»

«Con gli Arabi iniziò una nuova civilizzazione»
«La Sicilia è metafora dell’essere italiani»
«I Romani ci trattarono come una colonia e io sarei stato dalla parte di vinti»
«Amo la multiculturalità dei tempi di Ruggero il Normanno»
«Non condivido il meccanicismo sociale di Tomasi di Lampedusa»

Si dice che la modestia sia virtù dei grandi. Restare un po’ bambini quando tutto intorno fa rumore. Anche questo è un privilegio assoluto. Difficile non pensarci quando si è a contatto con una persona come Vincenzo Consolo. Negli occhi l’umiltà della cultura, quella vera, che vale anche e soprattutto al di fuori del tempo. Nel cuore il ricordo vivissimo di Leonardo Sciascia (1921-1989), l’amico, la guida nella e per la vita. Consolo ne parla spesso. Ricorda i loro momenti, le giornate di primavera passate alla Noce, la casa di campagna poco fuori Racalmuto (Ag), città natale dello scrittore scomparso.

In qualche modo anche per questa intervista siamo a casa sua: alla Fondazione Sciascia; in molte delle foto appese i due amici sono insieme. L’occasione è quella del Premio Parnaso (direttore artistico Piero Nicosia), manifestazione di teatro, cinema e letteratura organizzata da Comune di Canicattì, Associazione culturale Kairos e Fondazione Sciascia, riproposto per la seconda volta nel proverbiale comune siciliano sul tema “Scherzare col fuoco, ovvero con il potere legittimo e illegittimo”.
Consolo è ospite d’onore. È contento di essere intervistato per Archeologia Viva: «Prima che faccia buio, però, vorrei fare visita alla tomba del mio maestro se non le dispiace».

Vincenzo Consolo è nato a Sant’Agata di Militello (Me) nel 1933. Dal 1968 vive e lavora a Milano, sua patria d’adozione. Romanziere e saggista, ha pubblicato numerose opere di narrativa ambientate soprattutto nella sua Sicilia. Ha vinto il Premio Pirandello per il romanzo Lunaria nel 1985, il Premio Grinzane Cavour per Retablo (1988), il Premio Strega (NottetempoCasa per casa, 1992) e il Premio Internazionale Unione Latina (L’olivo e l’olivastro, 1994). I suoi libri sono stati tradotti in francese, tedesco, inglese, spagnolo, portoghese, olandese, rumeno.

D: Nel suo Retablo è possibile rintracciare molto della Sicilia archeologica e delle civiltà che vi hanno lasciato segni importanti. Come nacque l’idea di quest’opera?

R: Il libro è sulla linea del Grand Tour e dei grandi viaggiatori del Settecento e Ottocento. Una tradizione che andò intensificandosi a partire da Goethe. Naturalmente questi viaggiatori eruopei avevano un’idea mitica della Sicilia. Solitamente s’imbarcavano a Napoli per Palermo, da dove iniziavano il loro giro passando dai siti archeologici del centrosud (Segesta, Selinunte, Agrigento, Siracusa, Catania), per poi giungere a Messina da dove tornavano in continente. Così lasciavano sempre scoperta la parte tirrenica settentrionale dell’isola, che è ricchissima d’interesse (e alla quale io appartengo!).

Ecco, il tour tipico era quello, alla ricerca della grecità e della classicità e, comunque, nell’ignoranza di ciò che era vermaente questa terra. Goethe quando arriva a Napoli scrive alla sua donna: «Vado in quella parte d’Africa che si chiama Sicilia…»; poi, però, al termine del suo “tour” afferma che «non si può comprendere l’Italia senza vedere la Sicilia che è la chiave di tutto, è qui che sono contenuti tutti i raggi della storia».

Fatalmente, i viaggiatori europei finivano per confrontarsi con la realtà. Al di là dei templi e dei teatri, oltre il mito, emergeva una Sicilia inedita condita dal barocco (che Goethe giudica letteralmente “osceno”), ma anche dalla società sciliana con tutte le sue contraddizioni. Dunque, questi viaggiatori venivano sì con in testa l’idea della Sicilia classica, ma se ne ripartivano con altre sensazioni.

C’era questa volontà esclusiva di visitare le rovine, ma poi evidentemente non si poteva fare a meno di osservare altri ruderi, quelli della società, con le sue distanze paurose. Soprattutto nelle grandi città, per esempio a Palermo, era macrospopico il fasto delle residenze nobiliari rapportato al degrado dei quartieri popolari. Inoltre, era impossibile non rendersi conto che in Sicilia la civiltà greca, l’Arcadia, era ormai lontana, cancellata prima di tutto dalla dominazione romana, poi dai bizantini, con le loro devastazioni. Quelli furono momenti duri, infelici per la mia terra. Basta leggere le Verrine di Cicerone. E la desertificazione… L’isola divenne il granaio d’Italia, ma le foreste scomparvero, tagliate per coltivare frumento e costruire navi. […]

Archeologia Viva n. 116 – marzo/aprile 2006
pp. 80-82

Vincenzo Consolo, a Segesta estate 2005