di Ada Bellanova
Fornire una definizione del Mediterraneo non è un compito semplice. Mare – e contesto – in perenne trasformazione, come dimostra la sua storia ecologica, esso resiste ad ogni generalizzazione1 . Si può certamente tentare la strada della determinazione strettamente geografica ma si deve riconoscere che a poco serve dire che si tratta di un mare semichiuso su cui si affacciano vari popoli, diversi tra loro eppure simili per la loro posizione e per la condivisione di problemi e risorse. Si deve poi ammettere che il cosiddetto ecosistema mediterraneo ha subito trasformazioni profonde nel corso dei millenni: eliminazione di boschi e foreste, aumento della popolazione, sfruttamento delle risorse, mutamenti climatici, cambiamenti di fauna e flora2 . Le trasformazioni, tra l’altro, contraddistinguono anche la storia della rappresentazione. L’idealizzazione del passato classico che ha sedotto innumerevoli viaggiatori non esiste più e il Mediterraneo si rivela contesto dalle molte facce, non facilmente assimilabile al solo mondo europeo o occidentale3 . Perciò, come tentare una definizione? Cos’è veramente mediterraneo? Se la politica europea contemporanea ha ridotto la questione al problema della frontiera, al rischio di nuove invasioni barbariche4 , ragion per cui il mare è diventato spazio delle indesiderate migra-
1 La complessità del Mediterraneo è centrale nei recenti studi di Mediterranean ecocriticism. Si veda a proposito S. Iovino, Introduction: Mediterranean ecocriticism, or a Blueprint for Cultural Amphibians, in “Ecozon@”, 4.2, 2013, pp. 1-14, in particolare a p. 4. 2 Ibidem. La Iovino propone il caso dell’importazione di tutta una serie di piante e prodotti nel regno della vitis vinifera e dell’olea europaea, con conseguente profondissime sulla cosiddetta dieta mediterranea (si pensi a pomodoro, riso, caffè ecc.). 3 Ivi, p. 5. 4 Si veda a proposito il saggio di C. Resta, Geofilosofia del Mediterraneo, Mesogea, Messina 2012. Sul Mediterraneo come confine, frontiera anche A. Le-
zioni di masse di disperati, tra cui possono nascondersi pericolosi attentatori, e luogo di inevitabile sepoltura, un vero cimitero, di quanti non arrivano a compiere la traversata a bordo di gommoni e imbarcazioni di fortuna, gli intellettuali hanno mantenuto il Mediterraneo al centro di un vivace dibattito culturale. Dibattito che prova a mettere in discussione gli stereotipi. Rischiose sono infatti le immagini rassicuranti dell’idillio naturalistico e della civiltà dell’accoglienza da una parte oppure, all’estremo opposto, quelle fosche della violenza e della sopraffazione. Da una parte il paradiso turistico a buon mercato, le spiagge seducenti, l’esotismo della porta accanto, dall’altra quello della mafia, dell’estorsione, della corruzione delle classi dirigenti, della mancanza di sicurezza, dell’estremismo. L’una e l’altra immagine non sono che la faccia legale e quella illegale dell’inserimento subalterno del Sud nel mondo dello sviluppo, ai suoi margini, “laddove i modelli seducenti proposti dalle capitali del Nord-ovest si decompongono fino a diventare deformi”5 . Tali riduttive determinazioni trascurano la reale complessità del Mediterraneo, che, non a caso, Braudel tenta di definire nel segno della molteplicità e con l’espressione “crocevia eteroclito”6 . Questo spazio, quindi, non consiste soltanto in una teoria di paesaggi, addirittura non lo si può dire neppure mare unico, perché esso è piuttosto un insieme di mari. Nemmeno si esaurisce nell’elenco di tanti popoli diversi perché essi sono entrati spesso in relazione, avvicendandosi su uno stesso spazio o su spazi confinanti, si sono mescolati, hanno plasmato il territorio, anche come spazio dell’immaginazione, e continuano a farlo, rendendo impossibile una reductio ad unum. Ragion per cui Matvejevic può affermare che non esiste una sola cultura mediterranea, ma ce ne sono invece molte, caratterizzate da tratti simili e da differenze, mai assoluti o costanti7 .
ogrande, La frontiera, Feltrinelli, Milano 2017, che indaga sulla condizione dei migranti. 5 F. Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, Bari 1996, pp. 3-4. 6 F. Braudel, Mediterraneo, in Id. (a cura di), Il Mediterraneo. Lo spazio la storia gli uomini le tradizioni, trad. it. di E. De Angeli, Bompiani, Milano 1987, pp. 7-8. 7 P. Matvejevic, Il Mediterraneo e l’Europa, Garzanti, Milano 1998, p. 31. Si veda anche Id., Quale Mediterraneo, quale Europa?, in F. Cassano, D. Zolo (a cura di), L’alternativa mediterranea, Feltrinelli Milano, 2007, p. 436:
L’incontro ha sempre comportato delle criticità, in primis una diffusa e pressoché costante conflittualità8 : come scrive Braudel, “in tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato”9 . Ma il contesto mediterraneo non si configura solo come spazio di guerra: nei secoli le civiltà dominanti non hanno potuto cancellare del tutto quelle sottomesse; si sono sempre attivati meccanismi di contaminazione, dialogo, stratificazione. Allora forse la sua “essenza profonda”10 sta nell’esempio che esso può offrire della convivenza tra culture differenti. Solo tale approccio all’alterità può permettere al Mediterraneo, “mare tra le terre”, di essere non confine, limite, ma luogo di relazione e di incontro11. Il problema è anche di politica europea, o dovrebbe esserlo, non solo per il timore della violazione da parte dei migranti. Il legame tra Europa e Mediterraneo infatti esiste, sebbene venga sistematicamente messo in ombra dalla prevalente prospettiva mitteleuropea, ritenuta vincente dal punto di vista economico12. Considerare la “via” mediterranea significa, secondo Franco Cassano, valorizzare le differenze, la varietà che l’ossessione di uno sviluppo a tutti i costi nega. Significa porsi il problema della gestione degli spazi, laddove gli spazi ospitano un patrimonio “verticale”, incredibilmente stratificato, e quello della cura dell’ambiente e del paesaggio, impedendo che questi siano solo preda dell’abusivismo selvaggio. Significa affrontare la questione dello scambio e della convivenza tra vecchi e nuovi abitanti. Ciò va fatto, ed è un’opportunità, non solo per “custodire forme d’esistenza diverse da quella dominante” ma anche per “tutelare la stessa modernità dal suo avvolgimento in una spirale senza ritorno”
13. “l’insieme mediterraneo è composto da molti sottoinsiemi che sfidano o rifiutano le idee unificatrici”. 8 P. Matvejevic, Mediterraneo. Un nuovo breviario, trad. it.di S. Ferrari, Garzanti, Milano 1993, p. 19. 9 F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, trad. it. di C. Pischedda, Einaudi, Torino 1976, pp. 921-922. 10 Id., Mediterraneo, cit., p. 9. 11 Ancora Braudel a proposito della definizione del Mediterraneo come grande strada per trasportare uomini e merci (Id., Storia, misura del mondo, cit. p. 105). 12 F. Cassano, Tre modi di vedere il Sud, Il Mulino, Bologna 2009, pp. 20-24. 13 Id., Il pensiero meridiano, cit., p. 7. Ma si veda anche Id., Paeninsula: l’Italia da ritrovare, Laterza, Roma 1998, pp. 10-11.
1. Lo spazio mediterraneo per Consolo
La scelta di Norma Bouchard e Massimo Lollini di seguire il criterio della mediterraneità nell’antologia del 200614 riflette la centralità dell’interesse di Consolo per la “lettura e la scrittura” dello spazio mediterraneo15. Andando oltre gli stereotipi, la linea interpretativa e rappresentativa dell’autore evidenzia tormento e ricchezza di un contesto complesso, che rifugge qualunque generalizzazione. Parlare della questione e dello spazio mediterraneo significa per Consolo parlare del Sud e, in particolare, della Sicilia. La riflessione sulla complessità del Mediterraneo si innesta dunque sulle considerazioni a proposito della varietà e della molteplicità che caratterizzano la storia, l’ambiente, il patrimonio siciliani. Estremamente significativo appare nell’isola il flusso incessante di energie umane e culturali16, che hanno condizionato e condizionano il paesaggio, accostando e sovrapponendo più identità17. Allo stesso modo l’intero Mediterraneo è amalgama, crocevia di popoli differenti, non solo territorio della conflittualità ma anche patrimonio ricchissimo, possibilità della relazione e dello scambio18: sì scenario di devastazione, dove la tecnologia ha perso la sua funzione antropologica e ha generato mostri che distruggono le antiche città, trasformandole in
14 V. Consolo, Reading and Writing the Mediterranean, a cura di N. Bouchard e M. Lollini, University of Toronto Press, Toronto-Buffalo-London 2006). Si veda il chiarimento nel saggio introduttivo: N. Bouchard, M. Lollini, Introduction: Vincenzo Consolo and His Mediterranean Paradigm, pp. 3-48, a p. 14. Sull’interesse di Consolo per il Mediterraneo si veda anche N. Bouchard, Vincenzo Consolo’s Mediterranean Journeys: From Sicily to the Global South(s), cit. 15 Sul tema anche l’antologia postuma, V. Consolo, Mediterraneo. Viaggiatori e migranti, Edizioni dell’Asino, Roma 2016. 16 C. Gallo, Cultural crossovers in the Sicily of Vincenzo Consolo, in “US-China Foreign Language”, gennaio 2016, vol. 14, n.1, pp. 49-56. 17 Emblematico Uomini e paesi dello zolfo, in Di qua dal faro, pp. 981-982: “Ora qui, per inciso, vogliamo notare che la storia, la storia siciliana, abbia come voluto imitare la natura: un’infinità, un campionario di razze, di civiltà, sono passate per l’isola senza mai trovare tra loro amalgama, fusione, composizione, ma lasciando ognuna i suoi segni”. 18 Tale visione è centrale anche nella riflessione di F. Cassano (i già citati Paeninsula, Il pensiero meridiano, Tre modi di vedere il Sud). Non a caso la scrittura di Consolo e quella di Cassano affiancate espongono il punto di vista italiano per “Rappresentare il Mediterraneo”, collana Mesogea (V. Consolo, F. Cassano, Rappresentare il Mediterraneo, cit.).
moderne metropoli, luoghi di intolleranza politica, religiosa e razziale, ma allo stesso tempo archivio di eredità preziose19. Dunque olivastro e olivo insieme. Ed è per tutelare ‘l’olivo’ che Consolo procede in direzione di un ripensamento dei consolidati effetti della globalizzazione20. L’imposizione dell’economia ritenuta vincente e l’emarginazione dei vari sistemi tradizionali producono inevitabilmente l’aberrante negazione della molteplicità che caratterizza l’identità mediterranea e la rottura degli utili equilibri preesistenti. L’autore dunque riflette sulla gestione degli spazi e della cultura e legge il fenomeno migratorio non come superamento di un limite ma come occasione di scambio che trasforma e vivifica. Nell’ottica di un recupero delle tradizioni e della molteplicità a rischio vanno guardate le scelte linguistiche che recuperano frammenti della Sicilia greca, bizantina, araba, normanna, ovvero le impronte delle lingue parlate un tempo nel Mediterraneo. L’imperativo della salvezza di linguaggi e dialetti dall’oblio si traduce in un plurilinguismo in cui non ci sono parole inventate ma parole scoperte e riscoperte, in un’operazione di riscatto della memoria e, quindi, di ricerca delle radici, dell’identità21. Se la rappresentazione del Mediterraneo risulta ambivalente, anche Ulisse, l’eroe mediterraneo per eccellenza, ha una natura duplice. Il personaggio omerico, associato da Consolo all’uomo contemporaneo, non è l’eroe del ritorno, è piuttosto il migrante: il nóstos gli è costantemente negato, perché nell’approdo all’isola egli scopre il sovvertimento, incontra le macerie di Troia anziché il palazzo di Itaca, ed è condannato perciò ad un esilio senza fine. La sua peregrinazione lo porta a contatto con le varie forme di violenza della modernità nei confronti di piccoli e grandi luoghi, in Sicilia e fuori dalla Sicilia. In ciò il viaggio diventa meditazione sulle proprie responsabilità: insieme all’ansia di scoperta e conoscenza,
è 19 N. Bouchard, M. Lollini, Introduction: Vincenzo Consolo and His Mediterranean Paradigm, cit., pp. 3-48, a p. 18. 20 Si veda l’intervista con A. Prete (Il Mediterraneo oggi: un’intervista, in “Gallo Silvestre”, 1996, p. 63). 21 G. Traina, Vincenzo Consolo, cit., p. 130. F. Cassano in Rappresentare il Mediterraneo parla di recupero da parte di Consolo di un’antica dimensione sacra della lingua, mediante lo scavo nel passato del Mediterraneo (V. Consolo, F. Cassano, Rappresentare il Mediterraneo, cit., p. 57).
evidenziato il senso di colpa e il rimorso per l’abuso della tecnologia che distrugge patrimoni e vite umane22. Le tappe del viaggio cantato da Omero, a loro volta, come già evidenziato, diventano tessere per comporre l’immagine del mondo contemporaneo. Il mito ha avuto un suo innegabile ruolo nella costruzione dell’identità mediterranea23 perché, sorto da una radice geografica, ha a sua volta modificato e condizionato la percezione collettiva dello spazio, confluendo nel patrimonio di tutti, come è accaduto nei casi esemplari di Scilla e Cariddi o dell’Etna. Ma racconti e leggende antichi legati al territorio possono dire qualcosa di nuovo, possono mettere in luce la stortura: questa è l’operazione a cui si dedica Consolo, ribadendo il legame tra la piana delle vacche del Sole e la Milazzo dell’esplosione o evidenziando l’associazione tra regno dei Lestrigoni e area industriale siracusana. Proprio proponendo il mito originale, allora, enfatizzandone alcuni aspetti, l’autore è capace di trasmettere una denuncia che lamenta la profonda metamorfosi subita dai luoghi: riesce cioè a produrre un’immagine critica dello spazio contemporaneo.
1.1 Nel segno della varietà del mare
Consolo si sente figlio della varietà, dei passaggi, degli incroci di popoli che si sono avvicendati sulla sua terra. Perciò, nella straniante Milano, cerca il conforto dell’umanità colorata, varia, di corso Buenos Aires. A Nord egli cerca il suo Mediterraneo e lo trova negli arabi, nei tunisini, negli egiziani, nei marocchini, negli altri africani, lo trova nel “bruno meridionale”: in questa “ondata di mediterraneità” si immerge e si riconcilia, ci si distende come in una spiaggia di sole del Sud24.
22 Sulla figura di Ulisse e il suo rapporto con il Mediterraneo nell’opera di Consolo si vedano alcune riflessioni di M. Lollini (M. Lollini, Intrecci mediterranei. La testimonianza di Vincenzo Consolo moderno Odisseo, cit, pp. 24-43 o anche l’introduzione, scritta con N. Bouchard, all’antologia Reading and Writing the Mediterranean, N. Bouchard, M. Lollini, Introduction: Vincenzo Consolo and His Mediterranean Paradigm, cit., pp. 19-21). Ma si vedano anche le affermazioni dello stesso Consolo in Fuga dall’Etna, cit., pp. 50-52. 23 B. Westphal (a cura di), Le rivage des mythes. Une géocritique méditerranéenne. Le lieu et son muthe, Pulim, Limoges 2001. 24 “Io che sono di tante razze e che non appartengo a nessuna razza, frutto dell’estenuazione bizantina, del dissolvimento ebraico, della ritrazione ara-
La similitudine esalta la presenza della varietà umana con tutta la sua gamma di neri e bruni qualificandola come occasione, in una Milano grigia al di là dello stereotipo, di sperimentare la mediterraneità. L’accostamento è significativo perché l’esperienza della “spiaggia al primo tiepido sole” è molto mediterranea, tanto più per Consolo, nato e cresciuto in una località di mare. La vita a Sant’Agata di Militello, “paese marino”, “borgo in antico di pescatori”25 gli ha permesso di avere una precoce familiarità con la spiaggia26. “La visione costante del mare” ha scandito l’infanzia, di giochi, bagni e gite sui gozzi. Sulla riva di una contrada poco nota sono approdati guerra e cadaveri della grande Storia27. Perciò lo spazio mediterraneo non può che configurarsi, sulla base dell’esperienza personale, come “mare”. Il tempo del mito che contraddistingue la percezione del mare delle Eolie viene poi superato nella frequentazione di altre coste, altri porti, altri arcipelaghi: il Mediterraneo non è più quello della giovinezza, non solo perché sono mutati i toponimi, le coordinate, ma anche perché a guardarlo ora è un adulto, con una prospettiva nuova, di cronista e narratore, e perché sempre più ristretto è lo spazio della bellezza, e delusione e amarezza nascono dalla coscienza di un patrimonio a rischio di estinzione, vampirizzato dall’indu,
del seppellimento etiope, io, da una svariata commistione nato per caso bianco con dentro mutilazioni e nostalgie. Mi crogiolavo e distendevo dentro questa umanità come sulla spiaggia al primo, tiepido sole del mattino”, Porta Venezia, in La mia isola è Las Vegas, pp. 112-113. Nello stesso testo (p. 114) gli eritrei che, ai tavoli di un ristorante, mangiano tutti con le mani da uno stesso grande piatto centrale il tipico zichinì gli ricordano l’uso delle famiglie contadine siciliane di una volta. Anche nell’osservazione di questo gesto c’è il conforto del recupero di un’identità, specialmente nel confronto con un Nord tanto diverso. Poco più avanti anche la musica, in un bar egiziano, suggerisce legami, suscita l’evocazione dell’identità mediterranea (Ivi, p. 115). 25 Il mare, in La mia isola è Las Vegas, p. 220. 26 La grande vacanza orientale-occidentale, in La mia isola è Las Vegas, pp. 163-169, a p. 165. Molte le dichiarazioni a proposito di una vita “anfibia”, vissuta cioè a stretto contatto con l’acqua. “Sono stato un bambino anfibio, vissuto più nell’acqua che nella terraferma” (La Musa inquieta, in “L’Espresso”, 15 aprile 1991). 27 Il mare, in La mia isola è Las Vegas, pp. 220-221; La grande vacanza orientale-occidentale, in La mia isola è Las Vegas, pp. 164-165. Nella caratterizzazione del Mediterraneo, a partire dal paese natale, si intrecciano memorie personali e dati della storia ufficiale: lo scorrere del tempo plasma i luoghi, oggettivamente e nella ricezione personale dell’autore.
-strializzazione selvaggia, o dello scenario di nuove guerre, nuove violenze, nuova morte. È negato l’idillio della vita libera e bella con la vista costante delle isole del dio, e risulta stravolto orrendamente anche il lavoro dell’uomo: i pescatori non tirano più nelle reti il pesce azzurro, bensì cadaveri di clandestini28.
1.2 Tra olivo e olivastro: il patrimonio e la violenza
Pur consapevole della varietà e della complessità che lo caratterizzano, Consolo percepisce lo spazio mediterraneo come un mondo unico e vi rintraccia caratteri ricorrenti, corrispondenze e somiglianze. Memoria di paesaggi noti, conoscenze geografiche, storia della rappresentazione si intrecciano nel proporre associazioni relative al patrimonio naturalistico, considerazioni sulle fragilità degli spazi urbani e sui problemi ecologici. A permettere, in Arancio sogno e nostalgia, la definizione del Mediterraneo come regno solare degli aranci, è l’esperienza della pervasività di una coltivazione, che caratterizza fortemente il paesaggio, dalla Sicilia alla Grecia, dal Maghreb alla Spagna. Riconosciuto come traccia artistica, segno di civiltà, ma anche come straordinario catalizzatore di gratificanti percezioni sensoriali – il colore vibrante dei frutti e delle foglie, l’odore e il sapore –, l’arancio è per Consolo, al di là del facile e consolidato stereotipo di un Sud di agrumi e sole capace di attirare i viaggiatori stranieri, sogno di un Eden perduto, simbolo cioè, nel confronto con coordinate geografiche stravolte dall’industrializzazione, come nel caso della Conca d’oro palermitana, di un’integrità ecologica e culturale, di uno spazio sano in cui piante odorose possono ancora fare mostra di sé accanto alle rovine del passato29.
Della tipica vegetazione mediterranea conserva notazioni il diario del viaggio in Jugoslavia: i pini piegati fino al mare, gli ulivi, i fichi, le vigne non segnano solo il paesaggio balcanico, ma anche quello greco, siciliano, turco, e si può inferire che anche il gesto
28 Il mare, in La mia isola è Las Vegas, pp. 221-222. 29 Arancio, sogno e nostalgia, in “Sicilia Magazine”, dicembre 1988, pp. 35-46, ora in La mia isola è Las Vegas, pp. 128-133. La citazione è alle pp. 128-129.
della donna che stende i frutti ad essiccare richiami ricordi di altre geografie più familiari30.
Nel resoconto della visita in Palestina nel 2002 poi Consolo scrive di “un paesaggio […] di colline rocciose e desertiche, che somiglia all’altopiano degli Iblei in Sicilia”31. Ma oltre al profilo fisico del territorio, a suggerire accostamenti sono gestualità e dolore delle donne per i combattenti morti: nei movimenti e nel lamento si colgono i tratti della tragedia greca, la cerimonia funebre di tutto il Mediterraneo32.
Città, anche distanti, sono accomunate dalla difficoltà di reggersi sul proprio passato, dalla fatica nella gestione della verticalità, della stratificazione, dal segno della decadenza a contatto con la modernità. Il paesaggio urbanistico mediterraneo risulta perciò inserito nella riflessione ecologica sullo spazio siciliano. Le case semicrollate nel reticolo delle viuzze della Casbah di Algeri evocano l’immagine del centro storico di Palermo33 e quasi topos diventano la crescita disordinata e veloce, l’invasione dei nuovi palazzi, il traffico, nel paesaggio urbano siracusano o in quello di Salonicco34. In L’olivo e l’olivastro dalla meditazione sulla decadenza della città di Siracusa, già accostata ad altre città del Mediterraneo, Atene, Argo, Costantinopoli, Alessandria35, scaturisce il racconto di
30 Ma questa è Sarajevo o Assisi?, in “L’Espresso”, 30 ottobre 1997. Si tratta del racconto del viaggio fatto a Sarajevo con altri intellettuali italiani per restituire la visita di un anno prima da parte di otto membri del Circolo 99 (di Sarajevo). 31 Madre Coraggio, in La mia isola è Las Vegas, p. 196. Il testo, uscito per la prima volta in italiano in V. Consolo et al., Viaggio in Palestina, Nottetempo, Roma 2003, ma già apparso precedentemente online, anche in francese, è il resoconto del viaggio in Palestina in qualità di membro del Parlamento internazionale degli scrittori. 32 Madre Coraggio, in La mia isola è Las Vegas, p. 197. Consolo si riferisce alla cerimonia funebre mediterranea così com’è codificata in Morte e pianto rituale di E. De Martino che infatti ricorda. Ivi, p. 199. 33 Orgogliosa Algeri tra mitra e coltello, in “Il Messaggero”, 20 settembre 1993. 34 Ne abbiamo già parlato per Siracusa. Si veda invece quello che Consolo scrive di Salonicco in Neró metallicó: “città moderna, piena di luci, di insegne, di manifesti pubblicitari, di quartieri appena costruiti come d’una città che è stata invasa da immigrati, che in poco tempo ha moltiplicato i suoi abitanti. E piena di traffico” (Neró metallicó, in Il corteo di Dioniso, La Lepre edizioni, Roma 2009, p. 9). 35 L’olivo e l’olivastro, p. 820.
una visita lungo la costa africana, a Ustica36. Il ricordo si sofferma in particolare sulle rovine e, a sorpresa, sul basilico profumato che cresce in abbondanza tra le pietre e i mosaici. Quello che è apparentemente un particolare senza importanza serve però a definire un patrimonio di piccole cose, comune a tutto il Mediterraneo37. L’Ustica di Consolo è rovine e basilico. Ma tutto il Mediterraneo in qualche modo è Ustica. Tutto il Mediterraneo è fatto di “piccoli luoghi antichi e obliati” come Ustica, in cui la natura si intreccia con la memoria del passato38. Ma il rischio della dimenticanza è in agguato, l’incuria è già realtà, e il ricordo diventa occasione di meditazione amara: nell’enumerazione di antiche città, nell’anafora del verbo “ricordare”, Consolo si trasforma in un “presbite di mente” tutto rivolto verso il passato, si trasforma in “infimo Casella” tutto proteso verso qualcosa che non c’è più39. Se l’anima del musico appena giunta sulla spiaggia del Purgatorio mostra ancora un grande attaccamento alla vita terrena, tanto da slanciarsi verso Dante, memore dell’antico affetto, e la stessa canzone dantesca da lui intonata è all’insegna della nostalgia, il riferimento evidenzia proprio il legame che Consolo sente con il passato, con ciò che non esiste più, come la vita terrena per le anime purganti. Ma la sovrapposizione non è perfetta: il richiamo alla canzone Amor che ne la mente mi ragiona è immediatamente contraddetto dal “Non più, odia ora” e il canto non ha nulla della dolcezza del regno del Purgatorio, ma piut36 Ivi, p. 836. 37 Ibidem. 38 I mosaici e il basilico di Utica sono già ricordati in un passo di Malophoros, in un elenco di caratteristici e rapidi ritratti di piccoli luoghi carichi di passato, dalla Sicilia alla Grecia al Nord Africa: Malophoros, in Le pietre di Pantalica, pp. 574-575. Dello stesso tono la precedente osservazione sulle “stazioncine solitarie remote, di luoghi antichi, sacri, come quella di Segesta, di Cartaghe-Hannibal, di Pompei o di Olimpia” che sanno essere “commoventi, hanno ormai anche loro qualcosa di antico, di sacro” (p. 574). Omaggio ai “piccoli luoghi antichi e obliati” sono per lo più gli interventi apparsi su “L’Espresso” tra il 1981 e il 1982, dedicati a centri poco noti, come Miraglia, Valverde, Galati o Filosofiana. Il tono di questi articoli è però di solito quasi giocoso, un invito al godimento delle bellezze e delle ricchezze sconosciute, anche gastronomiche. Luogo antico e fuori dai soliti canali turistici (non segnalata sulla “Guide Bleu”) è anche Dion, stesa nella pianura ai piedi del Monte Olimpo a cui sono dedicate alcune pagine in Neró Metallicó (Il corteo di Dioniso, cit., pp. 19-20). 39 L’olivo e l’olivastro, p. 837.
tosto una rabbia infernale, un tono che pretenderebbe “rime aspre e chiocce”:
No, non più. Odia ora. Odia la sua isola terribile, barbarica, la sua terra di massacro, d’assassinio, odia il suo paese piombato nella notte, l’Europa deserta di ragione. Odia questa Costantinopoli saccheggiata, questa Alessandria bruciata, quest’Atene, Tebe, Milano, Orano appestate, questa Messina, Lisbona terremotate, questa Conca d’oro coperta da un sudario di cemento, il giardino delle arance insanguinate. Odia questo teatro dov’è caduta la pietà, questa scena dov’è stata sgozzata Ifigenia, quest’Etna, questa Tauride di squadracce dove si consumano merci e vite, si svende onore, decenza, lingua, cultura, intelligenza…40
Dai toni nostalgici Consolo passa a quelli indignati di un coro antico e professa odio prima nei confronti della sua Sicilia, diventata “terribile, barbarica, terra di massacro”, una Tauride percorsa da “squadracce”, poi verso l’Europa e verso l’intero Mediterraneo. Il dramma in atto ha proporzioni gigantesche e il riferimento ai simboli della tragedia euripidea ne sancisce la gravità: sulla cavea è stata sgozzata Ifigenia, si è prodotto cioè il sacrificio dei sacrifici, la morte della sacerdotessa che Artemide aveva voluto salva, la morte dell’esiliata e, con lei, la morte di ogni forma di giustizia, cultura, rispetto. Il presente è una Tauride senza speranza. All’attentato nei confronti del patrimonio naturalistico e culturale si accompagna la violenza contro la vita umana, in svariate forme: il Mediterraneo è, per Consolo, spazio della conflittualità. La Palermo di Le pietre di Pantalica, in preda alle lotte di mafia, è come Beirut41: le bombe, i kalashnikov, gli efferati omicidi, il sangue sparso dai killer lasciano tra le strade siciliane il disastro dei campi di battaglia e spingono all’associazione con quell’altra violenza, in atto dall’altra parte dello stesso mare, della guerra che porta alla distruzione della capitale libanese. Comiso, poi, coi suoi missili Cruise, rappresenta la minaccia costante della violenza tra popoli a cui neppure le proteste dei pacifisti, bloccate brutalmente, possono opporsi. Nel racconto eponimo di Le pietre di Pantalica, mentre il paese “folgorato dal sole”, quasi fosse “uno di quei vuoti gusci dorati di cicala”, è tutto ripiegato nel suo torpore estivo,
40 Ibidem. 41 Le pietre di Pantalica, in Le pietre di Pantalica, p. 625.
poco più in là l’aeroporto, nella campagna deserta, accoglie i lavori per l’installazione. Alla sola vista del cancello con la scritta “Zona militare-Divieto d’accesso” emerge la tremenda apocalittica considerazione: “Non resterà di noi neanche una vuota, dorata carcassa, come quella della cicala scoppiata nella luce d’agosto. Non resterà compagna, figlio o amico; ricordo, memoria; libro, parola”42. Quasi a dire che troppo in là è andato l’uomo. Nel testo successivo, che porta nel titolo il toponimo, le cicale – ancora loro – che cantano nel sole estivo enfatizzano la pace e la fiacca che prelude alla carica delle forze dell’ordine sui dimostranti43. Di fronte al degrado della violenza – guerra per difendere la possibilità di fare la guerra – e di fronte alla speculazione edilizia e all’inquinamento, l’unica consolazione possibile viene a Consolo dalle rovine immerse nella natura, ovvero dal valore di un patrimonio naturalistico e culturale. Come ad Utica e ancor di più che ad Ustica, negli Iblei a Cava d’Ispica, a poca distanza da Comiso: qui ci sono “le migliaia di grotte scavate dall’uomo, le abitazioni, le chiese, le necropoli della preistoria, della storia più antica dei Siculi, dei Greci, dei Romani, dei Bizantini, di quelli di pochi anni passati”, qui c’è “un cammino bordato dai bastoni fioriti delle agavi, dagli ulivi, dai fichi, dai pistacchi, dai carrubi”44. E fuori dalla Sicilia? Una serie di articoli scritti a partire dagli anni Novanta denuncia una violenza connaturata in numerosi luoghi del Mediterraneo. Teatro del nascente integralismo è il Maghreb, l’Algeria in particolare, dove Consolo nel maggio 1991
42 Ivi, p. 623. 43 Più tardi, nell’atto unico Pio La Torre, Consolo accenna al coinvolgimento della mafia siciliana e americana nell’affare dei missili (Pio La Torre, cit., p. 65) e offre un’immagine amara della nuova Comiso, che contrasta con il passato nell’offesa dell’inquinamento selvaggio e della minaccia di una guerra (Ivi, p. 77). 44 Comiso, in Le pietre di Pantalica, pp. 637-638. Il testo si chiude con una visita alla necropoli bizantina di Cava d’Ispica. C’è la luna e, guardandola, Consolo ricorda la preghiera della Norma belliniana: “Casta diva, che inargenti / queste sacre, antiche piante…”. Dichiara di non sapere il motivo del ricordo. In realtà la memoria ha a che fare, più o meno volutamente, con Zanzotto, nella cui opera la presenza della Norma è significativa: in più di un’occasione il poeta, riferendosi alla luna, allude alle parole della sacerdotessa (un esempio su tutti l’Ipersonetto: “Casta diva” o “sembiante”, A. Zanzotto, Tutte le poesie, cit., p. 571).
scorge il rischio che “il mistico linguaggio della preghiera” si stravolga nel “mortale linguaggio delle armi”45. Uno “scenario apocalittico, sconvolgente”46 caratterizza poi la Sarajevo del 1997. Il “paesaggio di macerie” che si mostra allo sguardo mano a mano che gli italiani in visita si inoltrano nell’entroterra, con la guida di Matvejevic, impressiona ancor di più per il contrasto con il quieto profilo mediterraneo della costa, dove non c’è traccia di guerra e dove Consolo ritrova la vegetazione della sua terra. La città distrutta evoca le dure immagini del Trionfo della morte di Bruegel o quelle di Los desastres de la guerra di Goya47; i suoi resti, accostati a quelli di Assisi appena colpita dal terremoto, si fanno ammonimento, metafora “del nostro scadimento”: “siamo scivolati sul ciglio della voragine paurosa della natura”, ovvero è scomparsa la civiltà. Infernale è infine la Palestina, visitata da Consolo con altri membri del PIE nel 2002 48. Nella descrizione del tragitto che da Tel Aviv conduce a Ramallah, l’accostamento del paesaggio a quello siciliano si rompe all’apparizione dei check point e delle mitragliatrici, e sempre più nel procedere verso la striscia di Gaza si moltiplicano i segni di rovina e lutto, pur nella prorompente vitalità dei “nugoli di bambini dagli occhi neri”49, al punto che il percorso in direzione dei villaggi di Khan Yunus
45 Quei parabolizzati che sognano l’Italia, in “Corriere della sera”, 20 giugno 1991; Orgogliosa Algeri tra mitra e coltello, cit. Si veda anche la prefazione al libro di poesie di Mokthar Sakhri (Poesie, Libro italiano, Ragusa 2000). L’esperienza giornalistica ritorna nel romanzo Lo Spasimo di Palermo (pp. 903-905): Chino Martinez nel giardino della moschea di Parigi ripensa allo sciopero di Algeri, al mitra e al Corano degli integralisti. Sui fondamentalismi nel Mediterraneo si veda anche l’intervista con A. Prete, Il Mediterraneo oggi: un’intervista, cit., pp. 65-66. Sul fondamentalismo di matrice islamica e in particolare sull’attacco alle torri gemelle, Consolo si esprime manifestando un’accesa critica nei confronti di Oriana Fallaci, evidenziando da una parte che non serve reagire con la violenza e che molti sono i vantaggi dell’incrocio tra culture, come insegna la storia siciliana (l’intervista a cura di G. Caldiron, Lo scrittore siciliano Vincenzo Consolo risponde a Oriana Fallaci “Parole che conducono alla violenza”, in “Liberazione”, 2 ottobre 2001). 46 Ma questa è Sarajevo o Assisi, cit. 47 Sempre a proposito della guerra in Jugoslavia il riferimento all’opera di Goya compare in La morte infinita, in “Il Messaggero”, 6 febbraio 1994. 48 Madre Coraggio, in La mia isola è Las Vegas, pp. 195-200. 49 Ivi, p. 197.
e Rafah pare “una discesa nei gironi infernali”50. L’immagine più forte, quasi un simbolo, è però quella della resistenza eroica di una madre: ad aprire e chiudere il resoconto del viaggio è la figura della donna di Ramallah51, “imponente, dalla faccia indurita”, che vende nepitella raccolta nei luoghi selvatici e che di certo abita nel campo profughi, forse ha figli che combattono.
1.3 Mediterraneo come spazio di migrazioni
Nella rappresentazione offerta da Consolo l’immagine del Mediterraneo come spazio di migrazioni appare fondamentale e questo, oltre che per una chiara consapevolezza storica, per un’attenta lettura della contemporaneità. Divenuto, nei fatti, confine, limite, addirittura cimitero a causa della grande quantità di morti rimasti imprigionati nelle “carrette”, il mare potrebbe essere, invece, occasione di arricchimento in virtù dello scambio tra popoli. È un’immagine ideale, eppure realizzabile, quella che Consolo propone, insistendo su una storia di civiltà, quella siciliana in particolare, che ha la radice della sua grandezza proprio nell’incontro tra le differenze: ora che l’isola è divenuta luogo di approdo dei migranti che provano a sfuggire alla guerra, alla persecuzione o alla povertà, non si deve dimenticare che il progresso, quello vero, è sempre figlio dell’arricchimento che proviene dall’alterità. Lo dimostrano gli straordinari effetti della dominazione araba in Sicilia, a cui Consolo riconosce, sulla base di un ricco corredo di fonti e seguendo l’opinione di Sciascia, addirittura un valore fondante in termini di identità: i tratti tipici della sicilianità, ovvero lingua, letteratura, arte, agricoltura, cucina e persino fisionomia, risentono tutti del passato arabo52. Non
50 Ivi, p. 199. 51 Ivi, p. 195 e 200. 52 Estremamente rappresentativa appare a proposito la sezione Sicilia e oltre in Di qua dal faro e, in particolare, il saggio introduttivo, La Sicilia e la cultura araba. Il saggio si apre con alcune considerazioni sul legame tra la poesia della scuola siciliana e le qaside dei siculo-arabi, ancora attivi nell’isola sotto i Normanni (La Sicilia e la cultura araba, in Di qua dal faro, pp. 1187- 1192, a p. 1187) e riflette poi su diversi aspetti dell’influenza araba, ad esempio sulla rinascita economica e sullo spirito di tolleranza (p. 1189). Significativi nel testo i rimandi a Sciascia (in particolare alle pp. 1188-1189). Ricordo che il rapporto tra Sciascia e il mondo arabo costituisce un ambito ricco di spunti suggestivi. Significativa è la conclusione del saggio di apertura de La corda
a caso l’insistenza sulla presenza degli Arabi nell’isola si traduce nella frequente celebrazione delle innovazioni in ambito agricolo, tecnico, delle trasformazioni in ambito artistico-culturale. Di “rinascimento” parla Consolo, non perdendo occasione per evidenziare i lasciti, le tracce ancora vive nella contemporaneità siciliana. La lussureggiante Palermo, ad esempio, non avrebbe chiese-moschee, castelli, palazzi e giardini seducenti, non avrebbe aranceti se non ci fossero stati gli Arabi. Lo spazio insomma risulta segnato profondamente da questa “migrazione”. Sorprendenti riescono ad essere poi – afferma Consolo – gli incroci della storia, e Mazara, che ridiventa araba nel Novecento per il massiccio arrivo dei tunisini, aveva già nel momento del primo approdo dell’827 l’Africa nel suo nome, Mazar, traccia dell’antica presenza cartaginese. Come a dire che è sempre stato normale per i popoli spostarsi, il mare non è di nessuno, non può essere veramente limite, e la terra non reca un marchio di possesso ma molti strati di identità che il tempo e i popoli plasmano, partendo, arrivando. Se innumerevoli sono le eredità, anche visibili, tangibili, sebbene a rischio, del passato arabo, scomparsa del tutto risulta per Consolo la scelta della tolleranza e della convivenza tra culture, confermata anche dai normanni che non vollero eliminare la civiltà che li aveva preceduti, ma la integrarono e la valorizzarono. Perciò l’immagine del Mediterraneo come spazio di equilibrio e coesistenza tra le alterità non è solo parentesi del passato ma anche un’aspirazione, un esempio positivo da opporre a quanti insistono sui rischi dello scontro tra culture53.
Che l’arrivo di nuovi popoli produca progresso è poi testimoniato per l’autore anche da migrazioni più antiche come dimostra pazza (1970), Sicilia e sicilitudine, in cui l’autore traccia un collegamento ideale tra Salvatore Quasimodo e un poeta arabo di otto secoli precedente, Ibn Hamdis, siciliano di Noto, accomunati dai toni con cui hanno fatto poesia della pena profonda dell’esilio (L. Sciascia, Sicilia e sicilitudine, in Id. La corda pazza, cit., pp. 11-17). Sulla questione particolarmente interessanti risultano anche le osservazioni contenute in uno degli scritti del Canton Ticino, su Tomasi di Lampedusa, apparso su “Libera Stampa” il 27 gennaio 1959, ora raccolto in Troppo poco pazzi (L. Sciascia, Marx Manzoni eccetera e il Gattopardo, in R. Martinoni, a cura di, Leonardo Sciascia nella libera e laica Svizzera, Olschki, Firenze 2011, pp. 102-104 alle pp. 102-103). 53 Nell’ultima intervista Consolo riflette proprio sull’ignoranza di chi solleva lo scontro di civiltà e accosta integralismo e islam (V. Pinello, op. cit.).
l’entusiastica rappresentazione della Sicilia come museo a cielo aperto, che accoglie rovine antiche, città greche, elime, puniche. Ma numerosi sono anche i riferimenti alla nascita delle colonie, a volte molto precisi, con indicazione dell’ecista, del territorio di origine, degli sviluppi della vicenda coloniale54, sulla base dei dati forniti da fonti antiche, come l’opera di Tucidide55, o su testi più recenti che rinviano però alla storiografia greca. E ciò non solo nei testi saggistici: anche le prove narrative offrono una rappresentazione della Sicilia e del Mediterraneo che ne valorizza l’aspetto di crocevia di popoli. Concentrandosi sulle migrazioni dell’antichità, i testi impostano un implicito confronto con gli spostamenti di oggi, riconoscendovi ragioni identiche o simili, ovvero guerra, fame, difficoltà economiche. In particolare, ne L’olivo e l’olivastro56, Consolo si sofferma sull’emigrazione megarese verso la parte orientale dell’isola. La visita ai resti di Megara Hyblaea, oggetto dell’amorevole culto del giovane Salvo e dei suoi, mentre è in corso l’assedio della cannibalica civiltà industriale del polo siracusano, suscita un’entusiastica rievocazione dell’opera dell’ecista Lamis, dell’idea di uguaglianza e progresso dei coloni, della fertilità e della geometria nella suddivisione del terreno in lotti57. All’enfasi sulla fondazione Consolo
54 Ad esempio, Che non consumi tu tempo vorace, cit., p. 12; I muri d’Europa, in L. Restuccia, G.S. Santangelo, Scritture delle migrazioni: passaggi e ospitalità, Palumbo, Palermo 2008, p. 25. 55 L’archaiologhia siceliota del VI libro si apre con una sintesi storica a proposito dei più antichi popoli locali, a partire dai misteriosi Lestrigoni e Ciclopi, cui segue un quadro preciso delle migrazioni dalla Grecia e delle successive fondazioni. Consolo rinvia a Tucidide per la fondazione di Messina, l’antica Zancle (Vedute dallo stretto di Messina, in Di qua dal faro, p. 1045) e infatti il dato è rintracciabile in Tuc. VI 4,5. Ricava probabilmente dallo storico greco anche il dato relativo alla fondazione di Siracusa da parte dell’ecista Archia (Tuc. VI 3), ricordato in La dimora degli Dei (cit., p. 14). Oltre alla fonte tucididea si può riconoscere anche quella di Diodoro Siculo, esplicitata per la colonizzazione greca delle Eolie (Isole dolci del dio, cit., p. 21). 56 L’olivo e l’olivastro, p. 783. 57 Tucidide parla dell’arrivo dei Megaresi (Tuc. VI 4, 1-2) ma non riporta quest’ultimo dato della lottizzazione, che invece si ricava dai rilievi archeologici. A proposito si veda H. Tréziny, De Mégare Hyblaea à Sélinonte, de Syracuse à Camarine: le paysage urbain des colonies et de leurs sous-colonies, in M. Lombardo, F. Frisone (a cura di), Atti del convegno Colonie di colonie: le fondazioni subcoloniali greche tra colonizzazione e colonialismo, Lecce, 22-24 giugno 2006, Congedo editore, Galatina-Martina Franca, 2009,
aggiunge il plauso per le capacità che i Megaresi, scacciati dai Corinzi di Siracusa, dimostrarono, affrontando l’ignoto della Sicilia occidentale dove fondarono Selinunte. Le sue parole trasfigurano il neutro dato storico di Tucidide (VI 4, 2) attribuendo all’opera dei coloni i tratti di una straordinaria epopea58. I resti della civiltà greca di Megara e Selinunte, dunque, risultano monito contro lo straniamento che viene dalla degenerazione economica e culturale. La coscienza dell’identità trascurata dello spazio e della civiltà che l’ha costruita, originariamente straniera, immigrata, ma secondo le fonti storiche “progredita”, costringe l’attenzione sul rischio della perdita in termini di biodiversità culturale, e l’interesse per gli antichi coloni greci diventa traccia ecocritica. Ha a che fare con la volontà di valorizzare il passato greco dell’isola anche il ricorso al mito. Oltre al viaggio di Ulisse, Consolo ama ricordare la vicenda di Demetra, la madre disperata che, in cerca di sua figlia Kore, vaga per il Mediterraneo59, leggenda molto siciliana, in virtù dei luoghi coinvolti: ad Enna c’era l’antica sede della dea60, e proprio lì si svolse il rapimento di Kore, mentre poco più a
pp. 163-164; M. Gras, H. Tréziny, Mégara Hyblaea: le domande e le risposte, in Alle origini della magna Grecia, Mobilità migrazioni e fondazioni, Atti del cinquantesimo convegno di studi sulla Magna Grecia, Taranto 1-4 ottobre 2010, Stampa Sud, Mottola 2012, pp. 1133-1147. 58 L’olivo e l’olivastro, pp. 783-784, ma anche Retablo, p. 432; La Sicilia passeggiata, pp. 94-95; Malophoros, in Le pietre di Pantalica, p. 578. 59 Più volte Consolo esibisce citazioni dall’Inno a Demetra (nella traduzione di F. Cassola del 1975). In Retablo ad esempio (Retablo, p. 409) i primi due versi (“Demetra dalle belle chiome, dea veneranda, io comincio a cantare, / e con lei la figlia dalle belle caviglie, che Aidoneo / rapì”) sono esempio di suprema poesia per Clerici che sta sperimentando, nell’esperienza sublime dell’accoglienza da parte di Nino Alaimo, tra l’altro dedito al culto di una Grande Madre mediterranea, una sorta di possessione divina. La Sicilia passeggiata (p. 7) si apre con un’epigrafe tratta dall’Inno (Inno a Demetra, vv. 401-403) che pone l’attenzione sull’esito felice della vicenda, ovvero sul momento del ricongiungimento delle dee e sul ritorno della primavera; più avanti nel testo invece (La Sicilia passeggiata, p. 57) leggiamo anche i vv. 305-311 che descrivono l’amarezza di Demetra dopo la perdita della figlia e le conseguenze nefaste per gli uomini. In L’olivo e l’olivastro (p. 843) i versi 40-44 inquadrano i luoghi come scenario del vagabondaggio sofferente di Demetra. 60 La Sicilia passeggiata, p. 58; L’olivo e l’olivastro, p. 822. Al tradizionale luogo del culto di Demetra Consolo si riferisce anche nella prefazione al
Sud, nell’area dello zolfo, la tradizione colloca il regno di Plutone61. La scelta autoriale chiama in causa le dinamiche di rappresentazione del Mediterraneo, ma anche l’identità profonda degli spazi geografici, evidentemente compromessa con il mito. Immaginario collettivo e prospettiva razionalizzante si intrecciano, nell’evidenziare il legame esistente tra Sicilia e Grecia, tra due differenti rive di uno stesso mare. Il culto e il mito, infatti, sarebbero conseguenza della colonizzazione greca62.
Nel mito personale di un mondo antico vivace, fatto di intrecci e incroci alla presenza greca si aggiunge quella cartaginese o quella elima. La vicenda di quest’ultimo popolo, in bilico tra storia e mito, ha a che fare, già secondo Tucidide (VI 2), con l’arrivo in Sicilia dei Troiani: lo storico riferisce che la migrazione, successiva al crollo di Ilio, ebbe come effetto lo stanziamento in territori prossimi a quelli dei Sicani e tale vicinanza portò alla denominazione unica di Elimi per i due popoli; i centri più importanti di questa nuova civiltà furono Segesta e Erice. Consolo, pur conoscendo sicuramente il dato riportato dallo storico, è più sensibile in questo caso alla fonte poetica virgiliana. In La Sicilia passeggiata, ad esempio, il mistero sull’origine di Segesta – o Egesta – richiama i versi 755-758 del V libro dell’Eneide che proprio alla ktisis fanno riferimento63. La quale ktisis si conclude con la fondazione del tempio della dea Venere sulla vetta del monte Erice, com’è ricordato dai vv. 759-760 del V libro virgiliano che Consolo sceglie di citare in La Sicilia passeggiata (“Poi vicino alle stelle, in vetta all’Erice, fondano / un tempio a Venere Idalia”)64, quasi invitando a seguire nell’area occiden
volume di F. Fontana dedicato a Morgantina (V. Consolo, Che non consumi tu tempo vorace, cit., p. 11-13) 61 Consolo ricorda questa associazione tra mito e luogo geografico in La Sicilia passeggiata, p. 62; Uomini e paesi dello zolfo, in Di qua dal faro, p. 985. 62 Molti gli studi sulla questione che evidenziano la difficoltà di definire la reale provenienza del culto di Demetra e Kore. Si veda ad esempio P. Anello, Sicilia terra amata dalle dee, in T. Alfieri Tonini (a cura di), Mythoi siciliani in Diodoro, Atti del seminario di studi, Università degli studi di Milano, 12-13 febbraio 2007 = in “Aristonothos, scritti per il mediterraneo antico”, 2, 2008, pp. 9-24. 63 La Sicilia passeggiata, p. 106. 64 Ivi, p. 108. Consolo precisa il dato poetico aggiungendo che in realtà il tempio è antecedente all’arrivo dei Troiani: parla infatti di un sacello sicano, elimo o fenicio già dedicato al culto della dea dell’amore. Si fa riferimento al tempio anche in Retablo (Retablo, p. 458) e in L’olivo e l’olivastro (L’olivo e l’olivastro, p. 860), dove ritroviamo la citazione dei versi dell’Eneide. In L’olivo e l’olivastro sono ricordati “il bosco e la spiaggia del funerale,
tale dell’isola le orme del passaggio di Enea, sulla base delle indicazioni fornite dall’Eneide: un cammino attento potrebbe permettere di scoprire non solo l’area sacra ericina ma anche il bosco consacrato ad Anchise, la spiaggia dei sacrifici e delle gare65. La scelta di citare proprio i versi del rito di fondazione è interessante perché evidenzia la fusione tra popolazione straniera migrante, i Troiani, e popolazione locale, gli Elimi66. Da tutto ciò risulta evidente per Consolo che gli incontri, gli scambi tra popoli di culture diverse sono stati da sempre causa del cammino della civiltà, e che la chiusura, il rifiuto dell’ignoto che arriva da fuori, è perdita, regressione67. Perciò, egli, servendosi di una frase di Zanzotto, “Ci troviamo oggi tra un mare di catarro e un mare di sperma”, descrive il vecchio continente come perennemente arroccato nelle sue posizioni. “Vecchia” davvero è l’Europa, vecchia l’Italia, non solo per l’età media della popolazione, ma per una cecità di fronte all’arrivo delle masse disperate dei profughi che non riconosce la ricchezza dell’accoglienza e addirittura produce morboso attaccamento ai privilegi, difesi con pericolosi atteggiamenti xenofobi68. All’imperativo dell’accoglienza umanitaria, a cui implicitamente alludono nell’articolo Gli ultimi disperati del canale di Sicilia le immagini tremende del mare-cimitero (“bare di
delle gare in onore d’Anchise” (Ivi, p. 861), menzionati anche in Lo spazio in letteratura (Di qua dal faro, p. 1241). Al mito dell’arrivo dei Troiani in Sicilia si riferisce anche in Retablo l’onomastica relativa al fiume “Criniso o Scamandro” (p. 415). 65 Virgilio narra che Enea, fermatosi presso Drepano – l’attuale Trapani – dopo la parentesi di Cartagine, viene ospitato da Aceste e, con lui e i suoi, celebra gli onori funebri in onore di Anchise, lì seppellito un anno prima. Alla ospitalità già ricevuta da parte di Aceste si riferisce Aen. I 195. La morte di Anchise invece è accennata in Aen. III 707-710. Gli onori funebri in suo onore e i giochi successivi sono al centro del V libro (vv 42-103 e 104-603). 66 Dopo che le donne, istigate da Giunone, hanno dato fuoco alle navi (Aen. V 604-699), l’eroe, ispirato dalla visione di suo padre, decide di fondare una nuova città che sarà abitata da una parte del suo seguito e dai troiani dell’isola. Aceste e i suoi, infatti, che sono già in Sicilia (Aen. V 30 e 35-41) appartengono ad un’antica stirpe troiana. 67 Quando i Lombardi emigrarono in Sicilia, in “Corriere della Sera”, 4 maggio 1991. 68 Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, in “La Repubblica”, 18 settembre 2007. La frase di Zanzotto è ripresa da A. Zanzotto, In questo progresso scorsoio. Conversazione con M. Breda, cit., pp. 68-69. Il poeta la usa per commentare la situazione dell’Italia, sospesa tra “un’Europa invecchiante e le esplosioni demografiche vicine”.
ferro nei fondali del mare”) e dell’orrenda pesca dei morti (“i corpi degli annegati nelle reti dei pescatori siciliani”), si accompagna nella prospettiva autoriale l’invito ad una valutazione delle possibilità economiche e culturali che derivano dai flussi di migranti69. Estremamente significativo nel dibattito risulta per Consolo il caso della doppia migrazione da e verso il Maghreb. C’è stato un tempo lontano in cui il braccio di mare tra la Sicilia e le coste africane non era “frontiera, barriera fra due mondi, ma una via di comunicazione e di scambio”70, un tempo in cui era normale per i lavoratori di Sicilia, di Calabria o di Sardegna cercare fortuna nelle terre degli “infedeli”. Tale familiarità tra i due mondi è stata confermata dall’emigrazione ottocentesca, intellettuale e borghese prima, poi anche di braccianti dell’Italia meridionale, verso le coste nordafricane71. Si tratta di un fenomeno che sta molto a cuore a Consolo72. Non a caso egli lo accoglie nella narrazione di Nottetempo, casa per casa.
69 Negli stimoli offerti dall’emigrazione contemporanea Consolo scorge una possibilità di rinascita anche letteraria: così nell’intervista con A. Bartalucci (A. Bartalucci, op. cit., pp. 201-204, a p. 204). 70 Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, p. 1193. Consolo si è soffermato prima sulla seconda novella della quinta giornata del Decameron di Boccaccio che propone il tranquillo soggiorno di pescatori cristiani, trapanesi, nella musulmana Tunisia. Ma si veda anche in Retablo l’incontro di Clerici, accompagnato dal fido Isidoro e dal brigante, con Spelacchiata e i suoi compagni barbareschi, che si traduce in uno scambio di cerimonie (Retablo, pp. 438-440). L’episodio tiene conto dell’affinità culturale e della consuetudine dei rapporti tra paesi mediterranei. A proposito del valore della “rotta per Cartagine”, ovvero dell’attenzione consoliana per le relazioni storiche di contiguità e vicinanza tra Sicilia e Nord Africa, P. Montefoschi, Vincenzo Consolo: ritorno a Cartagine, in Id., Il mare al di là delle colline. Il viaggio nel Novecento letterario italiano, Carocci, Roma 2012, pp. 54-60; specificamente sull’episodio di Spelacchiata in Retablo, p. 55. 71 A proposito dell’emigrazione italiana in Tunisia si veda lo studio di F. Blandi: F. Blandi Appuntamento a La Goulette, Navarra Editore, Palermo 2012. 72 Del fenomeno Consolo fornisce dati precisi in diverse occasioni. Si veda in particolare Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, pp. 1195-1196; Il Mediterraneo tra illusione e realtà, integrazione e conflitto nella storia e in letteratura, in G. Interlandi (a cura di), La salute mentale nelle terre di mezzo. Per costruire insieme politiche di inclusione nel Mediterraneo, Atti del Convegno di Psichiatria Democratica, Caltagirone, 12-13 marzo 2009, numero monografico di “Fogli di informazione”, terza serie, 13-14, gennaio-giugno 2010, pp. 5-7.
La fuga di Petro, nuovo Enea73, si inserisce proprio nel contesto storico della migrazione verso l’Africa settentrionale. La sua vicenda non è eccezionale, se non forse per le motivazioni, ma rientra nella normalità di un flusso migratorio consolidato74. La stessa presenza del personaggio storico di Paolo Schicchi, con cui Petro ha un breve colloquio sulla nave, obbedisce alla storicità del fenomeno. L’anarchico siciliano, infatti, non fu il solo a cercare rifugio in Tunisia per ragioni politiche: esisteva sulla sponda sud del Mediterraneo una nutrita comunità di antifascisti e addirittura una vera e propria comunità anarchica siciliana a Tunisi75.
Il romanzo si chiude proprio con l’arrivo dall’altra parte del mare: i colori, le architetture, la vegetazione e gli uccelli sanciscono l’approdo ad un nuovo inizio, proprio come accadeva a coloro che emigravano in Tunisia76. Il nuovo spazio su cui si affaccia la nave si carica di attese, di possibilità, innesca un confronto con il passato, con la terra abbandonata, accende speranze, suscita decisioni. Petro lascia significativamente cadere in mare il libro che l’anarchico Schicchi gli ha consegnato durante il viaggio, a sancire il suo rifiuto per ogni forma di violenza, la sua volontà di essere “solo come un emigrante, in cerca di lavoro, casa, di rispetto”77.
La prospettiva di chi guarda e vive il passaggio ad un nuovo spazio definisce e ridefinisce i contorni della realtà, quella che ha lasciato e quella a cui va incontro. La Tunisia non è per Petro un luogo neutro e nemmeno lo è la Sicilia. Allo stesso modo la terra di partenza e la Milano dell’arrivo vengono ridiscusse nell’esperienza
73 Non a caso il capitolo finale reca l’epigrafe virgiliana Longa tibi exilia et vastum maris aequor arandum (Aen. II 780) che permette di associare la Sicilia in preda all’alba fascista ad una Ilio in rovina e Petro in fuga all’eroe costretto a cercare una nuova terra. 74 Nottetempo, casa per casa, p. 752. Nell’intervista con Gambaro (F. Gambaro, V. Consolo, op. cit., p. 102) Consolo evidenzia l’importanza degli scambi tra le due rive del Mediterraneo, proprio a partire della vicenda degli italiani emigrati, perché essi permettono un arricchimento culturale e letterario. 75 Nottetempo, casa per casa, pp. 753-754. A proposito della comunità italiana in Tunisia si veda lo studio di Marinette Pendola (Gli italiani di Tunisia. Storia di una comunità (XIX-XX secolo), Ed. Umbra, “I Quaderni del Museo dell’emigrazione”, Foligno, 2007), curatrice anche del sito www.italianiditunisia.com, denso di informazioni storiche. 76 Nottetempo, casa per casa, p. 755. 77 Ibidem.
di migrazione che conduce i meridionali, negli anni del miracolo economico, alla volta del Nord. Come accade, d’altronde, allo stesso Consolo che, sebbene non si muova per fame ma per realizzazione intellettuale, sperimenta il passaggio, vive una ridefinizione dei luoghi. L’insistenza dell’autore sulla presenza significativa degli italiani in Maghreb e sugli innumerevoli scambi avvenuti tra l’una e l’altra riva del mare fin dal Medioevo va considerata in relazione al suo interesse per quell’emigrazione africana in Italia che ha avuto origine negli anni Sessanta e che non si è più arrestata. Le riflessioni a tal proposito sono estremamente lucide e inquadrano precocemente la questione. I primi lavoratori tunisini, forniti del semplice passaporto con il visto turistico e sprovvisti di quell’autorizzazione che permetteva un regolare contratto di lavoro, giungevano in Sicilia nel 1968. La presenza di questi primi immigrati, costretti a ritornare in patria alla scadenza del visto turistico, rispondeva alla domanda di lavoro a buon mercato da parte di proprietari terrieri e di armatori, per i quali reclutare questa manodopera e sfruttarne la condizione abusiva era senza dubbio un vantaggio. Ai primi immigrati si aggiunsero allora parenti e amici e il fenomeno si allargò78. “L’emigrazione in Italia dei poveri del Terzo Mondo”79 ha inizio a Mazara, proprio lì dove il 17 giugno 827 – ricorda Consolo citando Amari – sbarcavano i musulmani, città splendida e prestigiosa secondo il geografo Idrisi80. A distanza di secoli, scomparsa la bellezza del passato, dopo che miseria e crollo avevano generato quell’altra migrazione, “di pescatori, muratori, artigiani, contadini di là dal mare, a La Goulette di Tunisi, nelle campagne di Soliman, di Sousse, di Biserta”81, il miracolo economico degli anni Sessanta attivava di nuovo la rotta dal Nord Africa82.
78 Sul fenomeno si veda A. Cusumano, Il ritorno infelice, Sellerio, Palermo 1978. Consolo lo cita in diverse occasioni, ad esempio, Il ponte sul canale di Sicilia, Di qua dal faro, p. 1197. 79 L’olivo e l’olivastro, p. 865. 80 Ivi, p. 864. 81 Ivi, p. 865. 82 Ibidem. Si veda anche Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, pp. 1197-1198. Molti gli articoli sul caso di Mazara, ad esempio I guasti del miracolo, cit.; Morte per acqua, cit; “Ci hanno dato la civiltà”, cit. Ancora precedente l’articolo uscito su “Sans frontières” nel 1980 che si sofferma sulla storia di Mazara prima di concentrarsi sulla quarta guerra punica o guerra
L’inversione di rotta, di cui Consolo evidenzia la specularità rispetto a quella italiana, va a riempire i vuoti lasciati dall’altro flusso migratorio, quello dei meridionali verso il Nord, e, anche se il caso di Mazara ha una sua indiscussa esemplarità, il fenomeno, come si è detto, già all’origine riguarda un po’ tutto il trapanese: una terra che ha più di un tratto in comune con la regione di partenza83. Ma mentre, accennando alla somiglianza geografica e culturale delle due rive del Mediterraneo, riporta l’attenzione sulla vicinanza tra i popoli e sui risvolti positivi dello scambio del passato, Consolo lascia emergere la stortura del presente e individua in questa nuova migrazione l’inizio di una lunga serie di episodi di xenofobia e persecuzione84. Gli immigrati maghrebini, infatti, a Mazara in maniera significativa, ma anche altrove, divennero presto oggetto di sfruttamento, divennero strumento di speculazione politica, furono vittime di razzismo, caccia, di rimpatrio coatto. Nel 1999, in Di qua dal faro Consolo già lamenta l’assenza di previsioni, progettazioni, di accordi tra governi85. La vicenda dei tunisini del trapanese e quella di tutti coloro che hanno attraversato e attraversano le acque del Mediterraneo – ma in alcune pagine il discorso si estende al mondo intero – alla ricerca di una nuova vita sono parte di un’unica drammatica storia scandita dalle tragedie quotidiane di corpi senza vita86.
del pesce i cui protagonisti erano proprio i tunisini immigrati della casbah: Quatrième guerre punique, in “Sans frontières”, 30 settembre 1980. 83 Alla somiglianza tra Italia meridionale e Nord Africa Consolo fa riferimento in“Ci hanno dato la civiltà”, cit.. Sulla questione anche un articolo del 1981, Immigration africaine en Italie (“Sans frontières”, 3 gennaio 1981): l’Italia è la prima tappa dei migranti per necessità geografiche ma anche perché è una terra non veramente straniera. 84 L’olivo e l’olivastro, p. 865; Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, p. 1197. Nel precedente I guasti del miracolo (cit.) Consolo rileva lo scandalo del dopo terremoto di Mazara (7 giugno 1981): ai tunisini vengono negate le tende, perché stranieri e perché non votanti e quindi ininfluenti nelle imminenti elezioni regionali. 85 Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, pp. 1197-1198. 86 Uomini sotto il sole, in Di qua dal faro, p. 1202. In particolare l’espressione “d’altri, scoperti, gettati in pasto ai pescecani” allude ad un episodio specifico, già tema del racconto Memoriale di Basilio Archita (Le pietre di Pantalica, pp. 639-646): nel maggio 1984, l’equipaggio della nave Garyfallia, che al comando di Antonis Plytzanopoulos era salpata dal porto di Mombasa da poche ore, si rese colpevole della morte, in mare aperto, proprio in pasto ai
L’ombra del mito antico si affaccia a rappresentare il destino dei migranti: essi ripetono l’esilio di Ulisse, ma soprattutto sono Enea in fuga da una terra in fiamme, oppure sono Troiane, fatte schiave e costrette ad allontanarsi dalla propria patria87.
La condizione degli esseri umani nel mare nostrum sembra così trovare una sintesi nella citazione da Braudel – “in tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato”88–, originariamente riferita all’età di Filippo II. Ma ancor di più i versi eliotiani di Morte per acqua, che ritornano con frequenza sorprendente nei testi giornalistici e nelle prove narrative, riescono a parlare della realtà contemporanea. Già in Retablo l’episodio in cui la statua dell’efebo di Mozia si perde nel mare suscita la riflessione su un’altra perdita, che è ben più grave, quella delle vite umane che in ogni tempo si sono spente e si spengono nell’acqua, “sciolte nelle ossa” come Phlebas il fenicio89. In L’olivo e l’olivastro la citazione si lega esplicitamente alla memoria di un fatto di cronaca: nel 1981 il giovane Bugawi, vittima del naufragio del Ben Hur di Mazara, rimane in fondo al mare e “una corrente sottomarina / gli spolpò le
pescecani, di un gruppo di clandestini. I migranti non vengono sacrificati solo nel Mediterraneo: la vicenda, infatti, come ricorda anche la voce narrante del racconto, il siciliano Basilio Archita, si svolge al largo delle coste del Kenia. I responsabili sono un “manipolo di orribili greci, dai denti guasti e le braccia troppo corte, mostri assetati di sangue e di violenza” (S. Giovanardi, Imbroglio siciliano, in “La Repubblica”, 2 novembre 1988; Id., Le pietre di Pantalica, in S. Zappulla Muscarà, Narratori siciliani del secondo dopoguerra, cit., pp. 179-182), insomma non hanno niente a che fare con i valori dell’antica Grecia. E anche la citazione di Kavafis, in bocca ad uno di loro, stride nel confronto con il terribile delitto. 87 Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, cit., o in I muri d’Europa, cit., p. 25. Entrambi i testi si aprono con citazione dalle Troiane di Euripide (vv. 45-47) e dall’Eneide di Virgilio (II 707-710). 88 Ad esempio a conclusione di Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, p. 1198; Il mare, in La mia isola è Las Vegas, p. 222; Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, cit.; I muri d’Europa, cit., p. 30; nel discorso al convegno per Psichiatria democratica, Il Mediterraneo tra illusione e realtà, integrazione e conflitto nella storia e in letteratura, cit. La citazione è tratta da F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II (F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, cit., pp. 981-982). 89 Retablo, p. 453.
ossa in sussurri”90. Ma anche i naufraghi di Scoglitti91 sono Phlebas il fenicio, e lo sono tutti i morti del Mediterraneo, tutti quelli che le carrette stracariche e le responsabilità umane hanno lasciato affogare92. Dal 2002 in poi Consolo interviene in maniera decisa e con la consueta indignazione sull’intensificarsi del fenomeno migratorio e sulle responsabilità della politica. Già un testo del ‘90 evidenzia l’ampliamento smisurato del braccio di mare tra Sicilia e Nord Africa, ovvero, la distanza economica creatasi tra i due mondi93. Ancora di più gli articoli successivi, suscitati in particolare dalla legge Bossi Fini, si concentrano sul contrasto evidentissimo, soprattutto a Lampedusa e nelle altre Pelasgie, tra l’opulenza del turismo nella natura incontaminata e la disperazione dell’approdo dei migranti94. Il procedimento antifrastico con cui Consolo si finge sostenitore delle ragioni dei ricchi vacanzieri contro gli sbarchi invadenti degli stranieri evidenzia lo stridere dei due mondi: “Ma lì, a Lampedusa, inopinatamente vi giungono anche, mannaggia, gli emigranti clandestini”95. Così la bella Lampedusa diventa nuovamente scenario di guerra contro l’infedele, come nel poema ariostesco. Se la Lipadusa del Furioso, “piena d’umil mortelle e di ginepri / ioconda solitudi
90 L’episodio è rievocato, con citazione da Eliot, in L’olivo e l’olivastro, pp. 865-866. Nel giugno del 1981 appena dopo il terremoto che aveva colpito Mazara, gli armatori ebbero fretta di rimandare in acqua le navi. Nel naufragio del Ben Hur morirono cinque mazaresi e due tunisini. L’identità di questi rimase ignota per diversi giorni: un indizio della condizione di sfruttamento e illegalità in cui lavoravano gli stranieri. Sullo stesso episodio, sempre con riferimento a Phlebas il fenicio, si veda il già citato Morte per acqua, cit., o “Ci hanno dato la civiltà”, cit. 91 Dedicato ai morti per acqua, in “L’Unità”, 29 settembre 2002. La citazione dei versi di Eliot chiude l’articolo e, che mi risulti, è l’unico caso in cui il passo è riportato per intero. Consolo si riferisce a quanto avvenuto il 24 settembre 2002: uno scafista abbandona a 300 metri dalla spiaggia di Scoglitti il suo carico di migranti; le onde impediscono l’approdo, muoiono 14 persone. 92 Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, cit., o in I muri d’Europa, cit., p. 29. Meno esplicito il riferimento a Eliot in Immigrati avanzi del mare, in “L’Unità”, 18 giugno 2003, dove è l’aggettivo “spolpato” (“qualche corpo gonfio o spolpato finisce nelle reti dei pescatori”) che allude a Phlebas il fenicio. 93 Cronache di poveri venditori di strada, cit. 94 Il mondo di Bossi Fini stupido e spietato, in “L’Unità”, 29 agosto 2002. 95 Ibidem.
ne e remota / a cervi, a daini, a caprioli, a lepri”96, ospita il triplice duello di Orlando, Brandimarte e Oliviero contro i saracini Gradasso, Agramante e Sobrino, nel Duemila l’isola, divenuta da “remoto scoglio”, “meta ambitissima del turismo esclusivo”, è luogo d’approdo di pescherecci e gommoni che rovesciano il loro carico di clandestini: “i nuovi turchi, i nuovi invasori saracini”97. E – ancora è dominante l’antifrasi –, se non ci sono gli antichi paladini a combatterli e neppure le navi militari auspicate da Bossi, c’è però il mare “quel fascinoso mare azzurro e trasparente che d’improvviso s’infuria e travolge ogni gommone o peschereccio”98. Tanto più assurde si rivelano le leggi per gestire gli arrivi e, se già prima della Bossi Fini, Consolo lamentava la violazione sistematica dei diritti dell’uomo, dopo il 2002 è ancora più duro. Bersaglio polemico sono le nuove normative, più rigide di quelle previste dalla legge Martelli o dalla Turco-Napolitano: le nuove disposizioni prevedono che le carrette siano bloccate in acque extraterritoriali, “forse anche speronate e affondate. Con tutto il loro carico umano”99. Bersaglio polemico sono i centri di prima accoglienza che – scrive – non meriterebbero questo nome, perché piuttosto di lager si tratta, luoghi atroci, di violenza e umiliazione100. Bersaglio polemico è la diffusione di sentimenti xenofobi, suscitati dalla politica nella mentalità comune, ben rappresentata dall’io narrante del racconto eponimo di La mia isola è Las Vegas che invoca la costruzione di muri d’acciaio per arrestare la marea dei migranti101. In quest’ottica di critica alla nuova legge e all’inadempienza del dovere morale verso i migranti va letta la netta opposizione di Consolo al progetto di un museo della migrazione a Lampedusa, promosso nel 2004 dalla deputata regionale dell’Udc Giusy Savarino. A lei l’autore si rivolge pubblicamente dalle pagine di “La
96 Ariosto, Orlando Furioso, XL 45 vv. 3-4. Il passo è ricordato da Consolo in Lampedusa è l’ora delle iene, “L’Unità”, 28 giugno 2003. Ma si veda anche Isole dolci del dio, cit., pp. 33-35. 97 Lampedusa è l’ora delle iene, cit. 98 Ibidem. 99 Il mondo di Bossi Fini stupido e spietato, cit. 100 Ibidem ma anche Immigrati avanzi del mare, cit. 101 La mia isola è Las Vegas, in La mia isola è Las Vegas, p. 217.
Repubblica”, accusando l’ipocrisia profonda di una tale iniziativa102 e riflettendo su quanto sia irrimediabilmente compromessa l’identità dello spazio mediterraneo. Che cosa rimane del mare di miti e storia? Che cosa della mirabile convivenza tra culture diverse? Il monito dei reperti archeologici, delle narrazioni risulta poca cosa di fronte al mutamento dello sguardo collettivo sancito da leggi xenofobe e lager mascherati da centri di accoglienza: il mare si è fatto frontiera, confine, che gli altri, gli stranieri, non devono superare. Ed è contemporaneamente cimitero, spazio del sacrificio, della tragedia. Perciò il progetto di un museo a Lampedusa, l’isoletta dell’ariostesca lotta contro l’infedele, è, per Consolo, strumento di una retorica ipocrita, che non è giusto appoggiare: che senso avrebbe un monumento all’emigrazione, quando proprio i migranti vengono combattuti, respinti, lasciati morire in mare? Ma, d’altra parte, è il mondo intero ad aver subito una metamorfosi: si è mutato agli occhi dell’autore in un “im-mondo”, ovvero negazione di se stesso, perché preda della follia. La ripetizione dell’aggettivo “nostro”, associato sia allo spazio stravolto che alla massa di cadaveri, assume, nel testo in versi Frammento, toni accusatori, richiamando gli esseri umani alle proprie responsabilità nei confronti della morte di innocenti.
Nostri questi morti dissolti
nelle fiamme celesti,
questi morti sepolti
sotto tumuli infernali,
nostre le carovane d’innocenti
sopra tell di ceneri e di pianti.
Nostro questo mondo di follia.
Quest’im-mondo che s’avvia…103
102 Solo un monumento per gli immigrati, in “La Repubblica”, 21 agosto 2004. Sulla questione Consolo si era già espresso qualche giorno prima: Perché non voglio quel museo, in “La Repubblica”, 19 agosto 2004. 103 Frammento, in Per una Carta “visiva” dei Diritti civili, Viennepierre, Milano 2001, anche in “Microprovincia”, 48, gennaio-dicembre 2010, p. 5.
Tag: Bompiani Editore
Vincenzo Consolo e Andrea Zanzotto: un «archeologo della lingua» e un «botanico di grammatiche»
Laura Toppan.
Nella conversazione Le Pietre di Pantalica – uscita sul Corriere della Sera del 13 febbraio 1989 –, Consolo risponde che la sua «consonanza con Zanzotto è evidente». Una consonanza stilistico-formale, con la sola differenza che il poeta di Pieve di Soligo l’ha declinata in poesia e Consolo in prosa. Zanzotto è un poeta che egli ha «moltissimo amato e letto» e va da sé che la stima profonda fosse reciproca, a giudicare anche, come vedremo, dal tono della recensione di Zanzotto e dall’omaggio esplicito di Consolo allo stesso poeta ne Lo Spasimo di Palermo (1998). I due autori si sono frequentati poco, ma ‘studiati’ da lontano, con un’attenzione costante al lavoro dell’altro. Due autori profondamente diversi, ma animati entrambi dalla volontà di resistere alla mercificazione e alla corruzione del linguaggio e di tentare l’ardua impresa di restituire una dignità alla lingua letteraria attraverso la tradizione, rinnovandola e, in un certo senso, ‘stravolgendola’ anche, quella tradizione che il Gruppo ’63 cercava in qualche modo di ‘azzerare’ e da cui sia Consolo che Zanzotto si sentivano lontanissimi, seppur ne fossero incuriositi, e con cui si dovettero comunque misurare.
2Dal confronto / scontro con i “Novissimi” si sono quindi ‘sprigionati’ due percorsi molto originali, in linea più con il Pasolini (2000: 5-24) delle Nuove questioni linguistiche del ’64, che con i Neoavanguardisti del ’63. Nel suo saggio Pasolini non si proponeva di definire un modello ideale di lingua nazionale, ma si concentrava piuttosto su un’analisi socio-linguistica del contesto italiano del dopoguerra e in particolare degli anni del boom economico. Egli vedeva nell’italiano della nuova civiltà industriale delle trasformazioni portate dall’arrivo del lessico tecnico, tipico del settore industriale. In effetti, mentre dal dopoguerra sino agli anni Sessanta aveva prevalso piuttosto l’asse delle parlate Roma-Napoli, a partire dagli anni Sessanta in poi prevarrà soprattutto quello dell’asse Milano-Torino, polo industriale attrattivo per tutta una massa di persone provenienti dall’Est e dal Nord del paese. Pasolini registrava quindi la cessazione, per l’italiano, dell’osmosi con il latino e intuiva che la guida della lingua non sarebbe più stata la letteratura, ma la tecnica, che il fine della lingua sarebbe ora rientrato nel ciclo produzione-consumo. Contro queste trasformazioni Pasolini cerca di resistere, e così fanno Consolo e Zanzotto che, attentissimi ai mutamenti del cosiddetto italiano ‘standard’, si costruiscono un percorso tutto personale in materia di sperimentazione linguistica, di lingua poetica, diverso comunque anche dall’operazione dello stesso Pasolini. Lo scrittore siciliano infatti scriverà:
La mia sperimentazione […] non andava verso la verghiana irradiazione dialettale del codice toscano né verso la digressione dialettale di Pasolini o la degradazione polifonica di Gadda, ma verso un impasto linguistico o una “plurivocità”, come poi l’avrebbe chiamata Segre (nell’Introduzione a Il Sorriso dell’ignoto marinaio), che mi permetteva di non adottare un codice linguistico imposto (Consolo 1993: 16)
- 2 Cfr. Zanzotto 1999: 1104: «Certo anche un fenomeno come quello da loro rappresentato ha pienezza (…)
Zanzotto, dal canto suo, in un’intervista dal titolo L’italiano siamo noi (otto brevi risposte)2 del ’62 osservava:
Il latino è oggi una faglia che s’apre nel terreno discusso dell’italiano, è più un richiamo agli Inferi (come i dialetti, seppure con diverso significato) che ai Superi. (Zanzotto 1999: 1104)
Il ’62 è anche l’anno della recensione di Zanzotto in cui prende distanza dai Novissimi (Zanzotto 1999: 1105-1113), oltre che della pubblicazione di IX Ecloghe, raccolta in cui la lingua inizia ad aprirsi agli inserti che derivano dal registro scientifico tecnologico (mucillagini, cariocinesi, geyser, anancasma, macromolecola) e che convivono con latinismi, arcaismi, recuperi danteschi e letterari in generale. Il latino, in particolare, interviene spesso a fungere da ‘mediatore’ tra il repertorio tradizionale e la terminologia tecnica (Dal Bianco 2011: XXV).
3Fin dai loro esordi letterari, quindi, sia Consolo che Zanzotto cercano di costruirsi una lingua poetica, una lingua della creazione che attraversi tutta la tradizione letteraria italiana ed europea (ed extra-europea) risalendo verticalmente sino alle origini della/e lingua/e, in un’immersione da cui poi le parole risalgano rigenerate o vengano riscoperte. Consolo spiegherà:
[le parole] le trovo nella mia memoria, nel mio patrimonio linguistico, ma sono frutto anche di mie ricerche, di miei scavi storico-lessicali. Sin dal primo libro sono partito da una estremità linguistica, mi sono collocato, come narrante, in un’isola linguistica, in una colonia lombarda di Sicilia, San Fratello, dove si parla un antico dialetto, il gallo-italico. […] Quelle parole, irreperibili nei vocaboli italiani, hanno però una loro storia, una loro dignità filologica: la loro etimologia la si può trovare nel greco, nell’arabo, nel francese, nello spagnolo…Quei materiali lessicali li utilizzo per una mia organizzazione di suoni oltre che di significati. (Consolo 1993: 54)
- 3 Si veda Consolo 2015: XCIX: «C’era il cognatino di un mio fratello, che era qui [a Milano], all’U (…)
- 4 Intervista a Vincenzo Consolo: R.A.I., serie Scrittori per un anno, http://www.letteratura.rai.it (…)
- 5 Interessanti sono gli scritti di Consolo sulla mafia, che vanno dai primi anni Settanta sino al 2 (…)
4Ma se la sperimentazione linguistica dello scrittore siciliano e del poeta di Pieve di Soligo – ormai due “classici” del secondo Novecento italiano – è un punto forte e comune, il loro percorso di vita è, potremmo dire, all’opposto. Consolo parte dalla Sicilia all’inizio degli anni Cinquanta per andare a studiare a Milano3, città che poi sceglierà per vivere e lavorare, anche perché «era la stessa in cui operava Vittorini, dove aveva passato circa un ventennio Verga nell’Ottocento e dove aveva avuto luogo la rivoluzione industriale»4, secondo le parole dello stesso Consolo in un’intervista per la R.A.I. della serie Scrittori per un anno. Il capoluogo lombardo diventa il luogo privilegiato da cui osservare la propria isola e il mondo, con continue partenze e ritorni tra Nord e Sud e frequenti viaggi all’estero, per quella sua necessità irrefrenabile di movimento spaziale, nel tentativo di capire e di interpretare i grandi eventi epocali: le nuove migrazioni, le ingiustizie, le connivenze, come il fenomeno mafioso a cui Consolo dedicherà molte riflessioni5. La scrittura diventa quindi un’arma per opporsi ai poteri, denuncia contro i mali del nostro tempo. Zanzotto, al contrario, rimane praticamente ‘stanziale’ per tutta la vita, se escludiamo brevi soggiorni a Milano e il periodo in cui partì per la Svizzera tra il ’46 e il ’47 per un’esperienza di lavoro: entro il perimetro geografico della sua Pieve, ai piedi delle Alpi trevigiane e attorniato dal paesaggio dei colli, egli osserva il mondo locale e globale, cercando di interpretarne i cambiamenti. Questo piccolo centro, la sua Pieve, ha rappresentato non il punto fermo di un universo in movimento, ma un luogo che il poeta ha visto ‘girare e muoversi’ secondo ritmi sempre più rapidi, sino a diventare quasi irriconoscibile, inghiottito dalla mostruosa conurbazione che va dal Garda al Friuli e che è chiamata «la Los Angeles veneta». In Consolo, invece, sarà la sua isola, la Sicilia, ad essere sempre il punto di partenza: «Io porto in me questo unico punto del mondo, questo paese» (Consolo 2014: 137-138), e aggiunge:
- 6 Cfr. lo scritto Memorie, in Consolo 2014.
Mi sono ispirato, narrando, a questo mio paese, mi sono allontanato da lui per narrare altre storie, di altri paesi, di altre forme. Però sempre, in quel poco che ho scritto, ho fatalmente portato con me i segni incancellabili di questo luogo. (Consolo 2014: 135)6
- 7 Zanzotto 1999: CXIII-CXIV: «[…] terminato l’anno scolastico [il poeta] ’45-’46 decide di emigrare (…)
E il narrare è da intendersi nell’accezione definita da Benjamin (2011) nel saggio Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, per il quale il narratore è pre-borghese (rispetto al romanziere), è colui che «riferisce di un’esperienza che ha vissuto, è soprattutto quello che viene da lontano, che ha compiuto un viaggio» . Per Zanzotto, al contrario, Pieve di Soligo è il punto da cui allontanarsi ogni tanto, ma sempre centro del suo vivere. Nei mesi dopo il 25 aprile e durante l’estate del ’45, egli si reca più volte a Milano, compiendo il viaggio su convogli di camion partigiani che, dai paesi devastati della zona intorno al Piave, erano alla ricerca di viveri e di materiali, in assenza di una rete di rifornimenti. Nel ’46, al referendum per determinare la forma di governo che dovrà guidare l’Italia postbellica e che mobilita l’opinione pubblica, Zanzotto sostiene il voto in favore della Repubblica e si troverà in contrasto con la propaganda ecclesiastica. La direzione del collegio Balbi-Valier dove ha da poco ottenuto una supplenza, fa intendere ai dipendenti il gradimento per una scelta anche politica e Zanzotto quindi, terminato l’anno scolastico ’45-’46, decide di emigrare in Svizzera, dove rimarrà per più di un anno7. Una volta rientrato nella sua Pieve, inizierà da lì il suo percorso letterario, tanto che la definizione consoliana relativa ai tanti scrittori siciliani che avevano rinunciato alla ‘fuga’ dall’isola, ovvero che appartenevano ad una «letteratura della distanza logica» (Calcaterra 2014: 33), può forse essere applicata anche all’opera del poeta del solighese. Nella conversazione con Calcaterra, Consolo affermava che «esiste una letteratura della distanza spaziale, o dell’esilio» (Calcaterra 2014: 33) e «una letteratura della distanza logica» (Calcaterra 2014: 33): per lui, ancor più incisiva della distanza spaziale è la distanza intellettuale, poiché si riesce ad «affinare una grande saggezza e lucidità rispetto alle cose» (Calcaterra 2014: 32) e al mondo che si osserva. Lucidità che Zanzotto ebbe tutto lungo il suo percorso ‘scosceso’: pensiamo solo, a titolo di esempio, al volume In questo progresso scorsoio (Zanzotto 2009) in cui il poeta, dialogando con l’amico giornalista Marzio Breda, affronta temi capitali come le emergenze climatiche e le crisi ambientali, i conflitti per l’energia e i fondamentalismi religiosi, il ‘turbocapitalismo’ in panne e l’eclissi degli idiomi minori. Per Zanzotto, agli esordi del nuovo millennio, ci troviamo immersi in un tempo che «strapiomba», in cui si aprono nuove difficili sfide di cui a volte siamo addirittura inconsapevoli. Una certa teoria del progresso, sordida e indifferente all’etica, rischia così di portarci verso l’autodistruzione.
5Pur con dodici anni di differenza – Zanzotto nato nel ’21 e Consolo nel ’33 – entrambi vivranno in prima persona il trauma della Seconda Guerra Mondiale: Consolo prima da bambino, sotto i bombardamenti degli Americani sulla Sicilia nell’estate del ’43, in particolare a Palermo e a Messina; in seguito da sfollato, e poi tramite i giochi pericolosi delle bombe e delle mine disseminate sul territorio che lasceranno tracce indelebili nella sua memoria. Zanzotto invece, all’epoca della Seconda Guerra Mondiale, è poco più che ventenne e partecipa in prima persona alla Resistenza veneta nelle Brigate di “Giustizia e Libertà” occupandosi della stampa e della propaganda del movimento. Si era formata la Brigata Mazzini che, pur essendo sotto il controllo del Partito Comunista, accoglieva anche altre forze antifasciste e Zanzotto, avendo deciso di non far uso delle armi, partecipò alla realizzazione di manifesti e fogli informativi. Nell’inverno del ’44 Pieve di Soligo diventa una sorta di campo di concentramento e il poeta viene reclutato a forza e inviato al lavoro coatto. Nel ’45 riprenderà l’attività partigiana di propaganda sulle colline e in quel periodo non scriverà quasi nulla, tranne qualche frammento diaristico e una poesia per i morti fucilati del paese (Zanzotto 1999: CXII). Gli scontri continuano sino al 30 aprile, data a partire dalla quale la zona viene liberata dalle truppe alleate e si avvia verso il processo di normalizzazione.
6Le tracce della guerra nei Nostri si trasmisero anche attraverso i padri: il padre di Consolo era stato in prima linea sul Carso nella Guerra del ’15-’18, mentre il padre di Zanzotto, pittore-decoratore, a causa delle sue posizioni apertamente antifasciste era dovuto partire per l’esilio in Francia nel ’25 e nel ’26 e, successivamente, a Santo Stefano di Cadore, in montagna. La Storia entra quindi violentemente nella vita dei due autori e segnerà profondamente la loro opera, anche per contrasto al fenomeno della cancellazione della memoria del nostro tempo che entrambi hanno denunciato in più occasioni in varie interviste. Consolo affermava che funzione della letteratura rimane quello di portare alla luce le verità nascoste, di svelare, smascherare, denunciare. Lo scrittore deve riscoprire la forza della parola, verticalizzare la scrittura, renderla più possibile densa e pregna di significati, trovare strumenti più incisivi e graffianti, perché lo scandalo venga raccontato, la colpa denunciata, il misfatto scoperto, l’ingiustizia rivelata8. E il paesaggio da cui scaturisce questa parola è il testimone di questa ricerca: per Consolo è la Sicilia, con il suo Mar Mediterraneo carico di approdi e di tragedie; per Zanzotto è il Veneto, quello delle Prealpi sino alla Laguna e all’Adriatico, «luoghi ricchi di lontananze ed intrecci di tempo-spazio» (Zanzotto 2013: 142), li definisce il poeta ne La memoria della lingua, tanto che per lui:
muoversi, aggirarsi, stare […] in una di queste aree porta sempre un senso di sprofondamento, di peso sulle spalle, e insieme di spinta verso altri orizzonti, verso altezze atmosferiche e perfino stellari. (Zanzotto 2013: 142)
8Anche Consolo, probabilmente, ha avuto un senso di sprofondamento aggirandosi nella sua isola, ma è proprio da quel peso, paradossalmente, che si è mosso, che è partito verso un’avventura «archeologica» della lingua e della Storia siciliana, che è poi Storia italiana, europea, mondiale. Allo stesso modo Zanzotto, sin dall’infanzia, ha «avvertito gli spostamenti entro la geografia [veneta] come spostamenti nella storia» (Zanzotto 2013: 143), legati alla terra in modo radicale e ciò dovuto in parte «alla frequenza ossessiva delle commemorazioni della Grande Guerra» (Zanzotto 2013: 143). Di conseguenza egli si è «interiormente segnato un tracciato particolare, quello dell’ubicazione degli Ossari, che inneva la linea del Piave». Per il poeta di Pieve di Soligo, infatti:
una vera memoria è propria della lingua, prima ancora della letteratura, nelle profondità in cui diviene continuamente e continua ad essere ‘lingua nascente’ […] in contatto […] con la “fisica” antropologica e [la] geografia dell’ambiente, in continue interazioni. (Zanzotto 2013: 142)
Zanzotto cerca di recuperare la memoria della lingua e alla stessa impresa ha dedicato tutta la sua opera Consolo, come mette in evidenza Cesare Segre nel Profilo del Meridiano:
[egli] mostra […] che tutta la vicenda della Sicilia può essere riportata alla luce tramite la lingua che i siciliani, secondo i momenti, hanno usato: da quella dei Greci delle colonie, e poi dei Romani, a quella dei poeti di corte sotto Federico II, sino a quella degli scrittori delle classi subalterne. (Segre 2015: XX-XXI)
Ecco allora che, attraverso il plurilinguismo, Consolo apre degli orizzonti verso i momenti significativi della storia siciliana: «archeologo della lingua» o «delle lingue», egli scava in altri dialetti siciliani e nell’italiano per riportare alla luce significati perduti, originari, con innesti da varie lingue. La sua sperimentazione si svolge sia sul piano della storia che della lingua nelle sue diverse stratificazioni (Domenico 2014: 53). E sempre secondo Segre:
ciò che tiene insieme questo plurilinguismo è un fatto musicale, [grazie alla] tecnica del pastiche [e al ricorso di] frammenti [di] altre [e numerose] lingue. (Segre 2015: XXI)
- 9 Intervista a Vincenzo Consolo: R.A.I., serie Scrittori per un anno, http://www.letteratura.rai.it
9Gianni Turchetta, inoltre, nella sua ricchissima Introduzione al Meridiano, evidenzia che «il dialetto siciliano è di norma italianizzato e l’italiano spesso sicilianizzato» (Turchetta 2015: XXXI), mentre in un’intervista Consolo precisa che in Sicilia esistono sette aree linguistiche di gallo-italico, ovvero dialetti che sono arrivati con i Normanni e quindi con residui di lombardo9. Di conseguenza:
gli strati siciliani della lingua di Consolo attingono ad un’impressionante molteplicità di varietà locali: [il] siciliano orientale, che ha più riconoscibili radici greco-bizantine […]: [il] sanfratellano, […] oltre al toscano, al napoletano e al milanese. (Turchetta 2015: XXXI)
- 10 Il sabir era chiamata anche petit mauresque, ferenghi, ‘ajnabi o aljamia. Il nome sabir è forse u (…)
- 11 Per le citazioni dalle opere di Consolo (dal «Meridiano»), ricorriamo alle seguenti abbreviazioni (…)
Si tratta di «lacerti di lingue vive e morte, corrette o deformate: il greco classico, il latino classico, liturgico e medioevale, il francese, lo spagnolo, l’inglese, l’arabo, il sabir10» (Turchetta 2015: XXXI), che è la lingua franca del Mediterraneo. Diamo qui solo qualche esempio11: per il latino della liturgia, «Regem venturum Dominum / Venite Adoremus / Ecce Dominus veniet, et erit in die illa lux magna» (FA: 8); per il greco, «Agios o Théos / Agios ischirós / Agios athanós, / eléison imás» (FA: 76); «chiocciola, kochlías nella lingua greca, còchlea nella latina» (S: 235); per il francese, «Montesquieu, nel suo essé titolato Esprit des lois» (R: 445); per lo spagnolo, uno dei personaggi principali, Doña Sol, è spagnola: «También, Madre de Dios?! Hombre sin nervio, debilidad, ságoma sin vida, sombra sin consistencia, ausencia, lástima de mi vida, cojón de algodón!» (L: 278); per l’inglese, «(Broccolino, Broccolino), che alla lunga identificai con Brooklyn» (PP: 493); per un mélange di francese e di arabo, parlato da un tunisino in Sicilia, «E l’alìve? Sitròn e alìve. E tomasso, pecorino ‘o puavr’». (PP: 502); per l’arabo, «Inshallah» (R: 440) e per un dialogo a più lingue (PP: 569):
«Alò» gli fece uno dei giovinotti per rompere il silenzio e l’imbarazzo. «Hallo» gli rispose Robert. «Do you speak english?» Silenzio dall’altra parte. «Habla español?» Silenzio. «Parlez-vous français?» «Moi, je parle français» rispose il Piancimòre. «Êtes-vous allé en France?» «Non, je suis allé en Belgique, à travailler, dans les mines» «…» «Et êtes-vous américain?» «Non, non, je suis hongrois, mais j’habite en France.» «Ah, la France, le pays de Prudhon et de Victor Hugo!» escalamó il Pinciamòre. «Oui, de Proudhon, de Hugo et bien d’autres…» rispose Robert ridendo apertamente. Ma capì subito di fronte a chi si trovava, e pensò, guardando la faccia del suo interlocutore, ai contadini catalani di Durruti, ai duri minatori delle Asturie. «Dites-moi, était-il de ce pays le cardinal Mazarin?» chiese il francese. «Bah, ici il n’y a jamais eu un cardinal, mais seulement des prêtres, des religieuses et des capucins. Nous en avons déjà assez!» Robert gli tese la mano sorridendo e l’altro gliela strinse. «Au revoir» disse «au revoir» «Au revoir» rispose il Pinciamòre «Vive la France!» «Oh…Vive le monde tout entier!» disse Robert. (Consolo 2015: 569)
10Consolo ricorre poi a una pluralità di termini appartenenti ad una lista impressionante di settori, quali «la pesca, la marineria, la botanica, l’agricoltura, la zoologia, la cucina, l’architettura, la tessitura, la medicina e l’astronomia» (Turchetta 2015: XXXII), solo per citarne alcuni, e in questi «impasti linguistici, la lingua di Consolo lavora sistematicamente e progressivamente sugli estremi» (Turchetta 2015: XXXII), passando dall’aulico, all’iper-letterario al registro più basso e familiare («il bambino con la testa a vaporino grufolava per terra, agitava le mani e tirava sgrigne soffocate», FA: 51; «sulle ginocchia e sul didietro», FA: 13; «ci dissero cacati e, per l’invidia, ci presero a sfottò», FA: 15; «o stronzo, o merda!…e calci e cinque franchi», FA: 15; «Si vede nu cazzu!», S: 152), e anche se con il tempo il suo sperimentalismo vira verso il tragico, il registro comico, ironico, rimane comunque sempre presente come sottobosco; quell’ironia che fa capolino sin dal primo libro, La ferita dell’aprile: «Puressa, puressa, primavera di bellessa» (FA: 13); «zanglé…sta piova, lesanglé, non inglesi, ma normanni», (FA: 24). E il carattere predominante nei saggi critici e nella poesia di Zanzotto, come per esempio ne La Beltà, raccolta uscita nel 1968 in pieno boom economico, è proprio l’ironia, che si trasforma in aperta comicità o in sarcasmo (come nel componimento Sì ancora la neve: “per voi bimbi con diritto / e programma di pappa, per tutti / ferocemente tutti, voi (sniff sniff / gnam gnam yum yum slurp slurp: / perché sempre si continui l’«umbra fuimus fumo e fumetto»); «colorini più o meno truffaldini») (Zanzotto 2001: 240).
11Il plurilinguismo di Zanzotto, inteso come la messa in opera di elementi appartenenti a diverse lingue e di una pluralità di voci, dialoganti o meno, può esser considerato, secondo Jean Nimis, «una delle caratteristiche ‘fondanti’ della poetica dell’autore» (Nimis 2018: 23). Si tratta di un fenomeno ancora in nuce fino a Vocativo (’57), che diventa esplicito a partire dalla raccolta IX Ecloghe (’62), per poi prendere tutta la sua forza ne La Beltà (’68), ne Gli sguardi i fatti e i Senhal (’69) e in Pasque (’73), in cui la commistione di lingue, linguaggi e voci genera una musicalità molto particolare, ovvero «quel grain de la voix di cui parlava Roland Barthes» – suggerisce Nimis (2018: 23) – e che contraddistingue la poetica zanzottiana. A questa raccolta si deve aggiungere anche il Filò (del ’76), in un dialetto intessuto della koiné veneta. La poesia di Zanzotto è stata una vera e propria «esperienza di linguaggio» – secondo una formula di Stefano Agosti – e dunque un’esperienza sul e nel linguaggio e possiamo attribuire la stessa formula al lavoro letterario di Consolo, che ha realizzato un’escursione a largo raggio verso le origini del linguaggio.
12Anche il plurilinguismo di Zanzotto, come quello di Consolo, riguarda l’uso di varie lingue: l’italiano; il latino, che secondo Dal Bianco, dalla raccolta Vocativo (1957) in poi rappresenta la lingua della Storia, con tutta la sua portata di terrore, soprattutto quando è accompagnata dal lessico scientifico (Dal Bianco 2018: 41); il dialetto, che è la lingua dell’inconscio, la lingua materna e della madre (l’uso del dialetto in Zanzotto esplode dopo il ’73, ovvero dopo la morte della madre), ma che ad un certo punto, in Idioma (1986), diventa la lingua dei morti; il greco, in particolare quello dei Vangeli e di San Paolo, utilizzato quindi come lingua dell’alterità massima, della Natura; il francese, che in genere compare in citazioni letterarie; il tedesco, che è la lingua dell’abbrutimento nazista e al tempo stesso il sublime di Hölderlin – uno dei modelli più alti in poesia –, quindi lingua «dell’antiumano e della somma umanità» (Dal Bianco 2018: 41-43); l’ungherese, che entra nell’ultima raccolta, Conglomerati (2009), in particolare nel componimento Silvia, Silvia, là sul confine… (Zanzotto 2011: 1041-1042), dedicata alla figlia del poeta Cecchinel, morta in giovane età, che studiava lingua e letteratura ungherese all’università di Venezia («Jó estét, kisasszoni!», che significa «Buonasera Signorina!»).
- 12 Breda 2012: 3.
13Dal Bianco osserva che, a partire dalla trilogia di Zanzotto ch’egli ha definito «dell’Oltremondo» (Dal Bianco 2018: 43), ovvero Meteo (1996), Sovrimpressioni (2001) e Conglomerati (2009), gli inserti delle varie lingue a cui ricorre Zanzotto giocano in un certo senso al ribasso, ovvero ad un «abbassamento di registro». Alle lingue già citate si aggiunge l’inglese, la lingua disprezzata (perché in Italia è quella della pubblicità, della mercificazione) ma che negli anni Ottanta, dopo un lungo periodo di depressione e di afasia, sorge dal profondo per la composizione di pseudo-haiku: Zanzotto dirà che fiorivano spontaneamente, come degli zampilli improvvisi provenienti da qualche luogo recondito della psiche, da un fondo oscuro e fangoso, quasi delle bolle, a testimonianza del fatto che nonostante il deserto doloroso della malattia, un’oasi salvatrice, una fonte di creazione esisteva ancora. Nel saggio Europa, melograno di lingue, il poeta definisce l’inglese «una lingua vulcanica, […] che non può non stimolare alle grandi arrampicate» (Zanzotto 2011: 45), e il suo è un inglese petèl, come lui stesso l’ha definito, ovvero quello dei bambini piccoli che iniziano a parlare: ricorrendo ad elementi minimi della fonologia inglese, Zanzotto spiega «che gli pseudo-haiku gli si congegnavano un po’ alla volta, si coagulavano quasi da sé, grazie alla spinta allitterativa così caratteristica di questa lingua» (Zanzotto 2011: 45). Egli aveva provato a tradurre quei frammenti in italiano, ma restavano in qualche modo sminuiti; e si era anche industriato a tradurli in francese, ma senza grandi risultati e quindi vi aveva rinunciato. Gli riuscivano bene in inglese e non sapeva nemmeno lui bene il perché: partiva forse da una citazione molto conosciuta e da lì nasceva un vero haiku. Solo in un secondo momento li tradurrà in italiano e verranno pubblicati postumi in edizione bilingue negli Stati Uniti: Haiku for a season / Haiku per una stagione (Zanzotto 2012)12.
14La lingua poetica di Zanzotto ricorre inoltre, come la prosa consoliana, a vari lessici specifici appartenenti a numerosissime e svariate discipline, come la medicina, la psicanalisi, la botanica, l’astrofisica, la matematica, l’astronomia, la geologia, l’ottica, oltre ad elementi espressivi connessi all’uso dei linguaggi, come il balbettio rappresentato, gli ideogrammi, i disegni e gli scarabocchi (qualificabili tutti come «iconografie»), i disegni e i collages che accompagnano i testi (cfr. Dal Bianco 2011). E molto importante è anche la dimensione sonora, ove i segni sulla pagina bianca sono da considerarsi come delle ‘scansioni’, dei ‘segnali metronomici’, delle ‘pause’: indicazioni ritmiche per un’interpretazione musicale. Il suo procedere mette in atto un dispositivo sonoro molto denso, costituito da onomatopee, spezzoni di enunciati in diverse lingue, serie di versi dal tessuto ‘acustico’: ora rumoroso, ora sussurrante, ora quasi bisbigliato. Lo stesso Montale aveva definito il poeta di Pieve di Soligo «un poeta percussivo» (Montale 1968: 338). Anche in Consolo, seppur con procedimenti diversi, vi è una «tensione verso la pronuncia fisica [delle parole] e dunque [un’]evocazione permanente dell’oralità» (Turchetta 2015: XXXV), anche perché legata ad una lingua che ha in sé una forte teatralità, quindi che ben si presta alla recitazione. E ricordiamo anche la pratica di riportare melodie e canti popolari in Consolo, così come filastrocche, proverbi e modi di dire in dialetto in Zanzotto.
15Entrambi gli autori, inoltre, scrivono quella che è stata definita una trilogia o, nel caso di Zanzotto, una «pseudo trilogia», secondo le parole dello stesso poeta: un connubio di lingua e storia, le due componenti fondamentali nell’opera dei Nostri.
16La trilogia di Consolo comprende il Sorriso dell’ignoto marinaio (’76) ambientato nel periodo del Risorgimento, un momento di grandi speranze e di grandi delusioni; Nottetempo, casa per casa (’92), che mette a confronto l’avvento del fascismo, segnato da un’estrema violenza tra Cefalù e Palermo attraverso le vicende della famiglia Marano e, allo stesso tempo, con l’Italia degli anni Novanta, dell’avvento della destra; e Lo Spasimo di Palermo (’98) che mette in luce le collusioni tra il potere politico e la mafia con le stragi degli anni Novanta.
17Anche la trilogia di Zanzotto è legata alla Storia, ma comprende un arco temporale che parte dalla grande tragedia popolare della Prima Guerra Mondiale con la prima ‘anta’, Il Galateo in Bosco (’78), nella prospettiva di rivitalizzarne la memoria nel presente. Il Bosco è quello del Montello, a sud di Pieve di Soligo, visto dal poeta come un’enorme pattumiera che r-accoglie i sedimenti organici e inorganici del processo naturale, i resti dei picnic dei villeggianti assieme alle ossa dei soldati della Grande Guerra, il cumulo delle tracce lasciate dall’uomo nei secoli. Questo Bosco rimasto quasi intatto, seppur sfruttato, nei secoli venne distrutto dopo l’Unificazione, nelle varie battaglie che portarono, nel ’18, alla vittoria italiana contro l’Austria-Ungheria. Le tracce di questa tragedia sono rimaste nella terra, tanto che la topografia della zona segna la linea degli Ossari nel Montello (Tessari 2009). Parecchi titoli dei componimenti – come indica Zanzotto in una Nota – sono tratti da parole o frasi del Bollettino della Vittoria e questo è un procedere anche di Consolo, che si spinge forse ancora più in là riportando in alcuni casi, nei suoi romanzi, stralci di documenti inediti consultati in archivio, con quella sua preoccupazione di verità e soprattutto di dar voce a chi non ne ha avuta. Galateo è un codice di comportamento, espressione delle regole che presiedono al vivere civile, ma che storicamente si sono incarnate nella retorica del potere e nella volontà di dominio sull’uomo e sulla natura; è il Galateo overo de’ costumi che Giovanni della Casa scrisse probabilmente negli anni in cui si ritirò nell’abbazia di Sant’Eustachio, presso Nervesa, nel trevigiano, tra il 1551 e il 1555 (e pubblicato postumo nel 1558). Ambiguo e lacerato è lo statuto della poesia: da una parte si rivolge al bosco come unica fonte di sostentamento e speranza di vita autentica, dall’altra si riconosce nelle istanze razionalizzanti del Galateo, poiché memoria stratificata nel codice letterario. Al centro della raccolta vi è l’Ipersonetto (16 sonetti), che sta ad indicare l’elezione di un codice altamente letterario, ma ‘stravolto’, poiché vi è la tendenza del poeta ad incorporare grafismi, ideogrammi, simboli matematici, disegni naïf, a volte con valore di notazioni musicali, influendo quindi sull’intonazione degli enunciati; a volte con funzione di semplice “commento” al testo; a volte con funzione di “disturbo” o monito, poiché manifestazioni del “rumore” della storia e del mondo contemporaneo.
18In Fosfeni (dell’83), il paesaggio è quello a nord di Pieve di Soligo e il carico di responsabilità sulla lingua poetica aumenta progressivamente, mentre in Idioma (dell’86) – la terza ‘anta’ della Trilogia – il centro geografico è la Pieve del poeta, un paese che è come un giardino devastato qua e là, una mappa, un palinsesto. La necessità di una presa di coscienza della distanza presente da ciò che ci costituisce in quanto passato è certamente uno dei principi guida della trilogia. Idioma contiene i Mestieròi, una sorta di ‘museo d’ombre’ in dialetto solighese, e una vecchia canzoncina satirica locale, I putèi del Mulineto, e vi è l’espressione queimada brasilèira, con cui Zanzotto denuncia il fatto di bruciare le foreste per coltivare il terreno (ciò’ è legato all’emigrazione veneta in Brasile alla fine del XIX secolo). Ma anche la foresta del Montello era stata abbattuta nell’82 per poter coltivare il terreno. In questo processo di nominazione (da Idioma, appunto) entra sempre la Storia e un esempio ne è la poesia intitolata Il nome di Maria Fresu, dedicata a una ragazza letteralmente polverizzata dalla bomba della stazione di Bologna del 2 agosto 1980, tanto che si dubitò a lungo se fosse realmente tra le vittime: ridotta unicamente al suo nome:
E il nome di Maria Fresu
continua a scoppiare
all’ora dei pranzi
in ogni casseruola
in ogni pentola
in ogni boccone
in ogni
rutto – scoppiato e disseminato –
in milioni di
dimenticanze, di comi, bburp. (Zanzotto 2011: 700)
La necessità di registrare gli accadimenti passati e più recenti ritorna costantemente nell’opera di Zanzotto e Consolo, ma nell’ultima ‘anta’ della trilogia dello scrittore siciliano è presente il rischio dell’afasia, rappresentata dal protagonista Gioacchino Martinez, dietro cui si cela lo stesso Consolo, uno scrittore che non scrive e non vuole più scrivere, nemmeno le dediche sui propri libri. Questo silenzio è causato dall’esigenza di dire una verità e dalla constatazione dell’impossibilità di farlo. L’afasia qui si accentua, testimone anche della coerenza e del coraggio del percorso letterario di Consolo: Decise di scuotersi, di fare, dar mano al proposito, da tempo accantonato, d’indagare sulla prigionia in Algeri di Cervantes e a quella, insieme, d’un poeta di qua dialettale, Antonio Veneziano. Sarebbe riuscito forse a scriverne, scrivere d’una realtà storica, della pena vera di due poeti, fuori da ogni invenzione, finzione letteraria. Aborriva il romanzo, questo genere scaduto, corrotto, impraticabile. Se mai ne aveva scritti, erano i suoi in una diversa lingua, dissonante, in una furia verbale ch’era finita in urlo, s’era dissolta nel silenzio. Si doleva di non avere il dono della poesia, la sua libertà, la sua purezza, la sua distanza dall’implacabile logica del mondo. Invidiava i poeti, maggiormente il veneto rinchiuso nella solitudine d’una pieve saccheggiata – tutt’ossa del Montello questo mondo – «Le tue ecloghe, amico, il tuo paesaggio avvelenato, il metallo del cielo che vi grava, la puella pallidula vagante, la tua lingua prima balbettante e la seconda ancor più ardua, scoscesa…’ questo cominciava a dirgli, pensandolo da quella sua sponda d’un antico Mediterraneo devastato13. (Consolo 2015: 953-954)
Il «veneto» è chiaramente Zanzotto che, «rinchiuso nella sua solitudine», registra i mutamenti di Pieve di Soligo e la dissacrazione del paesaggio che lo circonda dovuta alla cementificazione e al disboscamento; «le tue ecloghe» fa riferimento alla raccolta del ’62, IX Ecloghe, e la «puella pallidula vagante» è citazione appunto da IX Ecloghe, in particolare dal componimento:
13 settembre 1959 (Variante)
Luna puella pallidula,
Luna flora eremitica,
Luna unica selenita,
distonia vita traviata,
atonia vita evitata,
mataia, matta morula,
vampirisma, paralisi,
[…] (Zanzotto 2011: 171)
19Ritorna il tema della luna – che ha tanto affascinato Consolo tanto da comporre Lunaria (1985) – legato ad una serie di nominazioni provenienti da diversi campi linguistici: selenita, che in astronomia è tutto ciò che è in rapporto con la luna; distonia, che è l’alterazione del tono muscolare; l’atonia, che in linguistica è la mancanza di accento e in medicina la perdita del tono muscolare; la mataia, che deriva dal greco e significa folle, stolta; morula, che in biologia è la fase con cui ha inizio il processo di sviluppo di un embrione e infine vampirisma, che deriva da vampiro, spettro che esce dalle tombe la notte. «La tua lingua prima balbettante» è invece il dialetto di Zanzotto, mentre «la seconda ancor più ardua, scoscesa» è l’italiano. In questo passaggio, che possiamo considerare un omaggio di Consolo al poeta di Pieve di Soligo, l’io narrante aborre il romanzo e lamenta di non avere il dono della poesia, che per lo scrittore siciliano rappresenta
un’esigenza primaria dell’uomo. Se non ci fosse la poesia, se si estinguesse il canto, l’umanità rischierebbe parecchio, perché la poesia ha la capacità di risorgere, rifiorire inaspettata, riapparire anche nei luoghi più imprevedibili. In Italia rimane certamente la forma letteraria più irriducibile (perché meno mercificabile), continua a possedere un genuino nucleo di forza espressiva e verità. (Calcaterra 2016: 66)
Da questa concezione alta della poesia, deriva anche la prosa ritmica di Consolo e l’omaggio esplicito a Zanzotto va de soi, forse perché, come suggerisce Massimo Onofri, egli è:
abituato a lavorare sull’ideologia per alchimia sintattica, fermento lessicale, combustioni prosodiche […] dentro una «metrica della memoria» proprio come Consolo, senza compromessi. Entrambi hanno fatto della forma una questione di sostanza (Onofri 2004: 193-199).
- 14 Cfr. ds in AC, Faldone Collaborazioni giornalistiche varie. Il documentario viene trasmesso da RA (…)
20Ricordiamo inoltre che nella seconda metà degli anni Settanta, Consolo realizzerà per la RAI il documentario dal titolo Una giornata di Iseo Tesser. Dentro e fuori una mostra sulla cultura contadina veneta, nato dall’esposizione Settecento anni di costume nel Veneto per la regia di Raoul Bozzi. La sceneggiatura è di Consolo, mentre l’intervistatore è Andrea Zanzotto, che parla con Iseo Tesser, un mezzadro sulle terre dei principi di Collalto (il ramo italiano degli Hohenzollern), ultimo di una famiglia che esercita quel mestiere da secoli14. Questo lavoro è testimonianza dell’attenzione dei due scrittori per i mestieri legati alla terra e la storia, nei secoli, di determinati territori, in particolare quelli delle loro regioni, che rappresentano sempre il punto di partenza.
21E veniamo ora alla recensione di Zanzotto alle Pietre di Pantalica, (Zanzotto 2001: 308-310):
Questo libro è costituito come da un terriccio fresco di apporti estremamente variati […]. L’autore sta chino, tra schifo ed entusiasmo, tra gioie segrete o paralizzanti perplessità, a scrivere un suo brogliaccio del tutto particolare [ed] è sempre un rivolgersi ai molti […] è quasi una preghiera […]. Il libro risulta quasi riportato al suo carattere di strato vegetale, […]. […] all’orizzonte, [vi sono] quelle entità che sono i toponimi, liberi suoni che finiscono per dire di più proprio a chi non può riconoscervi i luoghi. […] trasudano succhi e sapori le parole che denotano piante, strumenti, oggetti, scorrenti tra dialetto, italiano e manuale scientifico, spesso e in diversi modi obsolete, e con un tale aroma-afrore (odore penetrante e acre) di memoria, o perfino di necessario vuoto-di-presenza, da non far muovere la mano di chi legge verso vocabolari e simili.
Ma il momento più alto del libro è […][il] fascinoso imperio linguistico di Amalia: che trascina (l’amico) […] iniziandolo alla vita vera e forse anche alla vita vera della scrittura che egli svilupperà da adulto. (Zanzotto 2001: 308-310)15
Zanzotto, così attento alla lingua, alle parole, in particolare a tutti i nomi di piante, di fiori, di alberi, al paesaggio in generale e a quello del bosco in particolare, e così ‘funambolo’ nell’invenzione linguistica (pensiamo alla fantasia linguistica de Il Galateo in bosco del ’78), non poteva non apprezzare, sopra tutti, il magnifico racconto consoliano Il linguaggio del bosco, tanto che alla fine della sua recensione scriverà:
Consolo chiude improvvisamente, o meglio lascia il discorso su una storia marinaresca (vera) se mai ancora più cupa, […], [m]a non può disperare l’autore di quest’opera tanto amara quanto abbarbicata a quella minima letizia che viene dal sentire in cuore il pullulare di una lingua che fa di per sé sopravvivere. (Zanzotto 2001: 308-310)16
Ci sembra importante sottolineare che per la scrittura di Consolo si è parlato di “palinsesto” (‘O Connell 2010: 42-66), un termine che si riferisce al codice di pergamena su cui, raschiata la prima scrittura, si può scrivere un nuovo testo e dove l’originale rimane in trasparenza: così l’ipertesto si innesta nell’ipotesto. Zanzotto, nel 2001, pubblica la raccolta Sovrimpressioni e il primo significato del titolo è il riemergere di parole, di storie e di figure antiche di un tempo ormai lontano, ma confuso-fuso con quello reale. Il titolo deve quindi essere letto in relazione al ritorno di ricordi e di “tracce scritturali”: il poeta registra il degrado del paesaggio della sua amata terra, esprime la propria amarezza e lo fa rivivere, in dialetto, attraverso il ricordo di figure ‘mitiche’ del suo passato, già incontrate nella sua opera (come la Maestra Morchet o l’agricoltore Nino). Il modo di procedere è personalissimo, ma delle convergenze sono riscontrabili nell’idea di traccia, di recupero di modelli letterari, fatti storici, immagini di persone che hanno segnato in qualche modo il loro percorso.
22Questo studio si propone quindi come un primo contributo all’analisi comparativa di due autori che sono accomunati da un forte interesse per la sperimentazione linguistica e da una poetica comune, pur nell’estrema diversità dei risultati e dei generi praticati. Lo sforzo di recuperare dall’oblio pezzi di Storia, Consolo e Zanzotto l’hanno investito tutto nella lingua, e anche nei momenti più terribili, più tragici, quando la tentazione di abbandonare l’impresa era forte, da un degré zéro della pagina bianca hanno sempre continuato, nonostante tutto, l’entreprise, forti di un valore prima di tutto etico, che estetico, della letteratura e della lingua.Haut de page
Bibliographie
Des DOI sont automatiquement ajoutés aux références par Bilbo, l’outil d’annotation bibliographique d’OpenEdition.
Les utilisateurs des institutions qui sont abonnées à un des programmes freemium d’OpenEdition peuvent télécharger les références bibliographiques pour lequelles Bilbo a trouvé un DOI.
AA.VV., 2010, Scrittura e memoria in Vincenzo Consolo, Microprovincia, 48, gennaio-dicembre.
Adamo G. (a cura di), 2006, Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo, prefazione di Giulio Ferroni, Lecce, Manni.
Alvino G., 2012, Lo scrittore verticale. Pizzuto, Consolo, Bufalino, prefazione di Pietro Trifone, Casoria (NA), Loffredo Editore University Press, coll. Studi di Italianistica, n. 6.
Bassi S., Un «giardiniere e botanico delle lingue»: Andrea Zanzotto traduttore e autotraduttore, tesi di dottorato, Università Ca’ Foscari di venezia, XXIII ciclo (a.a. 2009/2010), http://dspace.unive.it/bitstream/handle/10579/1068/Tesi%20Dottorato%20Bassi.pdf?sequence=1.
Benjamin W., 2011 [19361], Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, note e commento di Alessandro Baricco, trad. it. di Renato Solmi, Torino, Einaudi, coll. Super ET.
Bongiorno G., Toppan L. (a cura di), 2018, Nel «melograno di lingue». Plurilinguismo e traduzione, Firenze, FUP, coll. Moderna e Comparata.
Breda M., 2012, «Haiku, la cura di Zanzotto», Corriere della Sera/La lettura, 30 settembre, p. 3.
Consolo V., 1993, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Roma, Donzelli.
Consolo V., 2014, La mia isola è Las Vegas, a cura di Nicolò Messina, Milano, Mondadori.
Consolo V., 2015, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, Milano, Mondadori, «I Meridiani». Consolo V., 2017, Cosa loro. Mafie tra cronaca e riflessione (1997-2010), a cura di Nicolò Messina, Milano, Bompiani.
Dal Bianco S., 2018, Le lingue e l’inglese degli haiku, in: Bongiorno G., Toppan L. (a cura di), 2018, Nel «melograno di lingue». Plurilinguismo e traduzione, Firenze, FUP, coll. Moderna e Comparata, p. 41-47.
Dal Bianco S., 2011, «Il percorso della poesia di Andrea Zanzotto», in: Zanzotto A., 2011, Tutte le poesie, Milano, Mondadori, coll. Oscar, p. VII-XCII.
Galvagno R. (a cura di), 2015, «Diverso è lo scrivere». Scrittura poetica dell’impegno in Vincenzo Consolo, introduzione di Antonio Di Grado, Avellino, Edizioni Sinestesie.
Minarda M., 2014, La lente bifocale. Itinerari stilistici e conoscitivi nell’opera di Vincenzo Consolo, Messina, Pungitopo. Montale E., 1968, «La poesia di Zanzotto», Il Corriere della Sera, 1/06/1968; poi in: Id., Sulla poesia, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori. Nimis J., 2018, Glossalalie, xenoglossie nella «pseudo-trilogia», in Bongiorno G., Toppan L. 2018, p. 23-39. O’Connell D., 2010, «Il palinsesto della memoria», in: AA.VV., Scrittura e memoria in Vincenzo Consolo, Microprovincia, 48, gennaio-dicembre, p. 42-66. Onofri M., 2004, «Nel magma Italia. Considerazioni su Consolo scrittore politico e sperimentale», in: Id., Il sospetto della realtà. Saggi e paesaggi novecenteschi, Avagliano, Cava de’ Tirreni, p. 193-99. Pasolini P. P., 1964, «Nuove questioni linguistiche», Rinascita, 16 dicembre. Pasolini P. P., 2000 [1972], Empirismo eretico, Milano, Garzanti, p. 5-24. Segre C., 2015, «Un profilo di Vincenzo Consolo», in: Consolo V., L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, Milano, Mondadori, «I Meridiani», p. IX-XXII. Tessari R., 2009, Ritorno sul Montello con Andrea Zanzotto, in: Il Montello della Grande Guerra, vol. 3, Udine, Gaspari Editore.
Turchetta G., 2015, «Da un luogo bellissimo e tremendo», in: Consolo V., L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, Milano, Mondadori, «I Meridiani», p. XXIII‑LXXIV.
Turchetta G., 2015, «Cronologia», in: Consolo V., L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, Milano, Mondadori, «I Meridiani», p. LXXV-CLIII. Zanzotto A., 2013, Luoghi e paesaggi, a cura di Matteo Giancotti, Milano, Bompiani.
Zanzotto A., 2012, Haiku for a season / Haiku per una stagione, edited by Anna Secco e Patrick Barron, Chicago, University of Chicago.
DOI : 10.7208/chicago/9780226922225.001.0001 Zanzotto A., 2011, Tutte le poesie, Milano, Mondadori, coll. Oscar.
Zanzotto A., 2009, In questo progresso scorsoio. Conversazioni con Marzio Breda, Milano, Garzanti.
Zanzotto A., 2001, Scritti sulla letteratura, a cura di Gianmario Villalta, Milano, Mondadori, coll. Oscar saggi, vol. 2.
Zanzotto A., 1999, Le poesie e le prose scelte, a cura di Stefano Dal Bianco e Gianmario Villalta, con due saggi di Stefano Agosti e Fernando Bandini, Milano, Mondadori, «I Meridiani».
Zanzotto A., 1990, Dai monti fatati al sangue di Palermo, Consolo sospeso tra due Sicilie, in: Zappulla Muscarà S., Narratori siciliani del secondo dopoguerra, Catania, Maimone, p. 179-181.
Zappulla Muscarà S., Narratori siciliani del secondo dopoguerra, Catania, Maimone.Haut de page
Note
2 Cfr. Zanzotto 1999: 1104: «Certo anche un fenomeno come quello da loro rappresentato ha pienezza di diritti, ma non meno tra parentesi che gli altri fenomeni. […] si rende impossibile salvare, attraverso tanto legittimo disamore, qualche cosa che alluda, almeno, all’amore, ne isoli l’immagine per assurdo».
3 Si veda Consolo 2015: XCIX: «C’era il cognatino di un mio fratello, che era qui [a Milano], all’Università. Intervenne mio fratello: ‘Lo mandiamo a Milano all’Università Cattolica’. Io felice. Vincenzo si iscrive quindi a Giurisprudenza alla Cattolica di Milano: Vi sono approdato non per convinzioni religiose ma casualmente, perché avevo il desiderio di lasciare l’isola e conoscere il famoso continente. Il continente per noi siciliani era una sorta di mito».
4 Intervista a Vincenzo Consolo: R.A.I., serie Scrittori per un anno, http://www.letteratura.rai.it/articoli-programma/la-formazione-di-vincenzo-consolo/914/default.aspx.
5 Interessanti sono gli scritti di Consolo sulla mafia, che vanno dai primi anni Settanta sino al 2010, ovvero poco prima di morire. Ora riuniti in Consolo 2017.
6 Cfr. lo scritto Memorie, in Consolo 2014. I corsivi sono nostri.
7 Zanzotto 1999: CXIII-CXIV: «[…] terminato l’anno scolastico [il poeta] ’45-’46 decide di emigrare. Da amici trevigiani apprende che in Svizzera si può trovare un impiego: gli segnalano in particolare un posto di insegnante presso il collegio della cittadina turistica di Villars sur Ollon, nel Vaud, sulle montagne sopra Losanna, dove prende servizio nel mese di settembre. L’ambiente si dimostra alquanto opprimente, sia per una singolare figura di direttrice-padrona […] sia perché viene impiegato per supplenze e lezioni innumerevoli in tutte le materie, compresa la matematica. Rimane in Svizzera quasi un intero anno scolastico, poi è costretto a rientrare per essere operato di appendicite e per il successivo mese di convalescenza. Al ritorno in Svizzera decide di abbandonare il collegio tra i monti e si stabilisce a Losanna, dove l’atmosfera è ben più vivace. […] è disposto a fare il barista e il cameriere […] viene in contatto con i seguaci di Swedenborg. Rientrerà in Italia alla fine del’47 all’aprirsi di nuove prospettive per l’insegnamento». Di questo periodo svizzero inizierà a scrivere, in francese, nel Cahier Vaudois, rimasto però incompiuto e a tutt’oggi inedito. 9 Intervista a Vincenzo Consolo: R.A.I., serie Scrittori per un anno, http://www.letteratura.rai.it/articoli-programma/la-formazione-di-vincenzo-consolo/914/default.aspx.
10 Il sabir era chiamata anche petit mauresque, ferenghi, ‘ajnabi o aljamia. Il nome sabir è forse una storpiatura del catalano saber; lingua franca, invece, deriva dall’arabo lisān-al-faranğī. Il secondo termine è in seguito passato ad indicare qualsiasi idioma che metta in contatto parlanti di estrazione diversa. Questa lingua ausiliaria serviva a mettere in contatto i commercianti europei con gli arabi e i turchi, ed era parlata anche dagli schiavi di Malta, dai corsari del Maghreb e dai fuggitivi europei che trovavano riparo ad Algeri. La morfologia era molto semplice e l’ordine delle parole molto libero. Per supplire alla mancanza di alcune classi di parole, vi era un largo uso di preposizioni e di aggettivi possessivi e aveva un numero limitato di tempi verbali (il futuro, per esempio, si creava usando il modale bisognio, il passato con il participio passato). Il primo documento in lingua franca risale al 1296 (Compasso da Navegare). Nel 1830 viene pubblicato a Marsiglia il Dictionnaire de la langue franque ou petit mauresque, suivi de quelques dialogues familiers et d’un vocabulaire de mots arabes le plus usuels; à l’usage des Français en Afrique, manuale scritto in lingua francese in occasione della spedizione francese in Algeria per la conquista di Algeri (è l’inizio della colonizzazione francese che si sarebbe protratta fino al 1962). Veniva così alla luce un idioma alquanto misterioso, usato dai secoli medievali nel Mediterraneo come mezzo di comunicazione tra cristiani di lingua romanza da un lato, arabi e poi turchi dall’altro. Doveva servire ai soldati francesi per imparare e conoscere la lingua sabir. Nell’Impresario delle Smirne, Goldoni inserisce un personaggio che si esprimeva in lingua franca. Cfr. Francesco Bruni, https://web.archive.org/web/20090328135757/http://www.italica.rai.it/principali/lingua/bruni/lezioni/f_lll5.htm.
11 Per le citazioni dalle opere di Consolo (dal «Meridiano»), ricorriamo alle seguenti abbreviazioni, seguite dal numero di pagina: Ferita dell’aprile (FA), Il sorriso dell’ignoto marinaio (S), Retablo (R), Le pietre di Pantalica (PP).
12 Breda 2012: 3. 13 I corsivi sono nostri. 14 Cfr. ds in AC, Faldone Collaborazioni giornalistiche varie. Il documentario viene trasmesso da RAI 1 la sera del 10 luglio 1977.
Référence papier
Laura Toppan, « Vincenzo Consolo e Andrea Zanzotto: un «archeologo della lingua» e un «botanico di grammatiche» », reCHERches, 21 | 2018, 183-198.
Référence électronique
Laura Toppan, « Vincenzo Consolo e Andrea Zanzotto: un «archeologo della lingua» e un «botanico di grammatiche» », reCHERches [En ligne], 21 | 2018, mis en ligne le 07 octobre 2021, consulté le 20 septembre 2022. URL : http://journals.openedition.org/cher/1269 ; DOI : https://doi.org/10.4000/cher.1269
Vincenzo Consolo con Luigi Meneghello “Laurea honoris causa” Palermo 20 giugno 2007
Consolo, la mafia non è fiction
LETTERATURA CIVILE. Gli articoli su Cosa nostra di Vincenzo Consolo, ora raccolti da Bompiani, vanno riletti come un libro di storia: contro le deformazioni
«Mafia e letteratura… un binomio sofferto»: con queste parole cominciava un articolo di Vincenzo Consolo su «Sciascia come Sherlock Holmes nei sotterranei del potere di Cosa nostra», pubblicato nel 1994. Quel pezzo fa ora parte di una raccolta uscita da Bompiani: Vincenzo Consolo, Cosa loro Mafie tra cronaca e riflessione («Overlook», a cura di Nicolò Messina, pp. 320, euro 18,00). Il libro, da affiancare al volume dell’Opera completa pubblicato due anni fa nei «Meridiani», contiene gli articoli scritti da Consolo (Sant’Agata di Militello, Messina, 1933 – Milano 2012) tra il 1969-’70 e il 2010: l’ultimo pezzo, «Poeti di Sicilia», uscì proprio sul manifesto, il 23 settembre di quell’anno.
Perché è ‘sofferto’ quel binomio che, pure, molta fortuna ha avuto nel corso del Novecento? Perché, come spiega lo stesso Consolo in «Mafia e dc» (1975), «se si incappa in certa letteratura “mafiosa” sulla mafia (…) o nei recenti libri di vasto consumo sul tipo del Padrino, si rischia di pensare al mafioso come all’eroe positivo». In tema di mafia, Consolo preferisce alla letteratura come finzione («Non di finzione purtroppo, non di romanzo oggi si tratta»: «Pietà per chi muore sulla zattera di Medusa», ’92) la «scrittura di presenza» (così è intitolato un testo dattiloscritto dell’85). Una presenza cui tende purtroppo a sostituirsi il «dominio dell’informazione visiva».
Testimonianza versus comunicazione, ‘presenza’ versus letteratura: si equivalgono queste coppie oppositive? Solo in parte, perché Consolo non è certo ostile alla letteratura o al romanzo; se anche non conoscessimo la sua opera narrativa, basterebbero questi articoli a garanzia del valore che egli attribuiva alla dimensione letteraria. Tra realtà e romanzo, infatti, lo scrittore tende qui a istituire un richiamo costante: tra i riferimenti spiccano Leonardo Sciascia, modello di una letteratura in equilibrio tra rappresentazione e ragione, priva di ambiguità e atteggiamenti mitizzanti nei confronti della mafia; Alessandro Manzoni, per l’esemplarità civile che lo rende una ‘funzione’ costantemente riattivata nell’arco del Novecento; e perfino I Beati Paoli (1909-’10), il romanzo di Luigi Natoli tornato in auge (e in libreria) di recente, che Consolo cita come esempio distintivo: la «leggendaria setta dei Beati Paoli, vendicatrice di torti e dispensatrice di giustizia», è ben altra e più romantica cosa rispetto alla vera mafia («Voragine a Palermo»). Il punto è questo: per Consolo la realtà smentisce e supera la capacità di male che il romanzo può contenere (se per romanzo s’intende una rappresentazione troppo composta o suggestiva, che evita il confronto con la mafia reale, rimuovendola o dandone una versione bozzettistica). È un vizio antico: già Giuseppe Pitrè (1841-1916), il ‘demopsicologo’ siciliano da cui Verga aveva ricavato usi ed espressioni dei suoi personaggi, definiva la mafia «coscienza del proprio essere», «nozione esagerata della forza individuale». Una definizione ‘eroica’, insomma, che ha contribuito a generare stereotipi e orientare la narrazione romanzesca della mafia. Più grave, per Consolo, sembra la posizione di Capuana, che – alludendo all’inchiesta di Franchetti e Sonnino – già appariva insofferente verso i «cliché della mafia siciliana» e «la stampa a colori di una mostruosa mafia-piovra, dai mille viscidi tentacoli». In realtà, Capuana non assolveva la mafia criminale, ma ricordava come il significato originario del termine non avesse una connotazione così negativa.
Le parole di Capuana servono tuttavia a Consolo per mettere in luce un atteggiamento, per denunciare una manipolazione molto contemporanea: per esempio, secondo Totò Cuffaro (all’epoca governatore della Regione) e altri politici e intellettuali dell’isola, a infangare la reputazione della Sicilia non sarebbe tanto la mafia, quanto chi la condanna pubblicamente («Disonore di Sicilia», 2005). È contro simili distorsioni che Consolo reagisce: «la lotta alla mafia ha bisogno di noi, di ognuno di noi, nella nostra limpida coscienza civile, della nostra ferma determinazione» («I nemici tra di noi», ’82). Nostra: è a quest’impegno che Consolo riserva il possessivo, riscattandolo dall’uso padrinesco nell’espressione ‘Cosa nostra’, non a caso rifiutata nel titolo del volume. La prospettiva suggerita dal quel titolo straniante – Cosa loro – ben corrisponde a quella dello scrittore; non segna una distanza, non allude alla lontananza puramente geografica che Consolo mise tra sé e la Sicilia, ma rivendica la condizione di chi non è implicato e può perciò vedere e raccontare quella ‘cosa’ per quel che è ed è stata. Consolo infatti parte sempre dalle origini del sistema mafioso, dalla sua autentica vocazione e collocazione politico-sociale. Riassumendo le tesi del saggio I ribelli (1966) di Hobsbawm, lo scrittore sottolinea le analogie tra mafia e fascismo, fenomeni entrambi orientati «in senso totalitario nelle due direzioni e verso i due poli dialettici, verso il capitale (il potere) e avverso il lavoro (il proletariato), diventando quindi potere politico esso stesso e nemico del proletariato».
L’analisi è un antidoto contro ogni deformazione romantica: è questa forse la sostanza del discorso di Consolo, che attraversa i quarant’anni della sua pubblicistica contro la mafia, lasciando emergere una morale importante anche sul piano della rappresentazione letteraria, cinematografica e, oggi, televisiva. L’eccesso di racconto della fiction, al di là della diversa qualità degli esiti, trasforma le condizioni storiche e sociali alla base della dinamica mafiosa in situazioni, accentuando le manifestazioni esteriori (spesso di maniera) e isolando singole figure, che invitano a una paradossale identificazione. È di questo genere la critica che è stata rivolta, ad esempio, alla serie televisiva Gomorra, che – proprio perché narrativamente riuscita – fa della camorra un racconto epico. La fiction e il libro da cui è tratta non devono essere censurati (altra cosa è criticare, esteticamente, le cattive imitazioni); è bene però accostarvi, come contromisura, un libro come Cosa loro. Bastano i nomi: nelle fiction, si dà risalto al colore gergale, al diminutivo familiarizzante (Totò, Ciro, Genny), al soprannome suggestivo; negli articoli di Consolo, i nomi che si incontrano sono quelli di Pio La Torre, Rosario Di Salvo, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e molti altri che non richiamano un immaginario esotico (come ‘Sandokan’, soprannome del mafioso Francesco Schiavone) ma appartengono alla storia italiana, di cui Consolo segue gli sviluppi, vedendo nessi e costanti, dall’epoca della Democrazia cristiana a quella di Forza Italia e della Lega.
Proprio a un libro di storia somiglia a tratti Cosa loro, innanzitutto perché storica è, come si è detto, la prospettiva dell’autore, anche quando commenta fatti contemporanei; poi perché storici sono ormai gli eventi e le figure che evoca e come tali vanno trattati. Cioè vanno ricordati, interpretati, insegnati, specialmente oggi che di Cosa nostra non si parla quasi più, o almeno non con la stessa urgenza con cui se ne parlava negli anni novanta (metà degli articoli qui raccolti, trentotto su settantasei, sono stati scritti in quel decennio). Si parla molto – è vero – di mafie al plurale, di camorra, ’ndrangheta; è un fenomeno che corrisponde all’effettivo mutamento degli assetti e dei rapporti tra organizzazioni criminali. Ma uno degli effetti di questa evoluzione è l’aver trasformato la mafia, attraverso lo storytelling, dal male che è in un genere narrativo.
Prefazione al libro di Pino Di Silvestro “Le epigrafi di Leonardo Sciascia”
Nome dell’autore, titolo, dedica, introduzione, prefazione, postfazione, nota, epigrafe, e molt’altro, sono i «dintorni», più o meno prossimi, del testo letterario, sono quel paratesto che Gérard Genette chiama Soglie e che nell’omonimo saggio ampiamente analizza.
Le soglie, le cornici, autografe o allografe, che avvolgono o vestono la nudità del testo, sono state, secondo le epoche e le mode, più o meno ampie, ricche, qualche volta ampollose. Si pensi a titoli e sottotitoli lunghi, complessi, di opere per esempio che sinteticamente chiamiamo Robinson Crusoe o David Copperfield, si pensi alle dediche o alle lettere dedicatorie, esterne o interne al testo, che partono almeno da quella indirizzata a Mecenate nelle Georgiche e vanno fino a quelle per altri illustri mecenati come Ippolito e Alfonso d’Este, rispettivamente nell’Orlando e nella Gerusalemme, come il duca di Béjar nel Don Chisciotte, vanno fino alla breve « Per Ezra Pound – il miglior fabbro » ne La terra desolata, all’ermetica « a I.B. » ne Le occasioni; arrivano, le dediche, rare e significative, necessitate dal testo (non teniamo in conto quelle esortative e spesso patetiche apposte in molti libri d’oggi) fin nelle opere di due scrittori << illuministi>>, scarni e severi di come Calvino e Sciascia: in Calvino compare una dedica, ne Il sentiero dei nidi di ragno e in Se una notte d’inverno un viaggiatore; in Sciascia, soltanto in Occhio di capra, avendo diversa collocazione e diverso senso altre due incorporate rispettivamente nella nota finale della Morte dell’inquisitore e nel titolo della Recitazione della controversia liparitana.
Rimanendo sulle soglie, al paratesto dell’opera di questi due scrittori, ultimi grandi testimoni e cronisti d’una fine, vicini nelle origini, nel terreno di coltura o cultura (la Firenze rinascimentale, il centro della lingua attica, della scrittura laica e limpida, della civile comunicazione, la Toscana rondista di Cecchi, Barilli, Savinio, l’acqua lustrale dell’Arno del Manzoni che, attraverso la Lombardia dei Verri e del Beccaria, portava oltralpe, alla Francia dei Lumi, alla lingua unica, geometrica ch’era espressione d’una formata e consolidata società), vicini nelle origini dicevamo, i due autori, ma divergenti, lontani negli esiti, colpisce nell’opera di Calvino l’assenza assoluta di epigrafie l’alta frequenza di esse, al contrario, in quella di Sciascia. Perché?, ci chiediamo. Avanziamo allora l’ipotesi che in Calvino rimane costante, disperatamente salda, in un luogo e in tempo in cui ateismi oppressivi e devastanti stanno per bandirla, la fede nell’affabulazione, nel racconto, nel suo assoluto valore, unico strumento di percezione, e conoscenza del mondo, di lotta contro la malinconia, l’impietrimento, e da questa fede ne viene il suo continuo cercare sapiente, sagace, infaticabile «castoro della penna», come lo chiamò Pavese, onnivoro e felice organismo metabolico nuovi sentieri, nuove piste, nuovi territori. In lui dunque ogni memoria letteraria, ogni citazione è messa en abime, è dissolta e occultata nel testo. Sciascia, meno chierico, più laico, a causa di un retroterra quello siciliano, che si fa paradigma, nucleo metaforico – di più drammatica storia, di più atroce realtà, perde man mano fede nell’affabulazione, perde speranza in una possibile sopravvivenza e incidenza del racconto e, dopo aver rovesciato e quindi distrutto un modulo narrativo collaudato e funzionale quale il romanzo poliziesco, arriva a spostare il testo nel paratesto, mutare il racconto in parodia, in saggismo, spingerlo verso le soglie, verso la citazione, la rimemorazione della letteratura, la grande letteratura d’altri tempi e d’altri contesti, cielo di verità sopra un mondo, contro una storia di menzogna e di sconfitta, di offesa all’uomo. Ambroise: Pratichi costantemente la riscrittura, la parodia, l’arte della citazione vera o falsa. Che senso dai a questo tipo di operazione che implica un rapporto singolare con il proprio testo: non tuo eppure tuo lo stesso, forse tuo nel suo non esserlo?
«Sciascia: Non è più possibile scrivere: si riscrive.
E in questo operare più o meno consapevolmente si va da un riscrivere che attinge allo scrivere (Borges) a un maldestro e a volte ignobile riscrivere. Del riscrivere io ho fatto, per così dire, la mia poetica: un consapevole, aperto, non maldestro e certamente non ignobile riscrivere, Tutto pagato». Così nelle 14 domande a Leonardo Sciascia, in apertura del primo volume delle Opere dei Classici Bompiani. «Un consapevole, aperto» riscrivere, dice Sciascia, E l’apertura più ampia, più costante – da Le tavole della dittatura fino A futura memoria – è sulle soglie, nell’epigrafe, chiave d’apertura del testo, epicitazione d’ogni altra citazione, lume, filo d’Arianna, ramo d’oro per percorrere i meandri dell’oscurità della realtà rappresentata, per uscire dal labirinto dell’inganno e dello smarrimento.
Le epigrafi. Le epigrafi delle opere di Sciascia: queste antologizza, legge, interpreta, « illustra» qui Pino Di Silvestro.
Cos’è ‘epigrafe? Così il sunnominato Genette: «Definirò approssimativamente l’epigrafe come una citazione posta “in esergo”, in genere all’inizio del l’opera o parte dell’opera; “in esergo” significa letteralmente fuori dall’opera, il che forse è un po’ esagerato: l’esergo consiste piuttosto, in questo caso, in un confine dell’opera, in genere molto vicino al testo…».
In Sciascia l’epigrafe, come il titolo, come l’illustrazione in copertina – sempre dallo scrittore scelta e indicata all’editore -, come la dedica, come ogni altro elemento del paratesto, è quanto di pia vicino, di più connaturato al testo ci sia. La sua epigrafe è sempre di un autore scelto per ammirazione e immedesimazione, è brano, frase d’un’opera sotto la cui luce bisogna porre il testo che ci accingiamo a leggere (epigrafati sono di volta in volta Orwell, Poe, Shakespeare, Montaigne, Courier, Pascal, Casanova, Brancati, Borgese, Borges, Canetti, Dürrenmatt, Bernanos…; ma è anche voce di dizionario, spezzone di documento storico, ed è inoltre frase d’ironico contrasto assunta per disarmo, per malinconico giudizio, come quella di Palazzeschi apposta a 1912 + 1 o quell’ineffabile « O Rousseau!» di Anonimo al Contesto: anonimia fin troppo scoperta, esclamativamente indicativa).
Epigrafatari, destinatari di questo prezioso testo fuori testo, «composto» e proposto dall’Epigrafatore, sono i lettori, siamo noi. Destinatario è, nel caso di cui vogliamo qui discorrere, Pino Di Silvestro, lettore privilegiato per l’appassionata, straordinaria capacità ch’egli possiede di percorrere il «testo» sciasciano, di riassumerlo e assumerlo nell’epigrafe, di stendere su di esso una sua ulteriore epigrafe, un suo visivo paratesto che è il corpo dei disegni, delle chine: il testo vale a dire di questo suo libro. Che è quanto di più sciasciano si possa fare, per ammirazione e per immedesimazione, per scrittura, per stile. Amava il disegno, Sciascia, le gravures, acqueforti e puntesecche, che, con il loro segno nero si potevano accostare alla scrittura, erano anzi per lui un’altra affascinante forma di scrittura, simile allo scrivere che è «imprevedibile quanto il vivere». In questo segno di china di Di Silvestro, quasi un «nero su nero» della realtà descritta da Sciascia, il bianco, a rinforzare ed esaltare ancor più il nero, emerge dal fondo, s’insinua da maglie di stretti reticoli, sorge da cave occhiaie o vitree lenti, da fori di corpi crivellati, fumoso lampeggia da bocche di armi, lattiginoso piove da globi di lampade, s’effonde da corpi di donne, balugina in riquadri di porte o grate, s’espande da una mesta luna che suscita facce di cristallo, squadra tetti, muri di case d’un villaggio perduto. Il segno sottile, secco di queste chine, le figure espressive o espressioniste creano un mondo in negativo, un universo privo di luce e pietà. E sono quasi sempre inscritte, figure e scene, in spazi chiusi, tribunali, prigioni, celle, luoghi del potere e della pena, stanze della tortura, dello strazio. È uno spazio, questo creato da Di Silvestro, quasi riferito alla più grande epigrafe di tutta l’opera di Sciascia, non scritta ma vistosamente implicita, quella di Pirandello: la stanza della tortura pirandelliana declinata sul piano della storia, sul palcoscenico della violenza, della sconfitta.
Vincenzo Consolo
Milano, 6 novembre 1996