Categoria: Video e Interviste
Conversare su Consolo: per ricordare lo scrittore siciliano
University College Cork, Irlanda
Conversare su Consolo: quattro appuntamenti online per ricordare lo scrittore siciliano A cura di Daragh O’Connell
Organizzazione: Claudio Masetta Milone
1) Tradurre Consolo (venerdì 28 gennaio, 2022) con la partecipazione di
JOSEPH FARRELL
2) Curare Consolo (venerdì 4 febbraio, 2022) con la partecipazione di
GIANNI TURCHETTA
3) Studiare Consolo (venerdì 11 febbraio, 2022) con la partecipazione di
NICOLÒ MESSINA
4) Raccontare Consolo (venerdì 18 febbraio, 2022) con la partecipazione di
CLAUDIO MASETTA MILONE e IRENE ROMERA PINTOR
CONVERSARE SU CONSOLO
Il link per i quattro appuntamenti:
- Tradurre Consolo (Joseph Farrell)
https://www.youtube.com/watch?v=vBZ3o4MXHP4&t=182s - Curare Consolo (Gianni Turchetta)
https://www.youtube.com/watch?v=SAMwA_oVEB4 - Studiare Consolo (Nicolò Messina)
https://www.youtube.com/watch?v=m0Y46t_d0qI&t=9s - Raccontare Consolo (Claudio Masetta Milone e Irene Romera Pintor) https://www.youtube.com/watch?v=59QiB2QPzk8&t=7s
Vincenzo Consolo: il dovere di scrivere sulla «mala pianta»
di Laura Pisanello
Settant’anni li ha compiuti nel 2003. Vincenzo Consolo, scrittore raffinato e schivo, nasce infatti, nel 1933, a Sant’Agata di Militello, paese costiero in provincia di Messina. Ma fin da giovane si trasferisce a Milano e cosi, da scrittore meridionale immigrato al Nord, nella memoria e nell’impegno ha trovato le sue principali fonti di ispirazioni. Settant’anni – scrive Consolo – che hanno fatto di me un «testimone, una lastra memoriale di eventi cruciali svoltisi in questo lungo tempo, il Novecento appena tramontato» nel Paese e in particolare in Sicilia. In Sicilia ho visto concludersi la guerra, iniziare la nuova vita civile, l’imporsi della necessità di emigrare al Nord. «Ho visto – scrive ancora nella prefazione a Per Vincenzo Consolo (Piero Manni editore,2004) – la fine del mondo contadino, lo spopolarsi di paesi e di campagne, il nascere di quell’illusione industriale che avrebbe creato i pozzi mefitici di Augusta, di Priolo, di Gela; ho visto, nel vuoto creato dall’esodo della parte più consapevole del popolo, ricrescere e ingigantirsi la mala pianta siciliana della mafia, quell’osceno olivastro che, in simbiosi col potere politico, ha devastato il paesaggio, fisico e umano dell’isola».
Msa. La Sicilia di oggi è molto cambiata rispetto a quella della sua infanzia?
Consolo. Moltissimo. Nessuno pretende che tutto si fermi, si cristallizzi, ma avrei desiderato che lo sviluppo fosse un progresso più armonico nel rispetto della dimensione umana.
Invece, si è costruito selvaggiamente, spesso – lo apprendiamo dalle cronache – eludendo qualsiasi legge e contro le istituzioni. Poi, siccome c’e questo Stato paternalistico che condona, allora tutti osano.
lo ho cercato di esprimere questo mio rammarico, questo dolore per questa mia terra sfigurata, in L’olivo e l’olivastro che racconta un viaggio in Sicilia di uno che se ne era andato via da parecchi anni. E, quando ritorna, trova questo degrado non solo da un punto di vista paesaggistico, ma anche da un punto di vista umano. Un po’ sullo schema omerico del ritorno di Ulisse. E’ un Ulisse che non ritrova più la sua Itaca, che durante la sua assenza è sparita.
Ovviamente questo Ulisse è lei stesso, con i suoi continui allontanamenti e ritorni alla terra natale…
Non posso fame a meno perché e il luogo della memoria, degli affetti. Quando nasciamo veniamo incisi dai segni della cultura e della natura. E la Sicilia ha una grande ricchezza, anche nella stratificazione linguistica e culturale (civiltà greca, latina, araba, spagnola). Nel nostro dialetto ci sono ancora queste matrici di lingue del passato: io scavo da filologo nella lingua, per un bisogno di memoria.
Bisogna avere la consapevolezza dei luoghi dove si è nati, ma questo ci deve servire per aprirci alla conoscenza degli altri, non a chiuderci e a regredire.
foto Mike Palazzotto
Lei ha visto l’esodo dal Sud al Nord negli anni Cinquanta?
Vengo da una terra di immigrazione e di emigrazione (a Tunisi agli inizi del secolo c’erano novantamila italiani). Quando ero studente a Milano, negli anni Cinquanta, ho visto il grande esodo di braccianti meridionali verso il Nord. Ho visto in piazza Sant’Ambrogio il Centro orientamento immigrati, dove arrivavano contadini dalla stazione centrale in quei nebbiosi inverni milanesi e venivano scaricati lì dove c’erano le delegazioni dei Paesi stranieri, del Belgio, della Francia e della Svizzera e da lì venivano avviati o nelle miniere di carbone del Belgio o nelle fabbriche francesi. Capii in quel momento il dramma dell’immigrazione.
Come si comportano oggi gli italiani con gli immigrati?
C’è un sentimento di paura, di xenofobia, verso gli immigrati, che vengono immediatamente «criminalizzati» (anche chiamarli «clandestini» li marchia). Voglio dire che questo è un sentimento cieco perché la storia dell’umanità è fatta di incontri e arricchimenti reciproci, di spostamenti di popolazioni da un luogo all’altro. Oggi il nostro Paese sta invecchiando e questi immigrati sono giovani e portano veramente nuove energie.
Nelle cronache sull’immigrazione Siciliana dell’Ottocento ho letto che i primi passaporti venivano dati ai delinquenti, mentre la gente che non aveva conti in sospeso con la legge veniva sottoposta a visite mediche e spesso veniva scartata. Ci sono anche tra gli immigrati di oggi quelli che delinquono, ma la maggior parte di loro sono persone oneste che scappano da luoghi di violenza, di miseria e vengono a cercare speranza.
Tornando alla Sicilia, in questi ultimi tempi sembra che il problema della mafia non esista più …
Dopo ii 1992, che è stato l’anno dell’impegno, della mobilitazione, è sceso il silenzio. Questo silenzio sulla mafia è un silenzio anche inquietante. L’interesse della mafia è sempre stato quello di stabilire rapporti con il potere politico. Ora, quando la mafia tace evidentemente si desume che questi rapporti sono ben saldi e ben stabiliti. Nel momento delle rotture avvengono le vendette e i fatti eclatanti.
Leonardo Sciascia, dopo aver scritto i primi libri (II Consiglio d’Egitto, Morte dell’Inquisitore) incominciò la serie dei romanzi gialli con II giorno della civetta. Quando lo andavo a trovare, gli comunicavo la mia disapprovazione da lettore per questa svolta. Lui sorrideva perché aveva scelto questa tecnica del romanzo poliziesco per dire altro. Capii, dopo, che lui aveva sentito l’urgenza di affrontare un tema come quello della mafia, servendosi di uno strumento collaudato come ii romanzo poliziesco. Nei suoi romanzi non si arriva mai all’individuazione del colpevole. Sciascia voleva dire che erano delitti politico-mafiosi, erano delitti del potere e li potere non poteva processare e condannare se stesso. Sciascia con questi romanzi ci ha dato il quadro di quella che è stata la storia d’Italia dagli anni Sessanta in poi.
Mi chiedo se sappiamo qualcosa di preciso, per esempio, sul delitto Moro …
Lei seguì anche, come cronista, dei processi di mafia?
Su invito del direttore de «L’Ora» di Palermo, nel 1975 presi aspettativa dalla Rai e andai a Palermo. Avrei dovuto dirigere le pagine culturali, ma non si videro mai: feci molti servizi, inchieste, poi mi mandarono a Trapani a seguire un processo in corte d’Assise. C’era un pubblico ministero che si chiamava Gian Giacomo Ciaccio Montalto, intelligentissimo, preparato. Dietro questo processo c’erano la mafia, il traffico della droga. Una sera Montalto mi invitò a casa sua, a Val d’Erice, sopra Trapani. E alla fine mi disse che riceveva moltissime telefonate e lettere anonime con minacce di morte: «Se mi dovesse succedere qualcosa, lei lo scriva». Gli chiesi perché non lo raccontasse alla polizia e lui rispose: «Dei miei superiori non mi fido». Mi sembrava di vivere in un romanzo giallo. Tornai a Milano e qualche anno dopo Montalto fu ucciso. lo raccontai la vicenda, Sciascia, che allora era deputato a Roma, fece una interrogazione alla Camera; il ministro rispose che a loro non risultava che Ciaccio Montalto avesse ricevuto minacce.
Lei si è laureato in legge ma non ha intrapreso la carriera forense…
Avrei voluto studiare Lettere, ma era considerata una facoltà da donne. Mi laureai in
Giurisprudenza a Milano e poi tornai in Sicilia dove andai a insegnare diritto in scuole agrarie di montagna. Lo feci per cinque anni, ma mi accorsi che il mondo contadino stava finendo e i ragazzi erano destinati anch’essi a emigrare.
Sentivo il desiderio di andarmene via e mi consigliai con Sciascia. Lui mi disse che se fosse stato giovane e senza famiglia se ne sarebbe andato anch’egli perché in Sicilia non c’era più speranza.
Come è finito alla Rai a Milano?
Milano mi sembrava l’unica città dove potevo andare: seppi che c’era un concorso per funzionario in Rai e lo vinsi. Ero l’unico senza ipoteche politiche. Quando mi vidi proiettato nel mondo del lavoro, ebbi subito un rifiuto.
Come è stato il suo rapporto con la Rai?
II mio rapporto con la Rai fu difficile: fui anche sospeso per indisciplina. Sono rimasto sempre ai margini, non ho fatto carriera, sono uscito con la stessa qualifica con cui sono entrato. Dicevo ironicamente: «Lavoro in una fabbrica di armi». Ho tentato tante volte di lasciarla.
Dopo la pubblicazione de II sorriso dell’Ignoto marinaio, Einaudi mi propose di andare a lavorare in casa editrice. Ma dopo una settimana scappai anche da Torino.
A che cosa sta lavorando adesso?
Sto lavorando a un romanzo ambientato ancora una volta in Sicilia, alla fine del Seicento (ho trovato documentazione su un processo nell’archivio centrale di Spagna).
In un mondo che sembra dominato da violenza e caduta dell’etica, quali segni positivi lei ha trovato?
Ci sono delle luci di speranza. i movimenti pacifisti e l’impegno dei giovani a vedere al di là dei confini, in modo globale. Poi ci sono fenomeni poco conosciuti come il volontariato. All’ estero ho incontrato giovani, cattolici e laici che operano nei luoghi più infelici. Si vede che l’essenza umana ancora brilla. In Bosnia, in Libano, in Palestina con Saramago abbiamo incontrato pacifisti che lavorano in modo meraviglioso, ma questo i nostri politici lo ignorano.
Dal Messaggero
di Sant’Antonio
novembre 2014
Consolo: figlio di tanti padri
*
I libri di Consolo sono sempre nati da uno spunto di realtà e da un punto di vista. Poi prendono una via che può arrivare fino ad Ariosto. Nella sua officina letteraria convivono personaggi reali e diversissimi. E’ il caso di Pirajno di Mandralisca, concentrato sui realia, e di Fabrizio Clerici, attento ai surrealia. Come convivono nella sua officina queste due figure che peraltro sono storiche? Fanno a pugni? “Sono due personaggi – spiega Consolo – non accostabili, di matrice diversa, di esito diverso e anche di funzione diversa. Il barone di Mandralisca era il personaggio storico e romanzato che mi serviva per dimostrare cos’è la responsabilità dell’intellettuale in determinati momenti storici. L’intellettuale non può estranearsi dalla storia altrimenti diventa complice di determinati misfatti. Mandralisca, che era chiuso nella sua erudizione di malacologo e antiquario, è stato costretto ad aprire gli occhi e vedere la realtà tragica e drammatica delle rivolte contadine nel 1860. Quando uscì, il libro fu chiamato ‘l’anti-Gattopardo’. Io non so se ne avevo consapevolezza tracciando questo personaggio, che modificai per quello che mi serviva. Non sapevo cioè di scrivere ‘l’anti-Gattopardo’, ma certo la mia concezione era assolutamente opposta a Lampedusa che vedeva nei cambiamenti storici una sorta di determinismo dove l’intervento dell’uomo sulla storia è, seppure con principi diversi, del tipo di quello di Verga: le classi nascono, si raffinano e tramontano come le stelle in un ciclo di ineluttabilità di cambiamenti epocali. Mentre Lampedusa giustificava anche quelle che chiamava ‘le iene e gli sciacalli’ dando loro una legittimazione deterministica, in me invece agiva una visione opposta della responsabilità dell’intellettuale nei confronti della storia, nel senso che deve dare un giudizio sulla storia e intervenire”. D. Clerici allora a che distanza sta dal Mandralisca?R. Quanto a Clerici, il gioco letterario è più scoperto. Avere spostato nel Settecento un personaggio contemporaneo mi è servito per rivendicare nei confronti della storia e del romanzo di cronaca il primato della letteratura, rendendole un omaggio nel senso che tra i sentimenti dell’uomo c’è l’amore e c’è la passione. La scelta di questi temi era dovuta alla contingenza di quei tempi. Ho scritto Il sorriso dell’ignoto marinaio in un momento di accensione storica qual è stato quello degli anni Settanta quando tutto era messo in discussione con il dibattito culturale e politico del momento. Negli anni in cui ho scritto Retablo c’era piuttosto un atteggiamento da parte di certi intellettuali e politici di disprezzo nei confronti della letteratura, vista come concezione borghese, sicché ho scritto quel libro per difendere la letteratura contro la storiografia. D. Lei ha frequentato generi disparati passando per esempio da una specie di introibocome fu Un sacco di magnolie, che è anche un bozzetto verghiano insieme con Il fosso, per arrivare a sponde rivali come nel caso dello Spasimo di Palermo. Ciò potrebbe fare pensare all’itinerario lungo e sofferto di una persona insofferente e smaniosa. R. Racconti come Un sacco di magnolie rappresentano il tributo che fatalmente deve pagare un esordiente a quelli che sono i padri sacramentali della letteratura siciliana. Sfido chiunque scriva a dire di non avere avuto un minimo di eredità brancatiana e verghiana. Quello era il momento della fascinazione verghiana, dopo la quale è venuta una presa di coscienza, la rivendicazione di una propria identità. D. Certo, ma passare da Verga a Eliot è come un “salto mortale”. R. Non c’è dubbio. Sono sempre stato affascinato dalla poesia di Eliotche ho scoperto attraverso Montale già al tempo de La ferita dell’aprile. Lo stesso titolo è di tipo eliotiano, perché Eliot dice che “aprile il più crudele dei mesi”, talché io ho identificato la crudeltà dell’aprile con l’adolescenza che era quella dell’io narrante, ma era anche l’ennesima adolescenza della Sicilia dopo la guerra, e dunque il momento della rinascita. Naturalmente questa ferita può rimarginarsi e diventare una “maturezza” come dice Pirandello oppure una cancrena. Io ho constatato che l’adolescenza in Sicilia è diventata una cancrena e che quella ferita è rimsta ancora aperta. Di Eliot mi affascinano i correlativi oggettivi, il passare da un’immagine a un’altra. E nello Spasimo di Palermomi ha accompagnato questa continua cifra eliotiana. D. Da un viatico verghiano passa dunque a un libro vittoriniano quale La ferita dell’aprile e chiude una sua prima stagione con Quasimodo e la Sicilia rimpianta. Ma c’è un secondo Consolo che ha ascoltato Dolci, Levi e Sciascia. Il salto è dall’empireo all’impegno. R. Io non vedo questo salto. È un processo di maturazione e di ricerca anche dal punto di vista linguistico e stilistico. Quando scrissi La ferita dell’aprile avevo consapevolezza piena di quello che facevo, della scelta di campo che operavo: avevo seguito la stagione del neorealismo, la memorialistica e tutto il meridionalismo, da Gramsci a Danilo Dolci fino poi a Carlo Levi e lo Sciascia delle Parrocchie. Voglio dire che l’esordio, a parte i racconti dei primi passi, è del tutto cosciente del contesto storico, sociale e stilistico perché questo libro è segnato da un forte impatto linguistico. Lo mandai a Sciascia e mi rispose chiedendomi spiegazioni su una particolarità linguistica che in effetti mi ha sempre accompagnato come diversità storica e sociale: cioè il dialetto galloitalico di San Fratello. Nella lettera che gli scrissi mi dissi debitore delle sue Parrocchie. D. La ferita dell’aprile sta a lei come Le parrocchie di Regalpetra stanno a Sciascia, con la differenza che Le parrocchie sono una prova di realismo storico mentre La ferita di realismo mitico. Perché allora si sente debitore di Sciascia e non di Vittorini? R. Perché i miei temi non erano di tipo esistenziale e psicologico, ma storico-sociale. Ho cercato di raccontare attraverso gli occhi di un adolescente cosa sono stati la fine della guerra, il dopoguerra, la ricomposizione dei partiti, la ripresa della vita sociale, le prime elezioni del ’47, la vittoria del Blocco del popolo, denunciando l’ennesima impostura che si perpetuava attraverso le vocazioni religiose, i “microfoni di Dio”, fino alla vicenda di Portella e la pietra tombale delle elezioni del ’48. Ho voluto rappresentare tutto questo con una cifra assolutamente diversa, prendendo le distanze da quella comunicativa di Sciascia e mettendomi su un piano di espressività. D. Perché se la corrente era in senso contrario? R. Ho le mie spiegazioni a posteriori di queste scelte. L’ho fatto perché non mi sentivo di praticare lo stile della generazione che mi aveva preceduto, Moravia, Calvino, Sciascia. C’era lo scarto di appena dieci anni con questi scrittori che avevano vissuto il fascismo e la guerra. Nel ’43, quando avevo dieci anni, loro nutrivano la speranza di comunicare con una società più armonica sicché la loro scelta illuminista e razionalista era nel senso della speranza. Quando io sono nato come scrittore questa speranza era caduta e ho cercato di raccontare perché si era restaurato un assetto politico che non era come si sperava, ancora una volta iniquo, che lasciava marginalità, oppressioni e sfruttamento. Ho scelto il registro espressivo e sperimentale non vedendo una società armonica con la quale comunicare. La speranza che avevano nutrito quelli che mi avevano preceduto in me non c’era più. D. Detto adesso sembra facile, ma allora lei aveva di fronte le ultime risacche del neorealismo e le prime correnti del Gruppo 63. R. Già, ma io avevo consumato questa esperienza. Il prete bello, Libera nos a Malo e la memorialistica di quanti erano reduci dalla guerra. Che non era diventata letteratura ma mera restituzione di un’esperienza. D. Ma quella sua prova fu fortemente innotiva e poco sciasciana. R. Senza dubbio. Ma è curioso che Sciascia sia stato impressionato dalla particolarità di questo libro. Poi, quando è uscito Il sorriso, a distanza di anni, con più consapevolezza e con la mimesi dell’erudito ottocentesco, Sciascia a Sant’Agata di Militello lo presentò e disse che quel libro era un parricidio. Voleva dire che avevo cercato di uccidere lui, come del resto avviene sempre. Dice Sklovskij che la letteratura è una storia di parricidi e di adozioni di zii. Debiti dunque sì nei confronti di Sciascia, ma la scelta di campo è stata diversa. La ricerca si inquadrava fatalmente sulla linea verghiana, gaddiana, pasoliniana della sperimentazione del linguaggio, della “disperata vitalità”, come la chiamava Pasolini. D. C’è un campo che è stato poco investigato circa la sua ricerca ed è quello del reportage. Penso a Il rito sulla morte di Rossi, o a Per un po’ d’erba ai limiti del feudo, “pezzi” giornalistici che l’hanno impegnata per due decenni. Come ha fatto a scrivere reportage mentre scriveva La ferita e poi Il sorriso? R. Mi sembravano due scritture diverse, della restituzione di una realtà immediata nel modo più originale la prima, senza però arrivare allo stile sciatto giornalistico, dando significati altri alla cronaca raccontata. Quando Sciascia stava facendo l’antologia sui narratori di Sicilia con Guglielmino pensava di mettere un mio brano della Ferita, ma quando lesse il racconto su Carmine Battaglia lo scelse perché gli sembrò più consono come sigillo di una certa realtà siciliana. D. A me piacerebbe davvero fare chiarezza sui suoi debiti perché non si è capito se sia figlio di Sciascia o di Vittorini. È un fatto che, per quanto sia stata importante per lei l’Odissea, a un certo punto dice che ci è arrivato attraverso Vittorini e non Sciascia. E allora mi chiedo chi è il suo padre putativo. Sembra amare di più Sciascia, ignora Vittorini in Di qua dal faro ma in verità ha ben conosciuto Vittorini e lo ha molto osservato. R. Dunque. A proposito di parricidi, nella Ferita ho fatto morire all’inizio il padre dell’io narrante e ho adottato uno zio che poi è diventato padre avendo impalato la madre del ragazzo. Poi faccio morire anche questo patrigno. Io sono figlio di tanti padri che poi regolarmente cerco di uccidere. Certo, Vittorini l’ho ignorato nei saggi perché Vittorini mi interessava per certe sollecitazioni di tipo teorico che lui dava circa la concezione letteraria. Sciascia, a una seconda lettura di Conversazione in Sicilia, dice di essere rimasto deluso, e lo capisco perché il libro è contrassegnato da una forte implicazione di tipo rondista con innesti di americanismo. Però è vero che per la prima volta appariva nella letteratura siciliana il movimento, l’atteggiamento attivo nei confronti della storia, la fuoriuscita dalla stasi verghiana, insomma una grande lezione per me quella del movimento. D. Lei ha fatto la stessa cosa che ha fatto Vittorini e che racconta in un’intervista a Giuseppe Traina: ha disegnato per Il sorriso la carta topografica di Cefalù, vicolo per vicolo, come Vittorini fece con la Sicilia per Le città del mondo. R. Già. Un modo per entrambi di essere più siciliani possibile, più precisi e acribitici. D. In Un giorno come gli altri lei pone una questione non risolta: quella della scelta tra lo scrivere e il narrare, dove scrivere significa cambiare il mondo e narrare soltanto rappresentarlo, secondo una definizione di Moravia. È importante quel racconto perché segna la sua scesa in campo politico. E lei dice che è meglio scrivere. R. Pensavo che la scrittura di tipo comunicativo-razionalistica avesse più incidenza che quella di tipo espressiva che io praticavo e che chiamo “il narrare”, implicata com’è con lo stile e la ricerca lessicale. Lo stile non ha impatto con la società e il movimento è dal lettore verso il libro, mentre in quella comunicativa il movimento è al contrario. I libri di Sciascia hanno fatto capire cos’era la mafia, Moravia ha fatto capire cos’era la noia durante il fascismo. La scrittura espressiva ha un destino diverso, com’è per la poesia. La narrazione non cambia il mondo. D. Lei ha fatto una scelta a favore del coté espressivo. R. Ho organizzato la mia prosa attorno alla forma poetica, seguendo un procedimento che riporta alle narrazioni arcaiche, orali, dove il racconto prendeva una scansione ritmica e mnemonica. D. Vediamo la vicenda sotto un altro aspetto. Lei e Basilio Reale, entrambi messinesi, avete avuto uguali trascorsi: a Milano insieme e nello stesso periodo, però lei va verso la prosa mentre lui verso la poesia. E si chiede come succeda questo fenomeno. R. Lo trovo infatti inspiegabile. D. Mentre poi dice di essere più votato alla poesia quando Reale ha dato poi prova di essere buon prosatore. R. Se parla delle sue Sirene siciliane, siamo di fronte a strumenti psicoanalistici. Io non so perché uno nasce con la tendenza verso la musica e un altro verso la pittura. Con Reale ci siamo incontrati all’università di Milano giovanissimi. A Messina non ci eravamo mai visti. Quando ci siamo conosciuti c’era un altro confrére, Raffaele Crovi che frequentava Vittorini più da vicino. Mi raccontava Ginetta Varisco, che ho frequentato dopo la morte di Vittorini, che Crovi veniva da uno strato sociale povero e quando andava a casa loro Elio le diceva “Cucina molta pasta perché questi ragazzi hanno molta fame”. D. I suoi libri sono giocati in forma autobiografica. Il Petro Marano che lascia la Sicilia o il Gioacchino Martinez che viene in Sicilia sono sempre trasposizioni di sé. È sempre stato lei, sin dai reportage; e non ha parlato che di sé. R. Sì, ma in maniera molto mascherata. La mia esperienza personale mi serve come chiave di lettura della realtà e del momento storico che vivo. Ma nel Sorriso ci sto poco. Sciascia vi vedeva più Piccolo che me. D. Verga e Pirandello, anche loro andati via, sono però riusciti a scrivere di Milano, Roma e di salotti borghesi. Mentre lei, Sciascia, ma anche Vittorini, pur stando fuori non siete riusciti che a scrivere sempre della Sicilia. E c’è un motivo: perché bisogna conoscere il linguaggio e averne memoria, come ha osservato lei stesso. R. Di Milano io non so fare metafora mentre della Sicilia sì. Di Milano posso restituire una cronaca, l’ambiente vissuto da studente, mentre la Milano che ho vissuto dopo mi serve per leggere meglio la Sicilia e creare paralleli tra questi due mondi antitetici e opposti. Non sono caduto in crisi come Verga, se mi è permesso: vivendo in questa realtà milanese non mi sono ripiegato verso l’infanzia dorata. Ho scoperto invece un’altra Sicilia, quella più vera e infelice, la continua ingiustizia e perdita e smarrimento dell’identità. I miei libri sono contrassegnati da questa spinta a varcare la soglia della ragione per andare nella terra dello smarrimento. Vittorini dal canto suo ha scritto su temi non siciliani i libri meno riusciti, così come Verga ha scritto Per le vie che sono le novelle meno felici. Io di argomento non siciliano ho scritto solo qualche racconto come Porta Venezia. D. E’ dunque d’accordo che si può staccare un siciliano dalla Sicilia ma non si può staccare la Sicilia da un siciliano? R. Certo. Nel bene e nel male non si può strappare la Sicilia a un siciliano. D. Ma c’è un ultimo Consolo smaniato da intenti umoristici. Nerò metallicò ne è un esempio. R. Di più c’è forse Il teatro del sole. E’ il rovescio del tragico. Musco a chi dice “Domani il sole illuminerà il cadavere di uno dei due” domanda “E si chiovi?”. E se piove? D. Lei ha riflettuto lo stesso sentimento di Vittorini quando davanti al mondo industriale capiva di poter raccontare solo quello contadino. Le città del mondo nasce da questo stato d’animo. R. Vittorini aveva creduto generosamente in un’utopia. Pensava che l’industrializzazione della Sicilia fosse possibile. Aveva avuto l’esempio olivettiano dell’industria a misura d’uomo e riteneva che la scoperta da parte di Mattei del petrolio risvegliasse finalmente i siciliani. Ed ecco nelle Città del mondo i contadini a cavallo che convergono al centro della Sicilia. Ma la realtà ha infranto la sua mitizzazione. Gli esiti li abbiamo visti. Gela, Augusta, Priolo, obbrobriosi e nefasti. Ecco cosa ne è stato dell’industrializzazione della Sicilia. Ci fu una polemica tra Sciascia e un giornalista dell’Avanti: Sciascia, che scriveva su L’Ora, aveva cominciato ad avanzare dubbi sull’ industrializzazione e il giornalista gli contestò la mancanza di ottimismo concludendo “Benedetti letterati”. E Sciascia rispose: “Adesso si vede che anche loro, i socialisti, hanno la facoltà di benedire, come i democristiani”. Vittorini avrebbe voluto che la Sicilia uscisse dalla condizione di inferiorità e di soggezione incamminandosi verso un mondo di progresso. Non credeva nei dialetti individuali ma nella commistione delle lingue, ma non sapeva che gli immigrati siciliani a Torino la sera uscivano per imparare il piemontese e mimetizzarsi. D. Se lo sguardo di Vittorini è utopico, il suo è nella trilogia certamente molto amaro. R. Ero più avveduto e avevo gli strumenti per esserlo. Avevo constatato la realtà qual era. Io mi direi, ricordando Eco, un apocalittico realista, avendo visto la realtà italiana dal dopoguerra ad oggi: una continua deriva verso i valori più bassi di un mondo che non accetto sotto nessun punto di vista.
http://www.letteratura.rai.it/articoli-programma-puntate/consolo-figlio-di-tanti-padri/1351/default.aspx
Sciascia e Parigi. Lo scrittore nella città
La tua Parigi è sempre quella che hai scoperto attraverso gli occhi di Sciascia?
Il primo libro di Sciascia francese è stato Il paradosso dell’attore di Diderot. Il mio primo romanzo francese, quando lo lessi avrò avuto 10-11 anni, è stato I miserabili di Victor Hugo. Siamo stati segnati da due matrici assolutamente diverse. Una romantica, l’altra settecentesca illuminista. Io amo moltissimo Parigi, ma non ci vado con lo spirito con cui ci andava Leonardo. Vedo Parigi molto letteraria, senz’altro; un giorno mi sono imbattuto in una targa che diceva che lì aveva abitato Hemingway; a ogni piè sospinto ti trovi pagine di letteratura; non c’è solo Voltaire, c’è anche Proust. Ho cercato di andare oltre questa geometria cartesiana, mi sento più romantico… che illuminista. Ma Parigi la trovo veramente la città ideale, al di là della letteratura al di fuori della letteratura, per il suo essere tante città; cosa che non credo sia neanche New York.
Forse perché in Italia siamo abituati alle piccole città. Anche la nostra letteratura è una letteratura di piccole città, a partire da Manzoni in poi, una letteratura della piazza, del villaggio. E lì invece appena giri l’angolo trovi una città assolutamente diversa. Ritrovi questa varietà di paesaggi anche umani. Una volta camminando, credo a Barbès, con Sciascia abbiamo incrociato una schiera di arabi e Sciascia mi disse «guarda che belle faccie di siciliani…», anche se sapeva benissimo che si trattava di arabi; lui aveva un grande amore per le matrici arabe della Sicilia, e ritrovarle a Parigi… credo lo affascinasse. Però questa mediterraneità, che lui vedeva a Parigi, ma anche il côté sudamericano, questa varietà di umanità lo affascinava; perché i nostri orizzonti sono monoculturali; solo adesso per la prima volta ci ritroviamo di fronte a degli estranei con le immigrazioni recenti. La Francia ha avuto da sempre la multi-cultura… credo che Leonardo fosse affascinato da questo; perché appunto conoscendo la storia siciliana, sapeva cos’era stata Palermo sotto i normanni, come ci racconta l’Amari; varie lingue, culture, religioni che convivevano insieme. Per lui era dunque l’ideale della reciproca conoscenza, dell’arricchimento reciproco, credo fossero tutte queste cose che lo affascinavano…
Vincenzo Consolo Conversazione a Siviglia a cura di Miguel Ángel Cuevas
VINCENZO CONSOLO
CONVERSAZIONE A SIVIGLIA
A cura di Miguel Ángel Cuevas
NOTA DEL CURATORE
Nell’ottobre del 2004 vennero organizzate presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Siviglia, su iniziativa dell’Istituto di Italianistica, delle giornate di studio sull’opera di Vincenzo Consolo. L’autore aveva già visitato in precedenza il capoluogo andaluso, sia privatamente sia in quanto invitato a tenere delle conferenze nell’Ateneo cittadino. In questo caso, era la celebrazione del suo settantesimo compleanno nel 2003 ad offrire un’occasione d’incontro ad un gruppo di studiosi interessati nell’analisi e l’interpretazione della sua opera. Partita la proposta, problemi di varia natura costrinsero però a posticipare le giornate, che dovettero finalmente intitolarsi ai 70+1 anni dello scrittore.
I risultati accademici del seminario vennero pubblicati in un dossier monografico nel numero 10 della rivista universitaria catalana Quaderns d’Italià, nel 2005. Al di là però di tali risultati, ciò che queste pagine vorrebbero proporre – senza altri filtri se non quelli assolutamente imprescindibili, a cui si accennerà dopo – è la voce dello scrittore stesso, le sue parole in presa diretta.
A motivo del convegno, il programma Tesi, trasmissione culturale della televisione pubblica andalusa, riprese Consolo in una lunga intervista, mandandone poi in onda una versione molto ridotta all’interno della serie Autoritratti. La prima parte di questo libro consiste nella trascrizione dei momenti di maggiore spessore riflessivo dell’intera intervista.
Pari interesse presenta almeno la seconda sezione del libro. Stimolato dalla lettura plurale alla quale veniva sottomessa la sua opera, spronato dalle molteplici significazioni che svariate operazioni ermeneutiche mettevano a fuoco nei suoi testi – la cui condensazione simbolica permetteva, anzi richiedeva interpretazioni diverse – Consolo prendeva estemporaneamente la parola in seguito agli interventi dei relatori: a volte per rispondere a delle domande dei partecipanti (studiosi e studenti); più spesso però motu proprio, senza bisogno d’alcun quesito, per raccontare: spinto dai privati ricordi destati da quella attenzione che la sua opera suscitava. E l’attenzione, come ognun sa, è una delle forme più alte dell’affetto. Così, ed intensamente, dovette percepirlo lo scrittore se, a conclusione dell’incontro, volle dire: «Al di là di me, al di là anche degli interventi di tutti, di tipo filologico, di tipo critico, la cosa più importante, più bella è questo ritrovarci qui, trovarci tra persone dello stesso sentire, dello stesso modo di concepire il mondo e la vita. Ecco, io credo che questa sia la cosa più importante, in questo mondo di oggi che va sempre più desertificandosi». Tutta questa narrazione orale, a viva voce, improvvisata come quella dell’aedo – che rimembra e dice, nel ripetere il già detto – era ripresa da un registratore. Possiamo leggerne ora, dopo il necessario assemblaggio, la trascrizione.
Nella prima edizione, spagnola, di questo testo, chiudeva il volume la traduzione de La grande vacanza orientale-occidentale, racconto che lesse lo scrittore a chiusura delle giornate e che ora fa parte del libro postumo La mia isola è Las Vegas: una narrazione di scoperta matrice autobiografica se la si legge alla luce di quanto è stato rapsodicamente raccontato durante la conversazione; ma anche se si dà ascolto alle ultime parole, sottovoce, timide e alquanto imbarazzate, che registra il documento sonoro: «Non c’è niente di inventato in questo racconto, è tutto vero».
In Conversazione a Siviglia (ammicco e controcanto, sin dal titolo, alla vittoriniana Conversazione in Sicilia) Vincenzo Consolo passa in rassegna l’intera sua opera: con la sola eccezione dell’ultimo dei romanzi, Lo Spasimo di Palermo, e della raccolta di saggi Di qua dal Faro, tutti i libri maggiori vengono rivisitati, sarebbe il caso di dire illuminati, delle volte reiterando opinioni, vicende già evocate in altre pagine: soprattutto nella narrazione frammentaria Le pietre di Pantalica e nel libro-intervista Fuga dall’Etna.
La presente edizione si arrichisce di nuove testimonianze rinvenute dopo quella spagnola. Nel 2009 Vincenzo Consolo visita per l’ultima volta Siviglia e la sua Università, a motivo di un convegno organizzatovi, sempre dall’Istituto di Italianistica, in occasione del ventennale della scomparsa di Leonardo Sciascia. Un’altra trasmissione culturale televisiva, Il pubblico legge, intervista lo scrittore: alcune delle sue osservazioni sono riportate in calce nel capitoletto I della prima sezione, e nel VII della seconda. Inoltre, la ripulitura ed eliminazione dei rumori nelle registrazioni ha permesso una miglior comprensione di alcuni passaggi oscuri e l’individuazione della voce dell’autore – e quindi la restituzione delle sue parole – in momenti di battute incrociate.
Nella trascrizione e collocazione di queste conversazioni un certo riordinamento, una relativa rielaborazione è stata necessaria: un processo di montaggio (poiché si tratta di una proposta selettiva) nel quale la scorrevolezza del discorso – pur conservando le tracce dell’occasionalità da cui parte – costringe a prescindere da certe giunture della registrazione e quindi ad approntare dei nessi nuovi. Ma il risultato di tutte queste operazioni, nella versione spagnola del testo, venne sottomesso alla revisione dello stesso Consolo, che ne autorizzò la pubblicazione. Autorizzò in due sensi: da una parte, diede il proprio consenso; dall’altra conferì al risultato di quelle procedure di trascrizione, traduzione e montaggio il suo marchio autoriale: attento in ogni momento a evitare nella misura del possibile che la fissità della scrittura tradisse l’oralità. Agiva senz’altro in lui la memoria di Enrico Pirajno barone di Mandralisca mentre redige la lettera che costituisce il capitolo VI de Il sorriso dell’ignoto marinaio: «E bene: chi verga quelle scritte, chi piega quelle voci e le raggela dentro i codici, le leggi della lingua? Uno scriba, un trascrittore, un cancelliere. Quando un immaginario meccanico strumento tornerebbe al caso, che fermasse que’ discorsi al naturale, siccome il dagherrotipo fissa di noi le sembianze».
Non più immaginario quel congegno, ora la parola consoliana non ha dovuto passare nemmeno il filtro della traduzione: eccola, tout court, testimonianza di impegno estetico e civile. Semmai, ci sarà da appellarsi alla fedeltà dello scriba.
Miguel Ángel Cuevas
letteredaQALAT
Caltagirone 2016
Pino Veneziano, cantastorie e anarchico selinuntino. Una conversazione con Consolo e Ovadia
Poeta popolare che si accompagnava con la chitarra, Pino Veneziano gestiva a Selinunte negli anni ’70, e ancora agli inizi degli anni ’80, una di quelle terrazze sul mare che era meta di buongustai, amanti delle antiche rovine della Magna Grecia e di una natura ancora incontaminata.
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” Autobiografia della lingua ” Vincenzo Consolo – Conversazione con Irene Romera Pintor
Vincenzo Consolo: Il sorriso dell’ignoto marinaio.
Il sorriso dell’ignoto marinaio viene pubblicato nel 1976 per l’Einaudi ed è il primo vero successo di Vincenzo Consolo. È un’opera percorsa da una forte tensione civile, un romanzo storico che riporta nella Sicilia dei moti rivoluzionari del 1860 ed ha al centro una sommossa contadina che si scatena in un piccolo paese (Alcara li Fusi ) all’arrivo delle truppe di Garibaldi. Questa sommossa è l’occasione per una presa di coscienza del protagonista, il barone filantropo Mandralisca di Cefalù (che riceve in dono a Lipari il celebre Ritratto d’ignoto marinaio ritratto che Antonello da Messina dipinse tra il 1460 e il 1470 su una tavola di piccole dimensioni). È attraverso quest’ultimo quadro che l’autore si interroga su grandi temi come la posizione dell’intellettuale dinanzi alla storia, il valore e le possibilità della scrittura letteraria, gli eventi cruciali della storia civile italiana, del passato e del presente. Consolo, attraverso la figura di Mandralisca si fa portavoce del malessere delle genti siciliane e dello spirito popolare tradito dalle strutture politiche. Egli inserisce nel racconto documenti dell’epoca, spesso manipolati; importante è perciò, in questo romanzo, la commistione tra arte e narrativa, tra storia e attualità.