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Tutti i miei libri in effetti ne fanno uno. Un libro sulla Sicilia
che tocca i punti dolenti del passato e del presente e che
viene ad articolarsi come la storia di una continua sconfitta
della ragione.
Leonardo Sciascia
Veniva giù da via Redentore un uomo piccolo e bruno, di trentatré
anni, capelli lisci sopra l’alta fronte. Camminava pensoso,
gli occhi neri e acuti che esploravano la strada, con guizzi d’attenzione,
illuminazioni di brio, adombramenti, a seconda dello
spettacolo della vita di quelle prime ore del mattino.
E venivano giù per corso Umberto, salivano su da corso Vittorio
Emanuele, sbucavano da Santa Maria degli Angeli, da Santo
Spirito, dalle Grazie, da vie e viuzze, braccianti, muratori e
zolfatari, convergevano tutti nella piazza Garibaldi.
Allo slargo di corso Umberto, dov’è la chiesa del Collegio,
l’uomo non poté fare a meno di sostare davanti alla vetrina d’un
libraio. Vi spiccavano dei bei libretti di poesie e prose, disposti
uno accanto all’altro a fare macchia bianca, un quadrato luminoso
e calmo nel colorato e chiassoso panorama delle copertine
intorno. Erano libri di Pasolini, Marin, La Cava, Uccello… E
insieme, bianca anch’essa, una rivista letteraria che si stampava
a Roma, “Nuovi Argomenti”, sulla cui copertina era impresso
l’indice, con in basso il nome dell’uomo davanti alla vetrina, e
un titolo, Cronache scolastiche: il suo diario d’un anno di maestro
elementare. Si sarebbe aggiunto, a quelle cronache, il Diario elettorale,
che aveva finito di stendere qualche giorno avanti e che
aveva lì, in fogli dattiloscritti, dentro una borsa. Diario elettorale
delle elezioni del giugno appena scorso, da cui ancora una
volta la Democrazia Cristiana era uscita trionfante.
L’uomo voltò le spalle alla vetrina e accese una Chesterfield,
sigarette che fumava dall’arrivo delle truppe americane in Sicilia.
Come Montale le Giubek dal tempo della guerra d’Africa.
Fumava tanto, e quelle forti, grasse sigarette americane. Strati
di nicotina s’interponevano ormai tra lui e quel mondo intorno,
come argini di sabugina e malta, rinforzi di cemento a puntellare
muri che, per ognuno nato nell’Isola, sono sul punto sempre
di crollare, dissolversi nel marasma e nel furore. Massa di
nicotina a saldare libri, conci di libri chiari e solidi, bugnati, da
sopra i quali poter guardare senza più rischio, poter studiare,
poter capire quella bufera grande che è la realtà della Sicilia.
Diuturno rischio, di vita e di ragione. Come nel ventre della
terra, nel cuore della zolfara. Da cui non s’esce mai. O, se usciti,
si guarda questo mondo con stupore di fanciullo – la Luna,
“grande, placida, come in un fresco, luminoso oceano di silenzio”,
su nel cielo – o nudamente, senza più illusioni. Sì, sapeva
bene l’uomo che nei vapori dello zolfo, che ambedue avevan
respirato dalla nascita, era la somiglianza, ma nella sorte d’essersi
trovati dentro o fuori la zolfara era la differenza fra sé e lo
scrittore grande di Girgenti, nei cui sofismi, nei cui fantasmi o
personaggi ognora s’imbatteva.
Frate Agrippino, in parlatorio, si fermò a guardare un quadro,
un ex-voto raffigurante zolfatari, due picconieri e un caruso, quasi
sepolti dai massi pel franamento interno d’una galleria, un San
Michele in aria, in un alone d’oro, l’Anime ardenti in basso del
santo Purgatorio. La scena lo portò col pensiero al suo paese, a
Mineo, nome che forse proveniva da una miniera; a sua madre,
Ignazia, che nelle fiamme ancor si consumava; a sé, quasi sepolto
dalle pietre dei padri gesuiti ma che la spada d’oro della
vera fede ormai aveva portato in salvamento.
Si scosse, s’accorse della valigia che reggeva e si ricordò della
corriera. Corse, via dal convento, per la contrada Balàte, si perse
in un labirinto di vicoli e di strade, senza riuscire a trovare la
stazione. In preda ormai all’angoscia, corse per tutta via Testasecca,
via Palmeri, e sbucò in corso Umberto, andando quasi a
sbattere contro l’uomo che, scostatosi dalla vetrina del libraio,
aveva ripreso la sua strada.
«La corriera, la corriera per Mazzarino!…» gli gridò implorante
frate Agrippino.
«In piazza Marconi» rispose l’uomo. «C’è tempo, parte alle
sette e mezzo.»
«E dov’è, dov’è questa piazza Marconi?»
«Venga con me, anch’io prendo la corriera.»
Frate Agrippino, rassicurato dalle parole dell’uomo, gli si affiancò,
si attaccò a lui come a una guida, un protettore.
«Anche lei va a Mazzarino?» gli chiese.
«No, vado a Regalpetra, in provincia di Girgenti.»
«Peccato! Io sono forestiero, vengo da Roma, ma sono nativo
di Mineo» gli disse frate Agrippino.
«Il paese di Capuana» disse l’uomo.
«Eh, Capuana. Non era un buon cristiano…»
L’uomo sorrise, divertito.
«Perché?» chiese per spingerlo a parlare.
«Mah! Prima di tutto, ha scritto cose licenziose. Poi, viveva
more uxorio con la serva. Terzo, praticava lo spiritismo,
che è proibito dalla Chiesa, inquietava le Animuzze Sante del
Purgatorio.»
«Ma le animuzze sante non sono contente di farsi ogni tanto
un bel viaggio qui sulla terra?»
«Eh no! Ché poi il tempo che perdono lo devono scontare lo
stesso, e devono riprendere a bruciare, a bruciare…»
«Ma almeno gli serve come pausa, come refrigerio.»
«Lo chiama refrigerio tornare in quest’inferno, in questa geenna,
in questa valle di peccato, di dannazione? Morire bisogna,
morire subito, anche volontariamente, in grazia di Dio, e andarsene,
andarsene… Ma io non posso parlare, non posso parlare…»
fece frate Agrippino; e quindi, abbassando la voce:
«I Gesuiti, i Gesuiti mi perseguitano!» e fissò negli occhi
l’uomo, con i suoi occhi spiritati. L’uomo, che prima aveva
sorriso divertito, si fece serio, triste, scoprendo all’improvviso
di trovarsi faccia a faccia col male misterioso e endemico
di questa sua terra. E gli capitava spesso, a lui cultore della
razionalità, del pensiero chiaro e ordinato, amante dell’ironia
e del piacere dell’intelligenza, d’imbattersi in persone che lo
incuriosivano per la loro originalità, per la loro comica eccentricità,
che gli facevano pregustare spasso, gioco lieve e ameno,
e che scoprivano invece, come denudandosi all’improvviso,
la malata pelle della pazzia. E gli si rivoltava allora tutto
in amaro, in penoso.
Giunsero nella vasta piazza Garibaldi, dove due chiese, Santa
Maria la Nova e San Sebastiano, si fronteggiavano, gareggiavano
in monumentalità e fasto, e dove al centro, occhio verde e
drammatico, s’apriva una gran fontana dalla cui acqua stagnante
affioravano pietre limacciose e le statue in bronzo d’un cavallo
marino trattenuto da un tritone, di fantastici animali, i denti
digrignati, riversi sul dorso, la pancia in aria, simili a blatte,
batraci, basilischi giganti.
La piazza brulicava d’uomini, a coppie, a crocchi, fermi, in
movimento. Conversavano, vociavano, entravano e uscivano
dai caffè, dalle pasticcerie, dalle tabaccherie che s’aprivano sulla
piazza, s’ammassavano davanti al furgoncino del panellaro.
Sembrava domenica mattina dopo l’uscita della messa cantata.
Solo ch’erano tutti in vestito da lavoro, rattoppato, stinto,
e questo era il raduno del mattino, col pretesto del caffè, delle
sigarette, del pane e panelle, per rincontrarsi, rivedersi, riparlarsi,
prima d’andare in campagna, alle zolfare, ai cantieri. Fra
poco sarebbero partiti, la piazza si sarebbe fatta deserta. Fino
a quando non sarebbero arrivati i maestri, i professori, gli impiegati,
i geometri, i cancellieri, gli avvocati, i giudici. E sarebbe
ricominciato nella piazza il vocìo, il brulichìo, il movimento.
«Lo prende il caffè?» chiese l’uomo a frate Agrippino.
«Caffè?! Io ingoio tasso e fiele! Aah, aah…» fece, accostando
di colpo la sua faccia a quella dell’altro, aprendo tutta la bocca,
tirando fuori, sopra i peli neri della barba, una gran lingua
bianca e secca, crepata «Vede? Sono attossicato.»
L’uomo ebbe un involontario scatto della testa all’indietro, per
l’improvviso gesto di quell’altro e per scansare quel fiato pesante,
arso e amaro di reserpina, che tuttavia lo investì. Accese subito
un’altra Chesterfield e aspirò profondamente.
«Andiamo,» disse «l’accompagno alla corriera» e si chiuse
in un silenzio spesso, calò in una sconsolazione, in una malinconia
senza rimedio.
Vincenzo Consolo
1988 Le pietre di Pantalica
Foto di Tano Cuva Villa Piccolo
Nella foto Leonardo Sciascia Lucio Piccolo Vincenzo Consolo
archivio Casa letteraria di Vincenzo Consolo
castello Gallego Sant’Agata di Militello