Nostri questi morti dissolti/ nelle fiamme celesti, / questi morti sepolti/ sotto tumuli infernali, nostre le carovane d’innocenti / sopra tell di ceneri e di pianti. / Nostro questo mondo di follia. Quest’im-mondo che s’avvia...[1].
In questi versi, di Frammento, Consolo accusa l’umanità intera, inchiodandola alle proprie responsabilità di fronte alla morte di innocenti: lo fa definendo «nostro» sia lo spazio stravolto del pianeta e della contemporaneità – l’ «im-mondo» – sia la massa di cadaveri che ne sono vittime. Non si fa fatica a leggere in questo breve e raro testo poetico soprattutto l’indignazione per le morti generate da guerre e migrazione nel mare nostrum, quel mare in cui, come scrive Braudel, più volte citato, «l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato» [2].
Penso che oggi, di fronte ai nuovi, continui sbarchi, di fronte ai nuovi morti in mare, alle politiche europee ancora non risolutive e divisive, ma anche di fronte ai nuovi conflitti, Consolo avrebbe simili, se non identiche, parole di indignazione. Mi vengono in mente altri versi però, anche questi poco noti, che mi sembra possano costituire una sintesi dell’alternativa all’«im-mondo» proposta dall’intellettuale, proposta sempre valida, tanto più per chi abita il Mediterraneo.
Mi piace pensare che con l’ignoto “tu” Consolo alluda ad un’identità sua e di tutti i figli del Mediterraneo, un’identità non priva di sofferenze, nata da una relazione vecchia di secoli con la terra, le piante, i muri a secco, con i paesaggi, soprattutto un’identità nata dagli incroci («sei nato da madre ebrea / e da padre saraceno»).
Il Mediterraneo di Consolo
La riflessione sulla complessità del Mediterraneo è il filo conduttore di tutta l’opera di Consolo e si innesta sulle considerazioni a proposito della varietà e della molteplicità che caratterizzano la storia, l’ambiente, il patrimonio della Sicilia [4]. Come estremamente significativo è nell’Isola il flusso incessante di energie umane e culturali, che hanno condizionato e condizionano il paesaggio, accostando e sovrapponendo più identità [5], allo stesso modo l’intero Mediterraneo è amalgama, crocevia di popoli differenti, non solo territorio della conflittualità ma anche patrimonio ricchissimo, possibilità della relazione e dello scambio.
Dello spazio estremamente vario e molteplice Consolo coglie caratteri ricorrenti, corrispondenze e somiglianze: memoria di paesaggi noti, conoscenze geografiche, storia della rappresentazione si intrecciano nel proporre associazioni relative al patrimonio naturalistico, considerazioni sulle fragilità degli spazi urbani e sui problemi ecologici. Tutto il Mediterraneo è, ad esempio, regno solare degli aranci [6]; pini, ulivi, fichi e vigne caratterizzano il paesaggio balcanico ma anche quello greco, siciliano, turco [7]; le colline rocciose della Palestina somigliano a quelle degli Iblei siciliani [8]. Città, anche distanti, sono accomunate dalla fatica nella gestione della verticalità, della stratificazione, dal segno della decadenza a contatto con la modernità: la Casbah di Algeri è come il centro storico di Palermo [9], il paesaggio urbano siracusano somiglia a quello di Salonicco [10]. L’intero Mediterraneo, poi, è segnato da «piccoli luoghi antichi e obliati», dove natura e resti del passato si intrecciano [11] e che sono privi dell’attenzione che invece sarebbe doverosa.
In questo scenario complesso l’uomo si macchia infatti della colpa dell’incuria nei confronti del patrimonio naturalistico e culturale. Ma ancor di più è responsabile della violenza contro la vita umana, in svariate forme. Il Mediterraneo è, per Consolo, spazio della conflittualità: Palermo, in preda alle lotte di mafia, è come Beirut [12]; Comiso, coi suoi missili Cruise, rappresenta la minaccia costante della violenza tra popoli [13]; l’integralismo del Maghreb stravolge la preghiera nella violenza brutale delle armi [14]; uno «scenario apocalittico, sconvolgente», un «paesaggio di macerie» [15] caratterizzano la Sarajevo del 1997; infernale è la Palestina, visitata dall’autore con altri membri del PIE nel 2002 [16]. Soprattutto il mare nostrum è teatro della violenza nei confronti dei migranti.
Alla rappresentazione del loro destino concorre l’uso del mito antico. I migranti, infatti, ripetono il tormento del vagare di Ulisse, che non è proposto come l’eroe del ritorno – tanto più che non si può più tornare davvero nella terra da cui si è partiti – ma è piuttosto il naufrago, l’esule senza nome alla corte del re dei Feaci [17]; essi sono Enea in fuga da una terra in fiamme, sono Troiane, fatte schiave e costrette ad allontanarsi dalla propria patria [18].
Ma ancor di più i versi eliotiani di Morte per acqua riescono a parlare della realtà contemporanea. In Retablo l’episodio in cui la statua dell’Efebo di Mozia si perde nel mare suscita la riflessione su un’altra perdita, ben più grave, quella delle vite umane che in ogni tempo si sono spente e si spengono nell’acqua, «sciolte nelle ossa» come Phlebas il fenicio [19]. In L’olivo e l’olivastro la citazione si lega esplicitamente al ricordo della morte del giovane Bugawi, morto nel 1981 per il naufragio del Ben Hur e condannato a rimanere per sempre in fondo al mare [20]. Anche i naufraghi di Scoglitti [21] sono Phlebas il fenicio, e lo sono tutti i morti del Mediterraneo, tutti quelli che barconi stracarichi e responsabilità umane hanno lasciato affogare [22].
Pagina del manoscritto con la citazione di Braudel
Già in un testo del ‘90 Consolo evidenzia l’ampliamento smisurato del braccio di mare tra Sicilia e Nord Africa [23]: l’autore osserva un confine laddove prima non c’era «frontiera, barriera fra due mondi, ma una via di comunicazione e di scambio» [24]. Non è un caso che si riferisca in più occasioni all’emigrazione di lavoratori di Sicilia, di Calabria o di Sardegna nelle terre degli «infedeli», all’emigrazione specie ottocentesca fatta anche di intellettuali e borghesi [25]. La sua insistenza va considerata in relazione al suo interesse per quell’emigrazione africana in Italia che ha avuto origine negli anni Sessanta e che non si è più arrestata. Le riflessioni a tal proposito sono estremamente lucide e inquadrano precocemente la questione.
I primi lavoratori tunisini, forniti del semplice passaporto con il visto turistico e sprovvisti di quell’autorizzazione che permetteva un regolare contratto di lavoro, giungevano in Sicilia nel 1968. La presenza di questi primi immigrati, costretti a ritornare in patria alla scadenza del visto turistico, rispondeva alla domanda di lavoro a buon mercato da parte di proprietari terrieri e di armatori, per i quali reclutare questa manodopera e sfruttarne la condizione abusiva era senza dubbio un vantaggio. Ai primi immigrati si aggiunsero allora parenti e amici e il fenomeno si allargò [26].
«L’emigrazione in Italia dei poveri del Terzo Mondo» [27] ha inizio a Mazara, città che il 17 giugno 827 – ricorda Consolo citando Amari – accolse lo sbarco dei musulmani [28]. A distanza di secoli il miracolo economico degli anni Sessanta attiva di nuovo la rotta dal Nord Africa [29] che va a riempire i vuoti lasciati dall’altro flusso migratorio, quello dei meridionali verso il Nord. Anche se il caso di Mazara ha una sua indiscussa esemplarità, il fenomeno già all’origine riguarda un po’ tutto il trapanese: una terra che ha più di un tratto in comune con la regione di partenza [30]. Ma mentre, accennando alla somiglianza geografica e culturale delle due rive del Mediterraneo, porta l’attenzione sulla vicinanza tra i popoli e sui risvolti positivi dello scambio del passato, Consolo fa emergere la stortura del presente e individua in questa nuova migrazione l’inizio di una lunga serie di episodi di xenofobia e persecuzione [31].
Nel 1999, in Di qua dal faro, l’intellettuale già lamenta l’assenza di previsioni, progettazioni, di accordi tra governi [32]. Gli articoli successivi, suscitati in particolare dalla legge Bossi-Fini, si concentrano sul contrasto evidentissimo, soprattutto a Lampedusa e nelle altre Pelasgie, tra l’opulenza del turismo nella natura incontaminata e la disperazione dell’approdo dei migranti [33]. Il procedimento antifrastico con cui Consolo si finge sostenitore delle ragioni dei ricchi vacanzieri contro gli sbarchi invadenti degli stranieri evidenzia lo stridere dei due mondi: «Ma lì, a Lampedusa, inopinatamente vi giungono anche, mannaggia, gli emigranti clandestini»[34]. Così la bella Lampedusa diventa scenario di guerra contro l’infedele, come nel poema ariostesco. Nel Duemila l’isola, divenuta da «remoto scoglio», «meta ambitissima del turismo esclusivo», è luogo d’approdo di pescherecci e gommoni che rovesciano «i nuovi turchi, i nuovi invasori saracini», ovvero il carico di clandestini [35]. E – ancora è dominante l’antifrasi –, se non ci sono gli antichi paladini a combatterli e neppure le navi militari auspicate da Bossi, c’è però il mare che s’infuria e travolge ogni imbarcazione [36].
Assurde si rivelano le leggi per gestire gli arrivi e, se già prima della Bossi-Fini, Consolo lamentava la violazione sistematica dei diritti dell’uomo, dopo il 2002 è ancora più duro. Bersaglio polemico sono le nuove normative, più rigide: le nuove disposizioni prevedono che le carrette siano bloccate in acque extraterritoriali, «forse anche speronate e affondate. Con tutto il loro carico umano» [37]. Bersaglio polemico sono i centri di prima accoglienza che – scrive – non meriterebbero questo nome, perché piuttosto di lager si tratta, luoghi atroci, di violenza e umiliazione [38]. Bersaglio polemico è la diffusione di sentimenti xenofobi, suscitati dalla politica nella mentalità comune, ben rappresentata dall’io narrante del racconto eponimo di La mia isola è Las Vegas che invoca la costruzione di muri d’acciaio per arrestare la marea dei migranti [39].
In quest’ottica di critica alla nuova legge e all’inadempienza del dovere morale verso i migranti va letta la netta opposizione di Consolo al progetto di un museo della migrazione a Lampedusa, promosso nel 2004 dalla deputata regionale dell’Udc Giusy Savarino. A lei l’autore si rivolge pubblicamente, accusando l’ipocrisia profonda di una tale iniziativa [40] e riflettendo su quanto sia irrimediabilmente compromessa l’identità dello spazio mediterraneo. Niente rimane del mare di miti e storia, niente della straordinaria convivenza tra culture diverse. Il monito dei reperti archeologici, delle narrazioni risulta poca cosa di fronte al mutamento dello sguardo collettivo sancito dalle leggi e ai lager mascherati da centri di accoglienza: il mare si è fatto frontiera, confine, che gli altri, gli stranieri, non devono superare. Ed è contemporaneamente cimitero, spazio del sacrificio, della tragedia. Perciò il progetto di un museo a Lampedusa è, per Consolo, strumento di una retorica ipocrita, che non è giusto appoggiare: che senso avrebbe un monumento all’emigrazione, quando proprio i migranti vengono combattuti, respinti, lasciati morire in mare?
Divenuto, nei fatti, confine, limite, addirittura cimitero a causa della grande quantità di morti, il mare potrebbe essere, invece, occasione di arricchimento in virtù dello scambio tra popoli. È un’immagine ideale, eppure realizzabile, quella che Consolo propone, insistendo su una storia di civiltà, quella siciliana in particolare, che ha la radice della sua grandezza proprio nell’incontro tra le differenze: se l’isola è divenuta luogo di approdo dei migranti che provano a sfuggire alla guerra, alla persecuzione o alla povertà, non si deve dimenticare che il progresso, quello vero, è sempre figlio dell’arricchimento che proviene dall’alterità. Lo dimostrano gli straordinari effetti della dominazione araba in Sicilia, a cui Consolo riconosce, sulla base di un ricco corredo di fonti e seguendo l’opinione di Sciascia, un valore fondante in termini di identità [41]. Non a caso l’insistenza sulla presenza degli Arabi nell’Isola si traduce nella frequente celebrazione delle innovazioni in ambito agricolo, tecnico, delle trasformazioni in ambito artistico-culturale.
Che l’arrivo di nuovi popoli – tutti, non solo gli Arabi – produca progresso è poi testimoniato per l’autore anche da migrazioni più antiche come dimostra l’entusiastica rappresentazione della Sicilia come museo a cielo aperto, che accoglie rovine del passato, città greche, elime, puniche. Numerosi sono i riferimenti alla nascita delle colonie, a volte molto precisi, con indicazione dell’ecista, del territorio di origine, degli sviluppi della vicenda coloniale, sulla base dei dati forniti da fonti antiche, come l’opera di Tucidide, o su testi più recenti che rinviano però alla storiografia greca: testi saggistici e prove narrative offrono una rappresentazione della Sicilia e del Mediterraneo che ne valorizza l’aspetto di crocevia di popoli e, concentrandosi sulle migrazioni dell’antichità, impostano un implicito confronto con gli spostamenti della contemporaneità, riconoscendovi ragioni identiche o simili, ovvero guerra, fame, difficoltà economiche.
Ne L’olivo e l’olivastro [42], ad esempio, Consolo si sofferma sull’emigrazione megarese verso la parte orientale dell’isola. La visita ai resti di Megara Hyblaea, assediata dall’orrendo polo industriale siracusano, suscita una rievocazione estremamente positiva dell’opera dell’ecista Lamis, dell’idea di uguaglianza e progresso dei coloni, della fertilità e della geometria nella suddivisione del terreno in lotti. All’enfasi sulla fondazione Consolo aggiunge il plauso per le capacità che i Megaresi, scacciati dai Corinzi di Siracusa, dimostrarono, affrontando l’ignoto della Sicilia occidentale dove fondarono Selinunte [43]. Se poi, in La Sicilia passeggiata, il mistero sull’origine di Segesta richiama i versi 755-758 del V libro dell’Eneide che, con il cenno alla costruzione del tempio di Venere sul monte Erice, fanno riferimento alla ktisis [44], questo accade perché allo scrittore interessa evidenziare la conseguente fusione tra popolazione straniera migrante (i Troiani) e popolazione locale (gli Elimi).
Risulta chiaro allora che per Consolo gli incontri, gli scambi tra popoli di culture diverse sono stati da sempre causa del cammino della civiltà, e che la chiusura, il rifiuto dell’ignoto che arriva da fuori, è perdita, regressione [45].Perciò, egli, servendosi di una frase di Zanzotto, «Ci troviamo oggi tra un mare di catarro e un mare di sperma», descrive il vecchio continente come scioccamente arroccato nelle sue posizioni. Vecchia davvero è l’Europa, vecchia l’Italia, non solo per l’età media della popolazione, ma per una cecità di fronte all’arrivo delle masse disperate dei profughi che non riconosce la ricchezza dell’accoglienza e addirittura produce morboso attaccamento ai privilegi, difesi con pericolosi atteggiamenti xenofobi [46].
All’imperativo dell’accoglienza umanitaria, a cui implicitamente alludono nell’articolo Gli ultimi disperati del canale di Sicilia le immagini tremende del mare-cimitero («bare di ferro nei fondali del mare») e dell’orrenda pesca dei morti («i corpi degli annegati nelle reti dei pescatori siciliani»), Consolo aggiunge la necessità di una valutazione delle possibilità economiche e culturali, persino letterarie, che derivano dai flussi di migranti.
Conclusioni
Se l’emigrazione a cui si riferiva Consolo era soprattutto quella dal Nord Africa – anche se non mancano nella sua opera riferimenti ad altre rotte, non mediterranee – oggi la provenienza dei migranti è più varia e non interessa solo il canale di Sicilia, sebbene Lampedusa continui ad essere punto di approdo per molti. Siamo atrocemente avvezzi alle immagini di tragedie in mare: per citarne solo alcune, quella del 3 ottobre 2013 proprio nelle acque di Lampedusa, il naufragio nei pressi di Bodrum del 2015, tristemente noto per la foto del corpo del piccolo Alan Kurdi, o quello più recente di Steccato di Cutro.
Di fronte ad uno scenario complicato dalla varietà di provenienze e rotte e, ancora, da politiche non risolutive, la lezione di Consolo resta quanto mai valida. Dalla conoscenza storica deve venire la consapevolezza che il progresso è sempre figlio dell’incontro e non si può allora guardare al Mediterraneo, e a nessun altro luogo, in termini di confine, limite: in gioco ci sono, proprio come scriveva l’autore, questioni culturali e economiche che non possono essere trascurate e ciò da parte dell’uomo comune e da parte dei politici. L’invito alla memoria del nostro passato inoltre implica l’invito al recupero dell’umanità – i Feaci accolgono e soccorrono Ulisse quando lo trovano naufrago – e della pacifica convivenza tra popoli diversi – la civiltà araba, ad esempio in Sicilia, seppe proporre un lodevole dialogo tra le diversità. Se non vogliamo che l’«im-mondo» prenda il sopravvento, allora, dobbiamo soprattutto restare umani.
Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023
Note
[1] V. Consolo, Frammento, in Per una Carta “visiva” dei Diritti civili, Viennepierre, Milano 2001, anche in “Microprovincia”, 48, gennaio-dicembre 2010: 5.
[2] La citazione del passo di Braudel è molto frequente nell’opera di V. Consolo, ad esempio a conclusione di Il ponte sul canale di Sicilia (Di qua dal faro, in L’opera completa,a cura e con un saggio introduttivo di G. Turchetta e uno scritto di C. Segre, Mondadori, Milano 2015: 1198). Il passo di Braudel è in F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, trad. it. di C. Pischedda, Einaudi, Torino 1976: 921-922.
[3] Accordi. Poesie inedite, a cura di F. Zuccarello e C. Masetta Milone, Zuccarello editore, Sant’Agata di Militello 2015.
[4] Sull’argomento, ho già scritto diffusamente in A. Bellanova, Un eccezionale baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo, Mimesis, Milano 2021: 281-307.
[5] Emblematico Uomini e paesi dello zolfo, in Di qua dal faro, cit.: 981-982.
[6] Arancio, sogno e nostalgia, in “Sicilia Magazine”, dicembre 1988:35-46, ora in La mia isola è Las Vegas, a cura di N. Messina, Mondadori, Milano 2012: 128-133, 128-129.
[7] Ma questa è Sarajevo o Assisi?, in “L’Espresso”, 30 ottobre 1997.
[8] Madre Coraggio, in La mia isola è Las Vegas, cit.: 196.
[9] Orgogliosa Algeri tra mitra e coltello,in“Il Messaggero”, 20 settembre 1993.
[10] Le pietre di Pantalica, in Le Pietre di Pantalica, L’opera completa, cit.: 619. Neró metallicó, in Il corteo di Dioniso, La Lepre edizioni, Roma 2009: 9.
[11] L’olivo e l’olivastro, L’opera completa, cit.: 836.
[12] Le pietre di Pantalica, in Le pietre di Pantalica, cit.: 625.
[13] Ivi: 623.
[14] Ad esempio in Quei parabolizzati che sognano l’Italia, in “Corriere della sera”, 20 giugno 1991 o Orgogliosa Algeri tra mitra e coltello, in “Il Messaggero”, 20 settembre 1993.
[15] Ma questa è Sarajevo o Assisi, cit.
[16 Madre Coraggio, in La mia isola è Las Vegas, cit.: 195-200.
[17] Sulla presenza del mito di Ulisse nell’opera di Consolo, si veda A. Bellanova, Un eccezionale baedeker, cit., passim.
[18] Versi dall’Eneide di Virgilio (II 707-710) e dalle Troiane di Euripide (vv. 45-47) vengono citati in più di un’occasione, soprattutto nei testi giornalistici, come monito e come testimonianza di un dramma che si ripete. Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, in “La Repubblica”, 18 settembre2007, o in I muri d’Europa, cit.: 25, o Migrazione, la civiltà come arte della fuga, cit. Ma si veda anche l’inserimento dei versi Aen. II 780 a epigrafe dell’ultimo capitolo di Nottetempo, casa per casa, quello su fuga-emigrazione di Petro (Nottetempo, casa per casa, in L’opera completa, cit.: 748).
[19] Retablo, in L’opera completa, cit.: 453.
[20] L’episodio è rievocato, con citazione da Eliot, in L’olivo e l’olivastro, in L’opera completa, cit.: 865-866. Nel giugno del 1981 appena dopo il terremoto che aveva colpito Mazara, gli armatori ebbero fretta di rimandare in acqua le navi. Nel naufragio del Ben Hur morirono cinque mazaresi e due tunisini. L’identità di questi rimase ignota per diversi giorni: un indizio della condizione di sfruttamento e illegalità in cui lavoravano gli stranieri. Sullo stesso episodio, sempre con riferimento a Phlebas il fenicio, si veda Morte per acqua, in “Il Messaggero”, 15 luglio 1981, o “Ci hanno dato la civiltà”, in “La Voce”, 23 giugno 1994.
[21] Dedicato ai morti per acqua, in “L’Unità”, 29 settembre 2002. La citazione dei versi di Eliot chiude l’articolo e, che mi risulti, è l’unico caso in cui il passo è riportato per intero. Consolo si riferisce a quanto avvenuto il 24 settembre 2002: uno scafista abbandona a 300 metri dalla spiaggia di Scoglitti il suo carico di migranti; le onde impediscono l’approdo, muoiono 14 persone.
[22] Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, cit., o in I muri d’Europa, cit.: 29. Meno esplicito il riferimento a Eliot in Immigrati avanzi del mare, in “L’Unità”, 18 giugno 2003, dove è l’aggettivo “spolpato” (“qualche corpo gonfio o spolpato finisce nelle reti dei pescatori”) che allude a Phlebas il fenicio.
[23] Cronache di poveri venditori di strada, in “Corriere della sera”, 21 ottobre 1990.
[24] Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, cit.: 1193.
[25] Si veda in particolare Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, cit.: 1195-1196; Il Mediterraneo tra illusione e realtà, integrazione e conflitto nella storia e in letteratura, in G. Interlandi (a cura di), La salute mentale nelle terre di mezzo. Per costruire insieme politiche di inclusione nel Mediterraneo, Atti del Convegno di Psichiatria Democratica, Caltagirone, 12-13 marzo 2009, numero monografico di “Fogli di informazione”, terza serie, 13-14, gennaio-giugno 2010: 5-7. Si veda anche l’inserimento della vicenda come elemento narrativo in Nottetempo, casa per casa, che si conclude proprio con l’emigrazione di Petro in Tunisia (Nottetempo, casa per casa, cit.: 753-754).
[26] Sul fenomeno si veda A. Cusumano, Il ritorno infelice, Sellerio, Palermo 1978. Consolo lo cita in diverse occasioni, ad esempio, Il ponte sul canale di Sicilia, cit.: 1197.
[27] L’olivo e l’olivastro, cit.: 865.
[28] Ivi: 864.
[29] Ibidem. Si veda anche Il ponte sul canale di Sicilia, cit.: 1197-1198. Molti gli articoli sul caso di Mazara, ad esempio I guasti del miracolo, in “Il Messaggero”, 10 luglio 1981; Morte per acqua, cit; “Ci hanno dato la civiltà”,cit. Ancora precedente l’articolo uscito su “Sans frontières” nel 1980 che si sofferma sulla storia di Mazara prima di concentrarsi sulla quarta guerra punica o guerra del pesce i cui protagonisti erano proprio i tunisini immigrati della casbah: Quatrième guerre punique, in “Sans frontières”, 30 settembre 1980.
[30] Alla somiglianza tra Italia meridionale e Nord Africa Consolo fa riferimento in “Ci hanno dato la civiltà”, cit. Sulla questione anche un articolo del 1981, Immigration africaine en Italie (“Sans frontières” 3 gennaio 1981): l’Italia è la prima tappa dei migranti per necessità geografiche ma anche perché è una terra non veramente straniera.
[31] L’olivo e l’olivastro, cit.: 865; Il ponte sul canale di Sicilia, cit.: 1197. Nel precedente I guasti del miracolo (cit.) Consolo rileva lo scandalo del dopo terremoto di Mazara (7 giugno 1981): ai tunisini vengono negate le tende, perché stranieri e perché non votanti e quindi ininfluenti nelle imminenti elezioni regionali.
[32] Il ponte sul canale di Sicilia, cit.: 1197-1198.
[33] Il mondo di Bossi Fini stupido e spietato, in “L’Unità”, 29 agosto 2002.
[34] Ibidem.
[35] Lampedusa è l’ora delle iene, in “L’Unità”, 28 giugno 2003.
[36] Ibidem.
[37] Il mondo di Bossi Fini stupido e spietato, cit.
[38] Ibidem ma anche Immigrati avanzi del mare, cit.
[39] La mia isola è Las Vegas, in La mia isola è Las Vegas, cit.: 217.
[40] Solo un monumento per gli immigrati, in “La Repubblica”, 21 agosto 2004. Sulla questione Consolo si era già espresso qualche giorno prima: Perché non voglio quel museo, in “La Repubblica”, 19 agosto 2004.
[41] Estremamente rappresentativa appare a proposito la sezione Sicilia e oltre in Di qua dal faro e, in particolare, il saggio introduttivo, La Sicilia e la cultura araba (Di qua dal faro, cit.: 1187- 1192).
[42] L’olivo e l’olivastro, cit.: 783.
[43] Ivi: 783-784, ma anche Retablo, cit.: 432; La Sicilia passeggiata, con fotografie di G. Leone, Nuova Eri, Torino, 1991: 94-95; Malophoros, in Le pietre di Pantalica, cit.: 578.
[44] La Sicilia passeggiata, cit.: 106.
[45] Quando i Lombardi emigrarono in Sicilia, in “Corriere della Sera”, 4 maggio 1991.
[46] Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, cit. La frase di Zanzotto è ripresa da A. Zanzotto, In questo progresso scorsoio. Conversazione con M. Breda, Garzanti, Milano, 2009: 68-69. Nell’ultima intervista Consolo riflette in modo particolare sull’ignoranza di chi solleva lo scontro di civiltà e accosta integralismo e islam: V. Pinello, La Sicilia di Consolo: l’ultima intervista, 27 gennaio, 2012, in“Golem”, in rete http://www.goleminformazione.it/articoli/vincenzo-consolo-e-la-sua-sicilia-sorriso-dellignoto-marinaio.html#.WHS021ycHDQ (verificato in data 15 ottobre 2023).
Riferimenti bibliografici
Opere di Vincenzo Consolo
La Sicilia passeggiata, con fotografie di G. Leone, Nuova Eri, Torino 1991.
Il corteo di Dioniso, La lepre, Roma, 2009.
La mia isola è Las Vegas, a cura di N. Messina, Mondadori, Milano 2012.
L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di G. Turchetta e uno scritto di C. Segre, Mondadori, Milano 2015.
Accordi. Poesie inedite, a cura di F. Zuccarello e C. Masetta Milone, Zuccarello editore, Sant’Agata di Militello 2015.
Articoli di Vincenzo Consolo
Quatrième guerre punique, in “Sans frontières”, 30 settembre 1980.
Immigration africaine en Italie, in“Sans frontières”, 3 gennaio 1981.
I guasti del miracolo,in“Il Messaggero”, 10 luglio 1981.
Morte per acqua, in “Il Messaggero”, 15 luglio 1981.
Cronache di poveri venditori di strada,in “Corriere della Sera”, 21 ottobre 1990.
Quei parabolizzati che sognano l’Italia, in“Corriere della sera”, 20 giugno 1991.
“Ci hanno dato la civiltà”, in “La Voce”, 23 giugno 1994.
Il mondo di Bossi Fini stupido e spietato, in “L’Unità”, 29 agosto 2002.
Dedicato ai morti per acqua, in “L’Unità”, 29 settembre 2002.
Immigrati avanzi del mare, in “L’Unità”, 18 giugno 2003.
Lampedusa è l’ora delle iene, in “L’Unità”, 28 giugno 2003.
Perché non voglio quel museo, in “La Repubblica”, 19 agosto 2004.
Solo un monumento per gli immigrati, in “La Repubblica”, 21 agosto
Gli ultimi disperati del canale di Sicilia,in“La Repubblica”, 18 settembre2007.
Migrazione, la civiltà come arte della fuga, in “L’Unità”, 18 settembre 2007.
I muri d’Europa, in L. Restuccia, G.S. Santangelo (a cura di), Scritture delle migrazioni: passaggi e ospitalità, Palumbo, Palermo 2008: 25-30.
Il Mediterraneo tra illusione e realtà, integrazione e conflitto nella storia e in letteratura, in G. Interlandi (a cura di), La salute mentale nelle terre di mezzo. Per costruire insieme politiche di inclusione nel Mediterraneo, Atti del Convegno di Psichiatria Democratica, Caltagirone, 12-13 marzo 2009, numero monografico di “Fogli di informazione”, terza serie, 13-14, gennaio-giugno 2010: 5-7.
Altra bibliografia
Bellanova A., Un eccezionale baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo, Mimesis, Milano 2021
Braudel F., Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, trad. it. di C. Pischedda, Einaudi, Torino 1976.
Cusumano A., Il ritorno infelice, Sellerio, Palermo 1978.
Ada Bellanova, insegna lettere in un liceo pugliese. Si interessa di permanenza della letteratura greca e latina nel contemporaneo, di ecocritica, della percezione dei luoghi, dei temi della memoria, delle migrazioni e dell’identità. Si dedica da alcuni anni allo studio dell’opera di Vincenzo Consolo: da qui è nata la monografia Un eccezionale baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo (Mimesis 2021). Ha collaborato con La macchina sognante, Erodoto108. Nel 2010 ha pubblicato il libro di racconti L’invasione degli omini in frac, con prefazione di Alessandro Fo e nel 2016 Papamusc, un breve romanzo edito da Effigi.
di Ada Bellanova Fornire una definizione del Mediterraneo non è un compito semplice. Mare – e contesto – in perenne trasformazione, come dimostra la sua storia ecologica, esso resiste ad ogni generalizzazione1 . Si può certamente tentare la strada della determinazione strettamente geografica ma si deve riconoscere che a poco serve dire che si tratta di un mare semichiuso su cui si affacciano vari popoli, diversi tra loro eppure simili per la loro posizione e per la condivisione di problemi e risorse. Si deve poi ammettere che il cosiddetto ecosistema mediterraneo ha subito trasformazioni profonde nel corso dei millenni: eliminazione di boschi e foreste, aumento della popolazione, sfruttamento delle risorse, mutamenti climatici, cambiamenti di fauna e flora2 . Le trasformazioni, tra l’altro, contraddistinguono anche la storia della rappresentazione. L’idealizzazione del passato classico che ha sedotto innumerevoli viaggiatori non esiste più e il Mediterraneo si rivela contesto dalle molte facce, non facilmente assimilabile al solo mondo europeo o occidentale3 . Perciò, come tentare una definizione? Cos’è veramente mediterraneo? Se la politica europea contemporanea ha ridotto la questione al problema della frontiera, al rischio di nuove invasioni barbariche4 , ragion per cui il mare è diventato spazio delle indesiderate migra- 1 La complessità del Mediterraneo è centrale nei recenti studi di Mediterranean ecocriticism. Si veda a proposito S. Iovino, Introduction: Mediterranean ecocriticism, or a Blueprint for Cultural Amphibians, in “Ecozon@”, 4.2, 2013, pp. 1-14, in particolare a p. 4. 2 Ibidem. La Iovino propone il caso dell’importazione di tutta una serie di piante e prodotti nel regno della vitis vinifera e dell’olea europaea, con conseguente profondissime sullacosiddetta dieta mediterranea (si pensi a pomodoro, riso, caffè ecc.). 3 Ivi, p. 5. 4 Si veda a proposito il saggio di C. Resta, Geofilosofia del Mediterraneo, Mesogea, Messina 2012. Sul Mediterraneo come confine,frontiera anche A. Le- zioni di masse di disperati, tra cui possono nascondersi pericolosi attentatori, e luogo di inevitabile sepoltura, un vero cimitero, di quanti non arrivano a compiere la traversata a bordo di gommoni e imbarcazioni di fortuna, gli intellettuali hanno mantenuto il Mediterraneo al centro di un vivace dibattito culturale. Dibattito che prova a mettere in discussione gli stereotipi. Rischiose sono infatti le immagini rassicuranti dell’idillio naturalistico e della civiltà dell’accoglienza da una parte oppure, all’estremo opposto, quelle fosche della violenza e della sopraffazione. Da una parte il paradiso turistico a buon mercato, le spiagge seducenti, l’esotismo della porta accanto, dall’altra quello della mafia, dell’estorsione, della corruzione delle classi dirigenti, della mancanza di sicurezza, dell’estremismo. L’una e l’altra immagine non sono che la faccia legale e quella illegale dell’inserimento subalterno del Sud nel mondo dello sviluppo, ai suoi margini, “laddove i modelli seducenti proposti dalle capitali del Nord-ovest si decompongono fino a diventare deformi”5 . Tali riduttive determinazioni trascurano la reale complessità del Mediterraneo, che, non a caso, Braudel tenta di definire nel segno della molteplicità e con l’espressione “crocevia eteroclito”6 . Questo spazio, quindi, non consiste soltanto in una teoria di paesaggi, addirittura non lo si può dire neppure mare unico, perché esso è piuttosto un insieme di mari. Nemmeno si esaurisce nell’elenco di tanti popoli diversi perché essi sono entrati spesso in relazione, avvicendandosi su uno stesso spazio o su spazi confinanti, si sono mescolati, hanno plasmato il territorio, anche come spazio dell’immaginazione, e continuano a farlo, rendendo impossibile una reductio ad unum. Ragion per cui Matvejevic può affermare che non esiste una sola cultura mediterranea, ma ce ne sono invece molte, caratterizzate da tratti simili e da differenze, mai assoluti o costanti7 . ogrande, La frontiera, Feltrinelli, Milano 2017, che indaga sulla condizione dei migranti. 5 F. Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, Bari 1996, pp. 3-4. 6 F. Braudel, Mediterraneo, in Id. (a cura di), Il Mediterraneo. Lo spazio la storia gli uomini le tradizioni, trad. it. di E. De Angeli, Bompiani, Milano 1987, pp. 7-8. 7 P. Matvejevic, Il Mediterraneo e l’Europa, Garzanti, Milano 1998, p. 31. Si veda anche Id., Quale Mediterraneo, quale Europa?, in F. Cassano, D. Zolo (a cura di), L’alternativa mediterranea, Feltrinelli Milano, 2007, p. 436: L’incontro ha sempre comportato delle criticità, in primis una diffusa e pressoché costante conflittualità8 : come scrive Braudel, “in tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato”9 . Ma il contesto mediterraneo non si configura solo come spazio di guerra: nei secoli le civiltà dominanti non hanno potuto cancellare del tutto quelle sottomesse; si sono sempre attivati meccanismi di contaminazione, dialogo, stratificazione. Allora forse la sua “essenza profonda”10 sta nell’esempio che esso può offrire della convivenza tra culture differenti. Solo tale approccio all’alterità può permettere al Mediterraneo, “mare tra le terre”, di essere non confine, limite, ma luogo di relazione e di incontro11. Il problema è anche di politica europea, o dovrebbe esserlo, non solo per il timore della violazione da parte dei migranti. Il legame tra Europa e Mediterraneo infatti esiste, sebbene venga sistematicamente messo in ombra dalla prevalente prospettiva mitteleuropea, ritenuta vincente dal punto di vista economico12. Considerare la “via” mediterranea significa, secondo Franco Cassano, valorizzare le differenze, la varietà che l’ossessione di uno sviluppo a tutti i costi nega. Significa porsi il problema della gestione degli spazi, laddove gli spazi ospitano un patrimonio “verticale”, incredibilmente stratificato, e quello della cura dell’ambiente e del paesaggio, impedendo che questi siano solo preda dell’abusivismo selvaggio. Significa affrontare la questione dello scambio e della convivenza tra vecchi e nuovi abitanti. Ciò va fatto, ed è un’opportunità, non solo per “custodire forme d’esistenza diverse da quella dominante” ma anche per “tutelare la stessa modernità dal suo avvolgimento in una spirale senza ritorno” 13. “l’insieme mediterraneo è composto da molti sottoinsiemi che sfidano o rifiutano le idee unificatrici”. 8 P. Matvejevic, Mediterraneo. Un nuovo breviario, trad. it.di S. Ferrari, Garzanti, Milano 1993, p. 19. 9 F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, trad. it. di C. Pischedda, Einaudi, Torino 1976, pp. 921-922. 10 Id., Mediterraneo, cit., p. 9. 11 Ancora Braudel a proposito della definizione del Mediterraneo come grande strada per trasportare uomini e merci (Id., Storia, misura del mondo, cit. p. 105). 12 F. Cassano, Tre modi di vedere il Sud, Il Mulino, Bologna 2009, pp. 20-24. 13 Id., Il pensiero meridiano, cit., p. 7. Ma si veda anche Id., Paeninsula: l’Italia da ritrovare, Laterza, Roma 1998, pp. 10-11.
1. Lo spazio mediterraneo per Consolo
La scelta di Norma Bouchard e Massimo Lollini di seguire il criterio della mediterraneità nell’antologia del 200614 riflette la centralità dell’interesse di Consolo per la “lettura e la scrittura” dello spazio mediterraneo15. Andando oltre gli stereotipi, la linea interpretativa e rappresentativa dell’autore evidenzia tormento e ricchezza di un contesto complesso, che rifugge qualunque generalizzazione. Parlare della questione e dello spazio mediterraneo significa per Consolo parlare del Sud e, in particolare, della Sicilia. La riflessione sulla complessità del Mediterraneo si innesta dunque sulle considerazioni a proposito della varietà e della molteplicità che caratterizzano la storia, l’ambiente, il patrimonio siciliani. Estremamente significativo appare nell’isola il flusso incessante di energie umane e culturali16, che hanno condizionato e condizionano il paesaggio, accostando e sovrapponendo più identità17. Allo stesso modo l’intero Mediterraneo è amalgama, crocevia di popoli differenti, non solo territorio della conflittualità ma anche patrimonio ricchissimo, possibilità della relazione e dello scambio18: sì scenario di devastazione, dove la tecnologia ha perso la sua funzione antropologica e ha generato mostri che distruggono le antiche città, trasformandole in 14 V. Consolo, Reading and Writing the Mediterranean, a cura di N. Bouchard e M. Lollini, University of Toronto Press, Toronto-Buffalo-London 2006). Si veda il chiarimento nel saggio introduttivo: N. Bouchard, M. Lollini, Introduction: Vincenzo Consolo and His Mediterranean Paradigm, pp. 3-48, a p. 14. Sull’interesse di Consolo per il Mediterraneo si veda anche N. Bouchard, Vincenzo Consolo’s Mediterranean Journeys: From Sicily to the Global South(s), cit. 15 Sul tema anche l’antologia postuma, V. Consolo, Mediterraneo. Viaggiatori e migranti, Edizioni dell’Asino, Roma 2016. 16 C. Gallo, Cultural crossovers in the Sicily of Vincenzo Consolo, in “US-China Foreign Language”, gennaio 2016, vol. 14, n.1, pp. 49-56. 17 Emblematico Uomini e paesi dello zolfo, in Di qua dal faro, pp. 981-982: “Ora qui, per inciso, vogliamo notare che la storia, la storia siciliana, abbia come voluto imitare la natura: un’infinità, un campionario di razze, di civiltà, sono passate per l’isola senza mai trovare tra loro amalgama, fusione, composizione, ma lasciando ognuna i suoi segni”. 18 Tale visione è centrale anche nella riflessione di F. Cassano (i già citati Paeninsula, Il pensiero meridiano, Tre modi di vedere il Sud). Non a caso la scrittura di Consolo e quella di Cassano affiancate espongono il punto di vista italiano per “Rappresentare il Mediterraneo”, collana Mesogea (V. Consolo, F. Cassano, Rappresentare il Mediterraneo, cit.). moderne metropoli, luoghi di intolleranza politica, religiosa e razziale, ma allo stesso tempo archivio di eredità preziose19. Dunque olivastro e olivo insieme. Ed è per tutelare ‘l’olivo’ che Consolo procede in direzione di un ripensamento dei consolidati effetti della globalizzazione20. L’imposizione dell’economia ritenuta vincente e l’emarginazione dei vari sistemi tradizionali producono inevitabilmente l’aberrante negazione della molteplicità che caratterizza l’identità mediterranea e la rottura degli utili equilibri preesistenti. L’autore dunque riflette sulla gestione degli spazi e della cultura e legge il fenomeno migratorio non come superamento di un limite ma come occasione di scambio che trasforma e vivifica. Nell’ottica di un recupero delle tradizioni e della molteplicità a rischio vanno guardate le scelte linguistiche che recuperano frammenti della Sicilia greca, bizantina, araba, normanna, ovvero le impronte delle lingue parlate un tempo nel Mediterraneo. L’imperativo della salvezza di linguaggi e dialetti dall’oblio si traduce in un plurilinguismo in cui non ci sono parole inventate ma parole scoperte e riscoperte, in un’operazione di riscatto della memoria e, quindi, di ricerca delle radici, dell’identità21. Se la rappresentazione del Mediterraneo risulta ambivalente, anche Ulisse, l’eroe mediterraneo per eccellenza, ha una natura duplice. Il personaggio omerico, associato da Consolo all’uomo contemporaneo, non è l’eroe del ritorno, è piuttosto il migrante: il nóstos gli è costantemente negato, perché nell’approdo all’isola egli scopre il sovvertimento, incontra le macerie di Troia anziché il palazzo di Itaca, ed è condannato perciò ad un esilio senza fine. La sua peregrinazione lo porta a contatto con le varie forme di violenza della modernità nei confronti di piccoli e grandi luoghi, in Sicilia e fuori dalla Sicilia. In ciò il viaggio diventa meditazione sulle proprie responsabilità: insieme all’ansia di scoperta e conoscenza, è 19 N. Bouchard, M. Lollini, Introduction: Vincenzo Consolo and His Mediterranean Paradigm, cit., pp. 3-48, a p. 18. 20 Si veda l’intervista con A. Prete (Il Mediterraneo oggi: un’intervista, in “Gallo Silvestre”, 1996, p. 63). 21 G. Traina, Vincenzo Consolo, cit., p. 130. F. Cassano in Rappresentare il Mediterraneo parla di recupero da parte di Consolo di un’antica dimensione sacra della lingua, mediante lo scavo nel passato del Mediterraneo (V. Consolo, F. Cassano, Rappresentare il Mediterraneo, cit., p. 57). evidenziato il senso di colpa e il rimorso per l’abuso della tecnologia che distrugge patrimoni e vite umane22. Le tappe del viaggio cantato da Omero, a loro volta, come già evidenziato, diventano tessere per comporre l’immagine del mondo contemporaneo. Il mito ha avuto un suo innegabile ruolo nella costruzione dell’identità mediterranea23 perché, sorto da una radice geografica, ha a sua volta modificato e condizionato la percezione collettiva dello spazio, confluendo nel patrimonio di tutti, come è accaduto nei casi esemplari di Scilla e Cariddi o dell’Etna. Ma racconti e leggende antichi legati al territorio possono dire qualcosa di nuovo, possono mettere in luce la stortura: questa è l’operazione a cui si dedica Consolo, ribadendo il legame tra la piana delle vacche del Sole e la Milazzo dell’esplosione o evidenziando l’associazione tra regno dei Lestrigoni e area industriale siracusana. Proprio proponendo il mito originale, allora, enfatizzandone alcuni aspetti, l’autore è capace di trasmettere una denuncia che lamenta la profonda metamorfosi subita dai luoghi: riesce cioè a produrre un’immagine critica dello spazio contemporaneo.
1.1 Nel segno della varietà del mare
Consolo si sente figlio della varietà, dei passaggi, degli incroci di popoli che si sono avvicendati sulla sua terra. Perciò, nella straniante Milano, cerca il conforto dell’umanità colorata, varia, di corso Buenos Aires. A Nord egli cerca il suo Mediterraneo e lo trova negli arabi, nei tunisini, negli egiziani, nei marocchini, negli altri africani, lo trova nel “bruno meridionale”: in questa “ondata di mediterraneità” si immerge e si riconcilia, ci si distende come in una spiaggia di sole del Sud24. 22 Sulla figura di Ulisse e il suo rapporto con il Mediterraneo nell’opera di Consolo si vedano alcune riflessioni di M. Lollini (M. Lollini, Intrecci mediterranei. La testimonianza di Vincenzo Consolo moderno Odisseo, cit, pp. 24-43 o anche l’introduzione, scritta con N. Bouchard, all’antologia Reading and Writing the Mediterranean, N. Bouchard, M. Lollini, Introduction: Vincenzo Consolo and His Mediterranean Paradigm, cit., pp. 19-21). Ma si vedano anche le affermazioni dello stesso Consolo in Fuga dall’Etna, cit., pp. 50-52. 23 B. Westphal (a cura di), Le rivage des mythes. Une géocritique méditerranéenne. Le lieu et son muthe, Pulim, Limoges 2001. 24 “Io che sono di tante razze e che non appartengo a nessuna razza, frutto dell’estenuazione bizantina, del dissolvimento ebraico, della ritrazione ara- La similitudine esalta la presenza della varietà umana con tutta la sua gamma di neri e bruni qualificandola come occasione, in una Milano grigia al di là dello stereotipo, di sperimentare la mediterraneità. L’accostamento è significativo perché l’esperienza della “spiaggia al primo tiepido sole” è molto mediterranea, tanto più per Consolo, nato e cresciuto in una località di mare. La vita a Sant’Agata di Militello, “paese marino”, “borgo in antico di pescatori”25 gli ha permesso di avere una precoce familiarità con la spiaggia26. “La visione costante del mare” ha scandito l’infanzia, di giochi, bagni e gite sui gozzi. Sulla riva di una contrada poco nota sono approdati guerra e cadaveri della grande Storia27. Perciò lo spazio mediterraneo non può che configurarsi, sulla base dell’esperienza personale, come “mare”. Il tempo del mito che contraddistingue la percezione del mare delle Eolie viene poi superato nella frequentazione di altre coste, altri porti, altri arcipelaghi: il Mediterraneo non è più quello della giovinezza, non solo perché sono mutati i toponimi, le coordinate, ma anche perché a guardarlo ora è un adulto, con una prospettiva nuova, di cronista e narratore, e perché sempre più ristretto è lo spazio della bellezza, e delusione e amarezza nascono dalla coscienza di un patrimonio a rischio di estinzione, vampirizzato dall’indu, del seppellimento etiope, io, da una svariata commistione nato per caso bianco con dentro mutilazioni e nostalgie. Mi crogiolavo e distendevo dentro questa umanità come sulla spiaggia al primo, tiepido sole del mattino”, Porta Venezia, in La mia isola è Las Vegas, pp. 112-113. Nello stesso testo (p. 114) gli eritrei che, ai tavoli di un ristorante, mangiano tutti con le mani da uno stesso grande piatto centrale il tipico zichinì gli ricordano l’uso delle famiglie contadine siciliane di una volta. Anche nell’osservazione di questo gesto c’è il conforto del recupero di un’identità, specialmente nel confronto con un Nord tanto diverso. Poco più avanti anche la musica, in un bar egiziano, suggerisce legami, suscita l’evocazione dell’identità mediterranea (Ivi, p. 115). 25 Il mare, in La mia isola è Las Vegas, p. 220. 26 La grande vacanza orientale-occidentale, in La mia isola è Las Vegas, pp. 163-169, a p. 165. Molte le dichiarazioni a proposito di una vita “anfibia”, vissuta cioè a stretto contatto con l’acqua. “Sono stato un bambino anfibio,vissuto più nell’acqua che nella terraferma” (La Musa inquieta, in “L’Espresso”, 15 aprile 1991). 27 Il mare, in La mia isola è Las Vegas, pp. 220-221; La grande vacanza orientale-occidentale, in La mia isola è Las Vegas, pp. 164-165. Nella caratterizzazione del Mediterraneo, a partire dal paese natale, si intrecciano memorie personali e dati della storia ufficiale: lo scorrere del tempo plasma i luoghi, oggettivamente e nella ricezione personale dell’autore. -strializzazione selvaggia, o dello scenario di nuove guerre, nuove violenze, nuova morte. È negato l’idillio della vita libera e bella con la vista costante delle isole del dio, e risulta stravolto orrendamente anche il lavoro dell’uomo: i pescatori non tirano più nelle reti il pesce azzurro, bensì cadaveri di clandestini28.
1.2 Tra olivo e olivastro: il patrimonio e la violenza
Pur consapevole della varietà e della complessità che lo caratterizzano, Consolo percepisce lo spazio mediterraneo come un mondo unico e vi rintraccia caratteri ricorrenti, corrispondenze e somiglianze. Memoria di paesaggi noti, conoscenze geografiche, storia della rappresentazione si intrecciano nel proporre associazioni relative al patrimonio naturalistico, considerazioni sulle fragilità degli spazi urbani e sui problemi ecologici. A permettere, in Arancio sogno e nostalgia, la definizione del Mediterraneo come regno solare degli aranci, è l’esperienza della pervasività di una coltivazione, che caratterizza fortemente il paesaggio, dalla Sicilia alla Grecia, dal Maghreb alla Spagna. Riconosciuto come traccia artistica, segno di civiltà, ma anche come straordinario catalizzatore di gratificanti percezioni sensoriali – il colore vibrante dei frutti e delle foglie, l’odore e il sapore –, l’arancio è per Consolo, al di là del facile e consolidato stereotipo di un Sud di agrumi e sole capace di attirare i viaggiatori stranieri, sogno di un Eden perduto, simbolo cioè, nel confronto con coordinate geografiche stravolte dall’industrializzazione, come nel caso della Conca d’oro palermitana, di un’integrità ecologica e culturale, di uno spazio sano in cui piante odorose possono ancora fare mostra di sé accanto alle rovine del passato29. Della tipica vegetazione mediterranea conserva notazioni il diario del viaggio in Jugoslavia: i pini piegati fino al mare, gli ulivi, i fichi, le vigne non segnano solo il paesaggio balcanico, ma anche quello greco, siciliano, turco, e si può inferire che anche il gesto 28 Il mare, in La mia isola è Las Vegas, pp. 221-222. 29 Arancio, sogno e nostalgia, in “Sicilia Magazine”, dicembre 1988, pp. 35-46, ora in La mia isola è Las Vegas, pp. 128-133. La citazione è alle pp. 128-129. della donna che stende i frutti ad essiccare richiami ricordi di altre geografie più familiari30. Nel resoconto della visita in Palestina nel 2002 poi Consolo scrive di “un paesaggio […] di colline rocciose e desertiche, che somiglia all’altopiano degli Iblei in Sicilia”31. Ma oltre al profilo fisico del territorio, a suggerire accostamenti sono gestualità e dolore delle donne per i combattenti morti: nei movimenti e nel lamento si colgono i tratti della tragedia greca, la cerimonia funebre di tutto il Mediterraneo32. Città, anche distanti, sono accomunate dalla difficoltà di reggersi sul proprio passato, dalla fatica nella gestione della verticalità, della stratificazione, dal segno della decadenza a contatto con la modernità. Il paesaggio urbanistico mediterraneo risulta perciò inserito nella riflessione ecologica sullo spazio siciliano. Le case semicrollate nel reticolo delle viuzze della Casbah di Algeri evocano l’immagine del centro storico di Palermo33 e quasi topos diventano la crescita disordinata e veloce, l’invasione dei nuovi palazzi, il traffico, nel paesaggio urbano siracusano o in quello di Salonicco34. In L’olivo e l’olivastro dalla meditazione sulla decadenza della città di Siracusa, già accostata ad altre città del Mediterraneo, Atene, Argo, Costantinopoli, Alessandria35, scaturisce il racconto di 30 Ma questa è Sarajevo o Assisi?, in “L’Espresso”, 30 ottobre 1997. Si tratta del racconto del viaggio fatto a Sarajevo con altri intellettuali italiani per restituire la visita di un anno prima da parte di otto membri del Circolo 99 (di Sarajevo). 31 Madre Coraggio, in La mia isola è Las Vegas, p. 196. Il testo, uscito per la prima volta in italiano in V. Consolo et al., Viaggio in Palestina, Nottetempo, Roma 2003, ma già apparso precedentemente online, anche in francese, è il resoconto del viaggio in Palestina in qualità di membro del Parlamento internazionale degli scrittori. 32 Madre Coraggio, in La mia isola è Las Vegas, p. 197. Consolo si riferisce alla cerimonia funebre mediterranea così com’è codificata in Morte e pianto rituale di E. De Martino che infatti ricorda. Ivi, p. 199. 33 Orgogliosa Algeri tra mitra e coltello, in “Il Messaggero”, 20 settembre 1993. 34 Ne abbiamo già parlato per Siracusa. Si veda invece quello che Consolo scrive di Salonicco in Neró metallicó: “città moderna, piena di luci, di insegne, di manifesti pubblicitari, di quartieri appena costruiti come d’una città che è stata invasa da immigrati, che in poco tempo ha moltiplicato i suoi abitanti. E piena di traffico” (Neró metallicó, in Il corteo di Dioniso, La Lepre edizioni, Roma 2009, p. 9). 35 L’olivo e l’olivastro, p. 820. una visita lungo la costa africana, a Ustica36. Il ricordo si sofferma in particolare sulle rovine e, a sorpresa, sul basilico profumato che cresce in abbondanza tra le pietre e i mosaici. Quello che è apparentemente un particolare senza importanza serve però a definire un patrimonio di piccole cose, comune a tutto il Mediterraneo37. L’Ustica di Consolo è rovine e basilico. Ma tutto il Mediterraneo in qualche modo è Ustica. Tutto il Mediterraneo è fatto di “piccoli luoghi antichi e obliati” come Ustica, in cui la natura si intreccia con la memoria del passato38. Ma il rischio della dimenticanza è in agguato, l’incuria è già realtà, e il ricordo diventa occasione di meditazione amara: nell’enumerazione di antiche città, nell’anafora del verbo “ricordare”, Consolo si trasforma in un “presbite di mente” tutto rivolto verso il passato, si trasforma in “infimo Casella” tutto proteso verso qualcosa che non c’è più39. Se l’anima del musico appena giunta sulla spiaggia del Purgatorio mostra ancora un grande attaccamento alla vita terrena, tanto da slanciarsi verso Dante, memore dell’antico affetto, e la stessa canzone dantesca da lui intonata è all’insegna della nostalgia, il riferimento evidenzia proprio il legame che Consolo sente con il passato, con ciò che non esiste più, come la vita terrena per le anime purganti. Ma la sovrapposizione non è perfetta: il richiamo alla canzone Amor che ne la mente mi ragiona è immediatamente contraddetto dal “Non più, odia ora” e il canto non ha nulla della dolcezza del regno del Purgatorio, ma piut36 Ivi, p. 836. 37 Ibidem. 38 I mosaici e il basilico di Utica sono già ricordati in un passo di Malophoros, in un elenco di caratteristici e rapidi ritratti di piccoli luoghi carichi di passato, dalla Sicilia alla Grecia al Nord Africa: Malophoros, in Le pietre di Pantalica, pp. 574-575. Dello stesso tono la precedente osservazione sulle “stazioncine solitarie remote, di luoghi antichi, sacri, come quella di Segesta, di Cartaghe-Hannibal, di Pompei o di Olimpia” che sanno essere “commoventi, hanno ormai anche loro qualcosa di antico, di sacro” (p. 574). Omaggio ai “piccoli luoghi antichi e obliati” sono per lo più gli interventi apparsi su “L’Espresso” tra il 1981 e il 1982, dedicati a centri poco noti, come Miraglia, Valverde, Galati o Filosofiana. Il tono di questi articoli è però di solito quasi giocoso, un invito al godimento delle bellezze e delle ricchezze sconosciute, anche gastronomiche. Luogo antico e fuori dai soliti canali turistici (non segnalata sulla “Guide Bleu”) è anche Dion, stesa nella pianura ai piedi del Monte Olimpo a cui sono dedicate alcune pagine in Neró Metallicó (Il corteo di Dioniso, cit., pp. 19-20). 39 L’olivo e l’olivastro, p. 837. tosto una rabbia infernale, un tono che pretenderebbe “rime aspre e chiocce”:
No, non più. Odia ora. Odia la sua isola terribile, barbarica, la sua terra di massacro, d’assassinio, odia il suo paese piombato nella notte, l’Europa deserta di ragione. Odia questa Costantinopoli saccheggiata, questa Alessandria bruciata, quest’Atene, Tebe, Milano, Orano appestate, questa Messina, Lisbona terremotate, questa Conca d’oro coperta da un sudario di cemento, il giardino delle arance insanguinate. Odia questo teatro dov’è caduta la pietà, questa scena dov’è stata sgozzata Ifigenia, quest’Etna, questa Tauride di squadracce dove si consumano merci e vite, si svende onore, decenza, lingua, cultura, intelligenza…40
Dai toni nostalgici Consolo passa a quelli indignati di un coro antico e professa odio prima nei confronti della sua Sicilia, diventata “terribile, barbarica, terra di massacro”, una Tauride percorsa da “squadracce”, poi verso l’Europa e verso l’intero Mediterraneo. Il dramma in atto ha proporzioni gigantesche e il riferimento ai simboli della tragedia euripidea ne sancisce la gravità: sulla cavea è stata sgozzata Ifigenia, si è prodotto cioè il sacrificio dei sacrifici, la morte della sacerdotessa che Artemide aveva voluto salva, la morte dell’esiliata e, con lei, la morte di ogni forma di giustizia, cultura, rispetto. Il presente è una Tauride senza speranza. All’attentato nei confronti del patrimonio naturalistico e culturale si accompagna la violenza contro la vita umana, in svariate forme: il Mediterraneo è, per Consolo, spazio della conflittualità. La Palermo di Le pietre di Pantalica, in preda alle lotte di mafia, è come Beirut41: le bombe, i kalashnikov, gli efferati omicidi, il sangue sparso dai killer lasciano tra le strade siciliane il disastro dei campi di battaglia e spingono all’associazione con quell’altra violenza, in atto dall’altra parte dello stesso mare, della guerra che porta alla distruzione della capitale libanese. Comiso, poi, coi suoi missili Cruise, rappresenta la minaccia costante della violenza tra popoli a cui neppure le proteste dei pacifisti, bloccate brutalmente, possono opporsi. Nel racconto eponimo di Le pietre di Pantalica, mentre il paese “folgorato dal sole”, quasi fosse “uno di quei vuoti gusci dorati di cicala”, è tutto ripiegato nel suo torpore estivo, 40 Ibidem. 41 Le pietre di Pantalica, in Le pietre di Pantalica, p. 625. poco più in là l’aeroporto, nella campagna deserta, accoglie i lavori per l’installazione. Alla sola vista del cancello con la scritta “Zona militare-Divieto d’accesso” emerge la tremenda apocalittica considerazione: “Non resterà di noi neanche una vuota, dorata carcassa, come quella della cicala scoppiata nella luce d’agosto. Non resterà compagna, figlio o amico; ricordo, memoria; libro, parola”42. Quasi a dire che troppo in là è andato l’uomo. Nel testo successivo, che porta nel titolo il toponimo, le cicale – ancora loro – che cantano nel sole estivo enfatizzano la pace e la fiacca che prelude alla carica delle forze dell’ordine sui dimostranti43. Di fronte al degrado della violenza – guerra per difendere la possibilità di fare la guerra – e di fronte alla speculazione edilizia e all’inquinamento, l’unica consolazione possibile viene a Consolo dalle rovine immerse nella natura, ovvero dal valore di un patrimonio naturalistico e culturale. Come ad Utica e ancor di più che ad Ustica, negli Iblei a Cava d’Ispica, a poca distanza da Comiso: qui ci sono “le migliaia di grotte scavate dall’uomo, le abitazioni, le chiese, le necropoli della preistoria, della storia più antica dei Siculi, dei Greci, dei Romani, dei Bizantini, di quelli di pochi anni passati”, qui c’è “un cammino bordato dai bastoni fioriti delle agavi, dagli ulivi, dai fichi, dai pistacchi, dai carrubi”44. E fuori dalla Sicilia? Una serie di articoli scritti a partire dagli anni Novanta denuncia una violenza connaturata in numerosi luoghi del Mediterraneo. Teatro del nascente integralismo è il Maghreb, l’Algeria in particolare, dove Consolo nel maggio 1991 42 Ivi, p. 623. 43 Più tardi, nell’atto unico Pio La Torre, Consolo accenna al coinvolgimento della mafia siciliana e americana nell’affare dei missili (Pio La Torre, cit., p. 65) e offre un’immagine amara della nuova Comiso, che contrasta con il passato nell’offesa dell’inquinamento selvaggio e della minaccia di una guerra (Ivi, p. 77). 44 Comiso, in Le pietre di Pantalica, pp. 637-638. Il testo si chiude con una visita alla necropoli bizantina di Cava d’Ispica. C’è la luna e, guardandola, Consolo ricorda la preghiera della Norma belliniana: “Casta diva, che inargenti / queste sacre, antiche piante…”. Dichiara di non sapere il motivo del ricordo. In realtà la memoria ha a che fare, più o meno volutamente, con Zanzotto, nella cui opera la presenza della Norma è significativa: in più di un’occasione il poeta, riferendosi alla luna, allude alle parole della sacerdotessa (un esempio su tutti l’Ipersonetto: “Casta diva” o “sembiante”, A. Zanzotto, Tutte le poesie, cit., p. 571). scorge il rischio che “il mistico linguaggio della preghiera” si stravolga nel “mortale linguaggio delle armi”45. Uno “scenario apocalittico, sconvolgente”46 caratterizza poi la Sarajevo del 1997. Il “paesaggio di macerie” che si mostra allo sguardo mano a mano che gli italiani in visita si inoltrano nell’entroterra, con la guida di Matvejevic, impressiona ancor di più per il contrasto con il quieto profilo mediterraneo della costa, dove non c’è traccia di guerra e dove Consolo ritrova la vegetazione della sua terra. La città distrutta evoca le dure immagini del Trionfo della morte di Bruegel o quelle di Los desastres de la guerra di Goya47; i suoi resti, accostati a quelli di Assisi appena colpita dal terremoto, si fanno ammonimento, metafora “del nostro scadimento”: “siamo scivolati sul ciglio della voragine paurosa della natura”, ovvero è scomparsa la civiltà. Infernale è infine la Palestina, visitata da Consolo con altri membri del PIE nel 2002 48. Nella descrizione del tragitto che da Tel Aviv conduce a Ramallah, l’accostamento del paesaggio a quello siciliano si rompe all’apparizione dei check point e delle mitragliatrici, e sempre più nel procedere verso la striscia di Gaza si moltiplicano i segni di rovina e lutto, pur nella prorompente vitalità dei “nugoli di bambini dagli occhi neri”49, al punto che il percorso in direzione dei villaggi di Khan Yunus 45 Quei parabolizzati che sognano l’Italia, in “Corriere della sera”, 20 giugno 1991; Orgogliosa Algeri tra mitra e coltello, cit. Si veda anche la prefazione al libro di poesie di Mokthar Sakhri (Poesie, Libro italiano, Ragusa 2000). L’esperienza giornalistica ritorna nel romanzo Lo Spasimo di Palermo (pp. 903-905): Chino Martinez nel giardino della moschea di Parigi ripensa allo sciopero di Algeri, al mitra e al Corano degli integralisti. Sui fondamentalismi nel Mediterraneo si veda anche l’intervista con A. Prete, Il Mediterraneo oggi: un’intervista, cit., pp. 65-66. Sul fondamentalismo di matrice islamica e in particolare sull’attacco alle torri gemelle, Consolo si esprime manifestando un’accesa critica nei confronti di Oriana Fallaci, evidenziando da una parte che non serve reagire con la violenza e che molti sono i vantaggi dell’incrocio tra culture, come insegna la storia siciliana (l’intervista a cura di G. Caldiron, Lo scrittore siciliano Vincenzo Consolo risponde a Oriana Fallaci “Parole che conducono alla violenza”, in “Liberazione”, 2 ottobre 2001). 46 Ma questa è Sarajevo o Assisi, cit. 47 Sempre a proposito della guerra in Jugoslavia il riferimento all’opera di Goya compare in La morte infinita, in “Il Messaggero”, 6 febbraio 1994. 48 Madre Coraggio, in La mia isola è Las Vegas, pp. 195-200.49 Ivi, p. 197. e Rafah pare “una discesa nei gironi infernali”50. L’immagine più forte, quasi un simbolo, è però quella della resistenza eroica di una madre: ad aprire e chiudere il resoconto del viaggio è la figura della donna di Ramallah51, “imponente, dalla faccia indurita”, che vende nepitella raccolta nei luoghi selvatici e che di certo abita nel campo profughi, forse ha figli che combattono. 1.3 Mediterraneo come spazio di migrazioni
Nella rappresentazione offerta da Consolo l’immagine del Mediterraneo come spazio di migrazioni appare fondamentale e questo, oltre che per una chiara consapevolezza storica, per un’attenta lettura della contemporaneità. Divenuto, nei fatti, confine, limite, addirittura cimitero a causa della grande quantità di morti rimasti imprigionati nelle “carrette”, il mare potrebbe essere, invece, occasione di arricchimento in virtù dello scambio tra popoli. È un’immagine ideale, eppure realizzabile, quella che Consolo propone, insistendo su una storia di civiltà, quella siciliana in particolare, che ha la radice della sua grandezza proprio nell’incontro tra le differenze: ora che l’isola è divenuta luogo di approdo dei migranti che provano a sfuggire alla guerra, alla persecuzione o alla povertà, non si deve dimenticare che il progresso, quello vero, è sempre figlio dell’arricchimento che proviene dall’alterità. Lo dimostrano gli straordinari effetti della dominazione araba in Sicilia, a cui Consolo riconosce, sulla base di un ricco corredo di fonti e seguendo l’opinione di Sciascia, addirittura un valore fondante in termini di identità: i tratti tipici della sicilianità, ovvero lingua, letteratura, arte, agricoltura, cucina e persino fisionomia, risentono tutti del passato arabo52. Non 50 Ivi, p. 199. 51 Ivi, p. 195 e 200. 52 Estremamente rappresentativa appare a proposito la sezione Sicilia e oltre in Di qua dal faro e, in particolare, il saggio introduttivo, La Sicilia e la cultura araba. Il saggio si apre con alcune considerazioni sul legame tra la poesia della scuola siciliana e le qaside dei siculo-arabi, ancora attivi nell’isola sotto i Normanni (La Sicilia e la cultura araba, in Di qua dal faro, pp. 1187- 1192, a p. 1187) e riflette poi su diversi aspetti dell’influenza araba, ad esempio sulla rinascita economica e sullo spirito di tolleranza (p. 1189). Significativi nel testo i rimandi a Sciascia (in particolare alle pp. 1188-1189). Ricordo che ilrapporto tra Sciascia e il mondo arabo costituisce un ambito ricco di spunti suggestivi. Significativa è la conclusione del saggio di apertura de La corda a caso l’insistenza sulla presenza degli Arabi nell’isola si traduce nella frequente celebrazione delle innovazioni in ambito agricolo, tecnico, delle trasformazioni in ambito artistico-culturale. Di “rinascimento” parla Consolo, non perdendo occasione per evidenziare i lasciti, le tracce ancora vive nella contemporaneità siciliana. La lussureggiante Palermo, ad esempio, non avrebbe chiese-moschee, castelli, palazzi e giardini seducenti, non avrebbe aranceti se non ci fossero stati gli Arabi. Lo spazio insomma risulta segnato profondamente da questa “migrazione”. Sorprendenti riescono ad essere poi – afferma Consolo – gli incroci della storia, e Mazara, che ridiventa araba nel Novecento per il massiccio arrivo dei tunisini, aveva già nel momento del primo approdo dell’827 l’Africa nel suo nome, Mazar, traccia dell’antica presenza cartaginese. Come a dire che è sempre stato normale per i popoli spostarsi, il mare non è di nessuno, non può essere veramente limite, e la terra non reca un marchio di possesso ma molti strati di identità che il tempo e i popoli plasmano, partendo, arrivando. Se innumerevoli sono le eredità, anche visibili, tangibili, sebbene a rischio, del passato arabo, scomparsa del tutto risulta per Consolo la scelta della tolleranza e della convivenza tra culture, confermata anche dai normanni che non vollero eliminare la civiltà che li aveva preceduti, ma la integrarono e la valorizzarono. Perciò l’immagine del Mediterraneo come spazio di equilibrio e coesistenza tra le alterità non è solo parentesi del passato ma anche un’aspirazione, un esempio positivo da opporre a quanti insistono sui rischi dello scontro tra culture53. Che l’arrivo di nuovi popoli produca progresso è poi testimoniato per l’autore anche da migrazioni più antiche come dimostra pazza (1970), Sicilia e sicilitudine, in cui l’autore traccia un collegamento ideale tra Salvatore Quasimodo e un poeta arabo di otto secoli precedente, Ibn Hamdis, siciliano di Noto, accomunati dai toni con cui hanno fatto poesia della pena profonda dell’esilio (L. Sciascia, Sicilia e sicilitudine, in Id. La corda pazza, cit., pp. 11-17). Sulla questione particolarmente interessanti risultano anche le osservazioni contenute in uno degli scritti del Canton Ticino, su Tomasi di Lampedusa, apparso su “Libera Stampa” il 27 gennaio 1959, ora raccolto in Troppo poco pazzi (L. Sciascia, Marx Manzoni eccetera e il Gattopardo, in R. Martinoni, a cura di, Leonardo Sciascia nella libera e laica Svizzera, Olschki, Firenze 2011, pp. 102-104 alle pp. 102-103). 53 Nell’ultima intervista Consolo riflette proprio sull’ignoranza di chi solleva lo scontro di civiltà e accosta integralismo e islam (V. Pinello, op. cit.). l’entusiastica rappresentazione della Sicilia come museo a cielo aperto, che accoglie rovine antiche, città greche, elime, puniche. Ma numerosi sono anche i riferimenti alla nascita delle colonie, a volte molto precisi, con indicazione dell’ecista, del territorio di origine, degli sviluppi della vicenda coloniale54, sulla base dei dati forniti da fonti antiche, come l’opera di Tucidide55, o su testi più recenti che rinviano però alla storiografia greca. E ciò non solo nei testi saggistici: anche le prove narrative offrono una rappresentazione della Sicilia e del Mediterraneo che ne valorizza l’aspetto di crocevia di popoli. Concentrandosi sulle migrazioni dell’antichità, i testi impostano un implicito confronto con gli spostamenti di oggi, riconoscendovi ragioni identiche o simili, ovvero guerra, fame, difficoltà economiche. In particolare, ne L’olivo e l’olivastro56, Consolo si sofferma sull’emigrazione megarese verso la parte orientale dell’isola. La visita ai resti di Megara Hyblaea, oggetto dell’amorevole culto del giovane Salvo e dei suoi, mentre è in corso l’assedio della cannibalica civiltà industriale del polo siracusano, suscita un’entusiastica rievocazione dell’opera dell’ecista Lamis, dell’idea di uguaglianza e progresso dei coloni, della fertilità e della geometria nella suddivisione del terreno in lotti57. All’enfasi sulla fondazione Consolo 54 Ad esempio, Che non consumi tu tempo vorace, cit., p. 12; I muri d’Europa, in L. Restuccia, G.S. Santangelo, Scritture delle migrazioni: passaggi e ospitalità, Palumbo, Palermo 2008, p. 25. 55 L’archaiologhia siceliota del VI libro si apre con una sintesi storica a proposito dei più antichi popoli locali, a partire dai misteriosi Lestrigoni e Ciclopi, cui segue un quadro preciso delle migrazioni dalla Grecia e delle successive fondazioni. Consolo rinvia a Tucidide per la fondazione di Messina, l’antica Zancle (Vedute dallo stretto di Messina, in Di qua dal faro, p. 1045) e infatti il dato è rintracciabile in Tuc. VI 4,5. Ricava probabilmente dallo storico greco anche il dato relativo alla fondazione di Siracusa da parte dell’ecista Archia (Tuc. VI 3), ricordato in La dimora degli Dei (cit., p. 14). Oltre alla fonte tucididea si può riconoscere anche quella di Diodoro Siculo, esplicitata per la colonizzazione greca delle Eolie (Isole dolci del dio, cit., p. 21). 56 L’olivo e l’olivastro, p. 783. 57 Tucidide parla dell’arrivo dei Megaresi (Tuc. VI 4, 1-2) ma non riporta quest’ultimo dato della lottizzazione, che invece si ricava dai rilievi archeologici. A proposito si veda H. Tréziny, De Mégare Hyblaea à Sélinonte, de Syracuse à Camarine: le paysage urbain des colonies et de leurs sous-colonies, in M. Lombardo, F. Frisone (a cura di), Atti del convegno Colonie di colonie: le fondazioni subcoloniali greche tra colonizzazione e colonialismo, Lecce, 22-24 giugno 2006, Congedo editore, Galatina-Martina Franca, 2009, aggiunge il plauso per le capacità che i Megaresi, scacciati dai Corinzi di Siracusa, dimostrarono, affrontando l’ignoto della Sicilia occidentale dove fondarono Selinunte. Le sue parole trasfigurano il neutro dato storico di Tucidide (VI 4, 2) attribuendo all’opera dei coloni i tratti di una straordinaria epopea58. I resti della civiltà greca di Megara e Selinunte, dunque, risultano monito contro lo straniamento che viene dalla degenerazione economica e culturale. La coscienza dell’identità trascurata dello spazio e della civiltà che l’ha costruita, originariamente straniera, immigrata, ma secondo le fonti storiche “progredita”, costringe l’attenzione sul rischio della perdita in termini di biodiversità culturale, e l’interesse per gli antichi coloni greci diventa traccia ecocritica. Ha a che fare con la volontà di valorizzare il passato greco dell’isola anche il ricorso al mito. Oltre al viaggio di Ulisse, Consolo ama ricordare la vicenda di Demetra, la madre disperata che, in cerca di sua figlia Kore, vaga per il Mediterraneo59, leggenda molto siciliana, in virtù dei luoghi coinvolti: ad Enna c’era l’antica sede della dea60, e proprio lì si svolse il rapimento di Kore, mentre poco più a pp. 163-164; M. Gras, H. Tréziny, Mégara Hyblaea: le domande e le risposte, in Alle origini della magna Grecia, Mobilità migrazioni e fondazioni, Atti del cinquantesimo convegno di studi sulla Magna Grecia, Taranto 1-4 ottobre 2010, Stampa Sud, Mottola 2012, pp. 1133-1147. 58 L’olivo e l’olivastro, pp. 783-784, ma anche Retablo, p. 432; La Sicilia passeggiata, pp. 94-95; Malophoros, in Le pietre di Pantalica, p. 578. 59 Più volte Consolo esibisce citazioni dall’Inno a Demetra (nella traduzione di F. Cassola del 1975). In Retablo ad esempio (Retablo, p. 409) i primi due versi (“Demetra dalle belle chiome, dea veneranda, io comincio a cantare, / e con lei la figlia dalle belle caviglie, che Aidoneo / rapì”) sono esempio di suprema poesia per Clerici che sta sperimentando, nell’esperienza sublime dell’accoglienza da parte di Nino Alaimo, tra l’altro dedito al culto di una Grande Madre mediterranea, una sorta di possessione divina. La Sicilia passeggiata (p. 7) si apre con un’epigrafe tratta dall’Inno (Inno a Demetra, vv. 401-403) che pone l’attenzione sull’esito felice della vicenda, ovvero sul momento del ricongiungimento delle dee e sul ritorno della primavera; più avanti nel testo invece (La Sicilia passeggiata, p. 57) leggiamo anche i vv. 305-311 che descrivono l’amarezza di Demetra dopo la perdita della figlia e le conseguenze nefaste per gli uomini. In L’olivo e l’olivastro (p. 843) i versi 40-44 inquadrano i luoghi come scenario del vagabondaggio sofferente di Demetra. 60 La Sicilia passeggiata, p. 58; L’olivo e l’olivastro, p. 822. Al tradizionale luogo del culto di Demetra Consolo si riferisce anche nella prefazione al Sud, nell’area dello zolfo, la tradizione colloca il regno di Plutone61. La scelta autoriale chiama in causa le dinamiche di rappresentazione del Mediterraneo, ma anche l’identità profonda degli spazi geografici, evidentemente compromessa con il mito. Immaginario collettivo e prospettiva razionalizzante si intrecciano, nell’evidenziare il legame esistente tra Sicilia e Grecia, tra due differenti rive di uno stesso mare. Il culto e il mito, infatti, sarebbero conseguenza della colonizzazione greca62. Nel mito personale di un mondo antico vivace, fatto di intrecci e incroci alla presenza greca si aggiunge quella cartaginese o quella elima. La vicenda di quest’ultimo popolo, in bilico tra storia e mito, ha a che fare, già secondo Tucidide (VI 2), con l’arrivo in Sicilia dei Troiani: lo storico riferisce che la migrazione, successiva al crollo di Ilio, ebbe come effetto lo stanziamento in territori prossimi a quelli dei Sicani e tale vicinanza portò alla denominazione unica di Elimi per i due popoli; i centri più importanti di questa nuova civiltà furono Segesta e Erice. Consolo, pur conoscendo sicuramente il dato riportato dallo storico, è più sensibile in questo caso alla fonte poetica virgiliana. In La Sicilia passeggiata, ad esempio, il mistero sull’origine di Segesta – o Egesta – richiama i versi 755-758 del V libro dell’Eneide che proprio alla ktisis fanno riferimento63. La quale ktisis si conclude con la fondazione del tempio della dea Venere sulla vetta del monte Erice, com’è ricordato dai vv. 759-760 del V libro virgiliano che Consolo sceglie di citare in La Sicilia passeggiata (“Poi vicino alle stelle, in vetta all’Erice, fondano / un tempio a Venere Idalia”)64, quasi invitando a seguire nell’area occiden volume di F. Fontana dedicato a Morgantina (V. Consolo, Che non consumi tu tempo vorace, cit., p. 11-13) 61 Consolo ricorda questa associazione tra mito e luogo geografico in La Sicilia passeggiata, p. 62; Uomini e paesi dello zolfo, in Di qua dal faro, p. 985. 62 Molti gli studi sulla questione che evidenziano la difficoltà di definire la reale provenienza del culto di Demetra e Kore. Si veda ad esempio P. Anello, Sicilia terra amata dalle dee, in T. Alfieri Tonini (a cura di), Mythoi siciliani in Diodoro, Atti del seminario di studi, Università degli studi di Milano, 12-13 febbraio 2007 = in “Aristonothos, scritti per il mediterraneo antico”, 2, 2008, pp. 9-24. 63 La Sicilia passeggiata, p. 106. 64 Ivi, p. 108. Consolo precisa il dato poetico aggiungendo che in realtà il tempio è antecedente all’arrivo dei Troiani: parla infatti di un sacello sicano, elimo o fenicio già dedicato al culto della dea dell’amore. Si fa riferimento al tempio anche in Retablo (Retablo, p. 458) e in L’olivo e l’olivastro (L’olivo e l’olivastro, p. 860), dove ritroviamo la citazione dei versi dell’Eneide. In L’olivo e l’olivastro sono ricordati “il bosco e la spiaggia del funerale, tale dell’isola le orme del passaggio di Enea, sulla base delle indicazioni fornite dall’Eneide: un cammino attento potrebbe permettere di scoprire non solo l’area sacra ericina ma anche il bosco consacrato ad Anchise, la spiaggia dei sacrifici e delle gare65. La scelta di citare proprio i versi del rito di fondazione è interessante perché evidenzia la fusione tra popolazione straniera migrante, i Troiani, e popolazione locale, gli Elimi66. Da tutto ciò risulta evidente per Consolo che gli incontri, gli scambi tra popoli di culture diverse sono stati da sempre causa del cammino della civiltà, e che la chiusura, il rifiuto dell’ignoto che arriva da fuori, è perdita, regressione67. Perciò, egli, servendosi di una frase di Zanzotto, “Ci troviamo oggi tra un mare di catarro e un mare di sperma”, descrive il vecchio continente come perennemente arroccato nelle sue posizioni. “Vecchia” davvero è l’Europa, vecchia l’Italia, non solo per l’età media della popolazione, ma per una cecità di fronte all’arrivo delle masse disperate dei profughi che non riconosce la ricchezza dell’accoglienza e addirittura produce morboso attaccamento ai privilegi, difesi con pericolosi atteggiamenti xenofobi68. All’imperativo dell’accoglienza umanitaria, a cui implicitamente alludono nell’articolo Gli ultimi disperati del canale di Sicilia le immagini tremende del mare-cimitero (“bare di delle gare in onore d’Anchise” (Ivi, p. 861), menzionati anche in Lo spazio in letteratura (Di qua dal faro, p. 1241). Al mito dell’arrivo dei Troiani in Sicilia si riferisce anche in Retablo l’onomastica relativa al fiume “Criniso o Scamandro” (p. 415). 65 Virgilio narra che Enea, fermatosi presso Drepano – l’attuale Trapani – dopo la parentesi di Cartagine, viene ospitato da Aceste e, con lui e i suoi, celebra gli onori funebri in onore di Anchise, lì seppellito un anno prima. Alla ospitalità già ricevuta da parte di Aceste si riferisce Aen. I 195. La morte di Anchiseinvece è accennata in Aen. III 707-710. Gli onori funebri in suo onore e i giochi successivi sono al centro del V libro (vv 42-103 e 104-603). 66 Dopo che le donne, istigate da Giunone, hanno dato fuoco alle navi (Aen. V 604-699), l’eroe, ispirato dalla visione di suo padre, decide di fondare una nuova città che sarà abitata da una parte del suo seguito e dai troiani dell’isola. Aceste e i suoi, infatti, che sono già in Sicilia (Aen. V 30 e 35-41) appartengono ad un’antica stirpe troiana. 67 Quando i Lombardi emigrarono in Sicilia, in “Corriere della Sera”, 4 maggio 1991. 68 Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, in “La Repubblica”, 18 settembre 2007. La frase di Zanzotto è ripresa da A. Zanzotto, In questo progresso scorsoio. Conversazione con M. Breda, cit., pp. 68-69. Il poeta la usa per commentare la situazione dell’Italia, sospesa tra “un’Europa invecchiante e le esplosioni demografiche vicine”. ferro nei fondali del mare”) e dell’orrenda pesca dei morti (“i corpi degli annegati nelle reti dei pescatori siciliani”), si accompagna nella prospettiva autoriale l’invito ad una valutazione delle possibilità economiche e culturali che derivano dai flussi di migranti69. Estremamente significativo nel dibattito risulta per Consolo il caso della doppia migrazione da e verso il Maghreb. C’è stato un tempo lontano in cui il braccio di mare tra la Sicilia e le coste africane non era “frontiera, barriera fra due mondi, ma una via di comunicazione e di scambio”70, un tempo in cui era normale per i lavoratori di Sicilia, di Calabria o di Sardegna cercare fortuna nelle terre degli “infedeli”. Tale familiarità tra i due mondi è stata confermata dall’emigrazione ottocentesca, intellettuale e borghese prima, poi anche di braccianti dell’Italia meridionale, verso le coste nordafricane71. Si tratta di un fenomeno che sta molto a cuore a Consolo72. Non a caso egli lo accoglie nella narrazione di Nottetempo, casa per casa. 69 Negli stimoli offerti dall’emigrazione contemporanea Consolo scorge una possibilità di rinascita anche letteraria: così nell’intervista con A. Bartalucci (A. Bartalucci, op. cit., pp. 201-204, a p. 204). 70 Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, p. 1193. Consolo si è soffermato prima sulla seconda novella della quinta giornata del Decameron di Boccaccio che propone il tranquillo soggiorno di pescatori cristiani, trapanesi, nella musulmana Tunisia. Ma si veda anche in Retablo l’incontro di Clerici, accompagnato dal fido Isidoro e dal brigante, con Spelacchiata e i suoi compagni barbareschi, che si traduce in uno scambio di cerimonie (Retablo, pp. 438-440). L’episodio tiene conto dell’affinità culturale e della consuetudine dei rapporti tra paesi mediterranei. A proposito del valore della “rotta per Cartagine”, ovvero dell’attenzione consoliana per le relazioni storiche di contiguità e vicinanza tra Sicilia e Nord Africa, P. Montefoschi, Vincenzo Consolo: ritorno a Cartagine, in Id., Il mare al di là delle colline. Il viaggio nel Novecento letterario italiano, Carocci, Roma 2012, pp. 54-60; specificamente sull’episodio di Spelacchiata in Retablo, p. 55. 71 A proposito dell’emigrazione italiana in Tunisia si veda lo studio di F. Blandi: F. Blandi Appuntamento a La Goulette, Navarra Editore, Palermo 2012. 72 Del fenomeno Consolo fornisce dati precisi in diverse occasioni. Si veda in particolare Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, pp. 1195-1196; Il Mediterraneo tra illusione e realtà, integrazione e conflitto nella storia e in letteratura, in G.Interlandi (a cura di), La salute mentale nelle terre di mezzo. Per costruire insieme politiche di inclusione nel Mediterraneo, Atti del Convegno di Psichiatria Democratica, Caltagirone, 12-13 marzo 2009, numero monografico di “Fogli di informazione”, terza serie, 13-14, gennaio-giugno 2010, pp. 5-7. La fuga di Petro, nuovo Enea73, si inserisce proprio nel contesto storico della migrazione verso l’Africa settentrionale. La sua vicenda non è eccezionale, se non forse per le motivazioni, ma rientra nella normalità di un flusso migratorio consolidato74. La stessa presenza del personaggio storico di Paolo Schicchi, con cui Petro ha un breve colloquio sulla nave, obbedisce alla storicità del fenomeno. L’anarchico siciliano, infatti, non fu il solo a cercare rifugio in Tunisia per ragioni politiche: esisteva sulla sponda sud del Mediterraneo una nutrita comunità di antifascisti e addirittura una vera e propria comunità anarchica siciliana a Tunisi75. Il romanzo si chiude proprio con l’arrivo dall’altra parte del mare: i colori, le architetture, la vegetazione e gli uccelli sanciscono l’approdo ad un nuovo inizio, proprio come accadeva a coloro che emigravano in Tunisia76. Il nuovo spazio su cui si affaccia la nave si carica di attese, di possibilità, innesca un confronto con il passato, con la terra abbandonata, accende speranze, suscita decisioni. Petro lascia significativamente cadere in mare il libro che l’anarchico Schicchi gli ha consegnato durante il viaggio, a sancire il suo rifiuto per ogni forma di violenza, la sua volontà di essere “solo come un emigrante, in cerca di lavoro, casa, di rispetto”77. La prospettiva di chi guarda e vive il passaggio ad un nuovo spazio definisce e ridefinisce i contorni della realtà, quella che ha lasciato e quella a cui va incontro. La Tunisia non è per Petro un luogo neutro e nemmeno lo è la Sicilia. Allo stesso modo la terra di partenza e la Milano dell’arrivo vengono ridiscusse nell’esperienza 73 Non a caso il capitolo finale reca l’epigrafe virgiliana Longa tibi exilia et vastum maris aequor arandum (Aen. II 780) che permette di associare la Sicilia in preda all’alba fascista ad una Ilio in rovina e Petro in fuga all’eroe costretto a cercare una nuova terra. 74 Nottetempo, casa per casa, p. 752. Nell’intervista con Gambaro (F. Gambaro, V. Consolo, op. cit., p. 102) Consolo evidenzia l’importanza degli scambi tra le due rive del Mediterraneo, proprio a partire della vicenda degli italiani emigrati, perché essi permettono un arricchimento culturale e letterario. 75 Nottetempo, casa per casa, pp. 753-754. A proposito della comunità italiana in Tunisia si veda lo studio di Marinette Pendola (Gli italiani di Tunisia. Storia di una comunità (XIX-XX secolo), Ed. Umbra, “I Quaderni del Museo dell’emigrazione”, Foligno, 2007), curatrice anche del sito www.italianiditunisia.com, denso di informazioni storiche. 76 Nottetempo, casa per casa, p. 755. 77Ibidem. di migrazione che conduce i meridionali, negli anni del miracolo economico, alla volta del Nord. Come accade, d’altronde, allo stesso Consolo che, sebbene non si muova per fame ma per realizzazione intellettuale, sperimenta il passaggio, vive una ridefinizione dei luoghi. L’insistenza dell’autore sulla presenza significativa degli italiani in Maghreb e sugli innumerevoli scambi avvenuti tra l’una e l’altra riva del mare fin dal Medioevo va considerata in relazione al suo interesse per quell’emigrazione africana in Italia che ha avuto origine negli anni Sessanta e che non si è più arrestata. Le riflessioni a tal proposito sono estremamente lucide e inquadrano precocemente la questione. I primi lavoratori tunisini, forniti del semplice passaporto con il visto turistico e sprovvisti di quell’autorizzazione che permetteva un regolare contratto di lavoro, giungevano in Sicilia nel 1968. La presenza di questi primi immigrati, costretti a ritornare in patria alla scadenza del visto turistico, rispondeva alla domanda di lavoro a buon mercato da parte di proprietari terrieri e di armatori, per i quali reclutare questa manodopera e sfruttarne la condizione abusiva era senza dubbio un vantaggio. Ai primi immigrati si aggiunsero allora parenti e amici e il fenomeno si allargò78. “L’emigrazione in Italia dei poveri del Terzo Mondo”79 ha inizio a Mazara, proprio lì dove il 17 giugno 827 – ricorda Consolo citando Amari – sbarcavano i musulmani, città splendida e prestigiosa secondo il geografo Idrisi80. A distanza di secoli, scomparsa la bellezza del passato, dopo che miseria e crollo avevano generato quell’altra migrazione, “di pescatori, muratori, artigiani, contadini di là dal mare, a La Goulette di Tunisi, nelle campagne di Soliman, di Sousse, di Biserta”81, il miracolo economico degli anni Sessanta attivava di nuovo la rotta dal Nord Africa82. 78 Sul fenomeno si veda A. Cusumano, Il ritorno infelice, Sellerio, Palermo 1978. Consolo lo cita in diverse occasioni, ad esempio, Il ponte sul canale di Sicilia, Di qua dal faro, p. 1197. 79 L’olivo e l’olivastro, p. 865. 80 Ivi, p. 864. 81 Ivi, p. 865. 82 Ibidem. Si veda anche Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, pp. 1197-1198. Molti gli articoli sul caso di Mazara, ad esempio I guasti del miracolo, cit.; Morte per acqua, cit; “Ci hanno dato la civiltà”, cit. Ancora precedente l’articolo uscito su “Sans frontières” nel 1980 che si sofferma sulla storia di Mazara prima di concentrarsi sulla quarta guerra punica o guerra L’inversione di rotta, di cui Consolo evidenzia la specularità rispetto a quella italiana, va a riempire i vuoti lasciati dall’altro flusso migratorio, quello dei meridionali verso il Nord, e, anche se il caso di Mazara ha una sua indiscussa esemplarità, il fenomeno, come si è detto, già all’origine riguarda un po’ tutto il trapanese: una terra che ha più di un tratto in comune con la regione di partenza83. Ma mentre, accennando alla somiglianza geografica e culturale delle due rive del Mediterraneo, riporta l’attenzione sulla vicinanza tra i popoli e sui risvolti positivi dello scambio del passato, Consolo lascia emergere la stortura del presente e individua in questa nuova migrazione l’inizio di una lunga serie di episodi di xenofobia e persecuzione84. Gli immigrati maghrebini, infatti, a Mazara in maniera significativa, ma anche altrove, divennero presto oggetto di sfruttamento, divennero strumento di speculazione politica, furono vittime di razzismo, caccia, di rimpatrio coatto. Nel 1999, in Di qua dal faro Consolo già lamenta l’assenza di previsioni, progettazioni, di accordi tra governi85. La vicenda dei tunisini del trapanese e quella di tutti coloro che hanno attraversato e attraversano le acque del Mediterraneo – ma in alcune pagine il discorso si estende al mondo intero – alla ricerca di una nuova vita sono parte di un’unica drammatica storia scandita dalle tragedie quotidiane di corpi senza vita86. del pesce i cui protagonisti erano proprio i tunisini immigrati della casbah: Quatrième guerre punique, in “Sans frontières”, 30 settembre 1980. 83 Alla somiglianza tra Italia meridionale e Nord Africa Consolo fa riferimento in“Ci hanno dato la civiltà”, cit.. Sulla questione anche un articolo del 1981, Immigration africaine en Italie (“Sans frontières”, 3 gennaio 1981): l’Italia è la prima tappa dei migranti per necessità geografiche ma anche perché è una terra non veramente straniera. 84 L’olivo e l’olivastro, p. 865; Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, p. 1197. Nel precedente I guasti del miracolo (cit.) Consolo rileva lo scandalo del dopo terremoto di Mazara (7 giugno 1981): ai tunisini vengono negate le tende, perché stranieri e perché non votanti e quindi ininfluenti nelle imminenti elezioni regionali. 85 Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, pp. 1197-1198. 86 Uomini sotto il sole, in Di qua dal faro, p. 1202. In particolare l’espressione “d’altri, scoperti, gettati in pasto ai pescecani” allude ad un episodio specifico, già tema del racconto Memoriale di Basilio Archita (Le pietre di Pantalica, pp. 639-646): nel maggio 1984, l’equipaggio della nave Garyfallia, che al comando di Antonis Plytzanopoulos era salpata dal porto di Mombasa da poche ore, si rese colpevole della morte, in mare aperto, proprio in pasto ai L’ombra del mito antico si affaccia a rappresentare il destino dei migranti: essi ripetono l’esilio di Ulisse, ma soprattutto sono Enea in fuga da una terra in fiamme, oppure sono Troiane, fatte schiave e costrette ad allontanarsi dalla propria patria87. La condizione degli esseri umani nel mare nostrum sembra così trovare una sintesi nella citazione da Braudel – “in tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato”88–, originariamente riferita all’età di Filippo II. Ma ancor di più i versi eliotiani di Morte per acqua, che ritornano con frequenza sorprendente nei testi giornalistici e nelle prove narrative, riescono a parlare della realtà contemporanea. Già in Retablo l’episodio in cui la statua dell’efebo di Mozia si perde nel mare suscita la riflessione su un’altra perdita, che è ben più grave, quella delle vite umane che in ogni tempo si sono spente e si spengono nell’acqua, “sciolte nelle ossa” come Phlebas il fenicio89. In L’olivo e l’olivastro la citazione si lega esplicitamente alla memoria di un fatto di cronaca: nel 1981 il giovane Bugawi, vittima del naufragio del Ben Hur di Mazara, rimane in fondo al mare e “una corrente sottomarina / gli spolpò le pescecani, di un gruppo di clandestini. I migranti non vengono sacrificati solo nel Mediterraneo: la vicenda, infatti, come ricorda anche la voce narrante del racconto, il siciliano Basilio Archita, si svolge al largo delle coste del Kenia. I responsabili sono un “manipolo di orribili greci, dai denti guasti e le braccia troppo corte, mostri assetati di sangue e di violenza” (S. Giovanardi, Imbroglio siciliano, in “La Repubblica”, 2 novembre 1988; Id., Le pietre di Pantalica, in S. Zappulla Muscarà, Narratori siciliani del secondo dopoguerra, cit., pp. 179-182), insomma non hanno niente a che fare con i valori dell’antica Grecia. E anche la citazione di Kavafis, in bocca ad uno di loro, stride nel confronto con il terribile delitto. 87 Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, cit., o in I muri d’Europa, cit., p. 25. Entrambi i testi si aprono con citazione dalle Troiane di Euripide (vv. 45-47) e dall’Eneide di Virgilio (II 707-710). 88 Ad esempio a conclusione di Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, p. 1198; Il mare, in La mia isola è Las Vegas, p. 222; Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, cit.; I muri d’Europa, cit., p. 30; nel discorso al convegno per Psichiatria democratica, Il Mediterraneo tra illusione e realtà, integrazione e conflitto nella storia e in letteratura, cit. La citazione è tratta da F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II (F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, cit., pp. 981-982). 89 Retablo, p. 453. ossa in sussurri”90. Ma anche i naufraghi di Scoglitti91 sono Phlebas il fenicio, e lo sono tutti i morti del Mediterraneo, tutti quelli che le carrette stracariche e le responsabilità umane hanno lasciato affogare92. Dal 2002 in poi Consolo interviene in maniera decisa e con la consueta indignazione sull’intensificarsi del fenomeno migratorio e sulle responsabilità della politica. Già un testo del ‘90 evidenzia l’ampliamento smisurato del braccio di mare tra Sicilia e Nord Africa, ovvero, la distanza economica creatasi tra i due mondi93. Ancora di più gli articoli successivi, suscitati in particolare dalla legge Bossi Fini, si concentrano sul contrasto evidentissimo, soprattutto a Lampedusa e nelle altre Pelasgie, tra l’opulenza del turismo nella natura incontaminata e la disperazione dell’approdo dei migranti94. Il procedimento antifrastico con cui Consolo si finge sostenitore delle ragioni dei ricchi vacanzieri contro gli sbarchi invadenti degli stranieri evidenzia lo stridere dei due mondi: “Ma lì, a Lampedusa, inopinatamente vi giungono anche, mannaggia, gli emigranti clandestini”95. Così la bella Lampedusa diventa nuovamente scenario di guerra contro l’infedele, come nel poema ariostesco. Se la Lipadusa del Furioso, “piena d’umil mortelle e di ginepri / ioconda solitudi 90 L’episodio è rievocato, con citazione da Eliot, in L’olivo e l’olivastro, pp. 865-866. Nel giugno del 1981 appena dopo il terremoto che aveva colpito Mazara, gli armatori ebbero fretta di rimandare in acqua le navi. Nel naufragio del Ben Hur morirono cinque mazaresi e due tunisini. L’identità di questi rimase ignota per diversi giorni: un indizio della condizione di sfruttamento e illegalità in cui lavoravano gli stranieri. Sullo stesso episodio, sempre con riferimento a Phlebas il fenicio, si veda il già citato Morte per acqua, cit., o “Ci hanno dato la civiltà”, cit. 91 Dedicato ai morti per acqua, in “L’Unità”, 29 settembre 2002. La citazione dei versi di Eliot chiude l’articolo e, che mi risulti, è l’unico caso in cui il passo è riportato per intero. Consolo si riferisce a quanto avvenuto il 24 settembre 2002: uno scafista abbandona a 300 metri dalla spiaggia di Scoglitti il suo carico di migranti; le onde impediscono l’approdo, muoiono 14 persone. 92 Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, cit., o in I muri d’Europa, cit., p. 29. Meno esplicito il riferimento a Eliot in Immigrati avanzi del mare, in “L’Unità”, 18 giugno 2003, dove è l’aggettivo “spolpato” (“qualche corpo gonfio o spolpato finisce nelle reti dei pescatori”) che allude a Phlebas il fenicio. 93 Cronache di poveri venditori di strada, cit. 94 Il mondo di Bossi Fini stupido e spietato, in “L’Unità”, 29 agosto 2002. 95 Ibidem. ne e remota / a cervi, a daini, a caprioli, a lepri”96, ospita il triplice duello di Orlando, Brandimarte e Oliviero contro i saracini Gradasso, Agramante e Sobrino, nel Duemila l’isola, divenuta da “remoto scoglio”, “meta ambitissima del turismo esclusivo”, è luogo d’approdo di pescherecci e gommoni che rovesciano il loro carico di clandestini: “i nuovi turchi, i nuovi invasori saracini”97. E – ancora è dominante l’antifrasi –, se non ci sono gli antichi paladini a combatterli e neppure le navi militari auspicate da Bossi, c’è però il mare “quel fascinoso mare azzurro e trasparente che d’improvviso s’infuria e travolge ogni gommone o peschereccio”98. Tanto più assurde si rivelano le leggi per gestire gli arrivi e, se già prima della Bossi Fini, Consolo lamentava la violazione sistematica dei diritti dell’uomo, dopo il 2002 è ancora più duro. Bersaglio polemico sono le nuove normative, più rigide di quelle previste dalla legge Martelli o dalla Turco-Napolitano: le nuove disposizioni prevedono che le carrette siano bloccate in acque extraterritoriali, “forse anche speronate e affondate. Con tutto il loro carico umano”99. Bersaglio polemico sono i centri di prima accoglienza che – scrive – non meriterebbero questo nome, perché piuttosto di lager si tratta, luoghi atroci, di violenza e umiliazione100. Bersaglio polemico è la diffusione di sentimenti xenofobi, suscitati dalla politica nella mentalità comune, ben rappresentata dall’io narrante del racconto eponimo di La mia isola è Las Vegas che invoca la costruzione di muri d’acciaio per arrestare la marea dei migranti101. In quest’ottica di critica alla nuova legge e all’inadempienza del dovere morale verso i migranti va letta la netta opposizione di Consolo al progetto di un museo della migrazione a Lampedusa, promosso nel 2004 dalla deputata regionale dell’Udc Giusy Savarino. A lei l’autore si rivolge pubblicamente dalle pagine di “La 96 Ariosto, Orlando Furioso, XL 45 vv. 3-4. Il passo è ricordato da Consolo in Lampedusa è l’ora delle iene, “L’Unità”, 28 giugno 2003. Ma si veda anche Isole dolci del dio, cit., pp. 33-35. 97 Lampedusa è l’ora delle iene, cit. 98 Ibidem. 99 Il mondo di Bossi Fini stupido e spietato, cit. 100 Ibidem ma anche Immigrati avanzi del mare, cit. 101 La mia isola è Las Vegas, in La mia isola è Las Vegas, p. 217. Repubblica”, accusando l’ipocrisia profonda di una tale iniziativa102 e riflettendo su quanto sia irrimediabilmente compromessa l’identità dello spazio mediterraneo. Che cosa rimane del mare di miti e storia? Che cosa della mirabile convivenza tra culture diverse? Il monito dei reperti archeologici, delle narrazioni risulta poca cosa di fronte al mutamento dello sguardo collettivo sancito da leggi xenofobe e lager mascherati da centri di accoglienza: il mare si è fatto frontiera, confine, che gli altri, gli stranieri, non devono superare. Ed è contemporaneamente cimitero, spazio del sacrificio, della tragedia. Perciò il progetto di un museo a Lampedusa, l’isoletta dell’ariostesca lotta contro l’infedele, è, per Consolo, strumento di una retorica ipocrita, che non è giusto appoggiare: che senso avrebbe un monumento all’emigrazione, quando proprio i migranti vengono combattuti, respinti, lasciati morire in mare? Ma, d’altra parte, è il mondo intero ad aver subito una metamorfosi: si è mutato agli occhi dell’autore in un “im-mondo”, ovvero negazione di se stesso, perché preda della follia. La ripetizione dell’aggettivo “nostro”, associato sia allo spazio stravolto che alla massa di cadaveri, assume, nel testo in versi Frammento, toni accusatori, richiamando gli esseri umani alle proprie responsabilità nei confronti della morte di innocenti.
Nostri questi morti dissolti nelle fiamme celesti, questi morti sepolti sotto tumuli infernali, nostre le carovane d’innocenti sopra tell di ceneri e di pianti. Nostro questo mondo di follia. Quest’im-mondo che s’avvia…103
102 Solo un monumento per gli immigrati, in “La Repubblica”, 21 agosto 2004. Sulla questione Consolo si era già espresso qualche giorno prima: Perché non voglio quel museo, in “La Repubblica”, 19 agosto 2004. 103 Frammento, in Per una Carta “visiva” dei Diritti civili, Viennepierre, Milano 2001, anche in “Microprovincia”, 48, gennaio-dicembre 2010, p. 5.
È
accovacciata sul marciapiede sconnesso, le gambe incrociate sotto l’ampia gonna
colorata, il fazzoletto bianco in testa. Ha davanti a sé una cesta piena di
mazzetti di nepitella, la mentuccia che spontaneamente cresce nei luoghi
selvatici. Con un rapido gesto della ruvida mano nasconde sotto la gonna il
falcetto. Con quello, chissà in quale ora antelucana è andata su per i colli
rocciosi e desertici intorno a Ramallah per raccogliere quell’erba aromatica,
il cui infuso rinfresca le viscere e insieme allontana svariati malanni, calma
i nervi, toglie ansie, paure. Quella contadina imponente, dalla faccia
indurita da calure e da geli, deve essere una madre che mantiene i figli
vendendo nepitelle, vendendo cicorie, cardi, carciofi selvatici. Mi fa venire
in mente la Umm Saad, la madre di
Saad, dell’omonimo racconto di Ghassan Kanafani. E le eroiche madri di altri
scrittori, La madre di Gor’kij, Madre Coraggio di Brecht, la madre di Conversazione in Sicilia di Vittorini.
Ha un figlio, Saad, che combatte? E un altro figlio bambino, Said, che già si
esercita con il fucile? Deve certo abitare nel fango di un campo di profughi,
in una angusta stanza dalle pareti di latta.
Sono qui nel
centro di Ramallah, con lo scrittore spagnolo Juan Goytisolo, il poeta cinese
Bei Dao e il palestinese Elias Sanbar, traduttore in Francia de La terre nous est étroite di Mahmoud
Darwish. Ci aggiriamo nella rotonda piazza principale di questa città
dimessa, ferita, dov’è la fontana secca con quattro leoni di marmo. Sanbar ci
fa notare una stranezza: alla zampa di uno dei leoni l’artista ha voluto
scolpire un assurdo, surreale orologio. Quale ora segna? Della guerra, della
pace, della fine dello strazio infinito di questa terra martoriata? Facciamo
parte, noi tre, della delegazione del Parlamento internazionale degli scrittori
giunta qui ieri da Tel Aviv. Siamo partiti la mattina del 24 marzo da Parigi
(scrittori, registi, giornalisti), siamo giunti a Tel Aviv nel pomeriggio.
Su un pullman ci dirigiamo verso Ramallah. È un paesaggio, quello che attraversiamo,
di colline rocciose e desertiche, che somiglia all’altopiano degli Iblei in
Sicilia. Ci fermano per controlli ai checkpoint israeliani, postazioni in cemento
armato coperte da teli mimetici, dalle cui feritoie sbucano le canne delle
mitragliatrici. Presi in consegna dai palestinesi, siamo preceduti da una
vettura della polizia con i lampeggianti e un lugubre suono di sirena. All’albergo
incontriamo Darwish e altri palestinesi, fra cui Laila, portavoce dell’OLP,
che sarà nostra guida per tutto il viaggio. Di Darwish, obbligato dagli
israeliani a rimanere, come Arafat, prigioniero a Ramallah, Goytisolo aveva
scritto qualche giorno prima su Le
Monde che il poeta è la metonimia del popolo palestinese. Popolo scacciato
da questa “stretta terra”, costretto nei campi profughi, prigioniero in
questa Palestina straziata da conflitti senza fine.
“Il mio indirizzo è cambiato.
L’ora dei pasti,
la mia razione di tabacco, sono cambiati,
e il colore dei miei vestiti, la mia faccia e la mia sagoma. La luna
cosí cara al mio cuore qui,
è piú bella e piú grande ormai”,
scrive Darwish in La
prigione.
Una luna
piena, luminosissima campeggia nel cielo terso quando usciamo la sera. Qualcuno
ci indica, alte su un colle, le luci di un insediamento di coloni da cui piú
volte hanno sparato su Ramallah. Partiamo l’indomani per Bir Zeit. Facciamo
sosta al campo profughi Al-Amari, che porta lo stesso nome di Michele Amari, lo
storico dell’Ottocento, autore de La
storia dei musulmani di Sicilia. Il campo è misero, squallido. Le sue
stradine sono piene di bambini, nugoli e nugoli di bambini dagli occhi neri,
vivaci. Dice un palestinese, ironico: “Gli israeliani controllano tutta la
nostra vita, ma non riescono a controllare la nostra sessualità”. Anche questa
della demografia è una lotta contro l’occupazione, occupazione territoriale,
urbanistica, architettonica, agraria, linguistica…
Ci fanno
vedere la sede di un’associazione sportiva sventrata dagli israeliani
all’interno, stanza dopo stanza, devastata, l’arredo ridotto ad ammassi
informi. Raccolgo da terra un manifesto in cui è effigiata una squadra di calcio:
giocatori in maglia rossa e pantaloncini neri. Chissà chi è vivo e chi è morto
di quei giovani, chi è libero o in prigione. Lo stesso gesto, di raccogliere un
foglio tra le macerie, l’avevo fatto a Sarajevo, nella redazione distrutta
dalle cannonate del giornale Oslobodjenje
(Liberazione).
In uno
strettissimo vicolo tra le baracche, quattro anziane donne sono sedute una
accanto all’altra. Al nostro passaggio, parlano tutte insieme a voce alta,
cadenzano le parole con gesti delle mani: un flusso fra il lamento e l’invettiva
in cui si distingue chiaro solo il nome di Sharon. Sembra, questo delle anziane
donne, il coro d’una tragedia greca.
Dopo una
lunga attesa al checkpoint, dove è ferma una colonna infinita di macchine e
autocarri, una lunghissima fila di gente appiedata, raggiungiamo l’università
di Bir Zeit. Gli studenti ci accolgono festosi, accolgono con gioia
soprattutto il loro poeta, Darwish. Sono 1500 gli studenti, ci dicono i
professori, che ogni giorno, a causa dei blocchi stradali, fanno grande fatica
per raggiungere l’università. Abbiamo un incontro con scrittori e intellettuali
palestinesi e una conferenza stampa al Palestina Media Center.
Di ritorno a
Ramallah, siamo condotti al quartier generale dell’Autorità della Palestina,
per incontrare Arafat. Il quale appare, dopo un po’, nel suo ufficio.
Riconosce Soyinka e Saramago. Il presidente del Parlamento internazionale
degli scrittori, l’americano Russell Banks, gli dice del nostro appello per la
pace diffuso il 6 marzo scorso, gli dice quale messaggio ci vuole affidare.
Risponde Arafat: “Fra qualche giorno è la Pasqua giudaica, la ricorrenza della
liberazione del popolo ebraico dalla schiavitú in Egitto. Sono loro adesso che
devono tendere la mano agli schiavi di oggi, a noi palestinesi. Dite agli
ebrei americani che domandiamo agli israeliani la liberazione dei territori
occupati e il riconoscimento dello stato palestinese. Quando ero bambino,”
aggiunge, “abitavo a Gerusalemme, vicino al Muro del pianto. Per tutta la
mia infanzia ho giocato coi bambini ebrei. Dite agli americani che qui, nel
mio ufficio, vicino al mio tavolo di lavoro, tengo la menorah” e si alza,
Arafat, va a prendere il piccolo candelabro a sette braccia e ce lo mostra.
Poi ricorda che ventuno donne hanno partorito in macchina al checkpoint, che
due di esse lí sono morte, che è morto un neonato.
Avevo
incontrato quest’uomo nel novembre del 1982 (vent’anni fa!) ad Hammam-Lif,
vicino Tunisi, dove si era rifugiato dopo la fuga dal Libano, la strage di
Sabra e Chatila. Ed era là, a cercare di ucciderlo, il suo nemico di sempre,
Ariel Sharon. Quello che ancora oggi, nel momento in cui scrivo, lo assedia
con i suoi carri armati, spara contro il suo quartier generale, lo costringe in
due stanze, senza luce elettrica, senza acqua. E intanto, ragazze e ragazzi
imbottiti di tritolo si uccidono e uccidono in questa terra santa che è
diventata infernale. Intanto, la pervicacia e la violenza del duellante Sharon,
il silenzio assenso dell’alleato Bush provocano la reazione dei paesi arabi,
fanno temere il peggio. “Fanno la guerra alla pace” ha detto, quasi in
pianto, il Papa di Roma.
E qui al
sicuro, nel mio Paese, nella mia casa, appena tornato dal viaggio in
Israele/Palestina, per le atroci notizie che arrivano, per le telefonate
giornaliere con Piera, un’italiana sposata a un palestinese, chiusa nella sua
casa di Ramallah, priva di luce, di acqua, sento l’inutilità di ogni parola, la
sproporzione fra questo mio dovere di scrivere, di testimoniare della realtà
che abbiamo visto, delle persone che abbiamo incontrato, e la grande tragedia
che si sta svolgendo laggiú.
Ma si ha il
dovere di scrivere. Partiamo l’indomani per Gaza. Lunga attesa al checkpoint di
Erez, sul confine della Striscia. Ci attendono di là le macchine con le bandiere
dell’ONU. Nella Striscia di Gaza, come in una discesa nei gironi infernali,
arriviamo ai due estremi villaggi di Khan Yanus e di Rafah, villaggi
recentemente rioccupati e distrutti. Rafah soprattutto, sul confine con
l’Egitto, rasa completamente al suolo dai bulldozer. Ci raccomandano di stare
sempre uniti al gruppo, di non isolarci, se no rischiamo d’essere colpiti da
una qualche pallottola sparata dagli alti fortini di cemento là sul confine.
Mentre saliamo sul terrapieno di macerie, un uomo con le stampelle accanto a
me cade, si ferisce il viso, le mani. Lo aiutiamo a rialzarsi. E l’uomo,
tenace, arriva al centro del gruppo, comincia a dire, a raccontare. Qui, dove
sono le macerie, era la sua casa, la casa dove abitava con la moglie e i sette
figli.
Alle due di
notte sono giunti i carri armati, i bulldozer, che in un paio d’ore hanno
abbattuto e spianato tutte le case del villaggio. Sotto quelle macerie sono
ora seppelliti tutti i loro ricordi, i libri, i quaderni di scuola dei figli.
Una donna accanto, forse la moglie, con voce acuta gli fa eco, riprende il
racconto.
A Khan
Yanus, poco dopo, si sente una nenia diffusa da un altoparlante. In una
stradina, addobbata a drappi e festoni, si sta svolgendo una cerimonia funebre
per uno di quei combattenti e terroristi che loro chiamano “martiri”. La
cerimonia, ci spiegano, dura tre giorni, con visite ai parenti, con offerte di
cibo e musiche. È l’antica cerimonia funebre mediterranea, quella che Ernesto
De Martino ha illustrato in Morte e
pianto rituale.
Sono ancora
notizie di morte e pianto mentre scrivo, delle occupazioni delle città
palestinesi; di esplosioni di tritolo, di suicidi e stragi in ogni dove.
Notizie di angoscia. E devo scrivere del nostro viaggio, della breve, fortunata
sospensione della violenza in cui esso si è svolto. Ma il ricordo ora si fa
confuso, come un sogno di cui al risveglio non ci rimangono che frammenti.
Frammenti sono ora l’incontro a Gerusalemme con David Grossman, la visita
alla città vecchia, la processione di padri francescani in una stretta via, la
corsa degli ebrei ortodossi, con cappelloni e palandrane neri, verso il Muro
del pianto, l’aggirarci nel quartiere arabo. Frammenti, nella grande hall
dell’albergo di Tel Aviv, la visione di tenere fanciulle e di giovinetti
vestiti da soldati di Sharon. Ma nitido m’è rimasto il viso del poeta Aharon,
un israeliano dissidente, e il viso del suo figliolo David, disertore
dell’esercito. Sono loro due, padre e figlio, che davanti all’albergo, con
mesto sorriso e timido cenno della mano, ci salutano mentre sul pullman ci
muoviamo per andare all’aeroporto. Aharon e David ricordo, e la madre di
Ramallah, quella accovacciata a terra, con accanto il suo falcetto e i mazzi di
nepitella.
[i] In Viaggio in Palestina, Roma: Nottetempo, 2003, pp. 65-72; «Odissea», maggio-giugno 2003. Il racconto è datato in calce: «Milano, 3 aprile 2002». Una prima versione abbreviata è uscita con il titolo: Fra le macerie dei Territori ho visto dolore, orgoglio, tenacia, «Corriere della sera», 5 aprile 2002 [occhiello: «Medio Oriente sfida senza fine/ Il viaggio di uno scrittore»; sottotitolo: «La madre-coraggio con la mentuccia, il poeta che fa sognare gli studenti»], subito seguita da quella integrale in spagnolo: Las palabras y la tragedia, «El País», 13 aprile 2002; e in francese: Mère courage, in Russell Banks, Breyten Breytenbach, Vincenzo Consolo, Bei Dao, Juan Goytisolo, Christian Salmon & Wole Soyinka, Le voyage en Palestine, Montpellier: Climats, 2002, pp. 69-77.