Nostri questi morti dissolti/ nelle fiamme celesti, / questi morti sepolti/ sotto tumuli infernali, nostre le carovane d’innocenti / sopra tell di ceneri e di pianti. / Nostro questo mondo di follia. Quest’im-mondo che s’avvia...[1].
In questi versi, di Frammento, Consolo accusa l’umanità intera, inchiodandola alle proprie responsabilità di fronte alla morte di innocenti: lo fa definendo «nostro» sia lo spazio stravolto del pianeta e della contemporaneità – l’ «im-mondo» – sia la massa di cadaveri che ne sono vittime. Non si fa fatica a leggere in questo breve e raro testo poetico soprattutto l’indignazione per le morti generate da guerre e migrazione nel mare nostrum, quel mare in cui, come scrive Braudel, più volte citato, «l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato» [2].
Penso che oggi, di fronte ai nuovi, continui sbarchi, di fronte ai nuovi morti in mare, alle politiche europee ancora non risolutive e divisive, ma anche di fronte ai nuovi conflitti, Consolo avrebbe simili, se non identiche, parole di indignazione. Mi vengono in mente altri versi però, anche questi poco noti, che mi sembra possano costituire una sintesi dell’alternativa all’«im-mondo» proposta dall’intellettuale, proposta sempre valida, tanto più per chi abita il Mediterraneo.
Mi piace pensare che con l’ignoto “tu” Consolo alluda ad un’identità sua e di tutti i figli del Mediterraneo, un’identità non priva di sofferenze, nata da una relazione vecchia di secoli con la terra, le piante, i muri a secco, con i paesaggi, soprattutto un’identità nata dagli incroci («sei nato da madre ebrea / e da padre saraceno»).
Il Mediterraneo di Consolo
La riflessione sulla complessità del Mediterraneo è il filo conduttore di tutta l’opera di Consolo e si innesta sulle considerazioni a proposito della varietà e della molteplicità che caratterizzano la storia, l’ambiente, il patrimonio della Sicilia [4]. Come estremamente significativo è nell’Isola il flusso incessante di energie umane e culturali, che hanno condizionato e condizionano il paesaggio, accostando e sovrapponendo più identità [5], allo stesso modo l’intero Mediterraneo è amalgama, crocevia di popoli differenti, non solo territorio della conflittualità ma anche patrimonio ricchissimo, possibilità della relazione e dello scambio.
Dello spazio estremamente vario e molteplice Consolo coglie caratteri ricorrenti, corrispondenze e somiglianze: memoria di paesaggi noti, conoscenze geografiche, storia della rappresentazione si intrecciano nel proporre associazioni relative al patrimonio naturalistico, considerazioni sulle fragilità degli spazi urbani e sui problemi ecologici. Tutto il Mediterraneo è, ad esempio, regno solare degli aranci [6]; pini, ulivi, fichi e vigne caratterizzano il paesaggio balcanico ma anche quello greco, siciliano, turco [7]; le colline rocciose della Palestina somigliano a quelle degli Iblei siciliani [8]. Città, anche distanti, sono accomunate dalla fatica nella gestione della verticalità, della stratificazione, dal segno della decadenza a contatto con la modernità: la Casbah di Algeri è come il centro storico di Palermo [9], il paesaggio urbano siracusano somiglia a quello di Salonicco [10]. L’intero Mediterraneo, poi, è segnato da «piccoli luoghi antichi e obliati», dove natura e resti del passato si intrecciano [11] e che sono privi dell’attenzione che invece sarebbe doverosa.
In questo scenario complesso l’uomo si macchia infatti della colpa dell’incuria nei confronti del patrimonio naturalistico e culturale. Ma ancor di più è responsabile della violenza contro la vita umana, in svariate forme. Il Mediterraneo è, per Consolo, spazio della conflittualità: Palermo, in preda alle lotte di mafia, è come Beirut [12]; Comiso, coi suoi missili Cruise, rappresenta la minaccia costante della violenza tra popoli [13]; l’integralismo del Maghreb stravolge la preghiera nella violenza brutale delle armi [14]; uno «scenario apocalittico, sconvolgente», un «paesaggio di macerie» [15] caratterizzano la Sarajevo del 1997; infernale è la Palestina, visitata dall’autore con altri membri del PIE nel 2002 [16]. Soprattutto il mare nostrum è teatro della violenza nei confronti dei migranti.
Alla rappresentazione del loro destino concorre l’uso del mito antico. I migranti, infatti, ripetono il tormento del vagare di Ulisse, che non è proposto come l’eroe del ritorno – tanto più che non si può più tornare davvero nella terra da cui si è partiti – ma è piuttosto il naufrago, l’esule senza nome alla corte del re dei Feaci [17]; essi sono Enea in fuga da una terra in fiamme, sono Troiane, fatte schiave e costrette ad allontanarsi dalla propria patria [18].
Ma ancor di più i versi eliotiani di Morte per acqua riescono a parlare della realtà contemporanea. In Retablo l’episodio in cui la statua dell’Efebo di Mozia si perde nel mare suscita la riflessione su un’altra perdita, ben più grave, quella delle vite umane che in ogni tempo si sono spente e si spengono nell’acqua, «sciolte nelle ossa» come Phlebas il fenicio [19]. In L’olivo e l’olivastro la citazione si lega esplicitamente al ricordo della morte del giovane Bugawi, morto nel 1981 per il naufragio del Ben Hur e condannato a rimanere per sempre in fondo al mare [20]. Anche i naufraghi di Scoglitti [21] sono Phlebas il fenicio, e lo sono tutti i morti del Mediterraneo, tutti quelli che barconi stracarichi e responsabilità umane hanno lasciato affogare [22].
Pagina del manoscritto con la citazione di Braudel
Già in un testo del ‘90 Consolo evidenzia l’ampliamento smisurato del braccio di mare tra Sicilia e Nord Africa [23]: l’autore osserva un confine laddove prima non c’era «frontiera, barriera fra due mondi, ma una via di comunicazione e di scambio» [24]. Non è un caso che si riferisca in più occasioni all’emigrazione di lavoratori di Sicilia, di Calabria o di Sardegna nelle terre degli «infedeli», all’emigrazione specie ottocentesca fatta anche di intellettuali e borghesi [25]. La sua insistenza va considerata in relazione al suo interesse per quell’emigrazione africana in Italia che ha avuto origine negli anni Sessanta e che non si è più arrestata. Le riflessioni a tal proposito sono estremamente lucide e inquadrano precocemente la questione.
I primi lavoratori tunisini, forniti del semplice passaporto con il visto turistico e sprovvisti di quell’autorizzazione che permetteva un regolare contratto di lavoro, giungevano in Sicilia nel 1968. La presenza di questi primi immigrati, costretti a ritornare in patria alla scadenza del visto turistico, rispondeva alla domanda di lavoro a buon mercato da parte di proprietari terrieri e di armatori, per i quali reclutare questa manodopera e sfruttarne la condizione abusiva era senza dubbio un vantaggio. Ai primi immigrati si aggiunsero allora parenti e amici e il fenomeno si allargò [26].
«L’emigrazione in Italia dei poveri del Terzo Mondo» [27] ha inizio a Mazara, città che il 17 giugno 827 – ricorda Consolo citando Amari – accolse lo sbarco dei musulmani [28]. A distanza di secoli il miracolo economico degli anni Sessanta attiva di nuovo la rotta dal Nord Africa [29] che va a riempire i vuoti lasciati dall’altro flusso migratorio, quello dei meridionali verso il Nord. Anche se il caso di Mazara ha una sua indiscussa esemplarità, il fenomeno già all’origine riguarda un po’ tutto il trapanese: una terra che ha più di un tratto in comune con la regione di partenza [30]. Ma mentre, accennando alla somiglianza geografica e culturale delle due rive del Mediterraneo, porta l’attenzione sulla vicinanza tra i popoli e sui risvolti positivi dello scambio del passato, Consolo fa emergere la stortura del presente e individua in questa nuova migrazione l’inizio di una lunga serie di episodi di xenofobia e persecuzione [31].
Nel 1999, in Di qua dal faro, l’intellettuale già lamenta l’assenza di previsioni, progettazioni, di accordi tra governi [32]. Gli articoli successivi, suscitati in particolare dalla legge Bossi-Fini, si concentrano sul contrasto evidentissimo, soprattutto a Lampedusa e nelle altre Pelasgie, tra l’opulenza del turismo nella natura incontaminata e la disperazione dell’approdo dei migranti [33]. Il procedimento antifrastico con cui Consolo si finge sostenitore delle ragioni dei ricchi vacanzieri contro gli sbarchi invadenti degli stranieri evidenzia lo stridere dei due mondi: «Ma lì, a Lampedusa, inopinatamente vi giungono anche, mannaggia, gli emigranti clandestini»[34]. Così la bella Lampedusa diventa scenario di guerra contro l’infedele, come nel poema ariostesco. Nel Duemila l’isola, divenuta da «remoto scoglio», «meta ambitissima del turismo esclusivo», è luogo d’approdo di pescherecci e gommoni che rovesciano «i nuovi turchi, i nuovi invasori saracini», ovvero il carico di clandestini [35]. E – ancora è dominante l’antifrasi –, se non ci sono gli antichi paladini a combatterli e neppure le navi militari auspicate da Bossi, c’è però il mare che s’infuria e travolge ogni imbarcazione [36].
Assurde si rivelano le leggi per gestire gli arrivi e, se già prima della Bossi-Fini, Consolo lamentava la violazione sistematica dei diritti dell’uomo, dopo il 2002 è ancora più duro. Bersaglio polemico sono le nuove normative, più rigide: le nuove disposizioni prevedono che le carrette siano bloccate in acque extraterritoriali, «forse anche speronate e affondate. Con tutto il loro carico umano» [37]. Bersaglio polemico sono i centri di prima accoglienza che – scrive – non meriterebbero questo nome, perché piuttosto di lager si tratta, luoghi atroci, di violenza e umiliazione [38]. Bersaglio polemico è la diffusione di sentimenti xenofobi, suscitati dalla politica nella mentalità comune, ben rappresentata dall’io narrante del racconto eponimo di La mia isola è Las Vegas che invoca la costruzione di muri d’acciaio per arrestare la marea dei migranti [39].
In quest’ottica di critica alla nuova legge e all’inadempienza del dovere morale verso i migranti va letta la netta opposizione di Consolo al progetto di un museo della migrazione a Lampedusa, promosso nel 2004 dalla deputata regionale dell’Udc Giusy Savarino. A lei l’autore si rivolge pubblicamente, accusando l’ipocrisia profonda di una tale iniziativa [40] e riflettendo su quanto sia irrimediabilmente compromessa l’identità dello spazio mediterraneo. Niente rimane del mare di miti e storia, niente della straordinaria convivenza tra culture diverse. Il monito dei reperti archeologici, delle narrazioni risulta poca cosa di fronte al mutamento dello sguardo collettivo sancito dalle leggi e ai lager mascherati da centri di accoglienza: il mare si è fatto frontiera, confine, che gli altri, gli stranieri, non devono superare. Ed è contemporaneamente cimitero, spazio del sacrificio, della tragedia. Perciò il progetto di un museo a Lampedusa è, per Consolo, strumento di una retorica ipocrita, che non è giusto appoggiare: che senso avrebbe un monumento all’emigrazione, quando proprio i migranti vengono combattuti, respinti, lasciati morire in mare?
Divenuto, nei fatti, confine, limite, addirittura cimitero a causa della grande quantità di morti, il mare potrebbe essere, invece, occasione di arricchimento in virtù dello scambio tra popoli. È un’immagine ideale, eppure realizzabile, quella che Consolo propone, insistendo su una storia di civiltà, quella siciliana in particolare, che ha la radice della sua grandezza proprio nell’incontro tra le differenze: se l’isola è divenuta luogo di approdo dei migranti che provano a sfuggire alla guerra, alla persecuzione o alla povertà, non si deve dimenticare che il progresso, quello vero, è sempre figlio dell’arricchimento che proviene dall’alterità. Lo dimostrano gli straordinari effetti della dominazione araba in Sicilia, a cui Consolo riconosce, sulla base di un ricco corredo di fonti e seguendo l’opinione di Sciascia, un valore fondante in termini di identità [41]. Non a caso l’insistenza sulla presenza degli Arabi nell’Isola si traduce nella frequente celebrazione delle innovazioni in ambito agricolo, tecnico, delle trasformazioni in ambito artistico-culturale.
Che l’arrivo di nuovi popoli – tutti, non solo gli Arabi – produca progresso è poi testimoniato per l’autore anche da migrazioni più antiche come dimostra l’entusiastica rappresentazione della Sicilia come museo a cielo aperto, che accoglie rovine del passato, città greche, elime, puniche. Numerosi sono i riferimenti alla nascita delle colonie, a volte molto precisi, con indicazione dell’ecista, del territorio di origine, degli sviluppi della vicenda coloniale, sulla base dei dati forniti da fonti antiche, come l’opera di Tucidide, o su testi più recenti che rinviano però alla storiografia greca: testi saggistici e prove narrative offrono una rappresentazione della Sicilia e del Mediterraneo che ne valorizza l’aspetto di crocevia di popoli e, concentrandosi sulle migrazioni dell’antichità, impostano un implicito confronto con gli spostamenti della contemporaneità, riconoscendovi ragioni identiche o simili, ovvero guerra, fame, difficoltà economiche.
Ne L’olivo e l’olivastro [42], ad esempio, Consolo si sofferma sull’emigrazione megarese verso la parte orientale dell’isola. La visita ai resti di Megara Hyblaea, assediata dall’orrendo polo industriale siracusano, suscita una rievocazione estremamente positiva dell’opera dell’ecista Lamis, dell’idea di uguaglianza e progresso dei coloni, della fertilità e della geometria nella suddivisione del terreno in lotti. All’enfasi sulla fondazione Consolo aggiunge il plauso per le capacità che i Megaresi, scacciati dai Corinzi di Siracusa, dimostrarono, affrontando l’ignoto della Sicilia occidentale dove fondarono Selinunte [43]. Se poi, in La Sicilia passeggiata, il mistero sull’origine di Segesta richiama i versi 755-758 del V libro dell’Eneide che, con il cenno alla costruzione del tempio di Venere sul monte Erice, fanno riferimento alla ktisis [44], questo accade perché allo scrittore interessa evidenziare la conseguente fusione tra popolazione straniera migrante (i Troiani) e popolazione locale (gli Elimi).
Risulta chiaro allora che per Consolo gli incontri, gli scambi tra popoli di culture diverse sono stati da sempre causa del cammino della civiltà, e che la chiusura, il rifiuto dell’ignoto che arriva da fuori, è perdita, regressione [45].Perciò, egli, servendosi di una frase di Zanzotto, «Ci troviamo oggi tra un mare di catarro e un mare di sperma», descrive il vecchio continente come scioccamente arroccato nelle sue posizioni. Vecchia davvero è l’Europa, vecchia l’Italia, non solo per l’età media della popolazione, ma per una cecità di fronte all’arrivo delle masse disperate dei profughi che non riconosce la ricchezza dell’accoglienza e addirittura produce morboso attaccamento ai privilegi, difesi con pericolosi atteggiamenti xenofobi [46].
All’imperativo dell’accoglienza umanitaria, a cui implicitamente alludono nell’articolo Gli ultimi disperati del canale di Sicilia le immagini tremende del mare-cimitero («bare di ferro nei fondali del mare») e dell’orrenda pesca dei morti («i corpi degli annegati nelle reti dei pescatori siciliani»), Consolo aggiunge la necessità di una valutazione delle possibilità economiche e culturali, persino letterarie, che derivano dai flussi di migranti.
Conclusioni
Se l’emigrazione a cui si riferiva Consolo era soprattutto quella dal Nord Africa – anche se non mancano nella sua opera riferimenti ad altre rotte, non mediterranee – oggi la provenienza dei migranti è più varia e non interessa solo il canale di Sicilia, sebbene Lampedusa continui ad essere punto di approdo per molti. Siamo atrocemente avvezzi alle immagini di tragedie in mare: per citarne solo alcune, quella del 3 ottobre 2013 proprio nelle acque di Lampedusa, il naufragio nei pressi di Bodrum del 2015, tristemente noto per la foto del corpo del piccolo Alan Kurdi, o quello più recente di Steccato di Cutro.
Di fronte ad uno scenario complicato dalla varietà di provenienze e rotte e, ancora, da politiche non risolutive, la lezione di Consolo resta quanto mai valida. Dalla conoscenza storica deve venire la consapevolezza che il progresso è sempre figlio dell’incontro e non si può allora guardare al Mediterraneo, e a nessun altro luogo, in termini di confine, limite: in gioco ci sono, proprio come scriveva l’autore, questioni culturali e economiche che non possono essere trascurate e ciò da parte dell’uomo comune e da parte dei politici. L’invito alla memoria del nostro passato inoltre implica l’invito al recupero dell’umanità – i Feaci accolgono e soccorrono Ulisse quando lo trovano naufrago – e della pacifica convivenza tra popoli diversi – la civiltà araba, ad esempio in Sicilia, seppe proporre un lodevole dialogo tra le diversità. Se non vogliamo che l’«im-mondo» prenda il sopravvento, allora, dobbiamo soprattutto restare umani.
Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023
Note
[1] V. Consolo, Frammento, in Per una Carta “visiva” dei Diritti civili, Viennepierre, Milano 2001, anche in “Microprovincia”, 48, gennaio-dicembre 2010: 5.
[2] La citazione del passo di Braudel è molto frequente nell’opera di V. Consolo, ad esempio a conclusione di Il ponte sul canale di Sicilia (Di qua dal faro, in L’opera completa,a cura e con un saggio introduttivo di G. Turchetta e uno scritto di C. Segre, Mondadori, Milano 2015: 1198). Il passo di Braudel è in F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, trad. it. di C. Pischedda, Einaudi, Torino 1976: 921-922.
[3] Accordi. Poesie inedite, a cura di F. Zuccarello e C. Masetta Milone, Zuccarello editore, Sant’Agata di Militello 2015.
[4] Sull’argomento, ho già scritto diffusamente in A. Bellanova, Un eccezionale baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo, Mimesis, Milano 2021: 281-307.
[5] Emblematico Uomini e paesi dello zolfo, in Di qua dal faro, cit.: 981-982.
[6] Arancio, sogno e nostalgia, in “Sicilia Magazine”, dicembre 1988:35-46, ora in La mia isola è Las Vegas, a cura di N. Messina, Mondadori, Milano 2012: 128-133, 128-129.
[7] Ma questa è Sarajevo o Assisi?, in “L’Espresso”, 30 ottobre 1997.
[8] Madre Coraggio, in La mia isola è Las Vegas, cit.: 196.
[9] Orgogliosa Algeri tra mitra e coltello,in“Il Messaggero”, 20 settembre 1993.
[10] Le pietre di Pantalica, in Le Pietre di Pantalica, L’opera completa, cit.: 619. Neró metallicó, in Il corteo di Dioniso, La Lepre edizioni, Roma 2009: 9.
[11] L’olivo e l’olivastro, L’opera completa, cit.: 836.
[12] Le pietre di Pantalica, in Le pietre di Pantalica, cit.: 625.
[13] Ivi: 623.
[14] Ad esempio in Quei parabolizzati che sognano l’Italia, in “Corriere della sera”, 20 giugno 1991 o Orgogliosa Algeri tra mitra e coltello, in “Il Messaggero”, 20 settembre 1993.
[15] Ma questa è Sarajevo o Assisi, cit.
[16 Madre Coraggio, in La mia isola è Las Vegas, cit.: 195-200.
[17] Sulla presenza del mito di Ulisse nell’opera di Consolo, si veda A. Bellanova, Un eccezionale baedeker, cit., passim.
[18] Versi dall’Eneide di Virgilio (II 707-710) e dalle Troiane di Euripide (vv. 45-47) vengono citati in più di un’occasione, soprattutto nei testi giornalistici, come monito e come testimonianza di un dramma che si ripete. Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, in “La Repubblica”, 18 settembre2007, o in I muri d’Europa, cit.: 25, o Migrazione, la civiltà come arte della fuga, cit. Ma si veda anche l’inserimento dei versi Aen. II 780 a epigrafe dell’ultimo capitolo di Nottetempo, casa per casa, quello su fuga-emigrazione di Petro (Nottetempo, casa per casa, in L’opera completa, cit.: 748).
[19] Retablo, in L’opera completa, cit.: 453.
[20] L’episodio è rievocato, con citazione da Eliot, in L’olivo e l’olivastro, in L’opera completa, cit.: 865-866. Nel giugno del 1981 appena dopo il terremoto che aveva colpito Mazara, gli armatori ebbero fretta di rimandare in acqua le navi. Nel naufragio del Ben Hur morirono cinque mazaresi e due tunisini. L’identità di questi rimase ignota per diversi giorni: un indizio della condizione di sfruttamento e illegalità in cui lavoravano gli stranieri. Sullo stesso episodio, sempre con riferimento a Phlebas il fenicio, si veda Morte per acqua, in “Il Messaggero”, 15 luglio 1981, o “Ci hanno dato la civiltà”, in “La Voce”, 23 giugno 1994.
[21] Dedicato ai morti per acqua, in “L’Unità”, 29 settembre 2002. La citazione dei versi di Eliot chiude l’articolo e, che mi risulti, è l’unico caso in cui il passo è riportato per intero. Consolo si riferisce a quanto avvenuto il 24 settembre 2002: uno scafista abbandona a 300 metri dalla spiaggia di Scoglitti il suo carico di migranti; le onde impediscono l’approdo, muoiono 14 persone.
[22] Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, cit., o in I muri d’Europa, cit.: 29. Meno esplicito il riferimento a Eliot in Immigrati avanzi del mare, in “L’Unità”, 18 giugno 2003, dove è l’aggettivo “spolpato” (“qualche corpo gonfio o spolpato finisce nelle reti dei pescatori”) che allude a Phlebas il fenicio.
[23] Cronache di poveri venditori di strada, in “Corriere della sera”, 21 ottobre 1990.
[24] Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, cit.: 1193.
[25] Si veda in particolare Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, cit.: 1195-1196; Il Mediterraneo tra illusione e realtà, integrazione e conflitto nella storia e in letteratura, in G. Interlandi (a cura di), La salute mentale nelle terre di mezzo. Per costruire insieme politiche di inclusione nel Mediterraneo, Atti del Convegno di Psichiatria Democratica, Caltagirone, 12-13 marzo 2009, numero monografico di “Fogli di informazione”, terza serie, 13-14, gennaio-giugno 2010: 5-7. Si veda anche l’inserimento della vicenda come elemento narrativo in Nottetempo, casa per casa, che si conclude proprio con l’emigrazione di Petro in Tunisia (Nottetempo, casa per casa, cit.: 753-754).
[26] Sul fenomeno si veda A. Cusumano, Il ritorno infelice, Sellerio, Palermo 1978. Consolo lo cita in diverse occasioni, ad esempio, Il ponte sul canale di Sicilia, cit.: 1197.
[27] L’olivo e l’olivastro, cit.: 865.
[28] Ivi: 864.
[29] Ibidem. Si veda anche Il ponte sul canale di Sicilia, cit.: 1197-1198. Molti gli articoli sul caso di Mazara, ad esempio I guasti del miracolo, in “Il Messaggero”, 10 luglio 1981; Morte per acqua, cit; “Ci hanno dato la civiltà”,cit. Ancora precedente l’articolo uscito su “Sans frontières” nel 1980 che si sofferma sulla storia di Mazara prima di concentrarsi sulla quarta guerra punica o guerra del pesce i cui protagonisti erano proprio i tunisini immigrati della casbah: Quatrième guerre punique, in “Sans frontières”, 30 settembre 1980.
[30] Alla somiglianza tra Italia meridionale e Nord Africa Consolo fa riferimento in “Ci hanno dato la civiltà”, cit. Sulla questione anche un articolo del 1981, Immigration africaine en Italie (“Sans frontières” 3 gennaio 1981): l’Italia è la prima tappa dei migranti per necessità geografiche ma anche perché è una terra non veramente straniera.
[31] L’olivo e l’olivastro, cit.: 865; Il ponte sul canale di Sicilia, cit.: 1197. Nel precedente I guasti del miracolo (cit.) Consolo rileva lo scandalo del dopo terremoto di Mazara (7 giugno 1981): ai tunisini vengono negate le tende, perché stranieri e perché non votanti e quindi ininfluenti nelle imminenti elezioni regionali.
[32] Il ponte sul canale di Sicilia, cit.: 1197-1198.
[33] Il mondo di Bossi Fini stupido e spietato, in “L’Unità”, 29 agosto 2002.
[34] Ibidem.
[35] Lampedusa è l’ora delle iene, in “L’Unità”, 28 giugno 2003.
[36] Ibidem.
[37] Il mondo di Bossi Fini stupido e spietato, cit.
[38] Ibidem ma anche Immigrati avanzi del mare, cit.
[39] La mia isola è Las Vegas, in La mia isola è Las Vegas, cit.: 217.
[40] Solo un monumento per gli immigrati, in “La Repubblica”, 21 agosto 2004. Sulla questione Consolo si era già espresso qualche giorno prima: Perché non voglio quel museo, in “La Repubblica”, 19 agosto 2004.
[41] Estremamente rappresentativa appare a proposito la sezione Sicilia e oltre in Di qua dal faro e, in particolare, il saggio introduttivo, La Sicilia e la cultura araba (Di qua dal faro, cit.: 1187- 1192).
[42] L’olivo e l’olivastro, cit.: 783.
[43] Ivi: 783-784, ma anche Retablo, cit.: 432; La Sicilia passeggiata, con fotografie di G. Leone, Nuova Eri, Torino, 1991: 94-95; Malophoros, in Le pietre di Pantalica, cit.: 578.
[44] La Sicilia passeggiata, cit.: 106.
[45] Quando i Lombardi emigrarono in Sicilia, in “Corriere della Sera”, 4 maggio 1991.
[46] Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, cit. La frase di Zanzotto è ripresa da A. Zanzotto, In questo progresso scorsoio. Conversazione con M. Breda, Garzanti, Milano, 2009: 68-69. Nell’ultima intervista Consolo riflette in modo particolare sull’ignoranza di chi solleva lo scontro di civiltà e accosta integralismo e islam: V. Pinello, La Sicilia di Consolo: l’ultima intervista, 27 gennaio, 2012, in“Golem”, in rete http://www.goleminformazione.it/articoli/vincenzo-consolo-e-la-sua-sicilia-sorriso-dellignoto-marinaio.html#.WHS021ycHDQ (verificato in data 15 ottobre 2023).
Riferimenti bibliografici
Opere di Vincenzo Consolo
La Sicilia passeggiata, con fotografie di G. Leone, Nuova Eri, Torino 1991.
Il corteo di Dioniso, La lepre, Roma, 2009.
La mia isola è Las Vegas, a cura di N. Messina, Mondadori, Milano 2012.
L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di G. Turchetta e uno scritto di C. Segre, Mondadori, Milano 2015.
Accordi. Poesie inedite, a cura di F. Zuccarello e C. Masetta Milone, Zuccarello editore, Sant’Agata di Militello 2015.
Articoli di Vincenzo Consolo
Quatrième guerre punique, in “Sans frontières”, 30 settembre 1980.
Immigration africaine en Italie, in“Sans frontières”, 3 gennaio 1981.
I guasti del miracolo,in“Il Messaggero”, 10 luglio 1981.
Morte per acqua, in “Il Messaggero”, 15 luglio 1981.
Cronache di poveri venditori di strada,in “Corriere della Sera”, 21 ottobre 1990.
Quei parabolizzati che sognano l’Italia, in“Corriere della sera”, 20 giugno 1991.
“Ci hanno dato la civiltà”, in “La Voce”, 23 giugno 1994.
Il mondo di Bossi Fini stupido e spietato, in “L’Unità”, 29 agosto 2002.
Dedicato ai morti per acqua, in “L’Unità”, 29 settembre 2002.
Immigrati avanzi del mare, in “L’Unità”, 18 giugno 2003.
Lampedusa è l’ora delle iene, in “L’Unità”, 28 giugno 2003.
Perché non voglio quel museo, in “La Repubblica”, 19 agosto 2004.
Solo un monumento per gli immigrati, in “La Repubblica”, 21 agosto
Gli ultimi disperati del canale di Sicilia,in“La Repubblica”, 18 settembre2007.
Migrazione, la civiltà come arte della fuga, in “L’Unità”, 18 settembre 2007.
I muri d’Europa, in L. Restuccia, G.S. Santangelo (a cura di), Scritture delle migrazioni: passaggi e ospitalità, Palumbo, Palermo 2008: 25-30.
Il Mediterraneo tra illusione e realtà, integrazione e conflitto nella storia e in letteratura, in G. Interlandi (a cura di), La salute mentale nelle terre di mezzo. Per costruire insieme politiche di inclusione nel Mediterraneo, Atti del Convegno di Psichiatria Democratica, Caltagirone, 12-13 marzo 2009, numero monografico di “Fogli di informazione”, terza serie, 13-14, gennaio-giugno 2010: 5-7.
Altra bibliografia
Bellanova A., Un eccezionale baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo, Mimesis, Milano 2021
Braudel F., Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, trad. it. di C. Pischedda, Einaudi, Torino 1976.
Cusumano A., Il ritorno infelice, Sellerio, Palermo 1978.
Ada Bellanova, insegna lettere in un liceo pugliese. Si interessa di permanenza della letteratura greca e latina nel contemporaneo, di ecocritica, della percezione dei luoghi, dei temi della memoria, delle migrazioni e dell’identità. Si dedica da alcuni anni allo studio dell’opera di Vincenzo Consolo: da qui è nata la monografia Un eccezionale baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo (Mimesis 2021). Ha collaborato con La macchina sognante, Erodoto108. Nel 2010 ha pubblicato il libro di racconti L’invasione degli omini in frac, con prefazione di Alessandro Fo e nel 2016 Papamusc, un breve romanzo edito da Effigi.
LA SCUOLA DELLE COSE In questo numero hanno scritto: GIANNI TURCHETTA, NICOLÒ MESSINA, DAVIDE DI MAGGIO, NINO SOTTILE ZUMBO, ALESSANDRO SECOMANDI, FABIO RODRÍGUEZ AMAYA L’(IN)ATTUALITÀDI VINCENZO CONSOLO,FRA SPERIMENTALISMO. ED ETICITÀ. LA RESISTENZA IN SICILIA. TRAVESTIMENTI E FUTURO NOTE SU CONSOLO
E. ALEJO CARPENTIER CONSOLO, VOCE PLURIMAL’(IN)ATTUALITÀDI VINCENZO CONSOLO,FRA SPERIMENTALISMO ED ETICITÀ
Gianni Turchetta L’eccezionale spessore artistico e intellettuale di Vincenzo Consolo rende sempre più necessaria una sua più stabile e più percepibile “canonizzazione” – per usare un termine classico della storiografia e della teoria letteraria – che gli consenta di diventare parte integrante e ben riconosciuta del senso comune della letteratura. In prima approssimazione, Consolo è, un po’ paradossalmente, uno scrittore “attuale” anche e proprio per la sua “inattualità”: questa sua (in)attualità ha a che vedere con la sua idea di letteratura. Consolo è ossessionato, da un lato, dalla necessità di dire la storia – perché per lui bisogna parlare della storia, del passato, del presente, della storia tutta – ma dall’altro mostra anche la fine della fiducia nell’engagement, cioè proprio di un modo di essere intellettuale che Sartre ha reso poco meno che proverbiale. Anche questo è un paradosso, e apparentemente una contraddizione; ma nella scrittura di Consolo le contraddizioni sono vitali, e prendono avvio da un’irriducibile contraddizione di partenza: bisogna parlare, ma sapendo che le parole hanno limiti così severi che diventa quasi avere la tentazione di tacere. Proprio su questa irrisolvibile duplicità Consolo costruisce la sua originalissima unione di sperimentalismo ed eticità, che ne rappresenta la più acuta e flagrante specificità. Vi sono tanti scrittori sperimentali e tanti scrittori etici – per dirla in un modo un po’ rapido e sommario – ma è quasi impossibile trovare una così stretta congiunzione tra due atteggiamenti che non vanno molto d’accordo. Detto in modo ancora un po’ sommario: di solito lo sperimentatore sembra sempre proiettato soprattutto verso le forme, laddove lo scrittore etico, e tanto più lo scrittore “politico”, verso i contenuti. Consolo riesce sempre a far stare insieme queste due dimensioni. Tante volte è stato accusato di “formalismo”: ma si tratta di un’accusa davvero ingiusta e poco fondata. Come scrittore Consolo, da un lato, attinge alla tradizione meridionalistica, cioè agli scrittori, ai saggisti e agli studiosi, a volte anche ai politici, che hanno scritto del Meridione d’Italia, della sua storia, della sua miseria, dell’oppressione, della distanza tra l’Italia del Sud e le altre parti più ricche d’Italia: da Gramsci a Salvemini, a Guido Dorso, a Danilo Dolci, allo stesso Carlo Levi. Ma al tempo stesso è uno scrittore molto vicino a quello che possiamo chiamare il “modernismo”, cioè, in tre parole, allo sperimentalismo non avanguardistico: questo è un altro suo tratto forte, che serve anche a ricordarci quanto egli sia stato, nonostante la convergenza di date (il suo romanzo d’esordio, La ferita dell’aprile, è del 1963), lontano dalla neoavanguardia, con cui anzi polemizzava aspramente, in riconoscibile sintonia con le critiche a essa rivolte da Pier Paolo Pasolini. Non a caso tra gli autori di riferimento della scrittura di Consolo si collocano Eliot e Joyce. Vi proporrò ora un esempio molto caratteristico della forza di Consolo, della sua originalità e della sua irriducibile, e produttiva, duplicità. Tutti abbiamo presente ciò che sta succedendo in Europa e nel mondo: dove migliaia, centinaia di migliaia, milioni di persone migrano, si spostano e spesso muoiono nel tentativo di emigrare. Moltissimi, tragicamente, soccombono nel canale di Sicilia e al largo delle coste dell’Egeo, uccisi “dall’acqua”. Ecco, Consolo, in tempi molto lontani, ha cominciato a cogliere questo movimento che oggi è sotto gli occhi di tutti e che ha preso proporzioni così ampie da diventare uno degli argomenti centrali dell’agenda politica dell’Unione Europea. Se ne parla in continuazione, e ci si scontra su questo: i muri, le quote, i soldi alla Turchia e i ricatti di Erdogan, gli imbarazzi e le titubanze della UE. Consolo ha capito prestissimo la rilevanza assoluta del fenomeno incombente delle migrazioni nella tarda modernità, anche e proprio nell’area mediterranea: già negli anni ottanta infatti ha scritto spesso di migranti che morivano in acqua, specie nordafricani o più generalmente africani. Si pensi, fra gli altri, a un racconto esemplare come Il memoriale diBasilio Archita, scritto a caldo nel 1984. Ecco così che possiamo ben percepire il Consolo che guarda al presente, alla storia, al Meridione nostro e al Meridione del mondo, cogliendo con eccezionale profondità quello che sta succedendo, prima di tanti altri. Ma se guardiamo a questa sua percezione da un altro lato, ci accorgeremo che Consolo ha anche un’ossessione letteraria, che lo rincorre fin dai primissimi racconti (si veda Un sacco di magnolie, 1957) e poi ricorrerà per tutta la sua carriera di scrittore: l’immagine del morto in acqua e “per acqua”, non solo perché ha davanti una certa realtà, ma anche perché ha sempre in mente l’immagine della Death by Water della Waste Land di Thomas Stearns Eliot, sezione IV, con la figura di Phlebas il fenicio, morto nell’affondamento della sua nave. L’ossessione letteraria (formale, se volete) fa insomma tutt’uno con la profondità e la lucidità nello scandaglio del reale (dei “contenuti”): Consolo è anche questo, con un’intensità che ben pochi possono vantare. E ci sarebbe peraltro da insistere – la critica non l’ha fatto abbastanza – sulle radici propriamente modernistiche, in senso letterario, di Consolo, e quindi non solo su quelle meridionali, di cui si parla più spesso. Il suo primo romanzo, un Bildungsroman, La ferita dell’aprile, parla di un ragazzo che cresce in una scuola di preti del Nord della Sicilia, in un luogo mai nominato ma che assomiglia molto alla Barcellona Pozza di Gotto dove Consolo effettivamente frequentò le scuole medie, e in un mondo che parla una lingua che non gli appartiene. Il protagonista viene infatti da San Fratello, e ha come lingua madre il sanfratellano: egli impara il dialetto siciliano, l’italiano e anche un po’ di francese, che studia a scuola. Intravediamo quindi una questione della lingua, in cui prende corpo una questione d’identità. Ma anche – e questo certo non è stato sottolineato abbastanza dalla critica – in La feritadell’aprile è evidente ancora una volta il richiamo alla letteratura modernista: non solo nel vistoso richiamo ancora a Eliot, al suo “April is the cruellest month” (celeberrimo attacco di The Burial of theDead, sezione I di The Waste Land), attraverso la mediazione di Basilio Reale, ma anche e soprattutto a Joyce, il cui A Portrait of the Artist as a YoungMan presenta non poche analogie tematiche e narrative, a cominciare proprio dal tema principale, l’educazione di un giovane in una scuola di preti. D’altra parte, già in questo primo Consolo c’è molto dialetto e, per farla breve, non è per lui possibile rinunciare a nessuna delle due componenti, ovvero il Meridione e la grande letteratura modernista europea, o limitarne il peso. Resta fra le altre cose ancora tutto da decifrare il ruolo di Cesare Pavese nella formazione di Consolo. Pavese, significativamente citato nell’epigrafe del capitolo finale, poi espunto, di La ferita dell’aprile, fa da mediatore, come traduttore e non solo, per molti scrittori italiani verso la letteratura di lingua inglese e americana. Sicuramente, ad esempio, ha un peso importante nell’avvicinare Consolo e tanti altri scrittori italiani a William Faulkner. Sono ancora tutti da approfondire i rapporti tra Faulkner e la letteratura italiana (ma anche di altre nazioni, a cominciare da quella sudamericana: si pensi, per esempio, a quanto di Faulkner arriva a García Márquez). Tutto ciò conferma l’eccezionalità della congiunzione, in Consolo, tra la dimensione meridionale costante, ossessiva, e una non meno costante, rigorosa prospettiva di sperimentalismo modernista, non avanguardistico. Per Consolo la “letteratura” è il linguaggio spinto sino alle sue estreme possibilità. Si ha “letteratura” quando, cioè solo quando vi è una pressione sul linguaggio, una tensione, un’aspirazione violenta, che è al tempo stesso formale e morale. Consolo cerca sempre di dare al linguaggio il massimo di densità formale, attraverso una sorta di pluralizzazione del linguaggio, cioè la moltiplicazione, esibita, dei suoi vari strati, ai quali si sforza di attribuire sistematicamente una speciale densità linguistico-retorica, e quindi una speciale intensità. Questo linguaggio preme verso una verità, una capacità di dire il reale che, unita alla densità formale, vorrebbe far sì che le parole fossero dense, al limite, come le cose. Quindi, da un lato, Consolo vuole che le parole siano come cose, magari addirittura, per citare ancora una volta Carlo Levi, che le parole siano come pietre. Le parole vorrebbero e dovrebbero essere pesanti. Ma le parole non sono cose, e tanto meno pietre: per questo Consolo ci dice continuamente e allo stesso tempo che la “letteratura” è per definizione una “missione impossibile”. Se è infatti necessario caricare le parole sino a farle diventare più che parole, azioni e cose, d’altro canto bisogna farlo sapendo che non sarà mai possibile, che le parole sono per definizione mancanti… Proprio qui, a ben vedere, sta la grandezza di Consolo: cioè sia in questo sforzo di caricare all’estremo le parole, ma anche nella costante, coesistente consapevolezza dei limiti invalicabili della parola. Sono pochi gli scrittori che, come lui, hanno saputo spingere verso un’idea fortissima di letteratura, che comunque resiste come ideale di riferimento: ma continuando al tempo stesso a rivelarci la miseria della letteratura stessa, anche della più alta. Scrivere non basta, ma bisogna continuare a scrivere, sfidando sempre l’oblio e la inesorabile durezza delle cose.
LA RESISTENZA IN SICILIA
Nicolò Messina Universitat de València
Nell’autunno del 2017, a cinque anni dalla scomparsa di Vincenzo Consolo, usciva per i tipi di Bompiani Cosa loro. Mafie tra cronaca e riflessione1970-2010. Il libro nasceva a mia cura (il braccio), anche per l’impegno collaborativo di Caterina Pilenga, vedova dello scrittore (la mente), personaggio straordinario che teneva “ambo le chiavi del cor” (Inferno XIII, 58-59) del marito, per il quale non fu solo compagna di tutta la vita, ma interlocutrice vicina, pungolo assiduo, segretaria e archivista, collaboratrice, conoscitrice profonda tanto della lettera compiuta della scrittura consoliana, quella consegnata per la stampa delle singole opere (era capace di recitarne a memoria intere pagine), quanto dei suoi meandri e retroscena. Negli usi di una certa Spagna si imponeva al penitente il sambenito, una sorta di scapolare che denunciava la colpa di cui fare ammenda, un ammennicolo che di per sé ti esponeva al pubblico ludibrio, agli insulti, al giudizio sommario, e che – Goya docet – l’Inquisizione completava nell’autodafé con la coroza, l’allungato copricapo conico che rendeva ancor più identificabile il malcapitato. Nel linguaggio comune permangono i relitti della trista usanza: cargar con el sambenito, llevar el sambenito, colgar/poner el sambenito, che hanno a che vedere con la nomea che si ha o con il marchio infamante con cui bollare qualcuno. I siciliani avrebbero il sambenito della mafiosità. Da cui nessuno si libera fuori dalla Sicilia, soprattutto all’estero, benché con la mafia non abbia mai stretto patti di connivenza, né sia sceso a patti affollando l’ampia area grigia dell’omertà. Non dovette liberarsene neanche Consolo che dalla Sicilia si autoesiliò e da intellettuale impegnato si sentì in dovere di fare i conti con una mafia che ormai si declinava al plurale, anzi volle farci i conti, non volle sottrarsi guadagnandoci l’isolamento, l’ostracismo. Sarebbe rientrato – di fatto ci rientrò – in un nuovo elenco dei mali della Sicilia esemplato su quello della famigerata lettera del mantovano cardinale Ernesto Ruffini (1964), nel quale avrebbe trovato posto con Sciascia magari scalzando il Gattopardo, convinto com’era, Consolo, che fosse stata la classe sociale del suo autore a passare nell’Ottocento il testimone del potere agli “sciacalletti”, alle “iene”, e che fossero così proprio quei nobili, da dirigenti agonizzanti, a essere corresponsabili dell’infiltrazione mafiosa nelle istituzioni e nell’attività politica (Cosa loro, pp. 11, 45, 64; soprattutto pp. 251, 255, 296). Ricordiamoci della “resistibile ascesa” (B. Brecht) di don Calogero Sedara! Cosa loro lo dimostra e dimostra come e quanto Consolo si schierasse indefettibilmente contro l’olivastro mafioso, il cancro che infesta con le sue metastasi ormai immedicabili l’isola e l’Italia intera. Basta scorrere le pagine scritte sotto la spinta dei terribili fatti del 1982 e di dieci anni dopo, rileggere quelle finali, vibranti e sconsolate di Lo spasimo diPalermo (1998). Tra la quasi settantina di testi dell’arco temporale 1970-2010, confluiti in Cosa loro, ne vogliamo proporre uno dei primi, per motivi anche circostanziali, perché sembra attinente al momento attuale, alla presunta dormienza della mafia nel presente dell’Italia, della Sicilia: I nemici tra di noi (“L’Ora”, lunedì 6 settembre 1982; Cosa loro, pp. 49-50). Si badi intanto alla data. Venerdì 3 settembre: tre giorni prima era stato assassinato dalla mafia il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro. Ancor prima, il 30 aprile, era stato trucidato Pio La Torre insieme a Rosario Di Salvo (I nostri eroi di Sicilia, “L’Unità”, domenica 22 aprile 2007; Cosa loro, pp. 251-255). Audace – forse anche discutibile per alcuni, inclini ai cavilli come i dialoganti del racconto di Sciascia Filologia (Il mare colore del vino, 1973) – l’accostamento poco rituale alla Resistenza, ma certo in dissonanza con il trito e ritrito retoricismo di tanta antimafia di facciata. Allora, 1982, e oggi, a trent’anni dalle stragi di Capaci e Via D’Amelio. In una Palermo di svolta amministrativa in cui – in campagna elettorale – l’hanno fatta da padroni i nuovi vecchi, homines novi emersi da un’interminabile trasformistica querelle des anciens et des modernes (si parla difficile in certi colti salotti panormiti e no!). Chissà cosa avrebbe detto Consolo in occasione di questo trentennale. Non più di quanto scrisse a caldo dei due pluriomicidi in cui mafia e conniventi, in un’ottica bellicistica di guerra allo Stato, non ricorsero a tecniche chirurgiche per eliminare gli obiettivi principali (Giovanni Falcone, Paolo Borsellino), ma preferirono per così dire sparare nel mucchio, bombardarono a tappeto per non lasciare scampo né tracce, tranne quella dell’arroganza del proprio potere (Cosa loro, pp. 101-104, 105-108, 109-111, 113-115; 117-120). Né meno indignato sarebbe stato il suo atteggiamento di quando la seconda carica esplosiva di Via D’Amelio scavò più in profondità la voragine di Capaci, gli strappò definitivamente ogni speranza di riscatto. Quanto incisero quegli scoppi nell’afasia narrativa dello scrittore (Lo spasimo non fu seguito da Amor sacro, l’opera tanto annunciata e invano attesa)? Quanto, l’imbarbarimento dei tempi, dei comportamenti, dei linguaggi del nuovo ventennio di Mascelloni (La miaisola è Las Vegas, 2012, p. 178)? Quanto, i morti peracqua (T.S. Eliot) che cominciavano a trasformare il Mediterraneo da mare culla di civiltà in cimitero a cielo aperto? L’incipit dell’articolo è rivelatore: “Parecchi anni fa, quando dalla Sicilia emigrai a Milano – emigrazione imposta dal potere politico-mafioso – mi colpì subito la gran quantità di lapidi affisse sulle facciate delle case che ricordano i morti caduti nella guerra antifascista, nella Resistenza. Lapidi che diventano ogni anno, la sera del 25 aprile, stazioni di civili processioni con fiaccole e sotto cui vengono appesi mazzi di fiori, ghirlande di foglie. Sono riti del nostro Stato civile e democratico che non avevo mai visto, a cui non ero abituato, perché nel Sud, in Sicilia non c’era stata la Resistenza”. Il trasferimento definitivo a Milano, dove Consolo lavorerà alla RAI, è spiegato non come conseguenza del concorso vinto contro ogni previsione, ma di un autoesilio ritenuto inevitabile, rispondente alle sue inquietudini ideologiche, esistenziali, al disadattamento a una realtà d’origine in lento disfacimento, in balia di una mutazione antropologica inarrestabile in cui il nuovo dei fumaioli industriali che nessuno vuole altrove, i moderni mostri inquinanti, si somma al vecchio degli squilibri sociali medievali mai affrontati con serio senso della prospettiva dallo Stato unitario liberale monarchico, né da quello repubblicano seguito alla sconfitta dell’Italia fascista. Ultimo, Consolo, degli scrittori siciliani della diaspora milanese del tempo: Vittorini, Quasimodo, l’amico Basilio Silo Reale… È – afferma perentorio – una “emigrazione imposta dal potere politico-mafioso”, prolungamento del mai tramontato medioevo siciliano, non interrotto né dalla modernità né dall’Illuminismo (gran cruccio di Sciascia e dello stesso Consolo), né dal Risorgimento impostosi in una versione nemmeno timidamente antimoderata (S. Massimo Ganci, L’Italiaantimoderata, Guanda, Parma 1968) e quindi occasione fallita di effettiva trasformazione e di reale superamento della questione meridionale (Il sorrisodell’ignoto marinaio è il contributo consoliano alla lettura di quella fase storica), né dal vento del Nord del secondo Risorgimento che fu la Resistenza (“nel Sud, in Sicilia non c’era stata la Resistenza”). Anche questa occasione di cambiamento fu negata alla Sicilia. Lo stesso sbarco degli Alleati a Gela (10 luglio 1943) è offuscato da complicità e da aiuti richiesti e indesiderabili. “Ma in Sicilia, subito dopo la guerra, dopo la formazione di questo Stato democratico, è cominciata una guerra contro un nemico interno, efferato e terribile come quello nazifascista: la mafia. E oggi sono tante, tante le lapidi che ricordano i caduti di questa lotta eroica e disperata, dai caduti di Portella della Ginestra al generale Dalla Chiesa. Oggi, dopo quarant’anni, Palermo è piena di queste lapidi. […] E se si scegliesse un giorno dell’anno per la commemorazione della lotta alla mafia [dal 1996 l’auspiciosi è avverato su iniziativa di Libera, scegliendo il 21marzo di ogni anno, data confermata dalla legge n.20 dell’8 marzo 2017. NdE], ci sarebbe di che fare processioni con fiaccole, di che appendere fiori e corone” Sul filo coerente del ragionamento, però, Consolo il mondo che viene soppiantato dall’incedere della modernità. D’altra parte questi scatti non possono neanche essere considerati solo alla stregua di un reportage di documentazione sociale: quasi una classificazione gerarchica di immagini ad uso scientifico per qualche manuale etnologico o un corrispondente studio sul campo. Lo impediscono innanzitutto le regole compositive che Giuseppe Leone si è dato e che costituiscono la cornice di riferimento del suo progetto: concentrarsi sul travestimento, sull’emozione psicologica varia e variabile che di volta in volta affiora dalle sue fotografie. È così che emerge un’identità espressiva specifica che tiene insieme tutto il lavoro di Giuseppe Leone e gli conferisce forma e riconoscibilità: in altre parole, è la capacità del fotografo che trova il suo carattere e la sua distinzione tra rappresentazione condivisa e coagulo autonomo di senso, tra attenzione alla convenzione e deroga della norma. Per comprendere questo punto basterebbe confrontare le sue fotografie con le sequenze della festa di San Bruno scattate per illustrare Sud e magia di Ernesto De Martino, in cui il valore documentativo prevale su ogni altro aspetto, tralasciando quell’emblematicità espressiva e tecnica che è invece sempre ben presente. Nel caso di Leone si assiste infatti a una particolare programmazione visiva che vede convergere antropologia culturale e progetto artistico, sguardo narrativo partecipe e distacco documentario, evidenziando quei nessi sedimentati e stratificati nella memoria collettiva profonda quanto inconsapevole che si potrebbero ben definire “dimenticati a memoria”, secondo l’efficace definizione coniata in altro contesto da Vincenzo Agnetti. Queste donne e uomini sempre presenti nel suo lavoro si liberano dal consueto e dal quotidiano per spingersi oltre le colonne d’Ercole del genere e della categoria. È un modo che, seppure vissuto inconsciamente, affonda le sue radici in una selva di antichi miti e di riti transculturali che avevano lo scopo di riconnettere gli opposti; qui l’unità degli opposti significa far riaffiorare sulla superficie del corpo la possibilità di un dialogo effettivo tra le polarità maschile e femminile, ritualità magica per favorire la fertilità ed esorcizzare la morte; sono coincidenze che travalicano i confini geografici e che si riflettono in una modalità arcaica la quale rivive oggi e porta in sé la memoria di riti propiziatori che allontanano gli influssi negativi, che avevano la funzione di connettere con il sacro, il divino e il magico. Ecco dunque che la fotografia di Giuseppe Leone acquista una luce ben diversa che la strappa dalla cronaca per reinserirla nel tempo lungo della storia dell’umanità. Le sue immagini mostrano le tracce attualizzate di questo mondo archetipo e fortemente perturbante, tanto che lo straniamento che noi stessi proviamo guardando le sue fotografie è forse un’altra spia del riaffacciarsi alla coscienza dell’antico sogno della confluenza di terra, principio femminile, e di cielo, principio maschile. Dopo aver evidenziato questa complessa rete di coincidenze, le figure del fotografo siciliano dalle apparenze quasi sciamaniche qui appaiono come un fenomeno quasi asessuato. C’è senso di sfida in molti di questi volti, ma vi si legge anche una struggente malinconia, che alla fine prevale sulla buffoneria. Ci ricordano la sequenza di scatti a Ezra Pound di Lisetta Carmi, una serie di fotogrammi quasi rubati davanti alla sua casa a Rapallo. Rivediamo, attraverso questi volti, l’immensa anima di Pound, la sua grandezza interiore, il poeta infinito e disperato, la sua totale solitudine. La malinconia nei volti fotografati da Leone invece è congeniale perché diviene simbolo stesso sia della lontananza in cui affonda lo sguardo dei soggetti, sia dell’ambigua indefinizione di genere che traspare da queste figure. La malinconia è come il sorriso della Gioconda, una sfumatura al limite della percezione che sposta il piano dell’osservazione dalla biografia del soggetto al suo grado di fusione con la natura, fino alla sua capacità di riassorbirsi in essa. Nell’evento dedicato a Vincenzo Consolo, organizzato da Lyceum – La Scuola delle Cose nello spazio di Oliveri in provincia di Messina, sono esposte fotografie celebri di Giuseppe Leone. Soprattutto, una di esse ritrae Gesualdo Bufalino, Vincenzo Consolo e Leonardo Sciascia, grandi amici del fotografo siciliano, apparentati da un’insolita contentezza, immortalati in uno scatto che è diventato un simbolo. Tre scrittori isolani accomunati da un’incontenibile risata, consegnati per sempre alla memoria da Giuseppe Leone. La foto dei tre scrittori è un frammento dell’intensa intimità che si registrava in contrada Noce – spiega Leone –, la tenuta estiva di Sciascia. Lo scatto è del 1982 e sancisce non solo la fine del Novecento letterario, ma anche il tramonto di una meravigliosa cultura eccentrica. Tre intellettuali che hanno operato lontano dai centri di potere della cultura ufficiale. Sciascia, Consolo e Bufalino erano scrittori di provincia, ma non erano provinciali. Scrittori di levatura europea, nati in tre minuscoli paesi siciliani: Racalmuto, Sant’Agata di Militello e Comiso. Racconta Giuseppe Leone: “A scatenare la fragorosa risata fu il riferimento ad altri due grandi autori isolani: Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Lucio Piccolo. Leonardo Sciascia raccontò del loro arrivo a Milano, invitati dall’organizzatore del Premio San Pellegrino, Eugenio Montale. Il poeta aveva convocato i due cugini siciliani per renderli edotti sul da farsi. I due, accompagnati da un valletto, si presentarono infagottati in pesanti pastrani, bizzarri come Totò e Peppino nella celebre sequenza cinematografica di Totò, Peppino e la malafemmina. Mentre Sciascia raccontava l’episodio con la sua proverbiale vocina e si appalesò la scena dei due cugini a Milano intabarrati, scoppiò la fragorosa risata dei tre scrittori, eternizzata dal bianco e nero della sequenza fotografica”. I richiami transculturali che il lavoro di Giuseppe Leone innesca sono quindi sia iconografici che archetipici, in quanto sanno far emergere sofferenza e gioia, tragedia e riso, vita e morte, festa e carestia. Così Leone ha saputo cogliere quelle tracce con cui il soggetto appare più vicino alle modalità profonde, individuali dell’esistenza, a quell’essere “fusi con il mondo sensibile” di cui spesso scrive lo storico e filologo ungherese Károly Kerényi, coautore insieme a Jung nel 1941 dell’Introduzione all’essenzadella mitologia, dove si legge che “il simbolo, nel suo significato funzionale, non indica tanto verso il passato, quanto verso il futuro, verso uno scopo che non è ancora stato raggiunto”. Anche Giuseppe Leone coglie un presente che irrimediabilmente collega al passato e coraggiosamente si rivolge al futuro. Viene rovesciata così la prospettiva di un mondo bloccato e si mostra la possibilità dello scambio e della fluidità del pensiero, contro l’anestetizzazione generale del presente. Il fotografo siciliano cerca di “vedere” l’anima delle società che cambiano, la solitudine e il disagio dell’uomo moderno. Sembra attirato dall’essere e non essere delle figure che fotografa, dalla non fissità del loro vivere “ai margini”, con coraggio e anche provocazione. Vede in loro una verità, un vivere “altro” che apre quella porta che la società convenzionale rifiuta di varcare. Di andare oltre gli schemi e le visioni correnti. Ed è da questa ricerca interiore, da questa radicale capacità di rimessa in discussione (che diventa alla fine insieme un’accettazione) di ogni punto di vista, da questa capacità di sovvertire il nostro sguardo, che bisogna partire per comprendere la fotografia di Giuseppe Leone.
NOTE SU CONSOLOE ALEJO CARPENTIER
Alessandro Secomandi
Quando si parla delle influenze letterarie su Vincenzo Consolo, alcuni nomi sono da sempre imprescindibili. Si possono ricordare Manzoni, Pirandello, Piccolo e Sciascia, quest’ultimo da un punto di vista soprattutto etico e politico in senso lato. Ma pian piano comincia a farsi largo anche un altro punto di riferimento, più sorprendente e più defilato rispetto ai maestri di cui sopra. È il cubano Alejo Carpentier, figura centrale della letteratura ispanoamericana dall’uscita di Il regno diquesta terra (o mondo, in traduzione Einaudi). Era il 1949, e questo breve romanzo sulla rivoluzione di Haiti avrebbe lasciato un segno indelebile prima nella narrativa del continente, poi al di fuori. Consolo conosceva bene l’opera di Carpentier. Lo testimoniano, per esempio, il saggio La pesca deltonno in Di qua dal faro (1999), l’articolo del 1989 sulla ghigliottina del Museo Pepoli a Trapani, per il “Corriere della Sera”, e ancora quello del 1997 dedicato a Il regno, per “Il Messaggero”. Ma è un dato che emerge pure in qualche intervista: Consolo lo reputava uno degli autori più affascinanti nel panorama latinoamericano, e forse il più affine. Sono singole immagini proposte da Carpentier a tornare in questi omaggi. Come i colori, profumi e sapori dei Caraibi e di quel mare, fonte di ispirazione anche per l’apertura di Il sorriso dell’ignotomarinaio, con lo sbarco di Mandralisca a Oliveri. Il cubano li descrive con straordinaria vividezza in Il regno e Il secolo dei lumi (1962), due romanzi del suo ciclo rivoluzionario. E poi appunto la ghigliottina, emblema quanto mai tangibile delle contraddizioni dell’Illuminismo, fra progresso scientifico e rinnovate barbarie: Consolo recupera da Il secolo la scena del suo arrivo nelle colonie francesi tra fine Settecento e inizio Ottocento, trasportata su una nave assieme al decreto per l’abolizione della schiavitù, e ne fa la chiave di volta delle proprie riflessioni sulla “Macchina”. Un ponte inedito fra Trapani e la Guadalupa che ovviamente guarda anche oltre, ampliando la prospettiva alla Storia universale e al suo costante intreccio di olivo e olivastro, ragione e follia, cultura e natura. Nella biblioteca personale di Consolo si trova pure Il regno edizione Longanesi del 1959. Consolo, che era solito annotare e sottolineare i suoi libri, ne mette in particolare risalto il finale. Qui lo si cita dall’edizione Einaudi: “l’uomo […] soffre e spera […] e lavora per individui che mai conoscerà, e che a loro volta soffriranno e spereranno e lavoreranno per altri che [non] saranno felici, perché l’uomo brama sempre una felicità sita oltre la porzione che gli è stata assegnata. Ma la grandezza dell’uomo consiste proprio nel voler migliorare quello che è. […] Nel Regno dei Cieli non c’è grandezza da conquistare, visto che là tutto è gerarchia fissa, […] impossibilità di sacrificio […]. Per questo, oppresso da pene e Doveri, bello nella sua miseria, capace di amare […], l’uomo può trovare la sua grandezza, la sua piena misura solo nel Regno di questo Mondo”. In questo brano c’è molto di quanto, a livello tematico, Consolo riprende anche da Carpentier. Lo si potrebbe definire pessimismo storico, che nei romanzi del cubano assume connotati più lievi e un andamento spiraliforme, ovvero con piccole ma decisive deviazioni dall’immutabilità del cerchio perfetto, e che invece in quelli di Consolo si fa più radicale e “gattopardesco”. Così, se ad esempio in Il regno e Il secolo ogni fallimento degli ideali porta comunque a un qualche piccolo passo avanti, in Ilsorriso e Nottetempo, casa per casa tutto cambia per restare come prima. Nessuna differenza concreta, per la vita dei contadini nell’entroterra siciliano, con il passaggio solo e soltanto politico dai Borboni ai Savoia (Il sorriso); nessun progresso sociale e civile, anzi un imbarbarimento e una deriva autoritaria con l’arrivo dei fascisti sull’isola (Nottetempo). E la spirale, simbolo millenario e forma barocca presente pure in Il sorriso, assume i lugubri, materialissimi connotati del carcere dove finiscono i braccianti, i subalterni, gli ultimi della società. Sono i sotterranei del Castello Gallego di Sant’Agata di Militello, edificio dove oggi ha sede la Casa Letteraria Consolo. Sia detto di sfuggita, anche in Il regno compare un castello, a ulteriore parallelismo: è la Citadelle Laferrière voluta dal primo e unico re negro di Haiti, Henri Christophe, per i suoi labirinti degna erede delle carceri piranesiane. Non stupirà che i protagonisti di entrambi gli scrittori siano spesso intellettuali messi di fronte ad autentiche rivoluzioni, o comunque a cambiamenti epocali, dalle grandi speranze e dai rovinosi sviluppi. Lo sono Esteban e Sofía, i rampolli di una buona famiglia habanera che vivono sulla loro pelle tutta l’ambiguità della Rivoluzione francese nel Nuovo Mondo (Il secolo). Ancora di più lo è Enrico Pirajno, barone di Mandralisca, che all’alba dell’Unità d’Italia fa i conti con un massacro di notabili per mano dei contadini in rivolta ad Alcara Li Fusi, e con la conseguente fucilazione sommaria di alcuni degli insorti da parte dell’esercito garibaldino (Il sorriso). Lo è pure Pietro Marano, giovane maestro di scuola dalle simpatie socialiste che, nel cefaludese dei primi anni venti, finisce coinvolto negli scontri con le squadracce e si ritrova costretto a fuggire in esilio (Nottetempo). Su un piano diverso e più “metafisico”, ma non per questo imparagonabile, rientra nel novero anche Fabrizio Clerici, pittore lombardo che viaggia per una Sicilia settecentesca dai contorni quasi di fiaba, senza dubbio, e però non priva di piccoli quadri che accennano alle secolari ingiustizie dell’isola (Retablo). In aggiunta, durante il suo itinerario Clerici si imbatte in una ghigliottina, elemento già evidenziato da Salvatore Grassia: è un nuovo omaggio a Carpentier, oltre che all’esemplare della “Macchina” esposto a Trapani. Fra i due autori esiste poi un’intersezione nel richiamo ad altri mezzi artistici. Si potrebbe ricordare la presenza della musica, che ispira nell’andamento, nel ritmo o nella suddivisione dei capitoli almeno tre romanzi di Carpentier (il breve La fucilazione, Concerto barocco e La consacrazione dellaprimavera), e che in Lo spasimo di Palermo fa da contrappunto pure visivo, con lo spartito dello Stabat Mater di Emanuele d’Astorga, al drammatico finale. Ma è soprattutto la pittura che rappresenta la più nitida forma di “intrusione” condivisa da Carpentier e Consolo. Basti pensare alle didascalie di I disastri della guerra di Goya, citate tanto in Il secolo quanto in Il sorriso come commento e compendio a scene di violentissima, sanguinosa devastazione. Inevitabile che le vere e proprie incisioni di Goya diventino un riferimento figurativo immediato, benché implicito. Vale la pena accennare anche al fatto che entrambi questi romanzi, di nuovo Il secolo e Il sorriso, sono scanditi nei loro intrecci dall’apparizione sistematica e significativa di un dipinto ripreso dalla realtà: in ordine, il primo è Esplosione in una cattedrale, o Il re Asa chedistrugge gli idoli, del misterioso Monsù Desiderio, mentre il secondo è ovviamente il Ritratto d’ignoto di Antonello da Messina. Resta un ultimo punto di contatto da considerare, uno dei più lampanti e dei più difficili allo stesso tempo. Per il linguaggio, per le forme, per l’ispirazione in senso lato, sia Carpentier che Consolo si ritenevano scrittori barocchi. Ciascuno dei due reinterpreta questa categoria a proprio modo, e intendendola in maniera almeno parzialmente diversa da come la si concepiva nel Seicento. Il problema di un confronto approfondito tra i loro rispettivi e differenti “barocchismi”, operazione che in ogni caso qui risulterebbe impossibile, è a monte: Consolo conobbe Carpentier attraverso le traduzioni italiane, prima Longanesi, poi Einaudi e Sellerio, che quindi andrebbero scandagliate a loro volta in una sorta di complesso triangolo comparativo. Eppure, al di là di alcune caratteristiche generiche come la prosa molto densa, nel loro stile si può cogliere un elemento barocco che li accomuna e che, soprattutto, balza quasi subito all’occhio. Si tratta dell’archeologia linguistica. Da una parte, il recupero che Carpentier fa di vocaboli castigliani in disuso, ormai vivi solo in America Latina, con lo scopo dichiarato di rivendicare una specifica identità continentale, separata da quella della penisola iberica. Dall’altra, i tanti localismi che Consolo utilizza con l’obiettivo di salvare dialetti e varietà regionali dalla scomparsa. Con ogni probabilità è soltanto una coincidenza, questa sì, tra due autori che non si incontrarono mai di persona, ma che comunque intrattengono uno straordinario e sorprendente rapporto letterario.
CONSOLO, VOCE PLURIMA
Fabio Rodríguez Amaya
Radicato nell’Italia profonda, nauta nell’immensità delle lingue, maestro del barocco connaturato alla sua nativa Sicilia, Vincenzo Consolo (Sant’Àita di Militieddu 1933 – Milano 2012) si è impegnato come poeta – senza aureola né allori – a esplorare la storia e i suoi protagonisti: la natura, l’individuo, la società. Come ogni buon scrittore del Sud era memore, allo stesso tempo, dell’oscuro e del cristallino Siglo de Oro della Spagna imperiale e cattolica, così come dell’arte e delle letterature europee, di classici quali Omero, Virgilio, Dante, Rabelais, Montaigne, Cervantes e Manzoni, dei suoi contemporanei più vicini in quanto a ingegno e immaginazione come Joyce, Beckett e T.S. Eliot e, ovviamente, dei siciliani, tutti. Dal suo esordio come autore nel 1963, con Laferita dell’aprile, Consolo si è dedicato a indagare con gli strumenti della scrittura e in maniera iconoclasta la materia, la società e la cultura. Motivato, in principio, dall’urgenza di nominare le cose nelle loro minuzie e nei loro limiti immaginabili e impossibili, senza alcun indugio assumendo come propria eredità il crogiolo in cui convergono espressioni, popoli e idiomi di quella che una volta era la capitale del mondo e oggi patisce nella decadenza che imperversa. Consolo è stato una figura marginale per la sua condizione periferica rispetto al centro, e perché migrante dalla provincia marinara e contadina all’urbe industriale. Però non era marginale il suo sapere. Si è impegnato con la letteratura, l’arte e la società civile nell’ottica militante di esercitare il mestiere della lettura e della scrittura come migliore possibilità di conoscenza e di critica. L’ha fatto contrapponendosi a tutto ciò che uniforma, annulla e aliena nella società industriale e postindustriale, nella vertigine propria dell’epoca delle comunicazioni di massa, alla vigilia dell’avvento di Internet. Nomade quanto sedentario, l’ha fatto radicato alla terra siciliana, ancorato allo Ionio e al Tirreno come i suoi Antonio di Giovanni de Antonio, il Mandralisca, nobile erudito cefalutano, e Interdonato, democratico illuminista, tutti personaggi di Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976), vela di maestra della sua produzione. Consolo ha affrontato non poche sfide, distante da tutti e al contempo vicino a tutti, in primo luogo agli artisti (con testi oggi raccolti in L’orasospesa). Così come al suo amico e maestro Lucio Carlo Francesco Piccolo di Calanovella, insieme alla moltitudine di personaggi immaginari e reali che popolano le sue finzioni. Ciò di cui si è occupato spazia dalla Sicilia e dal Mezzogiorno, teatro della “nobile” spedizione di Garibaldi e dei misfatti borbonici e sabaudi, all’Italia degli anni di piombo, passando per la repubblica, il compromesso storico e il ’68, oggetti sia di ripulsa che di fascino. L’ha fatto esplorando il morbo delle ideologie e le piaghe del fascismo, della mafia, della corruzione, del terrorismo e della politica. Senza mai dimenticare la propria cornice culturale, specie il Gruppo 63 e la sua ambiguità, la doppia morale mostrata da un buon numero dei suoi membri, rinserrati nel narcisismo, nel lassismo dell’“intelligenza liberamente oscillante” (Mannheim dixit), che per la sua collocazione equivoca si arroga il diritto di offrire una visione “oggettiva” della società con il fine apostolico di contribuire alla sua conoscenza, alla proliferazione di chimere, alla costruzione narrativa della Storia, anfiteatro di “menzogna e sconfitta”, a scapito di quella autentica. A differenza di molti suoi contemporanei, non è difficile pensare a Consolo nel discreto silenzio delle sue ricerche, del suo lavoro giornalistico e saggistico per poter sopravvivere. Lui, così simile e così diverso dall’amico e maestro Leonardo Sciascia (il racalmutese di L’ordine delle somiglianze e delle Epigrafi); simile e diverso dai non pochi siculi-isole, isolati, o dai peninsulari impossibilitati a emergere come un arcipelago che si oppone alle stoltezze e alle miserie della specie umana. Prigionieri, come lui, di quel fantasma del passato, ingombrante, che vede l’Italia intera come un territorio d’eccezione da circa tre millenni, nonostante il tramonto definitivo della Trinacria, la decadenza borbonica dei Salina (e dintorni), mirabilmente messa a fuoco da Giuseppe Tomasi di Lampedusa, e i contrastanti miti risorgimental – repubblicani, gli orrori dei conflitti, le promesse del secondo dopoguerra, la repressione statale e poliziesca, il sogno della ricostruzione, la deturpazione degli immaginari colonizzati dai dogmi monoteisti o dalle ottuse dottrine politiche, l’effimera “dolce vita”, la bolla del boom economico e la caduta abissale del Paese nell’ultimo ventennio (di cui Consolo è stato grande testimone). Si è preso questi oneri non per il riconoscimento ufficiale, non per ingraziarsi le frivole voci degli ideologismi, ma per la sua passione e per la decisa autonomia intellettuale, tradotta in una scrittura espressionista per nulla compiacente. Una scrittura, anzi, dalla più lucida eresia nei confronti del romanzo, soprattutto storico (e isterico). Con polso fermo, in uno stato naturale di alterazione della coscienza, unito al fardello della sua origine semiproletaria, Consolo travasa la sua esperienza vitale e culturale in narrazioni inedite, in palinsesti difficili, multiformi e proliferanti che riverberano nel sincretismo, nella sorpresa, nello straripamento, sempre a debita distanza dallo sperimentalismo, dalle postavanguardie, dall’antiromanzo o dalle mode effimere del mercato editoriale. La sua personale maniera di articolare gli eventi, di porsi e di collocare i lettori davanti all’entelechia della Cultura, davanti alla lingua (dai più poco o mal conosciuta), di andare intrecciando storie e aneddoti preferibilmente statici, ma pure itineranti, attraverso linguaggi che riecheggiano un’oralità stratificata, una testualità composita, a reminiscenza di autori e opere e voci e forme e stravaganze e invenzioni che le popolano; proprio questa personale maniera di raccontare innalza i suoi lavori a paradigmi della babele contemporanea. La sua narrativa, come un fiume in piena, è sfuggente, polimorfa, polifonica, plurilingue, plurivoca e, allo stesso tempo, multisonante, magmatica e leggera, intricata come un frattale, ardua come un dedalo, complessa come la struttura a forma di chiocciola del carcere del Castello Gallego a Sant’Agata, o come il limaçon, o come un prospetto spiraliforme e labirintico di Escher. Senza considerare i temi e gli argomenti che tratta con disinvoltura, ancorati alla conoscenza storica, all’etica e alla materia (Consolo è uno scrittore materialista), mi riferisco alla dedizione disciplinata e alla lucidità della distillazione linguistica, allo sguardo macroscopico, all’attenzione maniacale per la forma che, sempre frenetica, succulenta e ingegnosa, è capace non solo di fondere idee, immagini e metafore, ma pure di muovere per il testo i fatti, le voci narranti e pure i lettori con mille espedienti. E questo insieme diventa l’apice della sua narrativa. Un insieme corroborato dall’estro, dal volo immaginativo che si riversa nelle tante enumerazioni al limite del caotico, e che non vi sconfina solo grazie all’ordinata sapienza che timona la scrittura. E sono decisive per strutturare i suoi lavori molte varietà prospetta una correlazione fra antifascisti caduti e caduti di mafia. E la stabilisce sulla base del concetto di “nemico interno”, del parallelo nazifascismo – mafia: l’uno e l’altra accaniti contro ogni dinamica democratica circolare (D. Dolci), legati a una visione verticistica autoritaria escludente. In quest’ottica non mancherebbero, anzi purtroppo avanzerebbero, alla Sicilia, lapidi commemorative. Ma non sono certo gli omaggi floreali, i sermoni rituali, il modo migliore di onorare i vecchi resistenti, tra i quali furono anche alcuni siciliani e meridionali sorpresi al Nord dall’armistizio e dalla farsa tragica della Repubblica Sociale di Salò, o i nuovi resistenti antimafiosi. Il cui nuovo nemico – “loro e nostro” – è ben definito in una carrellata storica che ripassa i decenni dell’Italia repubblicana, dalla metà degli anni quaranta in poi, su uno sfondo che rimanda a L’olivo e l’olivastro (1994) e sembra quello disegnato dal racconto eponimo di La mia isola è Las Vegas (pp. 215-217): “Ma non è questo che vogliono i morti per un ideale, per una causa giusta, non vogliono riti e fiori: gli uni e gli altri si consumano e appassiscono, diventano presto stanchi e vuoti simboli, buoni solo per la nostra consolazione. Questi morti non vogliono mai perdere il valore del loro sacrificio: valore di lacerazione, di inquietudine, di furore e di lucidità delle nostre coscienze. Vogliono che non dimentichiamo per un attimo la orribile faccia del loro e nostro nemico. Di quello che ieri armava la mano del bandito Giuliano per uccidere inermi proletari e, con l’Indipendenza, voleva trasformare questa nostra terra in un’isola di bische e di bordelli, di traffico e consumo di droga, di vizio e degradazione, di assoluto sfruttamento di molti e assoluto privilegio di pochi. Di quello che in questi quarant’anni ha distrutto e imbarbarito quest’isola di umanità e di cultura, ha distrutto le nostre campagne, i nostri paesi, le nostre città, i nostri monumenti, ha fatto versare lacrime amare ai nostri emigrati in Germania o in Svizzera. Di quello che ha fatto della Sicilia, di Palermo la testa di ponte e una delle centrali più importanti delle multinazionali del traffico della droga, dei sequestri, del crimine di ogni sorta. Di quello che se ne sta tranquillo e beato nel suo palazzo, nella sua villa, scorrazza sul suo yacht, accumula miliardi che trasferisce in banche estere”. L’explicit dell’articolo non può essere – sia concesso il bisticcio di parole – più esplicito e spiega il gelo della Sicilia ufficiale su Consolo, la profonda antipatia nei suoi riguardi, perché Consolo aveva poco o nulla da compatire, simpatizzare, da sentirein sintonia con tale Sicilia, la vasta zona grigia (P. Levi), se non del consenso, del non dissenso mafioso. Ecco ancora un altro collegamento irrituale alla storia del Novecento europeo, alla più grande tragedia del secolo scorso: le deportazioni e l’annientamento dei Lager; e un ulteriore rimando alla grigia nebbia del consenso fascista miracolosamente dissoltasi nell’immediato secondo dopoguerra. Consolo punta il dito decisamente verso l’uomo della strada che non ha fatto il salto del divenire cittadino consapevole, compartecipe della casa comune, della cosa finalmente pubblica, di tutti. Ma ricorre al plurale (“tutti conosciamo […] sappiamo […] ha bisogno di noi, ognuno di noi”): fa appello agli altri e a sé, non si erge a giudice, è uno dei (si augura) tanti a volersi liberare di non metaforici sambenito e coroza, dei reali lacci e lacciuoli mafiosi, del “nostro nemico” comune. Antimafia non è il delegare la lotta ai martiri, agli eroi, l’abbandonarli a combattere da soli in prima linea e il piangerli e onorarli da morti; è l’orgoglioso prendere coscienza del proprio ruolo di cittadini, di soggetti politici avulsi dai condizionamenti, dalle manipolazioni. Ecco perché – per loro e per noi – non possiamo, non dobbiamo dimenticarci: “Della faccia di questo nemico invisibile ma che tutti conosciamo, anche delle facce a tutti note dei loro compari, protettori e protetti, che a Palermo e a Roma da tanti, tanti anni occupano le poltrone del potere politico e amministrativo. E vogliono quei morti che sappiamo che la lotta alla mafia non ha bisogno di eroi soli e isolati da immolare, che sono ingiusti i sacrifici dei sindacalisti, dei La Torre, dei Dalla Chiesa; che la lotta alla mafia ha bisogno di noi, di ognuno di noi, nella nostra limpida coscienza civile, della nostra ferma determinazione; che è lotta politica, lotta per la nostra civiltà”. València, 24 giugno 2022
TRAVESTIMENTI E FUTURO
Davide Di Maggio e Nino Sottile Zumbo
“Scattando, senza sosta, ha messo in salvo, condotto a riva i relitti di un naufragio culturale. Immagini che testimoniano una trasformazione sociale epocale, la fine della civiltà contadina”. (Vincenzo Consolo su Giuseppe Leone) Una fotografia non mostra soltanto qualcosa che appartiene a chi l’ha scattata, così come non riguarda esclusivamente quello che vi è stato colto in un particolare momento in un luogo specifico. Le immagini piuttosto vivono in mezzo a questi due poli, il loro creatore e il loro soggetto, e aggiungono qualcosa che non si trova né nell’uno né nell’altro. Questo avviene perché esse, oltre a significare, circolano in un sistema di relazioni, di riferimenti molteplici e di echi lontani. Anche le immagini che compongono le fotografie di Giuseppe Leone (Ragusa 1936), nell’ambito di un intenso lavoro portato avanti negli anni, superano con forza l’idea di una fotografia esclusivamente autoreferenziale e autobiografica, nonostante che anche questi elementi vi rientrino come una delle loro caratteristiche. Nel corso di quasi settant’anni di attività il fotografo siciliano ha percorso in lungo e largo la sua isola. Non c’è villaggio dell’entroterra o paesino della costa che non abbia fotografato, prima che uno dei due sparisse. L’incontro, all’inizio degli anni settanta, con l’antropologo Antonino Uccello lo spinge con maggiore decisione verso la fotografia antropologica, quella che indaga costumi, ma anche il duro lavoro, le condizioni sociali della Sicilia interna. Sebbene egli ami definire le sue immagini “neorealiste” perché legate al mondo operaio, contadino, alle miniere d’asfalto del ragusano. La sua fotografia però va oltre la poetica neorealista per avvolgere con una intensa pietas i soggetti, soprattutto quando rappresentano 9 Vincenzo Consolo a Noto, anni ottanta. Riproduzione riservata Vincenzo Consolo a Noto, anni ottanta. Riproduzione riservata dell’italiano: arcaico, classico, aulico, gergale, accademico, popolare e attuale, meticciato a dialetti come l’antico sanfratellano, gallo-italico, con tutte le loro sfumature fonetiche, lessicali e grafiche. Decisiva, pure, la contaminazione con il latino, il francese, l’inglese, lo spagnolo e il portoghese, oltre ai documenti e alle notizie minuziosamente trascritti come intermezzi, appendici e contrappunti alla finzione. Cosa dire della tensione tra lo spazio-tempo dell’Essere, la Sicilia e il Sud intero, e il tempo – spazio dello Stare, Milano e il Nord, tra meridionale e settentrionale, tra urbano e rurale di questa Italia unita a forza? Gli spazi senza tempo della gestazione e della devastazione, intensi nella sua isola circondata dall’onnipresente Mediterraneo, culla dell’Occidente, fucina di popoli e saperi dall’epoca preistorica. La Sicilia, “madre terra di uomini e dèi”, il centro dove si amalgamano sicani ed elimi, fenici e greci, latini e bizantini, arabi e normanni. La Sicilia è il luogo privilegiato della narrativa, della saggistica e della pubblicistica di Consolo, perché proprio lì prende vita, tra città, borghi, monumenti, processioni, resti di civiltà, vulcani, isole, spiagge, colline, botteghe, commerci e campi, nella contraddizione e nel dubbio, nel conforto, nella festa e nel lutto. È l’epicentro della memoria e dell’oblio: un passaggio obbligato per il viaggiatore e per il corsaro, per l’erudito e per l’analfabeta, per il militare, il togato e il prelato. I testi e le narrazioni di Consolo sono intrisi di nostos, di assenza; arricchiti da un limpido raziocinio e da un discorso prolisso in un continuo viavai fra mito e storia, archeologia e botanica, sapienza ed evidenza, teoria ed empirismo: tutti elementi che rendono la sua opera una geogonia dove confluiscono organico e inanimato, cromatismi e sapori, tonalità e aromi, oggetti materiali e immateriali che con prelibata precisione ne definiscono la scrittura. È l’imperante regno dei sensi siciliano, la Sikelia, con il suo retrogusto di terra nera e terra rossa, argilla gialla e argilla grigia, lava, zolfo, pomice, pietre, salnitro, sabbia, iodio, arancine, provola, canestrato, melanzana, sarde, totani, basilico, granite, vite, olio e grano, insomma di qualsiasi frutto di terra e di mare. Cosa dire del suo verbo torrenziale, nominale e a tratti estremo? Del costante contrappunto fra violenza e ordine, follia e razionalità, scienza e superstizione, armonia e disordine, conservazione e annichilimento, sempre in tensione tra loro, senza dialettiche improvvisate, e strutturate nelle unità indivisibili anteriori ai tempi del silenzio, del caos e del nulla che proprio Consolo rinnova e attualizza. Per me sono stati di grande fascino la sua apatia irriverente e timorata, il suo sorriso vigile e beffardo, identico a quello dell’Ignoto del Museo Mandralisca a Cefalù. E identico nei ritratti dei siciliani Giovanna Borgese, Giuseppe Leone, Ferdinando Scianna. È quel sorriso che tra rivolte e dissertazioni, viaggi e persecuzioni, incontri, deliri e verità, fa diventare lo studio dell’erudito malacologo Mandralisca come quello del SanGirolamo di Antonio di Giovanni de Antonio, e ciò rinsalda la sapienza di Consolo e il suo piacere per la pittura. Fra la sua contenuta produzione narrativa (Consolo sapeva che pubblicare un libro all’anno è delirio, vanità e deriva), in particolare Il sorriso, Retablo (1987), Nottetempo, casaper casa (1992), L’olivo e l’olivastro (1994) e Lospasimo di Palermo (1998) sono stati per me segnavia nell’impossibile compito di vivere e sognare in italiano. Ma pure il resto della Conca d’Oro che sono i suoi testi occupa un posto d’eccezione nella mia memoria e nelle mie letture di persona sradicata dal suolo colombiano, poi abbracciata dall’italiano, mia nuova patria. A lui come a Pirandello, Verga, Vittorini, Bufalino e Sciascia, e a pochi altri (Carlo Levi, i partenopei), devo la mia preferenza per il Sud, per il verosimile, per il possibile, per questo modo di trasformare il racconto, grande menzogna, in una grande verità. Ripercorrere i libri di Consolo dà poi ulteriore lustro ai miei connazionali, già giganti, che sono Borges, Carpentier, Lezama, Sarduy, García Márquez, Espinosa e Burgos Cantor. Perché, come loro, Consolo ha saputo amalgamare generi, modi, stili, saperi e linguaggi, fino a diventare una voce plurima: la propria e quella di tutti. La voce alta, media, bassa, aulica, triviale, gergale, personale, collettiva del pescatore, del contadino, del nobile, dell’intellettuale, del paria, del sognatore, del lacchè, del proletario, dell’ingenuo, dello scienziato, del corrotto, del politico, del rivoluzionario, del prete, dell’assassino. E così trasfigura il mondo circostante in parola diamantina, riscrivendolo e, al contempo, rifondandolo nel linguaggio sostantivo e mai aggettivo, fino all’estremo del barocco (come in Retablo). Il tutto nonostante un certo pausato e trasognato disincanto. D’altronde, per noi del Sud, “la nostra arte è sempre stata barocca: una costante dello spirito che si caratterizza per l’orrore del vuoto, della superficie nuda, dell’armonia lineare, della geometria; uno stile dove attorno all’asse centrale – non sempre palese o evidente – si moltiplicano quelli che potremmo chiamare nuclei proliferanti […]. Non dobbiamo temere il barocchismo, che è la nostra arte […], creata per la necessità di nominare le cose. Perché ogni simbiosi, ogni meticciato genera un barocchismo”. Sono parole del cubano Alejo Carpentier (insieme a Borges l’autore ispanoamericano preferito da Consolo, ben letto e conosciuto), che del barocco è maestro. A lui il santagatese rispondeva virtualmente: “La mia cifra è barocca. […] D’altra parte quasi tutti gli scrittori siciliani sono barocchi, anche quelli che sembrano scrittori logici come Sciascia, Lampedusa, Brancati […]. La Sicilia è un crogiolo di civiltà, babele delle razze e delle lingue”. Consolo ha saputo mettere in luce le ipocrisie e le cadute della storiografia, della propria attualità e del suo divenire, quelle della fragile, irresoluta e oscillante collocazione dell’intellettuale davanti all’urgenza di cambiamenti radicali, quelle dei sofismi rivoluzionari e dei cavilli del compromesso, e anche quelle della disperanza in un mondo di tenebre. È stato exemplum nel leggere e nel tradurre la condizione umana, miserabile o proba, eterea o concreta, tronfia o infelice, travasata in un crogiolo di semi, sememi, morfemi, stilemi, locuzioni e composti sintagmatici espatriati dalla lingua di oggi. Tuttavia feraci come le onde e le sartie gonfiate dal vento, oppure inariditi dalla violenza, dal fanatismo e dalle stragi (che aggrediscono la lingua, come avvertiva pure Pasolini). Modulati nel fraseggio, nell’armonia, nella cadenza, nel ritmo, nei contrasti e nella musica fatta parola. Musiche e polifonie sognate da un poeta della forma, che incarna la voce profonda dei senza voce, le grida e i silenzi del mare, del vento, del fuoco, della neve e dell’estio. Soprattutto, per Consolo, la voce dell’uomo e del suo astio per una società iniqua, che continuerà ad ammutolire e a violentare e a perseguitare e a cacciare e a fucilare e a seppellire i più umili e gli emarginati e i rifiutati e i paria e i condannati e gli esiliati dal Regno dell’Uomo che è il Regno di questo Mondo (il Sale della Terra). Però ci restano le voci; voci come la sua. Perché una cosa non c’è, ed è l’oblio, come insegnano Omero e Dante e Cervantes e Shakespeare e Borges e Saramago. Come Consolo anche loro maestri del barocco.
University College Cork, Irlanda Conversare su Consolo: quattro appuntamenti online per ricordare lo scrittore siciliano A cura di Daragh O’Connell Organizzazione: Claudio Masetta Milone
1) Tradurre Consolo (venerdì 28 gennaio, 2022) con la partecipazione di JOSEPH FARRELL 2) Curare Consolo (venerdì 4 febbraio, 2022) con la partecipazione di GIANNI TURCHETTA 3) Studiare Consolo (venerdì 11 febbraio, 2022) con la partecipazione di NICOLÒ MESSINA 4) Raccontare Consolo (venerdì 18 febbraio, 2022) con la partecipazione di CLAUDIO MASETTA MILONE e IRENE ROMERA PINTOR
CONVERSARE SU CONSOLO Il link per i quattro appuntamenti:
È il maestro ragusano, Giuseppe Leone, a raccontarci con emozione il suo legame con Vincenzo Consolo, lo scrittore dalla “personalità magnetica” scomparso 10 anni fa
Angela Marina Strano Giornalista
Vincenzo Consolo e Giuseppe Leone in una foto concessa dal maestro ragusano A volte, dall’incontro di grandi artisti nascono, non solo esperienze professionali di estremo valore, ma anche storie di amicizia profonda. Ne è esempio l’amicizia sorta tra il fotografo Giuseppe Leone e gli scrittori Vincenzo Consolo, Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino.
Giuseppe Leone, è un illustre maestro di fotografia ragusano. Ha collaborato con intellettuali e con case editrici importanti, come Rizzoli, Sellerio e Bompiani. Abbiamo avuto l’onore e la possibilità di intervistarlo telefonicamente e con emozione ci ha raccontato dell’amicizia che lo ha legato alla triade degli scrittori siciliani.
Di certo, le loro vite e le personalità erano diverse, ma unite dall’arte, dalla letteratura e da un profondo legame umano. Ciò dimostra che, non necessariamente, fra personaggi illustri ci debba essere competizione, ma può esistere uno scambio di esperienze, idee acute ed emozioni.
Recentemente, l’Università di Catania ha dedicato allo scrittore Vincenzo Consolo, alcuni importanti eventi culturali per celebrare i dieci anni della sua scomparsa.
Durante l’incontro “Le parole e le immagini”, introdotto dal professore Rosario Castelli, delegato del rettore alle Attività culturali dell’ateneo catanese, con gli interventi degli italianisti Giuseppe Traina dell’Università di Catania e Gianni Turchetta, dell’Università di Milano, curatore della ristampa del volume fotografico “La Sicilia passeggiata”, con scritti di Consolo e con le foto di Leone, si è approfondita la figura e la scrittura di Consolo.
Leone, con il suo intervento, ha narrato attraverso le fotografie, il legame con lo scrittore, proiettando una selezione di foto edite e immagini inedite. Successivamente, ci ha raccontato: «Con Consolo, ci siamo conosciuti negli anni ’80, in contrada Noce, a casa di Leonardo Sciascia a Racalmuto. Quel luogo raccolto, modesto, lontano dal caos, è stato per anni rappresentanza della cultura siciliana.
Tutti gli artisti che operavano in Sicilia finivano per incrociare il loro cammino con la contrada Noce. Una mattina, mentre conversavo placidamente con Sciascia, giunse un’autovettura con a bordo una signora e un uomo. Vidi scendere e avanzare un uomo piccolo di statura. Leonardo ci presentò e, nel corso del pranzo, ho avuto il piacere di scoprire l’eleganza dell’eloquio di Consolo e la sua grande cultura. Rimanemmo tutti incantati dalla sua personalità magnetica».
Il loro rapporto di collaborazione professionale continuò grazie all’intuizione di Leonardo Sciascia, che, avendo ricevuto dal Sole24ore l’incarico di curare cinque pubblicazioni dedicate alla Sicilia, affidò a Consolo e Leone il volume sul barocco siciliano.
I due, così, visitarono e perlustrarono insieme per molti giorni le città di Ragusa, Noto e Palazzolo Acreide, condividendo il tempo e le idee. Tra loro nacque subito una grande intesa che poi divenne una lunga amicizia.
«Consolo – ricorda Giuseppe Leone – era un uomo che amava e apprezzava la bellezza della vita in ogni sua forma. A dispetto dell’immagine stereotipata che si ha di lui, non era affatto un uomo ombroso. Era un artista autentico.
Recentemente, nella galleria fotografica di Ragusa, abbiamo allestito una mostra sui tre scrittori e non tutti conoscevano la figura di Consolo. Questo mi ha colpito molto. Mi fa piacere che adesso ci sia questa attenzione verso di lui e che gli venga riconosciuto il giusto ruolo di scrittore».
Nel corso degli anni, il loro rapporto di collaborazione s’intensifica. Pubblicano, infatti, un libro dedicato a Cefalù, la città che fa da sfondo a tre dei suoi più interessanti romanzi. Poi, segue la pubblicazione di un libro fotografico dedicato ai Nebrodi, i luoghi dove era nato. Leone scopre grazie a Consolo, feste religiose, paesini affascinanti e luoghi sacri. Il loro sodalizio, continua con la pubblicazione di un libro dedicato a Ortigia e Siracusa, città che Consolo amava e dove aveva comprato casa.
«Consolo – continua Leone – amava molto l’archeologia, così decise di prendere una casa ad Ortigia che si affacciava sul tempio di Apollo. Era un grande conoscitore di arte. Con lui ho firmato due dei libri più belli della mia produzione. Il primo, edito da Bompiani, ancora una volta dedicato al barocco siciliano, grazie al coinvolgimento del direttore editoriale Mario Andreose.
Il secondo, decisamente un autentico capolavoro fu “Sicilia teatro del mondo”, commissionato dalle edizioni Eri, con un suo testo magistrale. Libro che è stato ripubblicato dalla casa editrice “Mimesis” proprio in occasione del decennale della sua scomparsa.
Ma in verità, il nostro ultimo lavoro insieme è stato la copertina del suo ultimo libro, pubblicato postumo. La moglie, Caterina Pilenga, mi chiamò dopo la sua scomparsa per scegliere l’immagine che campeggia in copertina di “Al di qua del faro” pubblicato da Mondadori».
Una delle foto più celebri di Giuseppe Leone, ritrae gli scrittori Consolo, Bufalino e Sciascia sorridenti in atteggiamento confidenziale. Ma pare, che a volte, tra Consolo e Bufalino si creavano degli screzi perché avevano caratteri diversi e due modi opposti di intendere il ruolo dello scrittore. Il libro “La Sicilia passeggiata” curato da Consolo, con le fotografie di Leone, svela una terra sognante, forse illusoria, popolata da monumenti, chiese, piazze, paesaggi e racconti di prodigi e sortilegi.
Nell’attacco, Consolo evoca una Sicilia incantata: “Siamo giunti: all’Ànapo che gorgoglia sonoro tra le gole di Pantàlica. Perché è da qui che vogliamo partire, per un nostro viaggio, per una nostra ricognizione della Sicilia, per inventarci, liberi come siamo da confini di geografia, da limiti d’epoca storica o da barriere tematiche, un modo, tra infiniti altri, per conoscere quest’isola al centro del Mediterraneo, questo luogo d’incrocio d’ogni vento e assalto, d’ogni dominio e d’ogni civilizzazione”.
Nelle sue foto Leone ritrae gli amici che si scambiano sguardi d’intesa, sorrisi, che compiono gesti quotidiani, come Leonardo Sciascia a colazione. Eppure, osservando quelle immagini non si ha la sensazione di violare l’intimità dei personaggi, ma si evincono dei frammenti di tempo, delle espressioni che diventano eterni grazie alla fotografia. Si tratta si emozioni sentimentali che si intrecciano con personalità di spicco della storia della Sicilia.
«Del nostro rapporto d’amicizia – ricorda Leone- ho ancora in mente le passeggiate e le grandi tavolate. Si amava dialogare a tavola. A tal proposito, desidero anticipare che, nonostante in questo momento la crisi culturale abbia intaccato anche le pubblicazioni delle case editrici, ho in progetto un nuovo libro fotografico che si intitolerà “Pausa pranzo” e che raccoglierà molte foto dedicate ai momenti conviviali e di intimità durante le conversazioni a tavola di importanti scrittori.
Il libro, non si rifà però solo ad immagini del passato, ma anche al periodo attuale segnato dal Covid e dai cellulari, e le foto dimostreranno come è cambiato il dialogo nel tempo, ognuno è chiuso nel proprio isolamento».
In quel panorama saggistico così completo delle tendenze e delle aporie dello spirito del XX secolo che è Uomo senza qualità, Musil mette a fuoco la complessa, subdola, disperata problematica in cui lotta l’uomo contemporaneo. Dibattuto sempre tra due poli, l’uomo è condannato all’incertezza, ad una perenne insicurezza, che investe, ovviamente, anche la Storia, ormai talmente deprivata dell’ottimistica visione progressista di stampo positivista da portare Musil ad affermare che <<per cause ignote l’evoluzione raramente acquista di più di quanto non perde in deviamenti e distruzioni» (p. 280)1. Una visione realisticamente sconsolata di come stanno le cose nel XX secolo, quindi, contro cui Kurndera, Brodskij, Calvino, Todorov – tra i tanti – hanno ipotizzato una possibile via d’uscita. Una sorta di salvezza estetica contro il male del mondo, e della Storia: il male dell’indifferenza (contro cui si scagliava Gramsci con tutta l’indignazione di cui era capace), del potere che tutto eguaglia con la forza dell’ideologia, delle armi, del danaro. All’incertezza paralizzante individuata da Musil si oppone la saggezza dell’incertezza del romanzo, il rigore con cui la poesia oppone al buio o alla luce accecante delle certezze ufficiali le tracce più tenui, la differenza di minuscoli fatti o cose, come il topo bianco d’avorio in Dora Markus di Montale. La coscienza che emerge dalla letteratura – ovvero il fatto che il reale è un fascio di possibilità – è ciò che viene opposto alle macchine da guerra del potere. Di qui l’invito di Brodskij: Eppure dobbiamo parlare; e non solo perché la letteratura, come i poveri, è notoriamente portata a prendersi cura dei propri figli, ma più ancora per via di un’antica e forse infondata convinzione, secondo Ia quale se i padroni di questo
1 Robert Musil, L’uomo senza qualità, Torino, Einar-rdi,2 voll., 1996 e1997, ol. I, p. 280
mondo avessero letto un po’ di più, sarebbero un po’ meno gravi il malgoverno e le sofferenze che spingono milioni di persone a mettersi in viaggio. Poiché non sono molte le cose in cui riporre le nostre speranze di un mondo migliore, poiché tutto il resto sembra condannato a fallire in un modo o nell’altro, dobbiamo pur sempre ritenere che la letteratura, sia l’unica forma di assicurazione morale di cui una società può disporre; che essa sia I’antidoto permanente alla legge della jungla; che essa offra l’argomento migliore contro qualsiasi soluzione di massa che agisca sugli uomini con la delicatezza di una ruspa […] Dobbiamo parlare perchè dobbiamo dire e ripetere che la letteratura è una maestra di finesse umana, la più grande di tutte, sicuramente migliore di qualsiasi dottrina; dire e ripetere che, ostacolando l’esistenza naturale della letteratura e l’attitudine della gente a imparare le lezioni della letteratura, una società riduce il proprio potenziale, rallenta il ritmo della propria evoluzione e in definitiva, forse, mette in pericolo il suo stesso tessuto. Se questo significa che dobbiamo parlare cli noi, tanto meglio: non già per noi stessi, ma forse per la letteratura 2. La realtà estetica è, così, chiamata a ridefinire la realtà etica dell’uomo. Ed è proprio in questo senso, allora, che l’affermazione di Dostoevskij – «la bellezza salverà il mondo>> – va presa alla lettera. Consolo sapeva tutto questo. Sempre impegnato sia nel suo lavoro giornalistico sia in quello letterario, sapeva bene – sapeva sempre più – che (come aveva intuito Musil) non abbiamo punto d’appoggio, che danziamo tutti sull’orlo dell’abisso. Sapeva che il mondo con i suoi orrori – (guerre, fame, ingiustizie, razzismo, violenza, disperazione dei tanti, arroganza dei potenti) da lui inesaustivamente denunciati fino all’ultimo – deborda da tutte le parti. E, dunque, avvertiva (insierne a Kundera, Brodskij, Calvino Torodov’, Pasolini, etc.) che per un intellettuale è necessario opporsi con tutti i mezzi possibili, essere contro a tutto questo. Ma per fare diga all’orrore del mondo e di chi lo governa, ci vuole un impegno permanente, una capacità di sdegno sempre all’erta, un’arte – la scrittura – che abbia un metodo inesorabile che permetta di costruire un ponte sull’abisso sottostante. Ecco, quindi, delinearsi le componenti necessarie al suo scrivere storico-metaforico, sostanziato anche dalla sua frequentazione con i lavori del Gruppo 47, particolarmente con l'<<etica della memoria>> di Enzensberger a cui Consolo fa eco con la propria <<metrica della memoria>3:
2 Iosif Brodskil, Dail’esilio, Milano, Adelphi, 1988, p. 54. 3 Per il debito contratto con il Gruppo 47, in particolare con l’Enzesberger di Letteratura come storiografia, cfr. quanto dice Consolo in Fuga dall’Etna, La Sicilia e Milano, la memoria e la storiografia (Roma, Donzelli, 1993), alle pp. 33,48-49.
1) Demistificazione dell’idea ottocentesco-progressista della storia (quella, per capirci, del Manzoni e non solo)4. 2) Necessità di dare voce a chi non l’ha mai potuta avere. 3) Passione e impegno civili ad oltranza che portano a una coincidenza tra vita e scrittura. 4) Uso raffinato e ironico della grande sapienza storica, letteraria e linguistica che riguarda ogni sua scelta di stile e di lingua d’espressione determinandone la plurivocità.5 Consolo – rifacendosi alle parole di Sciascia nel racconto La sesta giornata – si ascrive a quella schiera di poeti che non capiscono come <<un testo possa splendere di verità e mancare di poesia>> e che intendono, invece, scrivere <<parole che vogliono farsi azione>> 6, rappresentando profondamente la storia e lo spirito del proprio tempo, partendo sempre da una precisa appartenenza e specificità storico-geografica perché, come ricorda Maria Attanasio – poetessa e scrittrice calatina che ha in Sciascia e Consolo due suoi maestri – ogni narrazione storica è sempre ad alto tasso autobiografico e non potrebbe essere altrimenti. Come in Sciascia, così in Consolo, parola e azione sono due facce della stessa medaglia. Scrittura e impegno etico e civile sono indissolubili l’una dall’altro. E se Sciascia afferma che solo nella storia la sua scrittura del mondo trova legittimazione e senso, Consolo ha sempre ripetuto: «Mi interessava il mondo storico sociale, non mi interessavano i problemi personali o le indagini psicologiche” Mi interessava raccontare la storia, la Sicilia>>. Detestava, inoltre, come sanno tutti quelli che lo hanno conosciuto, il romanzo giallo (fatta eccezione per i gialli civili di Sciascia ben lontani dal cosiddetto romanzo giallo con tanto di fine risolutiva) e l’autobiografismo (amava ripetere che proprio non si sapeva più che farsene dei troppi Proust di provincia …). Scrive, quindi, di storia e sulla storia, cercando – non senza valenze utopistiche – soluzioni non volte a cancellare la storiografia ufficiale. ma tali da affiancarle quella potenziale, mai scritta, mai 4 A questo proposito si veda il saggio di Renato Nisticò, Cochlìas legere. Letteraturae realtà nella narrativa di Vincenzo Consolo, in «Filologia antica e rnoderna >>, 4, 1992,pp 179.22). ‘ Per gli aspetti linguistico-stilistici e per il concetto di plurivocità, è d’obbligo il lavoro di Cesare Segre, La costruzione a chiocciola nel Sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo, in intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del novecento, Torino, Einaudi, 199i, pp. 71-86. ” Leonardo Sciascia, La sesta giornata, in «Officina>>,7,1956, pp.29L-298, p.297 . 7 Traggo questo concetto dai miei appunti presi durante una conversazione privata con Maria Attanasio. Di Maria Attanasio si veda Struttura-azione di poesia e narrativa nella scrittura di Vincenzo Consolo, in <<Quaderns d’ltalia, 10, 2005, pp. 19-30. tramandata, non riconosciuta, comunque e sempre passata sotto silenzio. Con sfida, nel Sorriso dell’ignoto marinaio (editio princeps 1976) delega nelle appendici i cosiddetti documenti ufficiali mentre costruisce i capitoli del libro su elementi verisimili, che ufficiali non hanno mai potuto essere. La storia, infatti, la scrivono sempre i vincitori mai i vinti, ed è proprio ai vinti – nel suo tentativo di riscattarli dall’immobile fatalismo a cui li aveva condannati Verga ed eternati Tomasi di Lampedusa – che Consolo dà la parola. Scrive di storia con forza e convinzione per cercare di fare breccia sulla crosta di parzialità, falsità, assolutismo di cui è fatta la storiografia ufficiale. Dietro quella crosta costruita sull’illusione del cammino progressivo della storia si nasconde la storia di chi non ha avuto i mezzi e gli strumenti per narrarla dal proprio punto di vista. Con il suo sguardo Consolo vuole andare aldilà di questa crosta cercando di rintracciare il nostro destino, cercando – forse – al di là di tante pretese certezze – qualcosa che giustifichi laicamente, come ebbe a dire il suo amato Leopardi, la <<nostra vita mortale». A proposito di Leopardi, Consolo in impietrata lava – uno degli ultimi testi da lui pubblicati e che è profondamente autobiografico – ricorda che è la poesia a salvare il poeta: <<E nel deserto della natura e della storia, unica consolazione si trova nell’odorata ginestra”, nella “social catena”, ne “l’onesto e il retto conversar cittadino”, nella “giustizia e nella pietade”>>, ribadendo che l’unica consolazione possibile va cercata <<nella religione della tradizione e della famiglia, nell’attaccamento tenace come quello delI’ ostrica allo scoglio, al paese natio>>. Il che illumina sia le ragioni di Leopardi che quelle di Consolo. Sempre nello stesso saggio, a proposito di Verga – che deluso, a Milano, a partire dal 1874 scrive sulla Sicilia in una maniera fino a quel momento a lui stesso sconosciuta (Consolo parla traslatamente di se stesso, del suo essere diventato scrittore di storia di Sicilia dopo avere lasciato l’isola nativa alla volta della città del Grande Nord dello Sviluppo Economico) – in seguito alla caduta di tutte le illusioni che questo esilio aveva comportato e alla necessità, attraverso la scrittura, di cercare di fare i conti con la storica collettività umana (di cui la Sicilia è emblema) per coglierne, al di là delle macerie di cui è disseminata, alcuni tra i suoi aspetti più vividi: Vincenzo Consolo, Impietrata luna, la matrigna natura in Leopardi e Verga, in «RISL», ed. Insula, 6. 20i0, pp.253A: p.28.
«Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia stare fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta d’addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca.>>
Queste parole, tratte dal racconto Comiso dalle Pietre di Pantalica, sono una dichiarazione di poetica. Rivelano il fondamento lacerante delia sua impostazione ontologica e letteraria: la memoria dall’esilio, l’evocazione da lontano della Sicilia. La vocazione di Consolo è precoce, dettata sia dalla posizione geografica (Sant’Agata di Militello sul versante tirrenico della Sicilia), sia dalla dichiarata volontà di schivare ogni mediterraneità, scegliendo subito l’impegno l’indagine della realtà, avevano fatto Levi, Silone, soprattutto Vittorini e Sciascia. Dopo l’università Cattolica, Milano divenne la mia città.10 Emblematico di quanto appena detto è il brano finale del racconto La casa di lcaro: E ora che sei migrato per sempre, caro Uccello, io rispondo a quella tua richiesta di fare tutto il possibile… E il possibile è questo, di ricordarti, dagli spazi chiusi di questa nostra frigida vita, con affetto e con rimpianto, dolce e feroce, cantore e predatore di memorie, di reliquie d’un mondo trapassato di fatica e dolore, vero, umano, per iI quale non nutrivi nostalgia, ma desiderio, apparenza di riscatto.11. Il primo libro, La ferita dell’aprile (1963), rispecchia quegli anni di impegno, giustifica la propensione verso la storia che è stata decisiva per la sua vita letteraria. E con il romanzo del 1976, Il sorriso dell’ignoto marinaio – con cui si apre la Trilogia – che il quarantatreenne scrittore fa affiorare sua critica corrosiva e irridente alla storia ufficiale proponendone una possibile alternativa: quella di una lettura polifonica dei fatti e degli eventi che accolga anche la voce di coloro a cui è sempre stato negato averne una. La sua storia è sempre stata quella degli esclusi, dei reietti. Quella, in termini gramsciani, dei subalterni. Non quella silenziosa e ras-
Vincenzo Consolo, incipit di Comiso, in Le pietre di Pantalica f 19BBl, Milano, Mondadori, 2001, pp. ll5-181, p, 175.ro Citazione dall’articolo di Alessandra Bonaccorsi, Vincenzo Consolo: un intellettuale immerso nella Storia, nella rivista on line «Sicilia&Donna>>, wvw,siciliaedonna.it, 29 gennaio 2012. 1r La casa di lcaro, in Le pietre di Pantalica, cit., pp. 119-127: p. 127 .
segnata dei protagonisti gattopardeschi, né quella trionfante dei vincitori, dei nobili, dei mafiosi: quella di Vincenzo Consolo è una storia ” altra” – di sofferenti e di sofferenze – contro la Storia di sempre, quella che viene ripetuta da “baroni, proprietari e allitterati con ognuno che viene qua a comandare, per avere grazia e giovamenti e soprattutto per fottere i villani” 12. Il Sorriso è il risultato di una speranza storica, della fiducia ancora riposta nella lotta di classe quale unico possibile strumento valido per cambiare il corso della Storia. Dopo il Sorriso si assiste progressivamente ad una metamorfosi, un cambio – in Consolo – che si manifesta attraverso il rintuzzamento di quella fiducia e di quel sorriso in Nottetempo, casa per casa (1992), fino al loro desolato spegnersi nell’afasia terminale dello Spasimo (1998). Nel Sorriso, Consolo si dedica alla non facile impresa di rappresentare il drammatico dilemma espresso da Marx nella Sacra famiglia: La classe possidente e la classe del proletariato rappresentano la stessa auto-estraneazione umana. Ma la prima classe si sente completamente a suo agio in questa auto-estraneazione, sa che essa costituisce la sua propria potenza ed ha in essa la parvenza di un’esistenza umana; la seconda, in tale estraneazione, si sente invece annientata, vede in essa la sua impotenza e comprende in essa la realtà di una – la sua – esistenza non umana. Per usare un’espressione di Hegel, essa è, nell’ abiezione, la ribellione contro questa abiezione, ribellione a cui essa è necessariamente spinta dalla contraddizione tra la sua natura umana con la situazione della sua vita, che è la negazione aperta, decisa, assoluta di questa natura. 13 C’è una pagina, all’ inizio del capitolo sesto del Sorriso – Lettera di Enrico Pirajno all’avvocato Giovanni Interdonato come preambolo a la memoria sui fatti d’ Alcara Li Fusi – che a questo proposito mi pare esemplare. Ricordo velocemente (giusto per contestualizzare pagina prescelta) che il romanzo – il cui ordito storico è costituito dalle vicende siciliane negli ultimi anni del dominio borbonico e, in particolare, dai tentativi di rivoluzione liberale e dalle rivolte contadine susseguitesi fino a poco dopo lo sbarco di
12 A. Bonaccorsi, Vincenzo Consolo: un intellettuale immerso nella Storia, cit. La Bonaccorsi a sua volta cita un passo di Consolo dalle Pietre di Pantalica.13 Friedrich Engels – Karl Marx, Die heilige Familie oder Kritik der kritischen Kritik.Gergen Bruno Bauer and Corsorten [1845], La Sacra famiglia ovvero Critica della critica critica. Contro Bruno Bauer e soci, traduzione e cura di Aldo Zanardo, Roma, Editori Riuniti,1967, p.97..
Garibaldi – culmina nella rivolta di Alcàra Li Fusi contro i feudatari del luogo nel maggio 1860. Vi assiste casualmente il protagonista del libro, il nobile Enrico Pirajno barone di Mandralisca – personaggio storico realmente esistito (1809- 1864) a cui si deve Il Museo Mandralisca di Cefalù, dove è conservato il Ritratto di Ignoto di Antonello da Messina a cui rimanda il titolo del romanzo di Consolo – erudito, archeologo, numismatico e famoso naturalista appassionato di malacologia nonché collezionista d’arte. deputato alla Camera dei Comuni nel 1848 e, dopo l’Unità, nel Primo Parlamento del Regno d’Italia. Uomo di idee liberali ma lontano fino a quel momento dall’’azione politica, non può esimersi, date le circostanze di cui è stato testimone, da due decisive riflessioni: I) la considerazione che la Storia è <<una scrittura continua di privilegiati>> 14 e che esiste, quindi, una storia dei vincitori e una dei vinti, scritta la prima mai scritta la seconda e II) che in questa drammatica dicotomia, perenne e a prima vista irresolubile, consiste la tragedia della Storia. Nell’atto di stendere una relazione sui fatti appena accaduti, e di stenderla come avrebbe fatto <<uno di quei quei rivoltosi protagonisti moschettati [fucilati] in Patti» 15 o << uno zappatore analfabeta come Peppe Sirna inteso Papa>>16, intuendo e avendo come già chiaramente presente tale versione in irriducibile opposizione a quella fatta di <<arringhe, memorie, scritte su gazzette e libelli che pendono dalla parte contraria agli imputati>> 17, appartenenti alla voce ufficiale della storia, confessa e ammette l’impossibilità dell’impresa: No, no. Ché per quanto l’ intenzione e il cuore sian disposti, troppi vizi ci nutriamo dentro, magagne, per nascita, cultura e per il censo,18. E di conseguenza questo “scarto di voce e di persona” (ovvero, per dirla con Marx, questo immedesimarsi nella classe del proletariato) gli appare un’azione scorretta, una cosa che non si fa, un’impostura.19
14 II sorriso dell’ ignoto marinaio (1976), Torino, Einaudi. 1999, p. 97. 15 15Ibid. 16 ibid. 17 ibid 18 ibid. 19 Ugo Dotti, Storia e memoria: Vincenzo Consolo,,<Marxismo oggi>>, sul sito on line www.marxismoggi.it, pp. 1-8, p. 1.
Ed allora, nella sua lettera all’avvocato <<illuminato>> Giovanni Interdonato (altra figura storica del romanzo, nominato nel 1865 Senatore del Regno d’Italia) che fa da preambolo alla memoria su fatti di Alcàra Li Fusi, scrive:
Ed è impostura mai sempre la scrittura di noi cosiddetti illuminati, maggiore forse di quella degli ottusi e oscurati da’ privilegi loro e passion di casta. Osserverete: ci son le istruzioni. Le dichiarazioni agli atti le testimonianze.,. E bene: chi verga quelle scritte, chi piega quelle voci e le raggela dentro i codici. le leggi della lingua? Uno scriba, un trascrittore, un cancelliere, Quando [invece] un immaginario meccanico istrumento tornerebbe al caso, che fermasse què discorsi al naturale, siccome il dagherrotipo fissa di noi le sembianze. Se pure, siffatta operazione sarebbe ancora ingiusta. Poi che noi non possediam la chiave, il cifrario atto a’ interpretare que’ discorsi. E cade acconcio in questo luogo riferire com’io ebbi la ventura di sentire un carcerato, al castello dei Granza Maniforti, nel paese di Sant’Agata, dire le ragioni nella parlata sua sanfratellana, lingua bellissima, romanza, o mediolatina, rimasta intatta per un millennio sano, incomprensibile a me, a tutti, comecché dotati d’un moderno codice volgare. S’aggiunga ch’oltre alla lingua, teniamo noi la chiave, il cifrario dell’essere, del sentire e risentire di tutta questa gente? Teniamo per sicuro il nostro codice, del nostro modo d’essere e parlare ch’abbiamo eletto a imperio a tutti quanti: il codice del dritto di proprietà e di possesso, il codice politico dell’acclamata libertà e unità d’Italia, il codice dell’eroismo come quello del condottiero Garibaldi [.,.], il codice della poesia e della scienza, il codice della giustizia o quello d’un utopia sublime e lontanissima .,. E dunque noi diciamo, Rivoluzione, diciam Libertà, Egualità, Democrazia, riempiamo d’esse fogli, gazzette, libri. lapidi, pandette, costituzioni, noi, che que’ valori abbiamo già conquisi e posseduti [.,.] E gli altri, che mai hanno raggiunto i dritti più sacri e elementari, la terra e il pane, la salute e l’amore, la pace, la gioia e l’istruzione, questi dico, e sono la più parte, perché devono intender quelle parole modo nostro? 20 La ricerca di una possibile veridicità dei fatti storici da parte di coloro che hanno potere di scrittura viene meno. E allora? Che resta da fare? Ben lontano dalla fatalistica accettazione dello status quo in cui sono condannati a mal convivere per sempre i <<galantuomini> e la <<povera gente>> che popolano 1a novella Libertà di Verga – relativa alla feroce rivolta di Bronte e a1la ancor più violenta repressione di Nino Bixio il 4 agosto 1860 -, Consolo è altamente conscio della natura umana delle due classi antagoniste. In lui, con Dotti. sono evidenti sia il riconoscimento di quanto sia stata giusta la cruda ribellione contadina, ma anche l’inattesa affermazione che la classe dei possidenti, mancando dei necessari “codici” interpretativi, 20 Il sorriso dell’ignoto marinaio, cit. pp. 97 -98. dovrebbe comunque astenersi dal giudicare un evento che ha in realtà appalesato l’ignominia umana della storia stessa. 21 E qui soccorre la proposta, dal sapore utopistico, di Consolo espressa, in quegli anni ancora soffusi di speranza, attraverso il suo barone di un secolo prima con un attacco di frase, che echeggia il <<“Verrà un giorno.,. “>> che Padre Cristoforo rivolge a Don Rodrigo nel VI capitolo dei Promessi sposi.:22 Ah, tempo verrà in cui da soli conquisteranno que’ valori, ed essi allora li chiameranno con parole nuove, vere per loro, e giocoforza anche per noi, vere perché i nomi saranno interamente riempiti dalle cose. 23 Si vagheggia di un futuro in cui il linguaggio, invece di essere l’ornamento retorico di una violenta ipocrisia storica, riconquisti urla precisa adesione al senso concreto delle cose e possa dare corpo alle voci fino ad allora silenziate e mute, rese abili finalmente a svelare l’autentico senso delia storia, con le sue infamie morali, politiche ed economiche. Una certa qualche speranza nel futuro, che poi sparirà dall’ opera di Consolo, si rintraccia nel fatto che quell’auspicato cambiamento trovi uno spiraglio per riproporsi non più nell’Occidente (dove la fiducia nella lotta di classe è spenta. divenuta fredda cenere), bensì in un più profondo e vitale Sud del mondo. C’è un racconto del 1985, raccolto ora in La mia isola è Las Vegas col titolo Porta Venezia, in cui Consolo parla del luogo da lui più amato a Milano, la zona, multietnica di Porta Venezia, dove a proposito della cospicua popolazione africana e asiatica che ci vive, leggiamo nell’incipit: <<“Incidono lo spazio” mi dicevo.
“Sono una perentoria affermazione dell’esistenza”>>. E ancora, poco più avanti nel testo: Erano, i marciapiedi di corso Buenos Aires, in questo tardo pomeriggio di sabato, tutta un’ondata di mediterraneità, di meridionalità, dentro cui m’immergevo e crogiolavo, con una sensazione di distensione. di riconciliazione. Io che non non sono nato in questa nordica metropoli, io trapiantato qui, come tanti, da un Sud dove la storia s’è conclusa, o come questi africani, da una terra d’esistenza (o negazione d’esistenza) dove la storia è appena o non è ancora cominciata; io che
21 Ugo dotti, Storia e memoria: Vincenzo Consolo, cit., p.2. 22 Alessandro Manzoni, I promessi sposi [1840-1842], Milano, Garzanti,l9B3,p.75. 23 Il sorriso dell’ignoto marinaio cit., p. 98. 24 Vincenzo Consolo, Porta Venezia, ora in mia isola è Las Vegas, (postumo) voluto da Consolo e a cura di Nicolò Messina, Milano, Mondadori, 2012,pp,111-116, Il racconto era uscito per la prima volta nel luglio 1985 ne<Il moderno» col titolo una sera mediterranea
sono di tante razze e che non appartengo a nessuna razza, frutto dell’estenuazione bizantina, del dissolvimento ebraico, della ritrattazione araba, del seppellimento etiope, io, da una svariata commistione nato per caso bianco con dentro mutilazioni e nostalgie. Mi crogiolavo e distendevo dento questa umanità come sulla spiaggia al primo, tiepido sole del mattino 25.
Nel 1985 la speranza riguardo alla Storia trapelava ancora. Non a caso, sempre nel 1985, Consolo può scrivere quel cunto di settecentesca ironia che è Lunaria che, insieme a Retablo (1987), costituisce un intermezzo, un momento di pausa e di riflessione riguardante (sempre da leggersi in chiave di metafora) il secolo dei lumi, con le sue contraddizioni, la sua guerra tra buio e ragione, seguendo i protagonisti nel loro progressivo rendersi conto dei perché del proprio vivere e del mondo, alla luce di una ragione difficilmente conquistata, se e quando conquistabile. E questo costituisce l’impegno di tutti i personaggi degli scritti di Consolo e, con loro, del loro autore che in essi rivive e tramite essi cerca di dare espressione all’uomo che si sforza di annientare la propria componente animalesca per diventare umano. Messaggio questo ben esemplificato nel titolo di un libro, tra i suoi più belli, che è L ‘olivo e l’olivastro (1994): l’umano e il bestiale, il coltivato e il selvatico: dicotomia di omerica, ulissica memoria. Con il passare del tempo e con quel che accade nell’oggi dello scrittore, sensibilissimo a rilevare i cambiamenti e i sismi della società (gli anni Novanta vedono la cancellazione di un’intera generazione politica, Tangentopoli, l’inchiesta Mani pulite, l’ascesa politica di Berlusconi e della Lega Nord in un ritorno al fascismo più becero), speranza e fiducia vacillano e cominciano a venir meno, soppiantate da rabbia, sdegno, impotenza senza scampo tranne – forse e sempre più in bilico – quello estetico da affidare nonostante tutto e contro qualsiasi tentazione di afasia e silenzio, alla scrittura. La Trilogia è come un’appassionata partitura in cui i tre movimenti – adagio, sostenuto, grave – sono ben distinti e si susseguono in un crescendo vorticoso (come l’immagine della chiocciola cara a Consolo) che svela, con sempre più sdegnato dolore, gli inganni, le crudezze, le insensatezze della storia: dalla cosiddetta Unità nel Sorriso nel 1976 (in realtà miope piemontizzazione della penisola), alle sopraffazioni e angherie del fascismo in Nottetempo (1992), ai crimini di uno Stato connivente con la Mafia nello Spasimo (1998)” 25 lvi, pp. 112-113.
Il 1992 è l’anno di Nottetempo. In questo romanzo Consolo, come suo solito, parla dell’oggi raccontando dell’ieri. Qui si tratta di un momento clou della storia siciliana e italiana nei primi anni Venti, quelli che hanno segnato l’avvento del fascismo e la notte della ragione. In un romanzo corale, attraverso l’evocazione di tanti destini individuali, lo scrittore coglie un’intera civiltà ormai sull’orlo dell’abisso, In questo libro Consolo tenta di realizzare quell’arduo proposito a cui accennavo poco fa dell’uomo che lotta per fare prevalere la sua umanità sull’animalità. Qualcuno ha suggerito che Nottetempo è un <<poema diviso in dodici canti>. In questi dodici canti il narratore svolge il tema di un uomo, Petro Marano che, atrocemente colpito da un’ignota offesa, si sforza facendo conto solo su se stesso per sottrarsi alla propria sventura, alla sua continua pena: la follia animalesca del padre (<<luponario>>, licantropo), la disgrazia mentale della sorella, la confusione babelica che corrompe anche il linguaggio e che <<stracangiava le parole, il senso loro 26>> onde <<il pane si faceva pena, la pasta peste, il miele fiele, la pace pece, il senno sonno…>>27. Il tutto ad echeggiare i tempi (passati e presenti) di perdita della ragione, buio dell’ignoranza, irrazionalità (v. il personaggio modellato su quello storico di Aleister Crorvley (1875 -1947), mago profeta e satanista di origine britannica), sopraffazioni, crimini e misfatti” Nel libro si cerca, con fatica e allentata speranza, di fare leva sulla ragione per vincere quello che ragione non è, quella <<bestia dentro l’uomo che si scatena e insorge, trascina nel marasma. La bestia trionfante di quel tremendo tempo, della storia, che partorisce orrori, sofferenze>>28. Alla fine del libro Consolo, con scoperta autoreferenzialità, riprende lo speranzoso proposito del Sorriso (quello veicolato dalla frase <<verrà un giorno in cui i nomi saranno riempiti dalle cose>>) e ne affida la (potenziale) realizzazione al disgraziato protagonista del libro che nella chiusa si smarca dalla nefasta influenza dell’’anarchia violenta e idealista di Paolo Schicchi, fugge in Tunisia, e cerca ragione nella scrittura: ultimo stadio prima dell’afasia e del silenzio. Ecco le parole conclusive di Nottetempo: Cominciava il giorno, il primo per Petro in Tunisia. Si rinnovò il libro dell’anarchico, aprì le mani e lo lasciò cadere in mare. Pensò al suo quaderno. Pensò che
26 Nottetempo casa per cassa (1992), Milano, Mondadori,2000, p, 140, 27 Ibid. 23 Nottetempo casa per casa, cit., p. 170.
ritrovata calma, trovate le parole, il tono, la cadenza, avrebbe raccontato, sciolto il grumo dentro. Avrebbe dato ragione, nome a tutto quel dolore.29 Pietro Marano, qui esplicitamente chiamato a ‘riempire i nomi con cose nuove’, porta a compimento la prima parte del suo compito (quella precedente la scrittura) nel momento in cui arriva a comprendere che l’unica salvezza possibile risiede nella fuga. Una fuga che è anche resurrezione: emigrazione a Tunisi, come un qualsiasi emigrante alla ricerca di <<lavoro, casa, di rispetto>>30. Ed è rispetto la parola chiave. Rispetto per se stesso, per gli altri, per gli uomini di senno che superano il sonno a cui i più sono costretti. Il risvegliarsi dal quel sonno non è stato facile, non allietato da nessun enfatico ‘sol dell’avvenire’. Il risveglio coincide con il distacco necessario autobiograficamente a chi scrive (a Dante in esilio, a Verga e Consolo a Milano) – avvenuto nottetempo, casa per casa – da un passato dolorosamente ma consapevolmente respinto, da una memoria a cui si dovrà tornare un giorno (con la scrittura) per calcolarne il peso e coglierne il significato. La speranza in una possibile polifonia della storia e sulla storia, vaga nel Sorriso, assai attenuata in Nottetempo, è fugata nello Spasimo (1998). Il libro è stato scritto in seguito all’offensiva della Mafia contro lo Stato culminata nelle stragi che videro nel 1992 la morte dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (alla cui esecuzione il narratore fa menzione alla fine del libro). Si tratta del testo più sofferto della Trilogia, e non a caso. È infatti quello che tratta di fatti contemporanei all’autore, ragione per cui gli viene a mancare a mancare – data la gravità dell’argomento trattato – il distacco. È il meno lineare dei libri di Consolo nell’ossessivo affollarsi di passato e presente, nella contrapposizione di storia e memoria, nel vano bisogno di conforto che il ricordo potrebbe offrire e che suscita, invece, un bruciante sentimento di patimento, di sofferenza, di spasimo appunto. Il sostantivo del titolo (oltre al dipinto di Raffaello e alla chiesa eponima palermitana a cui si riferisce), è allusivo allo strazio che da Palermo e dalia Sicilia si allarga e investe il mondo intero. Consolo fa scorrere il suo sguardo sempre più ferito e indifeso sulla società attuale in cui, sotto mentite e apparentemente benevole spoglie, domina sempre, e non solo subliminalmente, la violenza fascista avvallata dalla follia del libero mercato del capitalismo più selvaggio, che ha inondato il mondo con la sua spietata corruzione. Dopo la guerra, l’Italia del dopo-
2e Ivi, p. 171.3 lvi, p. 170.
guerra, quella del futuro… Ma, si chiede il narratore, cosa hanno fatto di effettivo le due generazioni che si sono succedute dal secondo dopoguerra? Quella del padre (protagonista del libro, scrittore) Gioacchino Martinez e quella del figlio Mauro? La prima s’è rinchiusa nell’inerte escapismo dell'<azzardo letterario>>31; la seconda mossa da quella che riteneva una «lucida ragione32>> si è data all’inconcludente violenza della lotta armata e del terrorismo. Ma è così che si costruisce una <<nuova società, una civile,
giusta convivenza>>33? Questa amara confessione, sottesa a tutte le ingarbugliate pagine del racconto, emerge finalmente nel capitolo conclusivo. Ma in quell’ultimo, XI capitolo, la catartica confessione
scritta del protagonista e indirizzata all’estraniato figlio, proprio quando sembra lasciare trapelare che, nonostante tutto e tutti, il lume della ragione possa forse ancora riaccendersi e mandare qualche favilla, viene bruscamente interrotta da una telefonata allarmata che impone al protagonista di scappare e, di lì a poco, esplode sotto casa sua la bomba che distrugge la vita del giudice (senza nome ma è Borsellino) e della sua scorta.
Se la lettera, in quanto scrittura, era ancora a sole poche righe dalla chiusa del libro l’unico salvagente possibile rimasto per aggrapparvicisi e cercare di non affogare, dopo l’esplosione rimane solo il silenzio. Storia e memoria sono morte. E con esse muoiono parola e scrittura e, quindi anche l’un tempo vagheggiata altra possibilità polifonica di scrivere la storia. Restano il silenzio e una cantilena popolare muta, un rituale senza più speranza che irride forse apotropaicamente, qualsiasi salvezza, dovuta alla ragione e all’umanità. Su queste ha prevalso l’animalità, l’olivastro ha estirpato l’olivo: Cercò di dire, ma dalle secche labbra non venne suono. Implorò muto. O gran mano di Diu, ca tantu pisi, cala, manu di Diu, fatti palisi! 34
Dopo due millenni di civiltà <<post Cristum natum i popolani si vedono ancora costretti a invocare l’appalesarsi della giustizia divina>>35: più sconsolata e sconsolante di così questa fine non poteva essere.
31 Lo Spasimo di Palermo, Milano, Mondadori, 1998, p.126. 32 Ibid. 33 Ibid. 34 Lo Spasimo di Palermo cit., p, 131 35 Ugo Dotti, Storia e memoria; Vincenzo Consolo, cit., p. 4,
La data di pubblicazione del libro, 1998, la dice lunga sull’atmosfera che si respirava in Italia se anche un giornalista-scrittore – lontano letterariamente da Consolo ma a lui vicino in quanto a impegno civile – come Enrico Deaglio, nel 1992, in uno dei suoi racconti quasi veri ambientato in Sicilia, Il figlio della professoressa Colomba, descrive il progressivo eclissarsi della forza innovativa che un suo personaggio eccentrico e solitario, l’anglo-americano Michael Stetson Morse, aveva deciso di devolvere al miglioramento delle condizioni di vita della popolazione del paese siculo scelto come sua patria adottiva. Ecco cosa gli fa dire il narratore ricorrendo, come farà anche Consolo alla fine dello Spasimo, all’espediente della lettera, indirizzata al fratello Richard e che sarà letta pubblicamente, senza essere ascoltata dai presenti, al proprio funerale dopo essere stato assassinato dalla Mafia:
[.,.] Come ben sai, la mia opera qui si è trasformata in un grande fallimento; ho tentato di promuovere un’istruzione e un’assistenza sanitaria moderna, ma mi sono dovuto arrendere; ancora adesso non riesco a capire perché: ci deve essere qualcosa di importante in questo posto che mi sfugge, perché ancora adesso sono convinto che basterebbe poco per trasformarlo in un paradiso. [.,.l Quando arrivai qui, deciso a starci fino alla fine della mia vita, ebbi un colloquio con il prete. [.,.] Mi ammonì che il Male, qui al sud. è talmente straripante e ostinato che pervade tutto e che uno come me non l’avrebbe mai potuto capire. [.,.] Qui ho visto tanta violenza, quotidiana, dura. Sono quindi stato spinto à indignarmi. Ma, con il passare degli anni e con il progressivo esaurimento dei miei tentativi, ho imparato a controllare la mia indignazione, cercando di concentrarla sugli aspetti più importanti, per scaricare su un punto solo la massima energia. Ma il solo risultato è che anch’io ho smesso di indignarmi. [.,.] Per questo, caro Richard, mi dedico ora alle piccole cose. Conchiglie, pesci, fossili. La spiaggia qui, dove mi reco ogni mattina, è sabbiosa e lunga tre miglia. [.,.] E’ un paesaggio spettacolare, credimi. […] il luogo è intatto e deserto, ma sui giornali ho ietto [.,.] che proprio qui è in progetto un grande insediamento turistico, con alberghi e un piccolo aeroporto. Se qualcuno riuscisse a impedirlo! Se se ne potesse parlare sui giornali! Ti allego un po’ di documentazione che ho raccolto”. Questo brano è intriso dei tristi loci communes di cui traboccano, da sempre ormai, le vicende giudiziarie italiane circa il potere mafioso: speculazione edilizia, appalti truccati, corruzione, spietato controllo e abuso del territorio, eliminazione fisica e vituperante del nemico. Colpisce, ed è per questo che l’ho riportato, che Deaglio faccia compiere al suo personaggio un percorso inverso a quello riservato da Consolo al protagonista del sorriso: dall’impegno alla collezione di conchiglie.
16 Enrico Deaglio, Il figlio della professoressa Colomba [1992], Palermo, Sellerio, 1996,pp. 105-108.
Nessuna speranza, per nessun autore italiano impegnato, esiste più negli anni Novanta subito prima e dopo la morte, nel1992, dr Falcone e Borsellino e delle loro scorte. Caterina, giovane eroina fuggita dalla Sicilia. parlando a Roma Dei loro paese natio al cugino Gerlando, che si appresta a divenire killer d’ultima generazione al fine di eliminare i colleghi di vecchia generazione, gli dice: La cosa tremenda è che non sarebbe finita mai. E così, improvvisamente. mi è sembrata la nostra Rocca di Loto. Un inferno perché tutti fanno sempre le stesse cose, dicono le stesse frasi. E si proteggono, l’un l’altro, perché questo inferno continui, perché non cambi mai, perché nessuno dall’esterno venga a turbarlo. Anche ora, che tutti si ammazzano .,. Sì, si ammazzano per qualche interesse. però non per cambiare qualcosa, ma per continuare ad essere così come sono sempre stati.37 Con una manovra paradossale, ma realistica, nel suo libro – che tratta di una generazione siciliana che, persino nel ribellismo giovanile, non ha alternative all’uso dei metodi mafiosi -, Deaglio annoda il fatalismo di Verga e di Tomasi di Lampedusa con la desolazione a cui per la sua strada è giunto Consolo, emblematizzandolo in un paese siciliano dove la modernizzazione passa stravolgendo tutto e non cambiando nulla. Nel 2002, in Catarsi, Consolo scrive parole che tornano retroattivamente all’explicit dello Spasimo e le affida ad Empedocle: Se le parole si fanno prive di verità, di dignità e di storia, prive di fuoco e di suono, se ci manca il contorto loro, non c’è che l’afasia. Non c’è che il buio della mente, la notte della vita 38 ,.. Avviandomi a concludere, mi pare si possa cogliere, nell’ultimo Consolo, un’ulteriore passo. Dalla dissoluzione di qualsiasi speranza storica sancita dallo Spasimo – che mette la parola fine al suo dialogo illuminato e razionale sulla Storia intrapreso anche sulla scia di Sciascia e con Sciascia -, all’abbracciare sempre più sfiduciato le ragioni di un male di vivere più universale, cosmico, a forte reminiscenza leopardiana e pirandelliana, meno storico (quantomeno non solo storico) che, però, lascia spazio al recupero
37 Ivi, pp. 95-96. 38 Vincenzo Consolo, Catarsi, in Oratorio, San Cesarino di Lecce, Manni,2002,p.25.
Dell’ importanza, malgrado tutto, dell’azione individuale affidata alla parola <<“scritta e pronunciata”>> 39. Sempre nel Prologo della sua opera teatrale tragica Catarsi (in cui, ricordo, è messo in scena il suicidio sull’Etna di un moderno Empedocle di Agrigento), Consolo, dice che la <<tragedia è la meno convenzionale, / la meno compromessa delle arti 40>> e che «[a]l di là è la musica. E al di là è il silenzio>>41. E, altrove – ne La Metrica della memoria 42, riflessione critica sulla sua stessa scrittura – ricorda di avere voluto scrivere questi versi incipitari di Catarsi Perché la tragedia, in forma teatrale o narrativa, in versi o in prosa, rappresenta l’esito ultimo di quella che posso chiamare la mia ideologia letteraria, l’espressione estrema della mia ricerca stilistica. Espressione, in Catarsi, in forma teatrale o poetica, in cui si ipotizza che la scrittura, la parola, tramite il gesto estremo del personaggio, si ponga al limite della pronunciabilità, tenda al suono, al silenzio.43 E questo si rinserra con la chiusa sul silenzio già esperita e sofferta dal narratore dello Spasimo (1998): generi diversi, esiti analoghi. Col silenzio Consolo si era già scontrato nel suo libro del 1994 L’olivo e I’ olivastro, il cui incipit non a caso recita: <<Ora non può Narrate 44>> e in cui vengono negate la finzione letteraria e l’invenzione del racconto” E, a proposito dell’Olivo e l’olivastro, ne La metrica della memoria, Consolo allude al narratore, all’ ànghelos che vede interrotto il dialogo con i suoi destinatari, scomparso lo <<spirito socratico>> 45, perché ormai la cavea è vuota, deserta. Sulla scena è rimasto solo il coro che in tono alto, Lirico, in una lingua non più comunicabile, commenta e lamenta la tragedia senza soluzione, la colpa, il dolore senza catarsi 46.
39 Vincenzo Consolo, citazione da Affabulazione di Pier Paolo Pasolini, nel Prologo di Catarsi, cit., p. 13. 40 Ibid. 41 Ibid. 42 Vincenzo Consolo, Per una metrica della memoria, ora la La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo, a cura di Giuliana Adamo, prefazione di Giulio Ferroni, San Cesario di Lecce, Manni,2006, (con un CD con la lettura di Consolo di brani tratti da varie sue opere), pp. 177 -189. Per la storia esterna del saggio di Consolo si rimanda alla mia nota con asterisco a fine dell’appena nominato libro, p. 188. 43 lvi, p. 178. 44 Vincenzo Consolo, L’olivo e l’olivastro 1994), Milano, Mondadori, 2000, p. 9. 45 Vincenzo, Consolo, Per una metrica della memoria, cit., p. 187. 46 Ibid.
Sempre più netto è il passaggio operato da Consolo, fin dai suoi esordi letterari, da scrittura della comunicazione a scrittura dell’espressione. L’unica, ormai, secondo lui, in cui possa scriversi un romanzo: Nelle mie narrazioni c’è sempre l’interruzione del racconto e il cambio della scrittura, il suo alzarci di tono, svolgersi in forma ritmica, lirico-poetica.47 Se l’atteggiamento nei confronti di parola e silenzio è andato peggiorando – culminando nella disperata chiusa dello Spasimo, che è un romanzo, nell’ultimo Consolo riemerge la speranza nella catarsi, nel potere consolatorio della parola, ma in un genere letterario diverso, quello teatrale di greca memoria con tanto di anghelos e coro. Eccolo, quindi, in Catarsi, affidare la deuteragonista di Empedocle, Pausania, la rivendicazione del ruolo del narratore: Io sono l’anghelos, il messaggero necessario, colui che narra, che riferisce in tono basso la tragedia. che dice l’indicibile, che rappresenta l’irrappresentabile. Io sono il coro, l’eco sonora del crudo, del muto evento, colui che piange, si lamenta in geometrica cadenza, come vuole il rito, Poiché solo nel rito, come quello teatrale, nelle frasi. nelle movenze stabilite è possibile dire del dolore, della colpa, è possibile che avvenga la catarsi.48 E, ancora, restituisce alla parola la sua funzione super partes et super omnes et omnia, oltre la Storia. È Empedocle a parlare: Chi è presso alla morte si fa profeta. Io vi dico: la sua poesia eretica, blasfema, com’è la poesia vera, in questo tempo uniforme e tondo come una sfera spenta, la sua esplosione, la sua voce di vento e acqua, di terra e fuoco, valicherà me, voi, la storia, dopo millenni illuminerà la terra come la luce d’una remota stella. Ultimo ma non meno importante, Consolo, oltre all’impegno letterario, ha da sempre portato avanti, con coerenza e coraggio quello dell’impegno giornalistico (tra i pochi in Italia, in un passato recente, a schierarsi pubblicamente contro l’ex governatore della regione Sicilia Totò Cuffaro, che ha passato anni in galera per associazione mafiosa) ” La sua ultima accorata difesa della forma teatrale tragica, lo porta a realizzare un testo composito e inatteso: l’atto unico intitolato Pio La Torre, orgoglio di Sicilia (2009), scritto su incarico del Centro di Studi ed Iniziative Culturali Pio La Torre, col pre-
47 Ivi, p, 187. 48 Catarsi, cit., p. 43. 49 lvi, p. 39.
ciso intento di destinarlo alle scuole. Il testo composito, dicevo, è a cavallo tra storiografia e teatro. Infatti, è in parte un obiettivo resoconto storico di alcuni dei fatti più significativi della storia siciliana a partire dal secondo dopoguerra (dalla lotta contro il feudo all’ industrializzazione, al boom economico, attraversando le successive fasi della migrazione dei siciliani e dei meridionali e il continuo conflitto con la Mafia, strumento di potere connivente con lo Stato). I resoconti storici sono affidati a tre voci narranti che offrono mirabilmente <<una drammatica sintesi della vita politica e sociale dell’Italia dal primo dopoguerra>>, come recita la nota introduttiva vergata da Vito Lo Monaco. Ma è anche un dialogo mimetico tra i personaggi coinvolti da cui emerge – con discrezione e grande efficacia – il loro vissuto, il loro credo, i loro valori pagati con il prezzo delle loro stesse vite. La storia del grande sindacalista comunista, successore del precedentemente assassinato Placido Rizzotto, che sarà assassinato a sua volta dalla Mafia insieme al suo amico-autista Rosario Di Salvo il 10 aprile 1982, si profila sullo sfondo della Storia d’Italia dal secondo dopoguerra ad oggi. Si ratta di uno scritto in cui Consolo con penna leggera e obiettivamente implacabile delinea, e fa rivivere, il travaglio e l’evoluzione del nostro Paese verso la modernità. Credo che un testo come questo, sia la fertile eredità lasciata da Consolo ai più giovani: un modello di scrittura della Storia – obiettivo, espresso con lingua e stile efficacemente comunicativi, che tenga conto del punto di vista delle vittime e di chi gli sopravvive. Un linguaggio diretto, lontano da quello dell’’espressione letteraria. Ecco perché questo suo ultimo tentativo di comunicare la storia potrebbe germogliare al contrario di quello letterario. Quest’ultimo è uno stile: individuale, unico ed irripetibile per definizione; l’altro suggerisce un metodo. Gli stili sono, e devono restare, inimitabili; i metodi si imparano e si applicano. Concludo lasciando la parola a Consolo, a futura memoria:
50 Vito Lo Monaco, nota editoriale a Vincenzo Consolo, Pio La Torre. Orgoglio di Sicilia, Palermo, Centro di Studi ed iniziative Culturali PioLaTorre,2009,pp.4 – 5,p.4.
L’atto unico è stato donato da Vincenzo Consolo al Centro Studi affinché fosse usato come strumento di memoria e di educazione civica. Io sono stato onorato, al di là di ogni retorica, quando il Centro Pio La Torre mi ha incaricato di scrivere quest’atto unico, destinato alle scuole, [e di essere qui,] oggi, in questa sede così importante qual è il carcere dei Pagliarelli. Ecco io dico che la storia di Pio La Torre è la storia di tanti altri che sono la nobiltà di Sicilia. Io non credo ai signori gattopardi. Mi ha molto irritato da sempre la frase di Lampedusa <<Noi fummo i leoni, i gattopardi e dopo di noi vennero le iene e gli sciacalletti. Questi signori che abitavano nei loro palazzi, questi feudatari, sapevano benissimo chi erano le iene e gli sciacalletti. Erano i gabellotti, i soprastanti. Erano quelli che sfruttavano il lavoro dei braccianti e dei contadini, dove è nata La Mafia, e che poi portavano i profitti nei palazzi dei signori nobili palermitani. Io credo che la vera nobiltà di Sicilia sia, appunto, rappresentata da quei braccianti, da quei contadini, da quei sindacalisti come Pio La Torre. Figura di grande nobiltà è quella di Francesca Serio, la madre di Turiddu Carnevale, di cui ci parla Carlo Levi ne Le parole sono pietre. E si potrebbero fare tantissimi altri nomi, una lista enorme di persone che hanno sacrificato la vita per ii riscatto della loro dignità, per avere riconosciuti i loro diritti. E poi, oltre i braccianti, i contadini, i sindacalisti, sono stati anche i magistrati e le forze dell’ordine ad avere sacrificato la vita per il riscatto di questa nostra terra. Io ho avuto l’onore di conoscere alcuni di questi magistrati. Ho conosciuto Falcone. Ho conosciuto Gian Giacomo Ciacco Montaldo. E pensare alle loro figure… veramente quella è la vera nobiltà di Sicilia: i braccianti. i sindacalisti, i contadini, i magistrati e le forze dell’ordine che hanno pagato con la vita per il riscatto di questa nostra terra.51
51 Trascrizione mia dell’intervento orale tenuto da Vincenzo Consolo in occasione della rappresentazione del suo atto unico Pia La Torre, orgoglio di Sicilia, avvenuta sabato 17 aprile 2010 al teatro della casa circondariale Pagliarelli a Palermo. (v. on line: www.piolatorre.it /video). Mia la responsabilità dell’interpunzione e della paragrafatura.
da Strumenti critici/ a. XXXI, n. 2, maggio – agosto 2016
Questa è una foto del 2007, in occasione della (terza!) venuta in Collegio Nuovo – Fondazione Sandra e Enea Mattei, per un incontro aperto al pubblico, dello scrittore Vincenzo Consolo. E la nostra Alunna, Giuliana Adamo, era con lui e Cesare Segre, a presentare la raccolta di saggi, da lei curata per Manni Editori, dedicata allo scrittore.
di Ada Bellanova Fornire una definizione del Mediterraneo non è un compito semplice. Mare – e contesto – in perenne trasformazione, come dimostra la sua storia ecologica, esso resiste ad ogni generalizzazione1 . Si può certamente tentare la strada della determinazione strettamente geografica ma si deve riconoscere che a poco serve dire che si tratta di un mare semichiuso su cui si affacciano vari popoli, diversi tra loro eppure simili per la loro posizione e per la condivisione di problemi e risorse. Si deve poi ammettere che il cosiddetto ecosistema mediterraneo ha subito trasformazioni profonde nel corso dei millenni: eliminazione di boschi e foreste, aumento della popolazione, sfruttamento delle risorse, mutamenti climatici, cambiamenti di fauna e flora2 . Le trasformazioni, tra l’altro, contraddistinguono anche la storia della rappresentazione. L’idealizzazione del passato classico che ha sedotto innumerevoli viaggiatori non esiste più e il Mediterraneo si rivela contesto dalle molte facce, non facilmente assimilabile al solo mondo europeo o occidentale3 . Perciò, come tentare una definizione? Cos’è veramente mediterraneo? Se la politica europea contemporanea ha ridotto la questione al problema della frontiera, al rischio di nuove invasioni barbariche4 , ragion per cui il mare è diventato spazio delle indesiderate migra- 1 La complessità del Mediterraneo è centrale nei recenti studi di Mediterranean ecocriticism. Si veda a proposito S. Iovino, Introduction: Mediterranean ecocriticism, or a Blueprint for Cultural Amphibians, in “Ecozon@”, 4.2, 2013, pp. 1-14, in particolare a p. 4. 2 Ibidem. La Iovino propone il caso dell’importazione di tutta una serie di piante e prodotti nel regno della vitis vinifera e dell’olea europaea, con conseguente profondissime sullacosiddetta dieta mediterranea (si pensi a pomodoro, riso, caffè ecc.). 3 Ivi, p. 5. 4 Si veda a proposito il saggio di C. Resta, Geofilosofia del Mediterraneo, Mesogea, Messina 2012. Sul Mediterraneo come confine,frontiera anche A. Le- zioni di masse di disperati, tra cui possono nascondersi pericolosi attentatori, e luogo di inevitabile sepoltura, un vero cimitero, di quanti non arrivano a compiere la traversata a bordo di gommoni e imbarcazioni di fortuna, gli intellettuali hanno mantenuto il Mediterraneo al centro di un vivace dibattito culturale. Dibattito che prova a mettere in discussione gli stereotipi. Rischiose sono infatti le immagini rassicuranti dell’idillio naturalistico e della civiltà dell’accoglienza da una parte oppure, all’estremo opposto, quelle fosche della violenza e della sopraffazione. Da una parte il paradiso turistico a buon mercato, le spiagge seducenti, l’esotismo della porta accanto, dall’altra quello della mafia, dell’estorsione, della corruzione delle classi dirigenti, della mancanza di sicurezza, dell’estremismo. L’una e l’altra immagine non sono che la faccia legale e quella illegale dell’inserimento subalterno del Sud nel mondo dello sviluppo, ai suoi margini, “laddove i modelli seducenti proposti dalle capitali del Nord-ovest si decompongono fino a diventare deformi”5 . Tali riduttive determinazioni trascurano la reale complessità del Mediterraneo, che, non a caso, Braudel tenta di definire nel segno della molteplicità e con l’espressione “crocevia eteroclito”6 . Questo spazio, quindi, non consiste soltanto in una teoria di paesaggi, addirittura non lo si può dire neppure mare unico, perché esso è piuttosto un insieme di mari. Nemmeno si esaurisce nell’elenco di tanti popoli diversi perché essi sono entrati spesso in relazione, avvicendandosi su uno stesso spazio o su spazi confinanti, si sono mescolati, hanno plasmato il territorio, anche come spazio dell’immaginazione, e continuano a farlo, rendendo impossibile una reductio ad unum. Ragion per cui Matvejevic può affermare che non esiste una sola cultura mediterranea, ma ce ne sono invece molte, caratterizzate da tratti simili e da differenze, mai assoluti o costanti7 . ogrande, La frontiera, Feltrinelli, Milano 2017, che indaga sulla condizione dei migranti. 5 F. Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, Bari 1996, pp. 3-4. 6 F. Braudel, Mediterraneo, in Id. (a cura di), Il Mediterraneo. Lo spazio la storia gli uomini le tradizioni, trad. it. di E. De Angeli, Bompiani, Milano 1987, pp. 7-8. 7 P. Matvejevic, Il Mediterraneo e l’Europa, Garzanti, Milano 1998, p. 31. Si veda anche Id., Quale Mediterraneo, quale Europa?, in F. Cassano, D. Zolo (a cura di), L’alternativa mediterranea, Feltrinelli Milano, 2007, p. 436: L’incontro ha sempre comportato delle criticità, in primis una diffusa e pressoché costante conflittualità8 : come scrive Braudel, “in tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato”9 . Ma il contesto mediterraneo non si configura solo come spazio di guerra: nei secoli le civiltà dominanti non hanno potuto cancellare del tutto quelle sottomesse; si sono sempre attivati meccanismi di contaminazione, dialogo, stratificazione. Allora forse la sua “essenza profonda”10 sta nell’esempio che esso può offrire della convivenza tra culture differenti. Solo tale approccio all’alterità può permettere al Mediterraneo, “mare tra le terre”, di essere non confine, limite, ma luogo di relazione e di incontro11. Il problema è anche di politica europea, o dovrebbe esserlo, non solo per il timore della violazione da parte dei migranti. Il legame tra Europa e Mediterraneo infatti esiste, sebbene venga sistematicamente messo in ombra dalla prevalente prospettiva mitteleuropea, ritenuta vincente dal punto di vista economico12. Considerare la “via” mediterranea significa, secondo Franco Cassano, valorizzare le differenze, la varietà che l’ossessione di uno sviluppo a tutti i costi nega. Significa porsi il problema della gestione degli spazi, laddove gli spazi ospitano un patrimonio “verticale”, incredibilmente stratificato, e quello della cura dell’ambiente e del paesaggio, impedendo che questi siano solo preda dell’abusivismo selvaggio. Significa affrontare la questione dello scambio e della convivenza tra vecchi e nuovi abitanti. Ciò va fatto, ed è un’opportunità, non solo per “custodire forme d’esistenza diverse da quella dominante” ma anche per “tutelare la stessa modernità dal suo avvolgimento in una spirale senza ritorno” 13. “l’insieme mediterraneo è composto da molti sottoinsiemi che sfidano o rifiutano le idee unificatrici”. 8 P. Matvejevic, Mediterraneo. Un nuovo breviario, trad. it.di S. Ferrari, Garzanti, Milano 1993, p. 19. 9 F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, trad. it. di C. Pischedda, Einaudi, Torino 1976, pp. 921-922. 10 Id., Mediterraneo, cit., p. 9. 11 Ancora Braudel a proposito della definizione del Mediterraneo come grande strada per trasportare uomini e merci (Id., Storia, misura del mondo, cit. p. 105). 12 F. Cassano, Tre modi di vedere il Sud, Il Mulino, Bologna 2009, pp. 20-24. 13 Id., Il pensiero meridiano, cit., p. 7. Ma si veda anche Id., Paeninsula: l’Italia da ritrovare, Laterza, Roma 1998, pp. 10-11.
1. Lo spazio mediterraneo per Consolo
La scelta di Norma Bouchard e Massimo Lollini di seguire il criterio della mediterraneità nell’antologia del 200614 riflette la centralità dell’interesse di Consolo per la “lettura e la scrittura” dello spazio mediterraneo15. Andando oltre gli stereotipi, la linea interpretativa e rappresentativa dell’autore evidenzia tormento e ricchezza di un contesto complesso, che rifugge qualunque generalizzazione. Parlare della questione e dello spazio mediterraneo significa per Consolo parlare del Sud e, in particolare, della Sicilia. La riflessione sulla complessità del Mediterraneo si innesta dunque sulle considerazioni a proposito della varietà e della molteplicità che caratterizzano la storia, l’ambiente, il patrimonio siciliani. Estremamente significativo appare nell’isola il flusso incessante di energie umane e culturali16, che hanno condizionato e condizionano il paesaggio, accostando e sovrapponendo più identità17. Allo stesso modo l’intero Mediterraneo è amalgama, crocevia di popoli differenti, non solo territorio della conflittualità ma anche patrimonio ricchissimo, possibilità della relazione e dello scambio18: sì scenario di devastazione, dove la tecnologia ha perso la sua funzione antropologica e ha generato mostri che distruggono le antiche città, trasformandole in 14 V. Consolo, Reading and Writing the Mediterranean, a cura di N. Bouchard e M. Lollini, University of Toronto Press, Toronto-Buffalo-London 2006). Si veda il chiarimento nel saggio introduttivo: N. Bouchard, M. Lollini, Introduction: Vincenzo Consolo and His Mediterranean Paradigm, pp. 3-48, a p. 14. Sull’interesse di Consolo per il Mediterraneo si veda anche N. Bouchard, Vincenzo Consolo’s Mediterranean Journeys: From Sicily to the Global South(s), cit. 15 Sul tema anche l’antologia postuma, V. Consolo, Mediterraneo. Viaggiatori e migranti, Edizioni dell’Asino, Roma 2016. 16 C. Gallo, Cultural crossovers in the Sicily of Vincenzo Consolo, in “US-China Foreign Language”, gennaio 2016, vol. 14, n.1, pp. 49-56. 17 Emblematico Uomini e paesi dello zolfo, in Di qua dal faro, pp. 981-982: “Ora qui, per inciso, vogliamo notare che la storia, la storia siciliana, abbia come voluto imitare la natura: un’infinità, un campionario di razze, di civiltà, sono passate per l’isola senza mai trovare tra loro amalgama, fusione, composizione, ma lasciando ognuna i suoi segni”. 18 Tale visione è centrale anche nella riflessione di F. Cassano (i già citati Paeninsula, Il pensiero meridiano, Tre modi di vedere il Sud). Non a caso la scrittura di Consolo e quella di Cassano affiancate espongono il punto di vista italiano per “Rappresentare il Mediterraneo”, collana Mesogea (V. Consolo, F. Cassano, Rappresentare il Mediterraneo, cit.). moderne metropoli, luoghi di intolleranza politica, religiosa e razziale, ma allo stesso tempo archivio di eredità preziose19. Dunque olivastro e olivo insieme. Ed è per tutelare ‘l’olivo’ che Consolo procede in direzione di un ripensamento dei consolidati effetti della globalizzazione20. L’imposizione dell’economia ritenuta vincente e l’emarginazione dei vari sistemi tradizionali producono inevitabilmente l’aberrante negazione della molteplicità che caratterizza l’identità mediterranea e la rottura degli utili equilibri preesistenti. L’autore dunque riflette sulla gestione degli spazi e della cultura e legge il fenomeno migratorio non come superamento di un limite ma come occasione di scambio che trasforma e vivifica. Nell’ottica di un recupero delle tradizioni e della molteplicità a rischio vanno guardate le scelte linguistiche che recuperano frammenti della Sicilia greca, bizantina, araba, normanna, ovvero le impronte delle lingue parlate un tempo nel Mediterraneo. L’imperativo della salvezza di linguaggi e dialetti dall’oblio si traduce in un plurilinguismo in cui non ci sono parole inventate ma parole scoperte e riscoperte, in un’operazione di riscatto della memoria e, quindi, di ricerca delle radici, dell’identità21. Se la rappresentazione del Mediterraneo risulta ambivalente, anche Ulisse, l’eroe mediterraneo per eccellenza, ha una natura duplice. Il personaggio omerico, associato da Consolo all’uomo contemporaneo, non è l’eroe del ritorno, è piuttosto il migrante: il nóstos gli è costantemente negato, perché nell’approdo all’isola egli scopre il sovvertimento, incontra le macerie di Troia anziché il palazzo di Itaca, ed è condannato perciò ad un esilio senza fine. La sua peregrinazione lo porta a contatto con le varie forme di violenza della modernità nei confronti di piccoli e grandi luoghi, in Sicilia e fuori dalla Sicilia. In ciò il viaggio diventa meditazione sulle proprie responsabilità: insieme all’ansia di scoperta e conoscenza, è 19 N. Bouchard, M. Lollini, Introduction: Vincenzo Consolo and His Mediterranean Paradigm, cit., pp. 3-48, a p. 18. 20 Si veda l’intervista con A. Prete (Il Mediterraneo oggi: un’intervista, in “Gallo Silvestre”, 1996, p. 63). 21 G. Traina, Vincenzo Consolo, cit., p. 130. F. Cassano in Rappresentare il Mediterraneo parla di recupero da parte di Consolo di un’antica dimensione sacra della lingua, mediante lo scavo nel passato del Mediterraneo (V. Consolo, F. Cassano, Rappresentare il Mediterraneo, cit., p. 57). evidenziato il senso di colpa e il rimorso per l’abuso della tecnologia che distrugge patrimoni e vite umane22. Le tappe del viaggio cantato da Omero, a loro volta, come già evidenziato, diventano tessere per comporre l’immagine del mondo contemporaneo. Il mito ha avuto un suo innegabile ruolo nella costruzione dell’identità mediterranea23 perché, sorto da una radice geografica, ha a sua volta modificato e condizionato la percezione collettiva dello spazio, confluendo nel patrimonio di tutti, come è accaduto nei casi esemplari di Scilla e Cariddi o dell’Etna. Ma racconti e leggende antichi legati al territorio possono dire qualcosa di nuovo, possono mettere in luce la stortura: questa è l’operazione a cui si dedica Consolo, ribadendo il legame tra la piana delle vacche del Sole e la Milazzo dell’esplosione o evidenziando l’associazione tra regno dei Lestrigoni e area industriale siracusana. Proprio proponendo il mito originale, allora, enfatizzandone alcuni aspetti, l’autore è capace di trasmettere una denuncia che lamenta la profonda metamorfosi subita dai luoghi: riesce cioè a produrre un’immagine critica dello spazio contemporaneo.
1.1 Nel segno della varietà del mare
Consolo si sente figlio della varietà, dei passaggi, degli incroci di popoli che si sono avvicendati sulla sua terra. Perciò, nella straniante Milano, cerca il conforto dell’umanità colorata, varia, di corso Buenos Aires. A Nord egli cerca il suo Mediterraneo e lo trova negli arabi, nei tunisini, negli egiziani, nei marocchini, negli altri africani, lo trova nel “bruno meridionale”: in questa “ondata di mediterraneità” si immerge e si riconcilia, ci si distende come in una spiaggia di sole del Sud24. 22 Sulla figura di Ulisse e il suo rapporto con il Mediterraneo nell’opera di Consolo si vedano alcune riflessioni di M. Lollini (M. Lollini, Intrecci mediterranei. La testimonianza di Vincenzo Consolo moderno Odisseo, cit, pp. 24-43 o anche l’introduzione, scritta con N. Bouchard, all’antologia Reading and Writing the Mediterranean, N. Bouchard, M. Lollini, Introduction: Vincenzo Consolo and His Mediterranean Paradigm, cit., pp. 19-21). Ma si vedano anche le affermazioni dello stesso Consolo in Fuga dall’Etna, cit., pp. 50-52. 23 B. Westphal (a cura di), Le rivage des mythes. Une géocritique méditerranéenne. Le lieu et son muthe, Pulim, Limoges 2001. 24 “Io che sono di tante razze e che non appartengo a nessuna razza, frutto dell’estenuazione bizantina, del dissolvimento ebraico, della ritrazione ara- La similitudine esalta la presenza della varietà umana con tutta la sua gamma di neri e bruni qualificandola come occasione, in una Milano grigia al di là dello stereotipo, di sperimentare la mediterraneità. L’accostamento è significativo perché l’esperienza della “spiaggia al primo tiepido sole” è molto mediterranea, tanto più per Consolo, nato e cresciuto in una località di mare. La vita a Sant’Agata di Militello, “paese marino”, “borgo in antico di pescatori”25 gli ha permesso di avere una precoce familiarità con la spiaggia26. “La visione costante del mare” ha scandito l’infanzia, di giochi, bagni e gite sui gozzi. Sulla riva di una contrada poco nota sono approdati guerra e cadaveri della grande Storia27. Perciò lo spazio mediterraneo non può che configurarsi, sulla base dell’esperienza personale, come “mare”. Il tempo del mito che contraddistingue la percezione del mare delle Eolie viene poi superato nella frequentazione di altre coste, altri porti, altri arcipelaghi: il Mediterraneo non è più quello della giovinezza, non solo perché sono mutati i toponimi, le coordinate, ma anche perché a guardarlo ora è un adulto, con una prospettiva nuova, di cronista e narratore, e perché sempre più ristretto è lo spazio della bellezza, e delusione e amarezza nascono dalla coscienza di un patrimonio a rischio di estinzione, vampirizzato dall’indu, del seppellimento etiope, io, da una svariata commistione nato per caso bianco con dentro mutilazioni e nostalgie. Mi crogiolavo e distendevo dentro questa umanità come sulla spiaggia al primo, tiepido sole del mattino”, Porta Venezia, in La mia isola è Las Vegas, pp. 112-113. Nello stesso testo (p. 114) gli eritrei che, ai tavoli di un ristorante, mangiano tutti con le mani da uno stesso grande piatto centrale il tipico zichinì gli ricordano l’uso delle famiglie contadine siciliane di una volta. Anche nell’osservazione di questo gesto c’è il conforto del recupero di un’identità, specialmente nel confronto con un Nord tanto diverso. Poco più avanti anche la musica, in un bar egiziano, suggerisce legami, suscita l’evocazione dell’identità mediterranea (Ivi, p. 115). 25 Il mare, in La mia isola è Las Vegas, p. 220. 26 La grande vacanza orientale-occidentale, in La mia isola è Las Vegas, pp. 163-169, a p. 165. Molte le dichiarazioni a proposito di una vita “anfibia”, vissuta cioè a stretto contatto con l’acqua. “Sono stato un bambino anfibio,vissuto più nell’acqua che nella terraferma” (La Musa inquieta, in “L’Espresso”, 15 aprile 1991). 27 Il mare, in La mia isola è Las Vegas, pp. 220-221; La grande vacanza orientale-occidentale, in La mia isola è Las Vegas, pp. 164-165. Nella caratterizzazione del Mediterraneo, a partire dal paese natale, si intrecciano memorie personali e dati della storia ufficiale: lo scorrere del tempo plasma i luoghi, oggettivamente e nella ricezione personale dell’autore. -strializzazione selvaggia, o dello scenario di nuove guerre, nuove violenze, nuova morte. È negato l’idillio della vita libera e bella con la vista costante delle isole del dio, e risulta stravolto orrendamente anche il lavoro dell’uomo: i pescatori non tirano più nelle reti il pesce azzurro, bensì cadaveri di clandestini28.
1.2 Tra olivo e olivastro: il patrimonio e la violenza
Pur consapevole della varietà e della complessità che lo caratterizzano, Consolo percepisce lo spazio mediterraneo come un mondo unico e vi rintraccia caratteri ricorrenti, corrispondenze e somiglianze. Memoria di paesaggi noti, conoscenze geografiche, storia della rappresentazione si intrecciano nel proporre associazioni relative al patrimonio naturalistico, considerazioni sulle fragilità degli spazi urbani e sui problemi ecologici. A permettere, in Arancio sogno e nostalgia, la definizione del Mediterraneo come regno solare degli aranci, è l’esperienza della pervasività di una coltivazione, che caratterizza fortemente il paesaggio, dalla Sicilia alla Grecia, dal Maghreb alla Spagna. Riconosciuto come traccia artistica, segno di civiltà, ma anche come straordinario catalizzatore di gratificanti percezioni sensoriali – il colore vibrante dei frutti e delle foglie, l’odore e il sapore –, l’arancio è per Consolo, al di là del facile e consolidato stereotipo di un Sud di agrumi e sole capace di attirare i viaggiatori stranieri, sogno di un Eden perduto, simbolo cioè, nel confronto con coordinate geografiche stravolte dall’industrializzazione, come nel caso della Conca d’oro palermitana, di un’integrità ecologica e culturale, di uno spazio sano in cui piante odorose possono ancora fare mostra di sé accanto alle rovine del passato29. Della tipica vegetazione mediterranea conserva notazioni il diario del viaggio in Jugoslavia: i pini piegati fino al mare, gli ulivi, i fichi, le vigne non segnano solo il paesaggio balcanico, ma anche quello greco, siciliano, turco, e si può inferire che anche il gesto 28 Il mare, in La mia isola è Las Vegas, pp. 221-222. 29 Arancio, sogno e nostalgia, in “Sicilia Magazine”, dicembre 1988, pp. 35-46, ora in La mia isola è Las Vegas, pp. 128-133. La citazione è alle pp. 128-129. della donna che stende i frutti ad essiccare richiami ricordi di altre geografie più familiari30. Nel resoconto della visita in Palestina nel 2002 poi Consolo scrive di “un paesaggio […] di colline rocciose e desertiche, che somiglia all’altopiano degli Iblei in Sicilia”31. Ma oltre al profilo fisico del territorio, a suggerire accostamenti sono gestualità e dolore delle donne per i combattenti morti: nei movimenti e nel lamento si colgono i tratti della tragedia greca, la cerimonia funebre di tutto il Mediterraneo32. Città, anche distanti, sono accomunate dalla difficoltà di reggersi sul proprio passato, dalla fatica nella gestione della verticalità, della stratificazione, dal segno della decadenza a contatto con la modernità. Il paesaggio urbanistico mediterraneo risulta perciò inserito nella riflessione ecologica sullo spazio siciliano. Le case semicrollate nel reticolo delle viuzze della Casbah di Algeri evocano l’immagine del centro storico di Palermo33 e quasi topos diventano la crescita disordinata e veloce, l’invasione dei nuovi palazzi, il traffico, nel paesaggio urbano siracusano o in quello di Salonicco34. In L’olivo e l’olivastro dalla meditazione sulla decadenza della città di Siracusa, già accostata ad altre città del Mediterraneo, Atene, Argo, Costantinopoli, Alessandria35, scaturisce il racconto di 30 Ma questa è Sarajevo o Assisi?, in “L’Espresso”, 30 ottobre 1997. Si tratta del racconto del viaggio fatto a Sarajevo con altri intellettuali italiani per restituire la visita di un anno prima da parte di otto membri del Circolo 99 (di Sarajevo). 31 Madre Coraggio, in La mia isola è Las Vegas, p. 196. Il testo, uscito per la prima volta in italiano in V. Consolo et al., Viaggio in Palestina, Nottetempo, Roma 2003, ma già apparso precedentemente online, anche in francese, è il resoconto del viaggio in Palestina in qualità di membro del Parlamento internazionale degli scrittori. 32 Madre Coraggio, in La mia isola è Las Vegas, p. 197. Consolo si riferisce alla cerimonia funebre mediterranea così com’è codificata in Morte e pianto rituale di E. De Martino che infatti ricorda. Ivi, p. 199. 33 Orgogliosa Algeri tra mitra e coltello, in “Il Messaggero”, 20 settembre 1993. 34 Ne abbiamo già parlato per Siracusa. Si veda invece quello che Consolo scrive di Salonicco in Neró metallicó: “città moderna, piena di luci, di insegne, di manifesti pubblicitari, di quartieri appena costruiti come d’una città che è stata invasa da immigrati, che in poco tempo ha moltiplicato i suoi abitanti. E piena di traffico” (Neró metallicó, in Il corteo di Dioniso, La Lepre edizioni, Roma 2009, p. 9). 35 L’olivo e l’olivastro, p. 820. una visita lungo la costa africana, a Ustica36. Il ricordo si sofferma in particolare sulle rovine e, a sorpresa, sul basilico profumato che cresce in abbondanza tra le pietre e i mosaici. Quello che è apparentemente un particolare senza importanza serve però a definire un patrimonio di piccole cose, comune a tutto il Mediterraneo37. L’Ustica di Consolo è rovine e basilico. Ma tutto il Mediterraneo in qualche modo è Ustica. Tutto il Mediterraneo è fatto di “piccoli luoghi antichi e obliati” come Ustica, in cui la natura si intreccia con la memoria del passato38. Ma il rischio della dimenticanza è in agguato, l’incuria è già realtà, e il ricordo diventa occasione di meditazione amara: nell’enumerazione di antiche città, nell’anafora del verbo “ricordare”, Consolo si trasforma in un “presbite di mente” tutto rivolto verso il passato, si trasforma in “infimo Casella” tutto proteso verso qualcosa che non c’è più39. Se l’anima del musico appena giunta sulla spiaggia del Purgatorio mostra ancora un grande attaccamento alla vita terrena, tanto da slanciarsi verso Dante, memore dell’antico affetto, e la stessa canzone dantesca da lui intonata è all’insegna della nostalgia, il riferimento evidenzia proprio il legame che Consolo sente con il passato, con ciò che non esiste più, come la vita terrena per le anime purganti. Ma la sovrapposizione non è perfetta: il richiamo alla canzone Amor che ne la mente mi ragiona è immediatamente contraddetto dal “Non più, odia ora” e il canto non ha nulla della dolcezza del regno del Purgatorio, ma piut36 Ivi, p. 836. 37 Ibidem. 38 I mosaici e il basilico di Utica sono già ricordati in un passo di Malophoros, in un elenco di caratteristici e rapidi ritratti di piccoli luoghi carichi di passato, dalla Sicilia alla Grecia al Nord Africa: Malophoros, in Le pietre di Pantalica, pp. 574-575. Dello stesso tono la precedente osservazione sulle “stazioncine solitarie remote, di luoghi antichi, sacri, come quella di Segesta, di Cartaghe-Hannibal, di Pompei o di Olimpia” che sanno essere “commoventi, hanno ormai anche loro qualcosa di antico, di sacro” (p. 574). Omaggio ai “piccoli luoghi antichi e obliati” sono per lo più gli interventi apparsi su “L’Espresso” tra il 1981 e il 1982, dedicati a centri poco noti, come Miraglia, Valverde, Galati o Filosofiana. Il tono di questi articoli è però di solito quasi giocoso, un invito al godimento delle bellezze e delle ricchezze sconosciute, anche gastronomiche. Luogo antico e fuori dai soliti canali turistici (non segnalata sulla “Guide Bleu”) è anche Dion, stesa nella pianura ai piedi del Monte Olimpo a cui sono dedicate alcune pagine in Neró Metallicó (Il corteo di Dioniso, cit., pp. 19-20). 39 L’olivo e l’olivastro, p. 837. tosto una rabbia infernale, un tono che pretenderebbe “rime aspre e chiocce”:
No, non più. Odia ora. Odia la sua isola terribile, barbarica, la sua terra di massacro, d’assassinio, odia il suo paese piombato nella notte, l’Europa deserta di ragione. Odia questa Costantinopoli saccheggiata, questa Alessandria bruciata, quest’Atene, Tebe, Milano, Orano appestate, questa Messina, Lisbona terremotate, questa Conca d’oro coperta da un sudario di cemento, il giardino delle arance insanguinate. Odia questo teatro dov’è caduta la pietà, questa scena dov’è stata sgozzata Ifigenia, quest’Etna, questa Tauride di squadracce dove si consumano merci e vite, si svende onore, decenza, lingua, cultura, intelligenza…40
Dai toni nostalgici Consolo passa a quelli indignati di un coro antico e professa odio prima nei confronti della sua Sicilia, diventata “terribile, barbarica, terra di massacro”, una Tauride percorsa da “squadracce”, poi verso l’Europa e verso l’intero Mediterraneo. Il dramma in atto ha proporzioni gigantesche e il riferimento ai simboli della tragedia euripidea ne sancisce la gravità: sulla cavea è stata sgozzata Ifigenia, si è prodotto cioè il sacrificio dei sacrifici, la morte della sacerdotessa che Artemide aveva voluto salva, la morte dell’esiliata e, con lei, la morte di ogni forma di giustizia, cultura, rispetto. Il presente è una Tauride senza speranza. All’attentato nei confronti del patrimonio naturalistico e culturale si accompagna la violenza contro la vita umana, in svariate forme: il Mediterraneo è, per Consolo, spazio della conflittualità. La Palermo di Le pietre di Pantalica, in preda alle lotte di mafia, è come Beirut41: le bombe, i kalashnikov, gli efferati omicidi, il sangue sparso dai killer lasciano tra le strade siciliane il disastro dei campi di battaglia e spingono all’associazione con quell’altra violenza, in atto dall’altra parte dello stesso mare, della guerra che porta alla distruzione della capitale libanese. Comiso, poi, coi suoi missili Cruise, rappresenta la minaccia costante della violenza tra popoli a cui neppure le proteste dei pacifisti, bloccate brutalmente, possono opporsi. Nel racconto eponimo di Le pietre di Pantalica, mentre il paese “folgorato dal sole”, quasi fosse “uno di quei vuoti gusci dorati di cicala”, è tutto ripiegato nel suo torpore estivo, 40 Ibidem. 41 Le pietre di Pantalica, in Le pietre di Pantalica, p. 625. poco più in là l’aeroporto, nella campagna deserta, accoglie i lavori per l’installazione. Alla sola vista del cancello con la scritta “Zona militare-Divieto d’accesso” emerge la tremenda apocalittica considerazione: “Non resterà di noi neanche una vuota, dorata carcassa, come quella della cicala scoppiata nella luce d’agosto. Non resterà compagna, figlio o amico; ricordo, memoria; libro, parola”42. Quasi a dire che troppo in là è andato l’uomo. Nel testo successivo, che porta nel titolo il toponimo, le cicale – ancora loro – che cantano nel sole estivo enfatizzano la pace e la fiacca che prelude alla carica delle forze dell’ordine sui dimostranti43. Di fronte al degrado della violenza – guerra per difendere la possibilità di fare la guerra – e di fronte alla speculazione edilizia e all’inquinamento, l’unica consolazione possibile viene a Consolo dalle rovine immerse nella natura, ovvero dal valore di un patrimonio naturalistico e culturale. Come ad Utica e ancor di più che ad Ustica, negli Iblei a Cava d’Ispica, a poca distanza da Comiso: qui ci sono “le migliaia di grotte scavate dall’uomo, le abitazioni, le chiese, le necropoli della preistoria, della storia più antica dei Siculi, dei Greci, dei Romani, dei Bizantini, di quelli di pochi anni passati”, qui c’è “un cammino bordato dai bastoni fioriti delle agavi, dagli ulivi, dai fichi, dai pistacchi, dai carrubi”44. E fuori dalla Sicilia? Una serie di articoli scritti a partire dagli anni Novanta denuncia una violenza connaturata in numerosi luoghi del Mediterraneo. Teatro del nascente integralismo è il Maghreb, l’Algeria in particolare, dove Consolo nel maggio 1991 42 Ivi, p. 623. 43 Più tardi, nell’atto unico Pio La Torre, Consolo accenna al coinvolgimento della mafia siciliana e americana nell’affare dei missili (Pio La Torre, cit., p. 65) e offre un’immagine amara della nuova Comiso, che contrasta con il passato nell’offesa dell’inquinamento selvaggio e della minaccia di una guerra (Ivi, p. 77). 44 Comiso, in Le pietre di Pantalica, pp. 637-638. Il testo si chiude con una visita alla necropoli bizantina di Cava d’Ispica. C’è la luna e, guardandola, Consolo ricorda la preghiera della Norma belliniana: “Casta diva, che inargenti / queste sacre, antiche piante…”. Dichiara di non sapere il motivo del ricordo. In realtà la memoria ha a che fare, più o meno volutamente, con Zanzotto, nella cui opera la presenza della Norma è significativa: in più di un’occasione il poeta, riferendosi alla luna, allude alle parole della sacerdotessa (un esempio su tutti l’Ipersonetto: “Casta diva” o “sembiante”, A. Zanzotto, Tutte le poesie, cit., p. 571). scorge il rischio che “il mistico linguaggio della preghiera” si stravolga nel “mortale linguaggio delle armi”45. Uno “scenario apocalittico, sconvolgente”46 caratterizza poi la Sarajevo del 1997. Il “paesaggio di macerie” che si mostra allo sguardo mano a mano che gli italiani in visita si inoltrano nell’entroterra, con la guida di Matvejevic, impressiona ancor di più per il contrasto con il quieto profilo mediterraneo della costa, dove non c’è traccia di guerra e dove Consolo ritrova la vegetazione della sua terra. La città distrutta evoca le dure immagini del Trionfo della morte di Bruegel o quelle di Los desastres de la guerra di Goya47; i suoi resti, accostati a quelli di Assisi appena colpita dal terremoto, si fanno ammonimento, metafora “del nostro scadimento”: “siamo scivolati sul ciglio della voragine paurosa della natura”, ovvero è scomparsa la civiltà. Infernale è infine la Palestina, visitata da Consolo con altri membri del PIE nel 2002 48. Nella descrizione del tragitto che da Tel Aviv conduce a Ramallah, l’accostamento del paesaggio a quello siciliano si rompe all’apparizione dei check point e delle mitragliatrici, e sempre più nel procedere verso la striscia di Gaza si moltiplicano i segni di rovina e lutto, pur nella prorompente vitalità dei “nugoli di bambini dagli occhi neri”49, al punto che il percorso in direzione dei villaggi di Khan Yunus 45 Quei parabolizzati che sognano l’Italia, in “Corriere della sera”, 20 giugno 1991; Orgogliosa Algeri tra mitra e coltello, cit. Si veda anche la prefazione al libro di poesie di Mokthar Sakhri (Poesie, Libro italiano, Ragusa 2000). L’esperienza giornalistica ritorna nel romanzo Lo Spasimo di Palermo (pp. 903-905): Chino Martinez nel giardino della moschea di Parigi ripensa allo sciopero di Algeri, al mitra e al Corano degli integralisti. Sui fondamentalismi nel Mediterraneo si veda anche l’intervista con A. Prete, Il Mediterraneo oggi: un’intervista, cit., pp. 65-66. Sul fondamentalismo di matrice islamica e in particolare sull’attacco alle torri gemelle, Consolo si esprime manifestando un’accesa critica nei confronti di Oriana Fallaci, evidenziando da una parte che non serve reagire con la violenza e che molti sono i vantaggi dell’incrocio tra culture, come insegna la storia siciliana (l’intervista a cura di G. Caldiron, Lo scrittore siciliano Vincenzo Consolo risponde a Oriana Fallaci “Parole che conducono alla violenza”, in “Liberazione”, 2 ottobre 2001). 46 Ma questa è Sarajevo o Assisi, cit. 47 Sempre a proposito della guerra in Jugoslavia il riferimento all’opera di Goya compare in La morte infinita, in “Il Messaggero”, 6 febbraio 1994. 48 Madre Coraggio, in La mia isola è Las Vegas, pp. 195-200.49 Ivi, p. 197. e Rafah pare “una discesa nei gironi infernali”50. L’immagine più forte, quasi un simbolo, è però quella della resistenza eroica di una madre: ad aprire e chiudere il resoconto del viaggio è la figura della donna di Ramallah51, “imponente, dalla faccia indurita”, che vende nepitella raccolta nei luoghi selvatici e che di certo abita nel campo profughi, forse ha figli che combattono. 1.3 Mediterraneo come spazio di migrazioni
Nella rappresentazione offerta da Consolo l’immagine del Mediterraneo come spazio di migrazioni appare fondamentale e questo, oltre che per una chiara consapevolezza storica, per un’attenta lettura della contemporaneità. Divenuto, nei fatti, confine, limite, addirittura cimitero a causa della grande quantità di morti rimasti imprigionati nelle “carrette”, il mare potrebbe essere, invece, occasione di arricchimento in virtù dello scambio tra popoli. È un’immagine ideale, eppure realizzabile, quella che Consolo propone, insistendo su una storia di civiltà, quella siciliana in particolare, che ha la radice della sua grandezza proprio nell’incontro tra le differenze: ora che l’isola è divenuta luogo di approdo dei migranti che provano a sfuggire alla guerra, alla persecuzione o alla povertà, non si deve dimenticare che il progresso, quello vero, è sempre figlio dell’arricchimento che proviene dall’alterità. Lo dimostrano gli straordinari effetti della dominazione araba in Sicilia, a cui Consolo riconosce, sulla base di un ricco corredo di fonti e seguendo l’opinione di Sciascia, addirittura un valore fondante in termini di identità: i tratti tipici della sicilianità, ovvero lingua, letteratura, arte, agricoltura, cucina e persino fisionomia, risentono tutti del passato arabo52. Non 50 Ivi, p. 199. 51 Ivi, p. 195 e 200. 52 Estremamente rappresentativa appare a proposito la sezione Sicilia e oltre in Di qua dal faro e, in particolare, il saggio introduttivo, La Sicilia e la cultura araba. Il saggio si apre con alcune considerazioni sul legame tra la poesia della scuola siciliana e le qaside dei siculo-arabi, ancora attivi nell’isola sotto i Normanni (La Sicilia e la cultura araba, in Di qua dal faro, pp. 1187- 1192, a p. 1187) e riflette poi su diversi aspetti dell’influenza araba, ad esempio sulla rinascita economica e sullo spirito di tolleranza (p. 1189). Significativi nel testo i rimandi a Sciascia (in particolare alle pp. 1188-1189). Ricordo che ilrapporto tra Sciascia e il mondo arabo costituisce un ambito ricco di spunti suggestivi. Significativa è la conclusione del saggio di apertura de La corda a caso l’insistenza sulla presenza degli Arabi nell’isola si traduce nella frequente celebrazione delle innovazioni in ambito agricolo, tecnico, delle trasformazioni in ambito artistico-culturale. Di “rinascimento” parla Consolo, non perdendo occasione per evidenziare i lasciti, le tracce ancora vive nella contemporaneità siciliana. La lussureggiante Palermo, ad esempio, non avrebbe chiese-moschee, castelli, palazzi e giardini seducenti, non avrebbe aranceti se non ci fossero stati gli Arabi. Lo spazio insomma risulta segnato profondamente da questa “migrazione”. Sorprendenti riescono ad essere poi – afferma Consolo – gli incroci della storia, e Mazara, che ridiventa araba nel Novecento per il massiccio arrivo dei tunisini, aveva già nel momento del primo approdo dell’827 l’Africa nel suo nome, Mazar, traccia dell’antica presenza cartaginese. Come a dire che è sempre stato normale per i popoli spostarsi, il mare non è di nessuno, non può essere veramente limite, e la terra non reca un marchio di possesso ma molti strati di identità che il tempo e i popoli plasmano, partendo, arrivando. Se innumerevoli sono le eredità, anche visibili, tangibili, sebbene a rischio, del passato arabo, scomparsa del tutto risulta per Consolo la scelta della tolleranza e della convivenza tra culture, confermata anche dai normanni che non vollero eliminare la civiltà che li aveva preceduti, ma la integrarono e la valorizzarono. Perciò l’immagine del Mediterraneo come spazio di equilibrio e coesistenza tra le alterità non è solo parentesi del passato ma anche un’aspirazione, un esempio positivo da opporre a quanti insistono sui rischi dello scontro tra culture53. Che l’arrivo di nuovi popoli produca progresso è poi testimoniato per l’autore anche da migrazioni più antiche come dimostra pazza (1970), Sicilia e sicilitudine, in cui l’autore traccia un collegamento ideale tra Salvatore Quasimodo e un poeta arabo di otto secoli precedente, Ibn Hamdis, siciliano di Noto, accomunati dai toni con cui hanno fatto poesia della pena profonda dell’esilio (L. Sciascia, Sicilia e sicilitudine, in Id. La corda pazza, cit., pp. 11-17). Sulla questione particolarmente interessanti risultano anche le osservazioni contenute in uno degli scritti del Canton Ticino, su Tomasi di Lampedusa, apparso su “Libera Stampa” il 27 gennaio 1959, ora raccolto in Troppo poco pazzi (L. Sciascia, Marx Manzoni eccetera e il Gattopardo, in R. Martinoni, a cura di, Leonardo Sciascia nella libera e laica Svizzera, Olschki, Firenze 2011, pp. 102-104 alle pp. 102-103). 53 Nell’ultima intervista Consolo riflette proprio sull’ignoranza di chi solleva lo scontro di civiltà e accosta integralismo e islam (V. Pinello, op. cit.). l’entusiastica rappresentazione della Sicilia come museo a cielo aperto, che accoglie rovine antiche, città greche, elime, puniche. Ma numerosi sono anche i riferimenti alla nascita delle colonie, a volte molto precisi, con indicazione dell’ecista, del territorio di origine, degli sviluppi della vicenda coloniale54, sulla base dei dati forniti da fonti antiche, come l’opera di Tucidide55, o su testi più recenti che rinviano però alla storiografia greca. E ciò non solo nei testi saggistici: anche le prove narrative offrono una rappresentazione della Sicilia e del Mediterraneo che ne valorizza l’aspetto di crocevia di popoli. Concentrandosi sulle migrazioni dell’antichità, i testi impostano un implicito confronto con gli spostamenti di oggi, riconoscendovi ragioni identiche o simili, ovvero guerra, fame, difficoltà economiche. In particolare, ne L’olivo e l’olivastro56, Consolo si sofferma sull’emigrazione megarese verso la parte orientale dell’isola. La visita ai resti di Megara Hyblaea, oggetto dell’amorevole culto del giovane Salvo e dei suoi, mentre è in corso l’assedio della cannibalica civiltà industriale del polo siracusano, suscita un’entusiastica rievocazione dell’opera dell’ecista Lamis, dell’idea di uguaglianza e progresso dei coloni, della fertilità e della geometria nella suddivisione del terreno in lotti57. All’enfasi sulla fondazione Consolo 54 Ad esempio, Che non consumi tu tempo vorace, cit., p. 12; I muri d’Europa, in L. Restuccia, G.S. Santangelo, Scritture delle migrazioni: passaggi e ospitalità, Palumbo, Palermo 2008, p. 25. 55 L’archaiologhia siceliota del VI libro si apre con una sintesi storica a proposito dei più antichi popoli locali, a partire dai misteriosi Lestrigoni e Ciclopi, cui segue un quadro preciso delle migrazioni dalla Grecia e delle successive fondazioni. Consolo rinvia a Tucidide per la fondazione di Messina, l’antica Zancle (Vedute dallo stretto di Messina, in Di qua dal faro, p. 1045) e infatti il dato è rintracciabile in Tuc. VI 4,5. Ricava probabilmente dallo storico greco anche il dato relativo alla fondazione di Siracusa da parte dell’ecista Archia (Tuc. VI 3), ricordato in La dimora degli Dei (cit., p. 14). Oltre alla fonte tucididea si può riconoscere anche quella di Diodoro Siculo, esplicitata per la colonizzazione greca delle Eolie (Isole dolci del dio, cit., p. 21). 56 L’olivo e l’olivastro, p. 783. 57 Tucidide parla dell’arrivo dei Megaresi (Tuc. VI 4, 1-2) ma non riporta quest’ultimo dato della lottizzazione, che invece si ricava dai rilievi archeologici. A proposito si veda H. Tréziny, De Mégare Hyblaea à Sélinonte, de Syracuse à Camarine: le paysage urbain des colonies et de leurs sous-colonies, in M. Lombardo, F. Frisone (a cura di), Atti del convegno Colonie di colonie: le fondazioni subcoloniali greche tra colonizzazione e colonialismo, Lecce, 22-24 giugno 2006, Congedo editore, Galatina-Martina Franca, 2009, aggiunge il plauso per le capacità che i Megaresi, scacciati dai Corinzi di Siracusa, dimostrarono, affrontando l’ignoto della Sicilia occidentale dove fondarono Selinunte. Le sue parole trasfigurano il neutro dato storico di Tucidide (VI 4, 2) attribuendo all’opera dei coloni i tratti di una straordinaria epopea58. I resti della civiltà greca di Megara e Selinunte, dunque, risultano monito contro lo straniamento che viene dalla degenerazione economica e culturale. La coscienza dell’identità trascurata dello spazio e della civiltà che l’ha costruita, originariamente straniera, immigrata, ma secondo le fonti storiche “progredita”, costringe l’attenzione sul rischio della perdita in termini di biodiversità culturale, e l’interesse per gli antichi coloni greci diventa traccia ecocritica. Ha a che fare con la volontà di valorizzare il passato greco dell’isola anche il ricorso al mito. Oltre al viaggio di Ulisse, Consolo ama ricordare la vicenda di Demetra, la madre disperata che, in cerca di sua figlia Kore, vaga per il Mediterraneo59, leggenda molto siciliana, in virtù dei luoghi coinvolti: ad Enna c’era l’antica sede della dea60, e proprio lì si svolse il rapimento di Kore, mentre poco più a pp. 163-164; M. Gras, H. Tréziny, Mégara Hyblaea: le domande e le risposte, in Alle origini della magna Grecia, Mobilità migrazioni e fondazioni, Atti del cinquantesimo convegno di studi sulla Magna Grecia, Taranto 1-4 ottobre 2010, Stampa Sud, Mottola 2012, pp. 1133-1147. 58 L’olivo e l’olivastro, pp. 783-784, ma anche Retablo, p. 432; La Sicilia passeggiata, pp. 94-95; Malophoros, in Le pietre di Pantalica, p. 578. 59 Più volte Consolo esibisce citazioni dall’Inno a Demetra (nella traduzione di F. Cassola del 1975). In Retablo ad esempio (Retablo, p. 409) i primi due versi (“Demetra dalle belle chiome, dea veneranda, io comincio a cantare, / e con lei la figlia dalle belle caviglie, che Aidoneo / rapì”) sono esempio di suprema poesia per Clerici che sta sperimentando, nell’esperienza sublime dell’accoglienza da parte di Nino Alaimo, tra l’altro dedito al culto di una Grande Madre mediterranea, una sorta di possessione divina. La Sicilia passeggiata (p. 7) si apre con un’epigrafe tratta dall’Inno (Inno a Demetra, vv. 401-403) che pone l’attenzione sull’esito felice della vicenda, ovvero sul momento del ricongiungimento delle dee e sul ritorno della primavera; più avanti nel testo invece (La Sicilia passeggiata, p. 57) leggiamo anche i vv. 305-311 che descrivono l’amarezza di Demetra dopo la perdita della figlia e le conseguenze nefaste per gli uomini. In L’olivo e l’olivastro (p. 843) i versi 40-44 inquadrano i luoghi come scenario del vagabondaggio sofferente di Demetra. 60 La Sicilia passeggiata, p. 58; L’olivo e l’olivastro, p. 822. Al tradizionale luogo del culto di Demetra Consolo si riferisce anche nella prefazione al Sud, nell’area dello zolfo, la tradizione colloca il regno di Plutone61. La scelta autoriale chiama in causa le dinamiche di rappresentazione del Mediterraneo, ma anche l’identità profonda degli spazi geografici, evidentemente compromessa con il mito. Immaginario collettivo e prospettiva razionalizzante si intrecciano, nell’evidenziare il legame esistente tra Sicilia e Grecia, tra due differenti rive di uno stesso mare. Il culto e il mito, infatti, sarebbero conseguenza della colonizzazione greca62. Nel mito personale di un mondo antico vivace, fatto di intrecci e incroci alla presenza greca si aggiunge quella cartaginese o quella elima. La vicenda di quest’ultimo popolo, in bilico tra storia e mito, ha a che fare, già secondo Tucidide (VI 2), con l’arrivo in Sicilia dei Troiani: lo storico riferisce che la migrazione, successiva al crollo di Ilio, ebbe come effetto lo stanziamento in territori prossimi a quelli dei Sicani e tale vicinanza portò alla denominazione unica di Elimi per i due popoli; i centri più importanti di questa nuova civiltà furono Segesta e Erice. Consolo, pur conoscendo sicuramente il dato riportato dallo storico, è più sensibile in questo caso alla fonte poetica virgiliana. In La Sicilia passeggiata, ad esempio, il mistero sull’origine di Segesta – o Egesta – richiama i versi 755-758 del V libro dell’Eneide che proprio alla ktisis fanno riferimento63. La quale ktisis si conclude con la fondazione del tempio della dea Venere sulla vetta del monte Erice, com’è ricordato dai vv. 759-760 del V libro virgiliano che Consolo sceglie di citare in La Sicilia passeggiata (“Poi vicino alle stelle, in vetta all’Erice, fondano / un tempio a Venere Idalia”)64, quasi invitando a seguire nell’area occiden volume di F. Fontana dedicato a Morgantina (V. Consolo, Che non consumi tu tempo vorace, cit., p. 11-13) 61 Consolo ricorda questa associazione tra mito e luogo geografico in La Sicilia passeggiata, p. 62; Uomini e paesi dello zolfo, in Di qua dal faro, p. 985. 62 Molti gli studi sulla questione che evidenziano la difficoltà di definire la reale provenienza del culto di Demetra e Kore. Si veda ad esempio P. Anello, Sicilia terra amata dalle dee, in T. Alfieri Tonini (a cura di), Mythoi siciliani in Diodoro, Atti del seminario di studi, Università degli studi di Milano, 12-13 febbraio 2007 = in “Aristonothos, scritti per il mediterraneo antico”, 2, 2008, pp. 9-24. 63 La Sicilia passeggiata, p. 106. 64 Ivi, p. 108. Consolo precisa il dato poetico aggiungendo che in realtà il tempio è antecedente all’arrivo dei Troiani: parla infatti di un sacello sicano, elimo o fenicio già dedicato al culto della dea dell’amore. Si fa riferimento al tempio anche in Retablo (Retablo, p. 458) e in L’olivo e l’olivastro (L’olivo e l’olivastro, p. 860), dove ritroviamo la citazione dei versi dell’Eneide. In L’olivo e l’olivastro sono ricordati “il bosco e la spiaggia del funerale, tale dell’isola le orme del passaggio di Enea, sulla base delle indicazioni fornite dall’Eneide: un cammino attento potrebbe permettere di scoprire non solo l’area sacra ericina ma anche il bosco consacrato ad Anchise, la spiaggia dei sacrifici e delle gare65. La scelta di citare proprio i versi del rito di fondazione è interessante perché evidenzia la fusione tra popolazione straniera migrante, i Troiani, e popolazione locale, gli Elimi66. Da tutto ciò risulta evidente per Consolo che gli incontri, gli scambi tra popoli di culture diverse sono stati da sempre causa del cammino della civiltà, e che la chiusura, il rifiuto dell’ignoto che arriva da fuori, è perdita, regressione67. Perciò, egli, servendosi di una frase di Zanzotto, “Ci troviamo oggi tra un mare di catarro e un mare di sperma”, descrive il vecchio continente come perennemente arroccato nelle sue posizioni. “Vecchia” davvero è l’Europa, vecchia l’Italia, non solo per l’età media della popolazione, ma per una cecità di fronte all’arrivo delle masse disperate dei profughi che non riconosce la ricchezza dell’accoglienza e addirittura produce morboso attaccamento ai privilegi, difesi con pericolosi atteggiamenti xenofobi68. All’imperativo dell’accoglienza umanitaria, a cui implicitamente alludono nell’articolo Gli ultimi disperati del canale di Sicilia le immagini tremende del mare-cimitero (“bare di delle gare in onore d’Anchise” (Ivi, p. 861), menzionati anche in Lo spazio in letteratura (Di qua dal faro, p. 1241). Al mito dell’arrivo dei Troiani in Sicilia si riferisce anche in Retablo l’onomastica relativa al fiume “Criniso o Scamandro” (p. 415). 65 Virgilio narra che Enea, fermatosi presso Drepano – l’attuale Trapani – dopo la parentesi di Cartagine, viene ospitato da Aceste e, con lui e i suoi, celebra gli onori funebri in onore di Anchise, lì seppellito un anno prima. Alla ospitalità già ricevuta da parte di Aceste si riferisce Aen. I 195. La morte di Anchiseinvece è accennata in Aen. III 707-710. Gli onori funebri in suo onore e i giochi successivi sono al centro del V libro (vv 42-103 e 104-603). 66 Dopo che le donne, istigate da Giunone, hanno dato fuoco alle navi (Aen. V 604-699), l’eroe, ispirato dalla visione di suo padre, decide di fondare una nuova città che sarà abitata da una parte del suo seguito e dai troiani dell’isola. Aceste e i suoi, infatti, che sono già in Sicilia (Aen. V 30 e 35-41) appartengono ad un’antica stirpe troiana. 67 Quando i Lombardi emigrarono in Sicilia, in “Corriere della Sera”, 4 maggio 1991. 68 Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, in “La Repubblica”, 18 settembre 2007. La frase di Zanzotto è ripresa da A. Zanzotto, In questo progresso scorsoio. Conversazione con M. Breda, cit., pp. 68-69. Il poeta la usa per commentare la situazione dell’Italia, sospesa tra “un’Europa invecchiante e le esplosioni demografiche vicine”. ferro nei fondali del mare”) e dell’orrenda pesca dei morti (“i corpi degli annegati nelle reti dei pescatori siciliani”), si accompagna nella prospettiva autoriale l’invito ad una valutazione delle possibilità economiche e culturali che derivano dai flussi di migranti69. Estremamente significativo nel dibattito risulta per Consolo il caso della doppia migrazione da e verso il Maghreb. C’è stato un tempo lontano in cui il braccio di mare tra la Sicilia e le coste africane non era “frontiera, barriera fra due mondi, ma una via di comunicazione e di scambio”70, un tempo in cui era normale per i lavoratori di Sicilia, di Calabria o di Sardegna cercare fortuna nelle terre degli “infedeli”. Tale familiarità tra i due mondi è stata confermata dall’emigrazione ottocentesca, intellettuale e borghese prima, poi anche di braccianti dell’Italia meridionale, verso le coste nordafricane71. Si tratta di un fenomeno che sta molto a cuore a Consolo72. Non a caso egli lo accoglie nella narrazione di Nottetempo, casa per casa. 69 Negli stimoli offerti dall’emigrazione contemporanea Consolo scorge una possibilità di rinascita anche letteraria: così nell’intervista con A. Bartalucci (A. Bartalucci, op. cit., pp. 201-204, a p. 204). 70 Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, p. 1193. Consolo si è soffermato prima sulla seconda novella della quinta giornata del Decameron di Boccaccio che propone il tranquillo soggiorno di pescatori cristiani, trapanesi, nella musulmana Tunisia. Ma si veda anche in Retablo l’incontro di Clerici, accompagnato dal fido Isidoro e dal brigante, con Spelacchiata e i suoi compagni barbareschi, che si traduce in uno scambio di cerimonie (Retablo, pp. 438-440). L’episodio tiene conto dell’affinità culturale e della consuetudine dei rapporti tra paesi mediterranei. A proposito del valore della “rotta per Cartagine”, ovvero dell’attenzione consoliana per le relazioni storiche di contiguità e vicinanza tra Sicilia e Nord Africa, P. Montefoschi, Vincenzo Consolo: ritorno a Cartagine, in Id., Il mare al di là delle colline. Il viaggio nel Novecento letterario italiano, Carocci, Roma 2012, pp. 54-60; specificamente sull’episodio di Spelacchiata in Retablo, p. 55. 71 A proposito dell’emigrazione italiana in Tunisia si veda lo studio di F. Blandi: F. Blandi Appuntamento a La Goulette, Navarra Editore, Palermo 2012. 72 Del fenomeno Consolo fornisce dati precisi in diverse occasioni. Si veda in particolare Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, pp. 1195-1196; Il Mediterraneo tra illusione e realtà, integrazione e conflitto nella storia e in letteratura, in G.Interlandi (a cura di), La salute mentale nelle terre di mezzo. Per costruire insieme politiche di inclusione nel Mediterraneo, Atti del Convegno di Psichiatria Democratica, Caltagirone, 12-13 marzo 2009, numero monografico di “Fogli di informazione”, terza serie, 13-14, gennaio-giugno 2010, pp. 5-7. La fuga di Petro, nuovo Enea73, si inserisce proprio nel contesto storico della migrazione verso l’Africa settentrionale. La sua vicenda non è eccezionale, se non forse per le motivazioni, ma rientra nella normalità di un flusso migratorio consolidato74. La stessa presenza del personaggio storico di Paolo Schicchi, con cui Petro ha un breve colloquio sulla nave, obbedisce alla storicità del fenomeno. L’anarchico siciliano, infatti, non fu il solo a cercare rifugio in Tunisia per ragioni politiche: esisteva sulla sponda sud del Mediterraneo una nutrita comunità di antifascisti e addirittura una vera e propria comunità anarchica siciliana a Tunisi75. Il romanzo si chiude proprio con l’arrivo dall’altra parte del mare: i colori, le architetture, la vegetazione e gli uccelli sanciscono l’approdo ad un nuovo inizio, proprio come accadeva a coloro che emigravano in Tunisia76. Il nuovo spazio su cui si affaccia la nave si carica di attese, di possibilità, innesca un confronto con il passato, con la terra abbandonata, accende speranze, suscita decisioni. Petro lascia significativamente cadere in mare il libro che l’anarchico Schicchi gli ha consegnato durante il viaggio, a sancire il suo rifiuto per ogni forma di violenza, la sua volontà di essere “solo come un emigrante, in cerca di lavoro, casa, di rispetto”77. La prospettiva di chi guarda e vive il passaggio ad un nuovo spazio definisce e ridefinisce i contorni della realtà, quella che ha lasciato e quella a cui va incontro. La Tunisia non è per Petro un luogo neutro e nemmeno lo è la Sicilia. Allo stesso modo la terra di partenza e la Milano dell’arrivo vengono ridiscusse nell’esperienza 73 Non a caso il capitolo finale reca l’epigrafe virgiliana Longa tibi exilia et vastum maris aequor arandum (Aen. II 780) che permette di associare la Sicilia in preda all’alba fascista ad una Ilio in rovina e Petro in fuga all’eroe costretto a cercare una nuova terra. 74 Nottetempo, casa per casa, p. 752. Nell’intervista con Gambaro (F. Gambaro, V. Consolo, op. cit., p. 102) Consolo evidenzia l’importanza degli scambi tra le due rive del Mediterraneo, proprio a partire della vicenda degli italiani emigrati, perché essi permettono un arricchimento culturale e letterario. 75 Nottetempo, casa per casa, pp. 753-754. A proposito della comunità italiana in Tunisia si veda lo studio di Marinette Pendola (Gli italiani di Tunisia. Storia di una comunità (XIX-XX secolo), Ed. Umbra, “I Quaderni del Museo dell’emigrazione”, Foligno, 2007), curatrice anche del sito www.italianiditunisia.com, denso di informazioni storiche. 76 Nottetempo, casa per casa, p. 755. 77Ibidem. di migrazione che conduce i meridionali, negli anni del miracolo economico, alla volta del Nord. Come accade, d’altronde, allo stesso Consolo che, sebbene non si muova per fame ma per realizzazione intellettuale, sperimenta il passaggio, vive una ridefinizione dei luoghi. L’insistenza dell’autore sulla presenza significativa degli italiani in Maghreb e sugli innumerevoli scambi avvenuti tra l’una e l’altra riva del mare fin dal Medioevo va considerata in relazione al suo interesse per quell’emigrazione africana in Italia che ha avuto origine negli anni Sessanta e che non si è più arrestata. Le riflessioni a tal proposito sono estremamente lucide e inquadrano precocemente la questione. I primi lavoratori tunisini, forniti del semplice passaporto con il visto turistico e sprovvisti di quell’autorizzazione che permetteva un regolare contratto di lavoro, giungevano in Sicilia nel 1968. La presenza di questi primi immigrati, costretti a ritornare in patria alla scadenza del visto turistico, rispondeva alla domanda di lavoro a buon mercato da parte di proprietari terrieri e di armatori, per i quali reclutare questa manodopera e sfruttarne la condizione abusiva era senza dubbio un vantaggio. Ai primi immigrati si aggiunsero allora parenti e amici e il fenomeno si allargò78. “L’emigrazione in Italia dei poveri del Terzo Mondo”79 ha inizio a Mazara, proprio lì dove il 17 giugno 827 – ricorda Consolo citando Amari – sbarcavano i musulmani, città splendida e prestigiosa secondo il geografo Idrisi80. A distanza di secoli, scomparsa la bellezza del passato, dopo che miseria e crollo avevano generato quell’altra migrazione, “di pescatori, muratori, artigiani, contadini di là dal mare, a La Goulette di Tunisi, nelle campagne di Soliman, di Sousse, di Biserta”81, il miracolo economico degli anni Sessanta attivava di nuovo la rotta dal Nord Africa82. 78 Sul fenomeno si veda A. Cusumano, Il ritorno infelice, Sellerio, Palermo 1978. Consolo lo cita in diverse occasioni, ad esempio, Il ponte sul canale di Sicilia, Di qua dal faro, p. 1197. 79 L’olivo e l’olivastro, p. 865. 80 Ivi, p. 864. 81 Ivi, p. 865. 82 Ibidem. Si veda anche Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, pp. 1197-1198. Molti gli articoli sul caso di Mazara, ad esempio I guasti del miracolo, cit.; Morte per acqua, cit; “Ci hanno dato la civiltà”, cit. Ancora precedente l’articolo uscito su “Sans frontières” nel 1980 che si sofferma sulla storia di Mazara prima di concentrarsi sulla quarta guerra punica o guerra L’inversione di rotta, di cui Consolo evidenzia la specularità rispetto a quella italiana, va a riempire i vuoti lasciati dall’altro flusso migratorio, quello dei meridionali verso il Nord, e, anche se il caso di Mazara ha una sua indiscussa esemplarità, il fenomeno, come si è detto, già all’origine riguarda un po’ tutto il trapanese: una terra che ha più di un tratto in comune con la regione di partenza83. Ma mentre, accennando alla somiglianza geografica e culturale delle due rive del Mediterraneo, riporta l’attenzione sulla vicinanza tra i popoli e sui risvolti positivi dello scambio del passato, Consolo lascia emergere la stortura del presente e individua in questa nuova migrazione l’inizio di una lunga serie di episodi di xenofobia e persecuzione84. Gli immigrati maghrebini, infatti, a Mazara in maniera significativa, ma anche altrove, divennero presto oggetto di sfruttamento, divennero strumento di speculazione politica, furono vittime di razzismo, caccia, di rimpatrio coatto. Nel 1999, in Di qua dal faro Consolo già lamenta l’assenza di previsioni, progettazioni, di accordi tra governi85. La vicenda dei tunisini del trapanese e quella di tutti coloro che hanno attraversato e attraversano le acque del Mediterraneo – ma in alcune pagine il discorso si estende al mondo intero – alla ricerca di una nuova vita sono parte di un’unica drammatica storia scandita dalle tragedie quotidiane di corpi senza vita86. del pesce i cui protagonisti erano proprio i tunisini immigrati della casbah: Quatrième guerre punique, in “Sans frontières”, 30 settembre 1980. 83 Alla somiglianza tra Italia meridionale e Nord Africa Consolo fa riferimento in“Ci hanno dato la civiltà”, cit.. Sulla questione anche un articolo del 1981, Immigration africaine en Italie (“Sans frontières”, 3 gennaio 1981): l’Italia è la prima tappa dei migranti per necessità geografiche ma anche perché è una terra non veramente straniera. 84 L’olivo e l’olivastro, p. 865; Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, p. 1197. Nel precedente I guasti del miracolo (cit.) Consolo rileva lo scandalo del dopo terremoto di Mazara (7 giugno 1981): ai tunisini vengono negate le tende, perché stranieri e perché non votanti e quindi ininfluenti nelle imminenti elezioni regionali. 85 Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, pp. 1197-1198. 86 Uomini sotto il sole, in Di qua dal faro, p. 1202. In particolare l’espressione “d’altri, scoperti, gettati in pasto ai pescecani” allude ad un episodio specifico, già tema del racconto Memoriale di Basilio Archita (Le pietre di Pantalica, pp. 639-646): nel maggio 1984, l’equipaggio della nave Garyfallia, che al comando di Antonis Plytzanopoulos era salpata dal porto di Mombasa da poche ore, si rese colpevole della morte, in mare aperto, proprio in pasto ai L’ombra del mito antico si affaccia a rappresentare il destino dei migranti: essi ripetono l’esilio di Ulisse, ma soprattutto sono Enea in fuga da una terra in fiamme, oppure sono Troiane, fatte schiave e costrette ad allontanarsi dalla propria patria87. La condizione degli esseri umani nel mare nostrum sembra così trovare una sintesi nella citazione da Braudel – “in tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato”88–, originariamente riferita all’età di Filippo II. Ma ancor di più i versi eliotiani di Morte per acqua, che ritornano con frequenza sorprendente nei testi giornalistici e nelle prove narrative, riescono a parlare della realtà contemporanea. Già in Retablo l’episodio in cui la statua dell’efebo di Mozia si perde nel mare suscita la riflessione su un’altra perdita, che è ben più grave, quella delle vite umane che in ogni tempo si sono spente e si spengono nell’acqua, “sciolte nelle ossa” come Phlebas il fenicio89. In L’olivo e l’olivastro la citazione si lega esplicitamente alla memoria di un fatto di cronaca: nel 1981 il giovane Bugawi, vittima del naufragio del Ben Hur di Mazara, rimane in fondo al mare e “una corrente sottomarina / gli spolpò le pescecani, di un gruppo di clandestini. I migranti non vengono sacrificati solo nel Mediterraneo: la vicenda, infatti, come ricorda anche la voce narrante del racconto, il siciliano Basilio Archita, si svolge al largo delle coste del Kenia. I responsabili sono un “manipolo di orribili greci, dai denti guasti e le braccia troppo corte, mostri assetati di sangue e di violenza” (S. Giovanardi, Imbroglio siciliano, in “La Repubblica”, 2 novembre 1988; Id., Le pietre di Pantalica, in S. Zappulla Muscarà, Narratori siciliani del secondo dopoguerra, cit., pp. 179-182), insomma non hanno niente a che fare con i valori dell’antica Grecia. E anche la citazione di Kavafis, in bocca ad uno di loro, stride nel confronto con il terribile delitto. 87 Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, cit., o in I muri d’Europa, cit., p. 25. Entrambi i testi si aprono con citazione dalle Troiane di Euripide (vv. 45-47) e dall’Eneide di Virgilio (II 707-710). 88 Ad esempio a conclusione di Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, p. 1198; Il mare, in La mia isola è Las Vegas, p. 222; Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, cit.; I muri d’Europa, cit., p. 30; nel discorso al convegno per Psichiatria democratica, Il Mediterraneo tra illusione e realtà, integrazione e conflitto nella storia e in letteratura, cit. La citazione è tratta da F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II (F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, cit., pp. 981-982). 89 Retablo, p. 453. ossa in sussurri”90. Ma anche i naufraghi di Scoglitti91 sono Phlebas il fenicio, e lo sono tutti i morti del Mediterraneo, tutti quelli che le carrette stracariche e le responsabilità umane hanno lasciato affogare92. Dal 2002 in poi Consolo interviene in maniera decisa e con la consueta indignazione sull’intensificarsi del fenomeno migratorio e sulle responsabilità della politica. Già un testo del ‘90 evidenzia l’ampliamento smisurato del braccio di mare tra Sicilia e Nord Africa, ovvero, la distanza economica creatasi tra i due mondi93. Ancora di più gli articoli successivi, suscitati in particolare dalla legge Bossi Fini, si concentrano sul contrasto evidentissimo, soprattutto a Lampedusa e nelle altre Pelasgie, tra l’opulenza del turismo nella natura incontaminata e la disperazione dell’approdo dei migranti94. Il procedimento antifrastico con cui Consolo si finge sostenitore delle ragioni dei ricchi vacanzieri contro gli sbarchi invadenti degli stranieri evidenzia lo stridere dei due mondi: “Ma lì, a Lampedusa, inopinatamente vi giungono anche, mannaggia, gli emigranti clandestini”95. Così la bella Lampedusa diventa nuovamente scenario di guerra contro l’infedele, come nel poema ariostesco. Se la Lipadusa del Furioso, “piena d’umil mortelle e di ginepri / ioconda solitudi 90 L’episodio è rievocato, con citazione da Eliot, in L’olivo e l’olivastro, pp. 865-866. Nel giugno del 1981 appena dopo il terremoto che aveva colpito Mazara, gli armatori ebbero fretta di rimandare in acqua le navi. Nel naufragio del Ben Hur morirono cinque mazaresi e due tunisini. L’identità di questi rimase ignota per diversi giorni: un indizio della condizione di sfruttamento e illegalità in cui lavoravano gli stranieri. Sullo stesso episodio, sempre con riferimento a Phlebas il fenicio, si veda il già citato Morte per acqua, cit., o “Ci hanno dato la civiltà”, cit. 91 Dedicato ai morti per acqua, in “L’Unità”, 29 settembre 2002. La citazione dei versi di Eliot chiude l’articolo e, che mi risulti, è l’unico caso in cui il passo è riportato per intero. Consolo si riferisce a quanto avvenuto il 24 settembre 2002: uno scafista abbandona a 300 metri dalla spiaggia di Scoglitti il suo carico di migranti; le onde impediscono l’approdo, muoiono 14 persone. 92 Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, cit., o in I muri d’Europa, cit., p. 29. Meno esplicito il riferimento a Eliot in Immigrati avanzi del mare, in “L’Unità”, 18 giugno 2003, dove è l’aggettivo “spolpato” (“qualche corpo gonfio o spolpato finisce nelle reti dei pescatori”) che allude a Phlebas il fenicio. 93 Cronache di poveri venditori di strada, cit. 94 Il mondo di Bossi Fini stupido e spietato, in “L’Unità”, 29 agosto 2002. 95 Ibidem. ne e remota / a cervi, a daini, a caprioli, a lepri”96, ospita il triplice duello di Orlando, Brandimarte e Oliviero contro i saracini Gradasso, Agramante e Sobrino, nel Duemila l’isola, divenuta da “remoto scoglio”, “meta ambitissima del turismo esclusivo”, è luogo d’approdo di pescherecci e gommoni che rovesciano il loro carico di clandestini: “i nuovi turchi, i nuovi invasori saracini”97. E – ancora è dominante l’antifrasi –, se non ci sono gli antichi paladini a combatterli e neppure le navi militari auspicate da Bossi, c’è però il mare “quel fascinoso mare azzurro e trasparente che d’improvviso s’infuria e travolge ogni gommone o peschereccio”98. Tanto più assurde si rivelano le leggi per gestire gli arrivi e, se già prima della Bossi Fini, Consolo lamentava la violazione sistematica dei diritti dell’uomo, dopo il 2002 è ancora più duro. Bersaglio polemico sono le nuove normative, più rigide di quelle previste dalla legge Martelli o dalla Turco-Napolitano: le nuove disposizioni prevedono che le carrette siano bloccate in acque extraterritoriali, “forse anche speronate e affondate. Con tutto il loro carico umano”99. Bersaglio polemico sono i centri di prima accoglienza che – scrive – non meriterebbero questo nome, perché piuttosto di lager si tratta, luoghi atroci, di violenza e umiliazione100. Bersaglio polemico è la diffusione di sentimenti xenofobi, suscitati dalla politica nella mentalità comune, ben rappresentata dall’io narrante del racconto eponimo di La mia isola è Las Vegas che invoca la costruzione di muri d’acciaio per arrestare la marea dei migranti101. In quest’ottica di critica alla nuova legge e all’inadempienza del dovere morale verso i migranti va letta la netta opposizione di Consolo al progetto di un museo della migrazione a Lampedusa, promosso nel 2004 dalla deputata regionale dell’Udc Giusy Savarino. A lei l’autore si rivolge pubblicamente dalle pagine di “La 96 Ariosto, Orlando Furioso, XL 45 vv. 3-4. Il passo è ricordato da Consolo in Lampedusa è l’ora delle iene, “L’Unità”, 28 giugno 2003. Ma si veda anche Isole dolci del dio, cit., pp. 33-35. 97 Lampedusa è l’ora delle iene, cit. 98 Ibidem. 99 Il mondo di Bossi Fini stupido e spietato, cit. 100 Ibidem ma anche Immigrati avanzi del mare, cit. 101 La mia isola è Las Vegas, in La mia isola è Las Vegas, p. 217. Repubblica”, accusando l’ipocrisia profonda di una tale iniziativa102 e riflettendo su quanto sia irrimediabilmente compromessa l’identità dello spazio mediterraneo. Che cosa rimane del mare di miti e storia? Che cosa della mirabile convivenza tra culture diverse? Il monito dei reperti archeologici, delle narrazioni risulta poca cosa di fronte al mutamento dello sguardo collettivo sancito da leggi xenofobe e lager mascherati da centri di accoglienza: il mare si è fatto frontiera, confine, che gli altri, gli stranieri, non devono superare. Ed è contemporaneamente cimitero, spazio del sacrificio, della tragedia. Perciò il progetto di un museo a Lampedusa, l’isoletta dell’ariostesca lotta contro l’infedele, è, per Consolo, strumento di una retorica ipocrita, che non è giusto appoggiare: che senso avrebbe un monumento all’emigrazione, quando proprio i migranti vengono combattuti, respinti, lasciati morire in mare? Ma, d’altra parte, è il mondo intero ad aver subito una metamorfosi: si è mutato agli occhi dell’autore in un “im-mondo”, ovvero negazione di se stesso, perché preda della follia. La ripetizione dell’aggettivo “nostro”, associato sia allo spazio stravolto che alla massa di cadaveri, assume, nel testo in versi Frammento, toni accusatori, richiamando gli esseri umani alle proprie responsabilità nei confronti della morte di innocenti.
Nostri questi morti dissolti nelle fiamme celesti, questi morti sepolti sotto tumuli infernali, nostre le carovane d’innocenti sopra tell di ceneri e di pianti. Nostro questo mondo di follia. Quest’im-mondo che s’avvia…103
102 Solo un monumento per gli immigrati, in “La Repubblica”, 21 agosto 2004. Sulla questione Consolo si era già espresso qualche giorno prima: Perché non voglio quel museo, in “La Repubblica”, 19 agosto 2004. 103 Frammento, in Per una Carta “visiva” dei Diritti civili, Viennepierre, Milano 2001, anche in “Microprovincia”, 48, gennaio-dicembre 2010, p. 5.
La vicenda biografica, il viaggio, l’esplorazione partono da Sant’Agata, un paese sconosciuto ai più, ai piedi dei Nebrodi e affacciato sul mare Tirreno, con le Eolie a vista [1]. Proprio qui Consolo nasce e trascorre i primi anni della sua vita, così che il luogo produce memoria, lo segna «nella carne, nell’anima», diventa ineludibile traccia di un percorso narrativo[2].
Oltre alle ragioni autobiografiche e
affettive, a favorire la presenza di Sant’Agata nelle mappe di Consolo è anche
la riflessione autoriale sulla posizione geografica del paese che si trova, per
così dire, al confine tra un oriente e un occidente, ovvero «alla
confluenza di due regni, dove si perdono, si sfumano, si ritraggono in una
sommessa risacca le onde lunghe della natura e della storia»[3].
Eppure il toponimo raramente compare nei testi narrativi, anche se i dettagli
geografici consentono di rintracciare nello scenario i tratti dello spazio
reale. Così ne La ferita dell’aprile, di cui già si è detto, o in La
grande vacanza orientale-occidentale, scopertamente autobiografico, dove
già la prima immagine – la vista dei
Nebrodi alti e rigogliosi – e poi la partecipata descrizione della marina,
delle fatiche dei pescatori, del litorale da Cefalù a Capo d’Orlando, delle
galleggianti Eolie, di una spiaggia «pietrosa» a cui
tornare come si trattasse di Itaca, il cenno veloce al Castello e alla Matrice
fanno pensare a Sant’Agata. La grande ricchezza di notazioni affettive e di
riferimenti a percezioni sensoriali testimonia l’esperienza e la memoria.
In Alesia
al tempo di Li Causi addirittura il luogo è mascherato da un
toponimofittizio ma il referente reale dello spazio di invenzione è svelato dal
riferimento al castello dei Gallego e dalla vista delle Eolie all’orizzonte[4].
Nella piazza del paese – anonima – Ciccio, il giovane protagonista del
racconto, «figlio d’un commerciante di alimentari»,
assiste agli eventi della Storia: il comizio di Girolamo Li Causi, le lotte dei
contadini, gli echi della strage di Portella della Ginestra, la propaganda
della Democrazia Cristiana e la vittoria nelle elezioni del 1948. Anche una
“contrada” poco nota può essere toccata dai grandi rivolgimenti storici: può
capitare che un ragazzino li osservi con «la testa tra i ferri della
ringhiera», si chiami Ciccio o Vincenzo. Piazza Vittorio Emanuele,
qui solo accennata e invece descritta in maniera precisissima in La testa
tra i ferri della ringhiera, con chiari riferimenti al castello, ai palazzi
nobiliari, alla bordatura di possenti platani[5],
diventa dunque punto di osservazione privilegiato, la radice di una prospettiva
nuova sul corso delle cose, e l’esperienza dei grandi eventi registrata dai
sensi si fa elemento propulsore fortissimo di un lungo e complesso dialogo tra
la letteratura e la Storia.
Il
sorriso dell’ignoto marinaio deve la sua riuscita anche alla straordinaria
scelta di mappare il castello Gallego di Sant’Agata con le scritte dei
prigionieri di Alcara. Un luogo familiare, uno dei più rappresentativi del
paese natio, si trasforma in elemento narrativo determinante. Lo spazio reale
si traduce in scenario e simbolo: la scala diventa chiocciola, la chiocciola
diventa storia, anzi la Storia, che si avvolge su se stessa e si confonde e
confonde. E anche la rilettura del Risorgimento, attraverso la valorizzazione
di un luogo e di un episodio “senza nome”, trova una sua radice a Sant’Agata,
lì dove si sono riversati i ricchi proprietari terrieri in fuga «dopo
rivolte contadine di Alcàra, d’Alunzio e di Bronte»[6].
Il toponimo
è taciuto anche in L’olivo e l’olivastro, dove sono intimi i dettagli
del ritorno doloroso, ad un paese che resta immobile, uguale a se stesso[7],
mentre la madre si fa evanescente come Euridice e la casa viene distrutta,
spazzata dalle ruspe, sostituita da un palazzo di banche e uffici che nasconde
la vista della spiagge e del mare[8].
La vicenda,
chiaramente autobiografica, diventa emblema della rapinosa speculazione
edilizia capace di travolgere anche ciò che è più caro e genera una traccia
narrativa ne Lo Spasimo di Palermo, traducendosinella
distruzione del giardino palermitano di Martinez, nell’apertura del cantiere e
nella costruzione di una nuova casa tra palazzi e casamenti[9].
[1]«Una
costa diritta, priva di insenature, cale, ai piedi dei Nèbrodi alti, verdi
d’agrumi, grigi d’ulivi. Una spiaggia pietrosa e un mare profondo che a ogni
spirare di vento, maestrale, tramontana o scirocco, ingrossava, violento
muggiva, coi cavalloni sferzava e invadeva la spiaggia» (La
grande vacanza orientale-occidentale, La mia isola è Las Vegas, pp.
163-169, a p. 163).
[2]«Sì,
si può cadere su questo mondo per caso, ma non si nasce in un luogo
impunemente. Non si nasce, intendo, in un luogo senza essere subito segnati,
nella carne, nell’anima da questo stesso luogo. Il quale, con gli anni, con
l’inesorabile, crudele procedere del tempo, si fa per noi sempre più sacro.
[…] Fin dal primo sguardo sul mondo, fin
dai primi bagliori dei ricordi – e sono scene isolate, fotogrammi luminosi
incorniciati dal nero dell’immemorabile – si è impresso, Sant’Agata, dentro di me per
sempre. Hieme et aestate et prope et procul, com’era scritto nella stele
fogazzariana, io porto in me questo punto unico del mondo, questo paese […]
Mi sono ispirato, narrando, a questo mio paese, mi sono allontanato da lui per
narrare altre storie, di altri paesi, di altre forme. Però sempre, in quel poco
che ho scritto, ho fatalmente portato con me i segni incancellabili di questo
luogo», Memorie, prima “Il Valdemone”, I, 1febbraio
1990, pp. 7-9, ora La mia isola è Las Vegas, pp. 134-138 alle pp.
135-138.
[3]Ivi,
p. 137. Sant’Agata assume il ruolo di limen, ago della bilancia tra
un’area dell’isola maggiormente segnata dalla natura e un’altra in cui invece
hanno la meglio la ragione, la storia. Nel luogo delle sue radici, dunque,
Consolo individua la molla della sua aspirazione ad una narrazione che sia «incontro
miracoloso, di ragione e passione, di logica e di magico, di prosa e poesia»
(Ivi, p. 138).
[4]Alesia
al tempo di Li Causi, prima “Il Manifesto”, 19 agosto 2007, ora La mia
isola è Las Vegas, pp. 223-227, a p. 223.
[5]La
testa tra i ferri della ringhiera, La mia isola è Las Vegas, pp.
201-204, alle pp. 201-202.
[6]Alesia
al tempo di Li Causi, La mia isola è Las Vegas, a p. 223.
[9]Lo Spasimo di Palermo, p. 931. Nei dintorni di Sant’Agata è ambientato anche il racconto dell’infanzia di Chino, con indubbio recupero di materiale autobiografico (ad esempio Ivi, p. 981).
Tratto da “Un eccezionale baedeker” (La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo)
Siciliano e milanese Il libro che avete fra le mani nasce da un Convegno internazionale tenutosi a Milano il 6 e 7 marzo 2019, presso l’Università degli Studi di Milano, nella prestigiosa Sala Napoleonica di Palazzo Greppi. Tenevo molto alla realizzazione di questo Convegno e ora sono felice di aprire questo volume. Tornerò subito sull’importanza di Consolo scrittore e intellettuale. Ma voglio anzitutto sottolineare fino a che punto il sicilianissimo Vincenzo Consolo, (nato a Sant’Agata di Militello il 18 febbraio 1933), che per tutta la vita ha parlato e scritto quasi solo della Sicilia, avesse messo radici a Milano, dove ha vissuto dal 1° gennaio 1968 (una data singolarmente simbolica) fino alla morte, avvenuta il 21 gennaio 2012. Questo volume esce anche ormai a ridosso del decennale della scomparsa, di cui intende aprire le celebrazioni. Come molti altri scrittori siciliani, Consolo si è trasferito a Milano: e come non pochi altri, Vittorini in testa, c’è rimasto poi fino alla fine. È vero anche però che, in non pochi momenti della sua vita, egli ha meditato seriamente sulla possibilità di andarsene, di tornare in Sicilia, o quanto meno al sud, per vari motivi: per nostalgia, forse per tutta la vita, ma fors’anche mai convintamente; perché il sud avrebbe avuto bisogno di una guida intellettuale (soprattutto all’indomani della morte di Sciascia, tra fine anni Ottanta e inizio anni Novanta, anche per le sollecitazioni di Goffredo Fofi, a sua volta tornato da Milano a Napoli); perché deluso da un nord affarista e rapace, traditore della grande tradizione illuminista (si veda Retablo), politicamente sempre più a destra (soprattutto all’indomani dell’elezione di Formentini a Sindaco di Milano, nel 1993), e poco dopo berlusconiano. Eppure, nonostante tutto, Consolo alla fine è rimasto a Milano, per tante altre ragioni. E dunque non si fa certo una forzatura considerandolo, così come tanti altri meridionali diventati milanesi d’adozione (mi ci metto anch’io), non solo siciliano, ma anche milanese. Certamente Milano ha dato molto a Consolo. E d’altro canto Consolo ha ricambiato con una fedeltà profonda, più di quanto potrebbe apparire a prima vista. Era dunque doveroso che Milano, finalmente, gli dedicasse un grande Convegno, e che questo Convegno non restasse solo un evento, ma diventasse una tappa importante nella bibliografia critica consoliana, diventata ormai molto ampia e ricchissima di contributi di studiosi non italiani, o trasferiti da molto tempo in sedi estere. Prima di entrare nel merito dell’argomento cui sono dedicati i saggi qui raccolti, voglio ancora fare due osservazioni preliminari. La prima riguarda la necessità di acquisire in pianta stabile Consolo alla percezione diffusa della letteratura italiana contemporanea, a quello che potremmo chiamare il senso comune o, se preferite, il canone. La pubblicazione delle opere di Vincenzo Consolo nei Meridiani Mondadori ne sancisce del resto definitivamente la statura di “classico”, di scrittore destinato a restare. Sfruttando la prestigiosa auctoritas di Cesare Segre: «Consolo è stato il maggiore scrittore italiano della sua generazione»1, quella cioè degli anni Trenta. Segre ha certo ragione, ma noi possiamo allargare anche di più la sua affermazione, ribadendo, senza mezzi termini, che Consolo è tout court uno dei massimi scrittori italiani del Secondo Novecento. La seconda osservazione ha a che vedere con la scelta di inquadrare Consolo in relazione all’identità mediterranea, o piuttosto all’intreccio inestricabile di identità che caratterizza il Mediterraneo. Guardare a Consolo da questa prospettiva significa certo, in prima approssimazione, ribadire la costanza e la profondità dei suoi discorsi sulla Sicilia: ma tenendo sempre presente che per Consolo la Sicilia, come vedremo fra poco, è fisicamente centro e simbolicamente luogo esemplare di una realtà più ampia e complessa: quella appunto del Mediterraneo. Lo testimonia, fra, le altre cose, anche l’importante antologia in lingua inglese degli scritti di Consolo, Reading and writing the Mediterranean, curata da Norma Bouchard e Massimo Lollini2. Allo stesso tempo, leggere Consolo sub specie Mediterranei ha significato collocarsi in una specola privilegiata, dalla quale egli appare fin dal primo momento in tutta la sua complessità, di scrittore ma anche di intellettuale a tutto tondo, impegnato senza tregua anche sul piano politico-culturale. Sarei quasi tentato di parlare di una sorta di paradosso che governa il lavoro di Vincenzo Consolo: ma credo sia più opportuno parlare di una tensione costitutiva, che fa del resto tutt’uno con la sua straordinarietà. Sperimentalismo e eticità: fra scrittura e militanza La scrittura consoliana nasce certo da una vocazione implacabile, tutta tesa verso un’idea di letteratura come linguaggio speciale, tanto denso da sfidare la concretezza stessa del reale. In questa prospettiva, Consolo assegna alla letteratura una missione insieme impossibile e necessaria, che ha una profonda valenza etica e politica. Dopo la fine della stagione dell’engagement, Consolo chiede alla letteratura di essere pienamente, ferocemente letteratura, di distinguersi sempre dalle altre forme di comunicazione: comprese quella della quotidiana battaglia politico-culturale, condotta soprattutto sui quotidiani e in genere sui periodici a larga diffusione. Questa duplicità gli consente di affiancare due operazioni molto diverse, se non antitetiche: denunciare le ingiustizie del mondo, da un lato, producendo parole che potrebbero, nonostante tutto, contribuire a cambiarlo; ma anche, da un altro lato, valorizzare senza sosta la bellezza e la ricchezza della vita. Non è certo un caso che questa duplicità permei in profondità proprio la rappresentazione della Sicilia, come mostra esemplarmente, fra gli altri, un romanzoromanzo come Retablo. Se la scrittura propriamente letteraria è protesa verso la mission impossibile di sfidare la densità delle cose e della realtà, d’altro canto Consolo non smette di praticare senza sosta un’idea fortemente militante del lavoro intellettuale, mediante il quale lo scrittore, pur consapevole dei propri limiti, si batte per denunciare le ingiustizie del mondo, intervenendo senza soluzione di continuità nel dibattito culturale, in tutte le sedi disponibili. A fianco alla produzione propriamente letteraria, Consolo ha così realizzato un’immensa produzione saggistica e giornalistica, ancora pochissimo studiata, e che è necessario indagare. Egli ha infatti collaborato per decenni (dal 1966 al 2010) con numerosissime testate, fra le quali «L’Ora», «Il Messaggero», «La Stampa», il «Corriere della Sera», «l’Unità», «il Manifesto», «Repubblica», «L’Espresso». Solo una piccola parte di questa produzione è stata raccolta e ripubblicata in volume: il che equivale a dire che fra i lavori da fare ci sono non poche possibili nuove edizioni. Per ora in volume troviamo anzitutto i magnifici saggi, di impianto prevalentemente storico e letterario, raccolti in Di qua dal faro3, un libro che a sua volta riprende altri più piccoli volumi precedenti. Già questo volume affronta la storia, la cultura e la letteratura siciliane in una prospettiva che si apre verso il Mediterraneo tutto, anticipando prospettive di studio oggi molto frequentate e ai quali certo il presente volume intende ricollegarsi. Ma Di qua dal faro raccoglie solo una piccola parte della vasta produzione saggistica di Consolo. Sul versante giornalistico, possiamo leggere in volume anche un’antologia degli articoli pubblicati sul quotidiano di Palermo «L’Ora» tra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta4, durante la stagione straordinaria della direzione di Vittorio Nisticò5. È poi disponibile una scelta quasi completa dei suoi scritti sulla mafia6: dove, di nuovo, emergono l’urgenza e la drammaticità di tematiche legate alla Sicilia e al Meridione d’Italia, nella loro peculiarità ma anche nel loro più ampio rapporto con i processi di modernizzazione della penisola. La maggior parte degli scritti saggistici e militanti di Consolo resta però sparpagliata nelle diverse sedi in cui è uscita e in una piccola galassia di libretti di pressoché impossibile reperibilità. Consolo ha svolto un’attività giornalistica di ampiezza e intensità davvero straordinarie: mi permetto di rimandare, a questo proposito, alla bibliografia da me curata per il Meridiano7, che nella sua (quasi) esaustività consente di farsi un’idea precisa e fondata. E pensare che alcuni critici hanno detto che Consolo era “pigro”: bibliografia alla mano, pare proprio difficile sostenerlo! È vero solo, semmai, che egli ha scritto un numero relativamente limitato di libri propriamente di letteratura: questo è avvenuto proprio perché, quando scriveva «letteratura», costruiva delle macchine semiotiche ed espressive di natura assai diversa da quelle realizzate negli articoli e nei saggi, macchine che chiedevano una costruzione lentissima, sviluppata nel corso di anni interi. D’altro canto, per tutta la vita, o per lo meno dagli anni immediatamente successivi all’esordio con La ferita dell’aprile 8, la scrittura letteraria è stata sempre affiancata da quella lato sensu giornalistica. Già i volumi a nostra disposizione ci consentono di cogliere fino a che punto Consolo fosse presente con grande costanza nella vita pubblica e nella vita politica, sempre ben salvaguardando la sua specificità di intellettuale, secondo un modello che deriva dalla cultura francese, da Émile Zola e dallo stesso Jean-Paul Sartre (entrambi citati più volte nei suoi scritti militanti). Consolo era, insomma, un intellettuale sempre pronto a parlare della realtà, del presente, della quotidianità, spesso toccando temi caldi e problematici, con un coraggio e una spregiudicatezza mai disponibili al compromesso, segnati da un’eticità rigorosissima, senza incrinature. Per dirla in modo un po’ colloquiale: Consolo non le mandava mai a dire, e questo, non lo si dimentichi, gli ha procurato non poche ostilità, delle quali si curava poco o nulla. Anche da questo punto di vista il suo esempio è davvero ammirevole. Vorrei persino dire che, pur rifiutando sempre le non poche sollecitazioni a scendere in politica9, a suo modo Consolo ha sempre fatto politica, per quanto in maniera molto diversa e lontana da quella dei politici professionali.
“Io non so che voglia sia questa”: l’ossessione della Sicilia Cominciamo a dirlo con le sue parole: Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta d’addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca.10 Consolo ha sempre in mente la Sicilia, ne parla sempre. Un po’ la vuole, e un po’ però è lui il primo a non volerci tornare: la ama e non la sopporta, la desidera e gli ripugna. Rappresentare la Sicilia da lontano ha significato per lui anche vivere l’ossessione della Sicilia nei termini, consapevolmente contraddittori di necessità del ritorno, ma anche di impossibilità del ritorno. Significativamente, egli ha reinventato il mito di Ulisse alla sua maniera, parlandoci di un Ulisse che non ha più un’Itaca dove tornare, della quête ormai impossibile di una patria e di un’origine che ormai non esistono più. Consolo è ossessionato da questa sua patria che non è più quella di prima, che non è più patria: ma parlando della Sicilia parla con ogni evidenza di tutto un mondo dove la perdita delle radici è la regola, dove non è più possibile affidarsi a un’appartenenza originaria, che rischia di essere mistificata e mistificatoria. Ma che Sicilia è la Sicilia di Consolo? Ancora una volta la contraddizione è vitale: da un lato è una Sicilia costruita con un’attenzione documentaria rigorosa. Da questo punto di vista, Consolo si comporta in molti casi quasi come uno specialista, uno storiografo di professione. Frequentando a lungo le sue carte ho potuto vedere bene in che modo egli arrivasse a costruire i suoi testi letterari, quasi sempre raccogliendo documenti e materiali vari per anni. Nel caso del Sorriso dell’ignoto marinaio (la cui costruzione ha richiesto tredici anni di lavoro) Consolo narra della cruenta rivolta contadina di Alcàra Li Fusi, del maggio 1860, poi repressa con violenza. Per ricostruirla non solo studia libri di storia, ma va in archivio, cercando le carte di quella vicenda: si procura, per esempio, i certificati di morte dei rivoltosi condannati alla fucilazione. Quando infatti, alla fine del Sorriso, leggiamo proprio un certificato di morte, quello del bracciante Peppe Sirna, non siamo davanti a un’invenzione, ma a un documento autentico, che certo ha anche la funzione simbolica di farci percepire il contrasto terribile fra la nuda povertà di un certificato di morte, delle sue poche, gelide, burocratiche parole, che sono un quasi-nulla, e la vigorosa intensità della vita in corso, in particolare quella che avevamo percepito nel cap. V, dove la rappresentazione passa proprio attraverso il punto di vista di Peppe Sirna, messo in scena nelle sue fatiche, nelle sue percezioni e nei suoi pensieri. Consolo lavora così in molte occasioni: raccoglie i materiali come uno storiografo e si confronta con la documentazione, nella sua oggettività. Ma al tempo stesso non smette di mostrarci la soggettività di ogni punto di vista e la prospetticità di ogni visione del mondo. La Sicilia che egli rappresenta è del resto sì concretissima, ma può essere anche sottoposta a una torsione mitizzante che la rende persino fiabesca, come accade soprattutto in Lunaria, ma anche in Retablo. In ogni caso, la sua Sicilia è, come dire?, una Sicilia-Sicilia, fedele alla propria identità, ma al tempo stesso non cessa di essere anche “altro”, di funzionare come una metafora ad alta densità, dotata di una energica tensione generalizzante. Anche la Sicilia di Consolo, com’era accaduto alla Lucania di Carlo Levi, si fa intensa rappresentazione del Sud del mondo e dei processi di modernizzazione che distruggono il mondo contadino: li vediamo all’opera in Italia, ma anche in tante altre nazioni, soprattutto extraeuropee. Anche se ci parla di come i processi di modernizzazione stiano distruggendo molte civiltà, in Consolo non c’è mai un atteggiamento nostalgico, la facile retorica sui bei tempi andati. È necessario ricordare, a questo proposito, come lo stesso plurilinguismo consoliano nasca dall’intenzione di conservare, attraverso la letteratura, parole che rischiano di perdersi, e, attraverso le parole, le culture, i punti di vista sul mondo, i modi di vita che esse portano in sé. Nella scrittura di Consolo vi è insomma una grande preoccupazione antropologica, oltre che storica, coerentemente con la sua costante attenzione alla longue durée. Parlando della Sicilia Consolo ci racconta una storia drammatica, anche perché molte volte i cambiamenti sono parsi offrire delle possibilità di rinnovamento, di liberazione, che poi però sono andate perdute e hanno deluso. Al di qua e al di là della Storia, per Consolo la Sicilia è però anche una densa metafora dell’ambivalenza della vita. In fondo in Sicilia c’è tutto quello che si potrebbe desiderare per essere felici: una cultura millenaria, con straordinari monumenti, dalla protostoria alla Magna Grecia, dalla romanità al Medioevo, al Barocco, al Liberty; una natura rigogliosa e varia; una cultura stratificata e ricchissima; anche, perché no?, una cucina tra le più raffinate del mondo. Detto in due parole, la Sicilia potrebbe forse essere il migliore dei mondi possibili. Eppure per molti versi è quasi il contrario: è un mondo tragicamente violento e corrotto, pieno di orrori, tanto da rendersi persino proverbiale, visto che nel mondo intero è proprio una parola siciliana, mafia, a indicare tutte le forme di criminalità organizzata. Rispetto alla rappresentazione dell’ambivalenza della Sicilia, Retablo11 è un testo esemplare: vi troviamo deliziosi incontri tra amici e nuove amicizie che nascono; ma al tempo stesso assistiamo alla rappresentazione di un orrore innominabile, senza fine. Si pensi, fra le altre, alla scena delle prostitute a cui per punizione viene tagliato il naso12. Una violenza atroce, quella delle mutilazioni come pena legale, che si praticava nel mondo passato, certo (e dunque… come idealizzarlo?): ma che continua ad accadere ancora oggi in non poche parti del mondo… La Sicilia appare dunque in Consolo come un luogo in cui vi è tutto il male e tutto il bene, ed è di conseguenza anche per questo un’immagine della vita tutta, un luogo «bellissimo e tremendo», per riprendere un’espressione di Consolo stesso13. La Sicilia si fa insomma metafora della vita, della sua bellezza straordinaria e della sua terribile violenza, che convivono. D’altro canto, Consolo non cade mai in un vizio tipico dei letterati: quello di collocare tutto in «un tempo senza tempo», di parlare di ogni violenza e di ogni tristezza come di qualcosa di eterno, segno di un destino immodificabile e senza scampo. Non a caso del resto Consolo polemizza duramente con chi, come Tomasi di Lampedusa, pensa che la Storia sia inesorabilmente uguale a se stessa, che in essa «cambia tutto» perché «non cambi niente». Tutt’al contrario, Consolo ci ricorda in continuazione che i cambiamenti sono storicamente determinati: e che quindi bisogna continuare a combattere per provare a cambiare. “Non un paesaggio ma innumerevoli paesaggi”: il mosaico Mediterraneo Se la Sicilia funziona come chiave per la lettura del mondo tutto, questo avviene anche e proprio perché la Sicilia è per Consolo una sorta di sintesi del Mediterraneo, cioè di un’area talmente ricca sul piano storico e culturale da poter valere come equivalente del mondo tutto: Perché è da qui che vogliamo partire, per un nostro viaggio, per una nostra ricognizione della Sicilia, per inventarci, liberi come siamo da confini di geografia, da limiti d’epoca storica o da barriere tematiche, un modo, tra infiniti altri, per conoscere quest’isola al centro del Mediterraneo, questo luogo d’incrocio d’ogni vento e assalto, d’ogni dominio e d’ogni civilizzazione.14 L’ambiguità sintattica, che permette di interpretare sia la Sicilia sia il Mediterraneo come il “luogo d’incrocio d’ogni vento e assalto, d’ogni dominio e d’ogni civilizzazione” finisce per ribadire sul piano semantico la possibilità che la Sicilia sia una sorta di equivalente del Mediterraneo tutto, con le sue caratteristiche di molteplicità e, di più, di totalità. Già i saggi contenuti in Di qua dal faro15 vanno del resto, fin dal titolo, in una direzione apertamente mediterranea. Il titolo infatti evoca polemicamente un modo di dire dei Borboni, che con l’espressione «Di là dal faro» designavano appunto la Sicilia, vista dal continente, e più specificamente da Napoli, come la parte del loro regno collocata al di là del faro di Messina: una regione a cui guardavano evidentemente con sufficienza e distacco. La prospettiva opposta, quella «di qua dal faro», implica invece uno sguardo partecipe, ma al tempo stesso, mentre sottolinea la centralità della Sicilia, intende sottolineare proprio la necessaria apertura verso il Mediterraneo tutto: la Sicilia, dunque, come mondo “altro”, ma emblematico di un mondo più vasto. Quanto ricco sia il Mediterraneo di Consolo verrà mostrato con ampiezza e profondità dai saggi qui raccolti. E voglio ricordare anche la recente uscita di un’importante monografia di Ada Bellanova su La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo, un volume che indaga ampiamente la mediterraneità di Consolo16. La dimensione mediterranea dell’opera di Consolo chiama in causa, come accennato poco sopra, un’identità che va declinata su una profondità storica straordinaria, plurimillenaria, di longue durée. In questa chiave, la storia si fa antropologia, anche perché chiama in causa gesti antichi, azioni che fondano le comunità umane: la raccolta e la produzione dei cibi, la produzione di oggetti, l’acquisizione delle risorse, e, in generale, quelle che potremmo chiamare le azioni del lavoro umano. Non a caso, in Di qua dal faro si trovano tante “storie” (straordinarie) che ci parlano direttamente di queste azioni, di questi gesti: si pensi alle ricostruzioni della storia dell’estrazione dello zolfo, una grande vicenda economica e antropologica della storia italiana, o della pesca del tonno17. Certo il Mediterraneo è uno spazio fortemente identitario. Ma si tratta di un’identità caratteristicamente plurale, perché composta da un mosaico complessissimo di tempi lingue culture etnie. Il Mediterraneo è un piccolo mare, certo, ma che tocca in un piccolo spazio tre continenti, in un’area segnata da una storia tanto antica da configurarsi per molti aspetti come la culla non di una, ma di molte civiltà. Ce lo ricordano, fra molte altre, le parole di uno dei più grandi esperti di tutti i tempi della storia mediterranea, Fernand Braudel: Che cos’è il Mediterraneo? Mille cose insieme. Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma una serie di civiltà accatastate le une sulle altre. Viaggiare nel Mediterraneo significa incontrare il mondo romano in Libano, la preistoria in Sardegna, le città greche in Sicilia, la presenza araba in Spagna, l’Islam turco in Iugoslavia. Significa profondare nell’abisso di secoli, fino alle costruzioni megalitiche di Malta o alle piramidi d’Egitto. Significa incontrare realtà antichissime, ancora vive, a fianco dell’ultramoderno: accanto a Venezia, nella sua falsa immobilità, l’imponente agglomerato industriale di Mestre; accanto alla barca del pescatore, che è ancora quella di Ulisse, il peschereccio devastatore dei fondi marini o le enormi petroliere. Significa immergersi nell’arcaismo dei mondi insulari e nello stesso tempo stupire di fronte all’estrema giovinezza di città molto antiche, aperte a tutti i venti della cultura e del profitto, e che da secoli sorvegliano e consumano il mare.18 Lettore attento di Braudel, con ogni evidenza anche Consolo colloca il Mediterraneo sotto il segno della pluralità, che ritroviamo in tutti gli studi più autorevoli sul mare nostrum. Mi verrebbe persino da dire che la stessa scrittura consoliana, così programmaticamente plurale, intende in qualche modo echeggiare proprio quella pluralità. Spazio millenario di intensi scambi e di ricchissima produzione culturale, nel Mediterraneo culture diversissime si sono mescolate, integrandosi prodigiosamente (si pensi alla civiltà arabo-sicula, o a un fenomeno linguistico come il sabir, la lingua franca dei porti del Mediterraneo, che mescola lingue romanze e lingue semitiche) o tragicamente scontrandosi e combattendosi. Le scritture di Consolo evocano continuamente lo spessore storico delle vicende che hanno attraversato il Mediterraneo, proiettandole in modo sistematico sull’attualità, e mostrando come la straordinaria ricchezza multilinguistica e multi-culturale del Mediterraneo possa costituire un punto di riferimento per l’interpretazione della realtà contemporanea e per l’individuazione di strategie di integrazione. La forza del riferimento all’identità mediterranea sta anche nel fatto che lo spazio del Mediterraneo rende problematiche molte opposizioni che siamo soliti dare per scontate, a cominciare da quelle, insieme geografiche e metaforiche, di nord vs sud e est vs ovest. Ragionare in termini di mediterraneità significa così, di necessità, fare sempre riferimento a un’identità composita, che nega ogni semplificazione identitaria: proprio quel tipo di semplificazione da cui derivano le elementari, forzatissime e opportunistiche narrazioni sovraniste e populiste. Per sua stessa costituzione, proprio l’identità mediterranea ci chiede continuamente di essere di nuovo decifrata, ci impone di non smettere mai di fare i conti con qualcosa che è sempre stata problematica, e che, per sovrapprezzo, gli ultimi anni hanno, drammaticamente, reso ancora più problematica e conflittuale. A questo proposito, è difficile trovare parole più esatte di quelle di un altro gigante degli studi mediterranei, Predrag Matvejević: l’Europa, il Magreb e il Levante; il giudaismo, il cristianesimo e l’Islam; il Talmud, la Bibbia e il Corano; Gerusalemme, Atene e Roma; Alessandria, Costantinopoli, Venezia; la dialettica greca, l’arte, la democrazia; il diritto romano, il foro e la repubblica; la scienza araba; il Rinascimento in Italia, la Spagna delle varie epoche, celebri e atroci; gli Slavi del sud sull’Adriatico e molte altre cose ancora. Qui popoli e razze per secoli hanno continuato a mescolarsi, fondersi e contrapporsi gli uni negli altri, come forse in nessuna ragione di questo pianeta. Si esagera evidenziando le loro convergenze e somiglianze, e trascurando invece i loro antagonismi e le differenze.19 Fra conflitto e integrazione, appunto, come nel nostro titolo. Parlare di Mediterraneo, non a caso, significa così anche denunciare la violenza che in questo spazio è stata e continua a essere esercitata. Ce lo ricorda ancora Braudel, in un passo che Consolo ha non a caso citato più di una volta: “In tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato, e vi conosce tutte le miserie, gli orrori e le santità degli universi concentrazionari”20. Consolo è stato, non per caso, uno dei più lucidi e tempestivi nel cogliere le nuove direzioni della violenza nel Mediterraneo, a cominciare da quella esercitata sui migranti, su cui torneremo fra pochissimo. Pochi come lui hanno capito subito, fin dagli anni Ottanta, che Il Mediterraneo oggi, forse per la prima volta nella propria storia millenaria vede intaccato il mito che costantemente lo ha accompagnato, quello della culla delle culture, delle civiltà, delle tre grandi religioni monoteistiche, per vederlo sostituire da un mito sommario, cumulativo, a grappolo, quasi, ed è quello che presenta il Mediterraneo come un mare pericoloso 21 La vibrata, lucida polemica di Andrea Gialloreto, Srećko Jurišić, Eliana Moscarda Mirković ci riporta, dolorosamente, a un contesto odierno dove purtroppo il confitto sembra prevalere sull’integrazione. Non sono pochi gli scenari in cui il peggioramento e il degrado sono tragicamente evidenti, è fin troppo facile ricordarli: a cominciare dalla Siria, per proseguire con l’Algeria, la Libia, l’Egitto. Caterina Consolo ricordava con rimpianto gli anni in cui lei e Vincenzo potevano viaggiare da soli in vari paesi del Magreb, semplicemente noleggiando una macchina e girando in tutta tranquillità. Difficile immaginare oggi qualcosa di simile. Certo, il degrado dell’oggi rimanda a tanti altri momenti e luoghi in cui sono prevalse la violenza e la conflittualità. A questo proposito, è opportuno ricordare che la tesi di laurea in Giurisprudenza di Consolo, discussa il 18 giugno 1960, si intitolava La crisi attuale dei diritti delle persone 22. Una volta di più, la prospettiva consoliana si mostra acutissima, sempre lucida davanti alla realtà presente. Per vari aspetti risulta impressionante, per la sua tempestività, l’insistenza di Consolo nel segnalare il dramma dei migranti africani e la frequenza delle tragedie in mare legate ai loro flussi attraverso il Mediterraneo, fin dagli anni Ottanta: si pensi a un racconto come il Memoriale di Basilio Archita 23, scritto addirittura nel 1984, una data incredibilmente precoce. Già allora, Consolo intuiva quanto Ian Chambers oggi può affermare senza incertezze: Il migrante moderno è colui che più intensamente delinea questa costellazione [attuale dell’ordine planetario]. Sospeso nell’intersecarsi di un’espropriazione economica, politica e culturale, è colui/colei che porta le frontiere dentro di sé. […] Il/la migrante non è puramente un sintomo storico della modernità; piuttosto è l’interrogazione condensata dell’identità vera e propria del soggetto politico moderno.24 Va aggiunto peraltro che Consolo ha dato anche costante attenzione alla pluri-direzionalità e periodicità dei flussi migratori. Si pensi, in particolare, ai suoi ripetuti riferimenti all’emigrazione dei siciliani in Tunisia: ancora oggi un quartiere di Tunisi si chiama “Petite Sicile”. Proprio in Tunisia emigra, fra gli altri, il protagonista Petro Marano al termine di Nottetempo, casa per casa25. Vi proporrò ora, per avviarmi al termine del mio percorso, un esempio molto caratteristico della capacità di Consolo di leggere lucidamente, criticamente la realtà, e insieme però di fondere la lettura del presente con la possibilità di attribuirgli, tramite la tensione espressiva e la forza mitizzante della letteratura, una più ampia dimensione simbolica: così da far convivere metafora e storia, sperimentazione e tensione etica, poesia e politica, in una miscela che non smette di essere rarissima. Certo, oggi abbiamo tutti presente ciò che sta succedendo in Europa e nel mondo: dove migliaia, centinaia di migliaia, milioni di persone migrano, si spostano e spesso muoiono nel tentativo di emigrare. Moltissimi, lo sappiamo, soccombono tragicamente nel canale di Sicilia e al largo delle coste dell’Egeo, uccisi “dall’acqua”. In tempi molto lontani Consolo ha cominciato a cogliere questo movimento che oggi è sotto gli occhi di tutti e che ha preso proporzioni così ampie da diventare uno degli argomenti centrali in discussione nell’agenda politica dell’Unione Europea. Se ne parla tutti i giorni, e ci si scontra su questo: i muri, le quote, i soldi alla Turchia e i ricatti di Erdogan, gli imbarazzi politici della Merkel e di Macron, le polemiche di Salvini e di Meloni. Come abbiamo visto, Consolo ha capito prestissimo la rilevanza del fenomeno. È chiaro: egli guarda al presente, alla storia, al Meridione nostro e al Meridione del mondo, cogliendo il suo e nostro presente con rara tempestività e profondità, prima di tanti altri. Ma se consideriamo questa sua percezione da un altro lato, ci accorgeremo che, ben da molto prima, Consolo dà corpo anche a un’ossessione letteraria, ben più antica, che lo rincorre fin dai primissimi racconti (si veda Un sacco di magnolie, 195726) e poi ricorrerà per tutta la sua carriera di scrittore: l’immagine del morto in acqua e “per acqua”. Ben prima che le migrazioni nel Mediterraneo diventassero cronaca quotidiana, Consolo riprende infatti più e più volte l’immagine della Death by water della Waste Land di Thomas Stearns Eliot, sezione IV, con la figura di Phlebas il fenicio, morto nell’affondamento della sua nave. La forza mitizzante di lungo periodo della letteratura diventa così a sua volta uno strumento privilegiato per cogliere la realtà presente. Una volta di più, metafora e storia si incontrano: così che l’ossessione letteraria fa tutt’uno con la profondità e la lucidità nello scandaglio del reale. La grandezza di Consolo sta anche qui. I saggi raccolti nel presente volume concentrano l’attenzione su un amplissimo ventaglio tematico relativo all’emergere, in molteplici forme, delle questioni mediterranee in tutta l’opera di Consolo, sia nelle opere propriamente letterarie, sia nelle prose saggistiche e giornalistiche. Ma è noto che uno dei tratti caratteristici della scrittura di Consolo sta anche nel rimescolare generi e stili. La ricchezza della proposta interpretativa qui proposta vuole rispondere anche e proprio sia alla pluralità così caratteristica della dimensione mediterranea, sia alla pluralità che caratterizza costitutivamente la scrittura di Consolo, e anche, più largamente, la sua fisionomia intellettuale e umana. In pochi rapidi cenni, ricorderò ora che Dominique Budor (Université Sorbonne Nouvelle), con “Gli inverni della storia” e le patrie immaginarie, approfondisce il ruolo dell’immagine di Milano, “patria immaginaria”, da un lato, e della Francia da un altro. Sebastiano Burgaretta, con L’illusione di Consolo tra metafora e realtà, mette a fuoco soprattutto la produzione saggistica di Consolo dedicata alla Sicilia (includendovi anche un testo peculiare per genere e per tono come La Sicilia passeggiata), nell’ottica privilegiata del discorso sul Mediterraneo di cui la Sicilia è centro e crocevia. Miguel Ángel Cuevas (Universidad de Sevilla), in Della natura equorea dello Scill’e Cariddi: testimonianze consoliane inedite su Stefano D’Arrigo, ripercorre il rapporto profondo e per certi aspetti portante fra Consolo e l’autore di Hocynus Orca, indagandone diramazioni letterarie e linguistiche. Rosalba Galvagno (Università degli Sudi di Catania), con Il «mondo delle meraviglie e del contrasto». Il Mediterraneo di Vincenzo Consolo, delinea un denso e intenso ritratto del Mediterraneo consoliano, che diventa una chiave privilegiata per delineare “il destino, cioè il senso” della sua scrittura. Salvatore Maira, in Parole allo specchio, ci regala un intenso, vivo ricordo, legato soprattutto alla scrittura condivisa della sceneggiatura cinematografica derivata da Il sorriso dell’ignoto marinaio: vicenda che diventa la specola per guardare a Consolo da un punto di vista originale. Nicolò Messina (Universitat de València) costruisce un’attenta Cartografia delle migrazioni in Consolo: una questione cruciale, come abbiamo visto, che Messina indaga a partire da un censimento pressoché completo delle occorrenze della parola Mediterraneo e dei suoi derivati. Facendo perno sull’antitesi fra conflitto e integrazione, Messina mette a fuoco appunto “l’idea di un’identità del Mediterraneo, esaltata proprio dalle migrazioni e dai suoi attori”27. Daragh O’Connell (University College Cork), in La notte della ragione: Nottetempo, casa per casa fra poetica e politica, studia nel dettaglio, nella chiave qui proposta, il ruolo del secondo romanzo storico consoliano, strategico anche perché, come ebbe a dire l’autore, nato da “un sentimento nuovo di responsabilità all’indomani del vuoto lasciato da Sciascia nel panorama della letteratura europea e italiana”28. Marina Paino (Università degli Sudi di Catania), in La scrittura e l’isola, indaga in profondità soprattutto le relazioni fra la scrittura di Consolo, “i miti mediterranei del nostos e dell’isola” e “la scrittura o meglio gli autori siciliani”29. Carla Riccardi (Università degli Studi di Pavia), con Da Lunaria a Pantalica: fuga e ritorno alla storia?, costruisce un denso percorso fra alcune opere consoliane, lette come una “ricerca su come afferrare la realtà, la storia con tutta la strumentazione che si vale di parole”30, in una fascinosa varietà di generi e stili. Irene Romera Pintor (Universitat de València), in All’ombra di Vincenzo Consolo: esperienze a confronto, rende conto felicemente delle molte sfide poste dalla traduzione in spagnolo di Consolo, nella consapevolezza dell’importanza delle traduzioni per comunicare al pubblico del presente e del futuro l’“immensa ricchezza culturale, linguistica e umana”31 della Sicilia, e del mondo, che lo scrittore santagatese ha voluto trasmettere. Corrado Stajano, con Un grande amico, ci offre un lucido e insieme toccante ricordo delle tappe cruciali di una grande, profonda, amicizia, durata tutta una vita, nelle sue complesse vicissitudini. Infine Giuseppe Traina (Università degli Sudi di Catania), in Per un Consolo arabomediterraneo, interpreta in modo articolato e persuasivo i diversi modi, fra loro intrecciati, in cui Consolo ci parla della presenza araba: quello “memoriale, di marca geografico-artistica”32; quello storico-sociologico; quello più marcatamente letterario; quello politico. Per finire, il quadro che emerge ci mostra, se ce ne fosse stato ancora bisogno, fino a che punto la scrittura di Consolo continui a interrogare il nostro presente. Nei suoi testi balena del resto, con grande forza, una percezione della Storia molto vicina a quella di un altro autore a lui molto caro, Walter Benjamin: “La storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è il tempo omogeneo e vuoto, ma quello pieno di «attualità»”33. Che scriva romanzi storico-metaforici, testi dalla problematica identità di genere (come Lunaria o L’olivo e l’olivastro), saggi o articoli di quotidiano, Consolo continua comunque a mettere in questione il nostro presente, e a ricordarci che la Storia è sempre adesso.
Ringraziamenti Grazie all’Università degli Studi di Milano, che ha ospitato il Convegno, e concesso i fondi di ricerca che hanno consentito la pubblicazione del presente volume. Grazie al Rettore Elio Franzini, ai colleghi Paola Catenaccio e Dino Gavinelli, che sono intervenuti all’apertura del Convegno. Un ringraziamento speciale all’amico Stefano Raimondi, che ha voluto con forza la collana in cui il volume esce, e a Francesca Adamo, che con la consueta perizia ne ha curato la redazione. Grazie di cuore a tutti i relatori, e anche ai non pochi colleghi che avrebbero voluto partecipare al Convegno: non era possibile invitare tutti, ma anche il desiderio di esserci è una bella testimonianza dell’ammirazione e della passione che circondano Consolo, in Sicilia, a Milano, e in molti altri paesi.
Università degli Studi di Milano 1 C. SEGRE, Un profilo di Vincenzo Consolo, in V. CONSOLO, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di G. Turchetta e uno scritto di C. Segre, Mondadori, Milano 2015, p. XI. 2 V. Consolo, Reading and writing the Mediterranean. Essays by Vincenzo Consolo, a cura di N. Bouchard e M. Lollini, University of Toronto Press, Toronto-Buffalo-London 2006. 3 V. Consolo, Di qua dal faro, Milano, Mondadori, 1999; ora in Id., L’opera completa, cit., pp. 977-1260. 4 V. Consolo, Esercizi di cronaca, a cura di S. Grassia, Prefazione di S.S. Nigro, Sellerio, Palermo 2013. 5 Di cui possiamo leggere il lucido e appassionato racconto in V. Nisticò, Accadeva in Sicilia. Gli anni ruggenti dell’«Ora» di Palermo, Sellerio, Palermo 2001. 6 V. Consolo, Cosa loro, a cura di N. Messina, Bompiani, Milano 2017. 7 Bibliografia, Opere di Vincenzo Consolo, in V. Consolo, L’opera completa, cit., pp. 1481-1517. 8 La ferita dell’aprile, Milano, Mondadori, 1963; poi Torino, Einaudi, 19772; poi Milano, Mondadori 19893 (con introduzione di G. C. Ferretti); ora in Consolo, V., L’opera completa, cit., pp. 3-122. 9 In particolare nel 1988-1989, quando Consolo venne sollecitato a candidarsi come indipendente nelle liste del PCI per le elezioni europee da Aurelio Grimaldi prima, e poi dallo stesso Segretario del Partito Achille Occhetto; cfr. G. Turchetta, Cronologia, in V. Consolo, L’opera completa, cit., p. CXXXIII. 10 V. Consolo, Comiso, in Le pietre di Pantalica, Milano, Mondadori, 1988; 19902 (a cura e con introduzione di G. Turchetta, G.); ora in V. CONSOLO, L’opera completa, cit., p. 632. 11 V. Consolo, Retablo, Palermo, Sellerio, 1987; ora a in V. CONSOLO, L’opera completa, cit., pp. 365-475. 12 Ivi, p. 400. 13 V. Consolo, Viaggio in Sicilia, in Id., Di qua dal faro, Milano, Mondadori, 1999; poi in Id., L’opera completa, cit., p. 1224. 14 V. Consolo, La Sicilia passeggiata, ERI, Torino, 1991; poi con Prefazione di G. Turchetta, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI) 2021, p. 18. 15 Id. Di qua dal faro, Milano, Mondadori, 1999; ora in V. CONSOLO, L’opera completa, cit., pp. 987-1260. 16 A. Bellanova, Un eccezionale Baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI) 2021. 17 Un uomo di alta dignità, Introduzione a ‘Nfernu veru. Uomini & immagini dei paesi dello zolfo, a cura di A. Grimaldi, Edizioni Lavoro, Roma 1985, pp. 9- 32, poi col titolo Uomini e paesi dello zolfo, in Di qua dal faro, cit., pp. 981- 1006; La pesca del tonno in Sicilia, in La pesca del tonno in Sicilia, con saggi di R. Lentini, F. Terranova ed E. Guggino; schede di S. Scimè; glossario di M. Giacomarra, Sellerio, Palermo 1986, pp. 13-30; poi in Di qua dal faro, cit., pp. 1007-1039. 18 F. Braudel, Il Mediterraneo. Lo spazio, la storia, gli uomini, le tradizioni (1985), trad. it. di E. De Angeli, Bompiani, Milano 1987, 20193, pp. 5-6. 19 P. Matvejević, Breviario mediterraneo (1987), trad. ital. di S. Ferrari, Garzanti, Milano 1991, 20062, pp. 18-19. 20 F. Braudel, Civiltà e Imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II (1949), trad. it. di C. Pischedda, Einaudi, Torino 1976, vol. I, pp. 921-922. 21 A. Gialloreto, S. Jurišić, E. Moscarda Mirković, Introduzione, in Oceano Mediterraneo. Naufragi, esili, derive, approdi, migrazione e isole lungo le rotte mediterranee della letteratura italiana, a cura di Id., Franco Cesati, Firenze 2020, p. 9. 22 Per ulteriori dettagli si veda G. Turchetta, Cronologia, in V. Consolo, L’opera completa, cit., p. CV. 23 Uscito per la prima volta con il titolo Il capitano ordinò “buttateli agli squali”, «L’Espresso», 3 giugno 1984, pp. 55-64, venne poi inserito con il titolo Memoriale di Basilio Archita in Le pietre di Pantalica, cit., pp. 639-646. Per ulteriori dettagli si veda G. Turchetta, Note e notizie sui testi, in V. Consolo, L’opera completa, cit., pp. 1371-1372 e 1383. 24 I. Chambers, Mediterranean Crossings. The Politics of an Interrupted Modernity (2007), trad. ital. di S. Marinelli, Le molte voci del Mediterraneo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2007, p. 7. 25 V. Consolo, Nottetempo, casa per casa, Milano, Mondadori, 1992; ora in V. CONSOLO, L’opera completa, cit., p. 755. 26 Ora in V. Consolo, La mia isola è Las Vegas, a cura di N. Messina, Mondadori, Milano 2012, pp. 7-10. 27 Cfr. infra, p. 109. 28 Cfr. infra, p. 134. 29 Cfr. infra, p. 156. 30 Cfr. infra, p. 167. 31 Cfr. infra, p. 197. 32 Cfr. infra, p. 209. 33 W. Benjamin, Tesi di filosofia della Storia (1940), Tesi n. 14, in Id., Angelus Novus. Saggi e frammenti (1955), trad. e introduzione di R. Solmi, Einaudi, Torino, 1962, 19813, p. 83.