di Vincenzo Consolo
Parole alte, degne vorremmo avere, essendo ogni parola nostra inadeguata, parole prese dai sacri testi o dai poemi immortali, parole per dire dei morti, degli uomini giusti uccisi nella lotta per il ripristino della legalità, della decenza, della civiltà. I morti della turpe, infetta Palermo, che odora di sangue e di cancrena; i morti dell’Isola tremenda da sempre dominata da una classe laida, feroce, feudale, massonica, finanziaria, intellettuale, e dai sicari suoi armati di coltello e di lupara; le vittime di un potere politico ottuso e protervo, corrotto e criminale, dell’eterno fascistico potere italiano.
PALERMO, MAGGIO-LUGLIO 1992
Questa città è diventata un campo di battaglia, un macello quotidiano. Sparano, fanno esplodere tritolo, straziano vite umane, carbonizzano corpi, spiaccicano membra su alberi e asfalto – ah, l’infernale cratere sulla strada per l’aeroporto! – E una furia bestiale, uno sterminio. Si ammazzano tra di loro, i mafiosi, ma principale loro obiettivo sono i magistrati, questi uomini diversi da quelli d’appena ieri, o ancora attivi, magistrati di nuova cultura, di salda etica e di totale impegno costretti a combattere su due fronti, quello interno delle istituzioni, del corpo loro stesso giudiziario, asservito al potere politico o nostalgico del boia, dei governanti complici e sostenitori dei mafiosi, da questi sostenuti, e quello esterno delle cosche, che qui hanno la loro prima linea, ma la cui guerra e contro lo Stato, gli Stati, per il dominio dell’illegalità, il comando dei più immondi traffici.
Questi magistrati sono persone che vogliono ripristinare, contro quello
criminale, il potere dello Stato, il rispetto delle sue leggi. Sembrano figli, loro
di un disfatto padre, minato da un misterioso male, che si ostinano a far
rivivere, restituirgli autorità e comando…
In questo Paese invece, in quest’ accoglia di famiglie, questo materno confessionale d’assolvenza,
dove lo Stato è occupato da cosche o segrete sette di Dévorants, da tenebrosi e
onnipotenti Ferragus o Cagliostri, dove tutti ci impegniamo, governanti e
cittadini, ad eludere le leggi a delinquere, il giudice che applica le leggi ci appare come un giustiziere insopportabile, da escludere, rimuovere. O da uccidere…
Dopo l’assassinio in maggio del magistrato, della moglie e dalle guardie, dopo i tumultuosi funerali, la rabbia, le urla, il furore della gente, dopo i cortei e le notturne fiaccolate, i simboli agitati del cordoglio e del rimpianto, nel luglio di fervore stagno sopra la conca di cemento, di luce incandescente che vanisce i mondo, grave di profumi e di miasmi, tutto sembra assopito, lontano..
Il magistrato, davanti al portone della casa di sua madre, premette il campanello. E fu in quell’istante il gran boato, il ferro e il fuoco, lo squarcio d’ogni cosa, la rovina, lo strazio, il ludibrio della carne, la Morte che galoppa trionfante, la lurida falce stretta nell’ossa della mano.
REQUIEM
Pace, pace o Signore, riposo,
fermo cielo per loro, luminoso.
Per te, Dio, del Tempio il canto,
per Te il voto da questa Palermo.
Ascolta me, me supplice ascolta,
Magistrato dell’estremo giudizio.
…
Dio, per loro, creature di pena,
soccorso, Cristo, umano fratello.
Pace e luce concedi, e riposo.
IL CAPO MAFIA DELLA SICILIA RURALE PRIMA EDUCAZIONE ALLA LEGALITA’
Ora appena passata la guerra, là in Sicilia, e nell’ottobre del ‘43
Partii con mio padre e l’autista Delfio, sul vecchio camion Fiat 621, dal lungo muso, alla ricerca, a guerra, la in Sicilia, a vecchio camion Fiat 621, dal lungo muso, alla ricerca, nei paesi dell’interno, di cereali, fave ceci cicerchie lenticchie, ché nella zona nostra tirrenica d’agrumi non se ne trovavano.
Andammo su per le Madonie, passammo per paesi e paesi, Collesano Caltavutùro Valledolmo Vallelunga Pratameno, attraversammo campagne brulle, desertiche – i ponti sopra le fiumare erano crollati e carcasse affumicate di camion e carrarmati erano ai bordi delle strade.
Arrivammo infine a Villalba, paese famoso per le lenticchie.
Ci recammo da un commerciante il quale ce ne vendette due sacchi. Delfio li caricò sopra il camion. Arrivò il maresciallo dei carabinieri e disse: *Alt, le lenticchie da qui non partono. Anche a Villalba la gente ha fame”. “Va be’, va be’” disse il commerciante, e fece scaricare a Delfio i due sacchi. Poi, a mio padre: “Venga, venga con me”. Mio padre prese me per la mano e segui il commerciante. Il quale ci condusse in casa di un signore che si chiamava don Calò Vizzini, un vecchio laido, bavoso. Che volete?” disse. E il commerciante gli raccontò la vicenda delle lenticchie. Il vecchio pensò un po’ e poi sentenziò, rivolto a mio padre: “Fra mezz’ora potete partire, con le lenticchie!” Ma giunti presso il camion, mio padre disse addio, addio al commerciante, fece mettere in moto a Delfio con la manovella e ripartimmo velocemente.
Sul camion, lungo la strada, mi disse mio padre: “Hai visto, da queste parti il capo mafia comanda più dei carabinieri. Scrivilo, scrivilo a scuola, quando farai il copiato”
Si dice tema, pa’, componimento” gli risposi.
MAFIA E PSICANALISI
Lo psicanalista Filippo Di Forti, in “Per una psicanalisi della mafia” sostiene che nel mafioso ce la distruzione della figura del padre, che sarebbe lo Stato, e il vagheggiamento dell’imago della madre, che quindi Cosa Nostra e una consorteria fraterna con un unico oggetto d’amore.
E una condizione questa di immaturità e di mammismo non solo di Palermo, ma della Sicilia, dell’Italia tutta. Di questa città, di quest’isola, di questo Paese mammone mostruosamente cristallizzato all’ età adolescenziale, che di volta in volta si consegna a uno pseudo padre, a un padre putativo – capo cosca, capo cupola o capo partito, Mussolini Andreotti Craxi o Berlusconi che sia – e da questo padre si fa possedere, si fa stuprare, nel cervello, nella coscienza. “Chi ti dà il pane chiamalo padre” recita un osceno proverbio siciliano. E il pane, per favore e compromissione, te lo dà il mafioso e il politico. Pane che la madre, nell’interno domestico, amorevolmente e umoralmente dispensa ai figli.
“O madri, o razza particolare!” esclama Dominique Fernandez in “Madre Mediterranea” quando, giunto a Palermo, al mercato della Vucciria viene stretto tra le corpulente madri che fanno la spesa. E la Vucciria, il quadro di Guttuso, altro non è che un grande ventre, una caverna di carni, di uova, di salumi, di formaggi, di verdure.
E sgnaff, sgnaff, abboffiamoci noi tutti vecchi siciliani, vecchi italiani immaturi, appanziamoci assieme al governatore Totò Cuffaro assieme al Senatore Dell’Utri assieme al signor cavaliere presidente del Consiglio onorevole Silvio Berlusconi. Sgnaff!
Vucciria di Renato Guttuso è un’opera del 1974