Contro l’«im-mondo» dei morti in mare, il dialogo tra i popoli. Le parole di Vincenzo Consolo

Mediterraneo (ph. Claudio Masetta Milone)

di Ada Bellanova 

Nostri questi morti dissolti/ nelle fiamme celesti, / questi morti sepolti/ sotto tumuli infernali, nostre le carovane d’innocenti / sopra tell di ceneri e di pianti. / Nostro questo mondo di follia. Quest’im-mondo che s’avvia...[1]

In questi versi, di Frammento, Consolo accusa l’umanità intera, inchiodandola alle proprie responsabilità di fronte alla morte di innocenti: lo fa definendo «nostro» sia lo spazio stravolto del pianeta e della contemporaneità – l’ «im-mondo» – sia la massa di cadaveri che ne sono vittime. Non si fa fatica a leggere in questo breve e raro testo poetico soprattutto l’indignazione per le morti generate da guerre e migrazione nel mare nostrum, quel mare in cui, come scrive Braudel, più volte citato, «l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato» [2].

Penso che oggi, di fronte ai nuovi, continui sbarchi, di fronte ai nuovi morti in mare, alle politiche europee ancora non risolutive e divisive, ma anche di fronte ai nuovi conflitti, Consolo avrebbe simili, se non identiche, parole di indignazione. Mi vengono in mente altri versi però, anche questi poco noti, che mi sembra possano costituire una sintesi dell’alternativa all’«im-mondo» proposta dall’intellettuale, proposta sempre valida, tanto più per chi abita il Mediterraneo. 

Sei nato dal carrubo
e dalla pietra
da madre ebrea
e da padre saraceno.
S’è indurita la tua carne
alle sabbie tempestose
del deserto,
affilate si sono le tue ossa
sui muri a secco
della masseria.
Brillano granatini
sul tuo palmo
per le punture
delle spinesante [3].

 Mi piace pensare che con l’ignoto “tu” Consolo alluda ad un’identità sua e di tutti i figli del Mediterraneo, un’identità non priva di sofferenze, nata da una relazione vecchia di secoli con la terra, le piante, i muri a secco, con i paesaggi, soprattutto un’identità nata dagli incroci («sei nato da madre ebrea / e da padre saraceno»). 

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Il Mediterraneo di Consolo

La riflessione sulla complessità del Mediterraneo è il filo conduttore di tutta l’opera di Consolo e si innesta sulle considerazioni a proposito della varietà e della molteplicità che caratterizzano la storia, l’ambiente, il patrimonio della Sicilia [4]. Come estremamente significativo è nell’Isola il flusso incessante di energie umane e culturali, che hanno condizionato e condizionano il paesaggio, accostando e sovrapponendo più identità [5], allo stesso modo l’intero Mediterraneo è amalgama, crocevia di popoli differenti, non solo territorio della conflittualità ma anche patrimonio ricchissimo, possibilità della relazione e dello scambio.  

Dello spazio estremamente vario e molteplice Consolo coglie caratteri ricorrenti, corrispondenze e somiglianze: memoria di paesaggi noti, conoscenze geografiche, storia della rappresentazione si intrecciano nel proporre associazioni relative al patrimonio naturalistico, considerazioni sulle fragilità degli spazi urbani e sui problemi ecologici. Tutto il Mediterraneo è, ad esempio, regno solare degli aranci [6]; pini, ulivi, fichi e vigne caratterizzano il paesaggio balcanico ma anche quello greco, siciliano, turco [7]; le colline rocciose della Palestina somigliano a quelle degli Iblei siciliani [8]. Città, anche distanti, sono accomunate dalla fatica nella gestione della verticalità, della stratificazione, dal segno della decadenza a contatto con la modernità: la Casbah di Algeri è come il centro storico di Palermo [9], il paesaggio urbano siracusano somiglia a quello di Salonicco [10]. L’intero Mediterraneo, poi, è segnato da «piccoli luoghi antichi e obliati», dove natura e resti del passato si intrecciano [11] e che sono privi dell’attenzione che invece sarebbe doverosa.

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In questo scenario complesso l’uomo si macchia infatti della colpa dell’incuria nei confronti del patrimonio naturalistico e culturale. Ma ancor di più è responsabile della violenza contro la vita umana, in svariate forme. Il Mediterraneo è, per Consolo, spazio della conflittualità: Palermo, in preda alle lotte di mafia, è come Beirut [12]; Comiso, coi suoi missili Cruise, rappresenta la minaccia costante della violenza tra popoli [13]; l’integralismo del Maghreb stravolge la preghiera nella violenza brutale delle armi [14]; uno «scenario apocalittico, sconvolgente», un «paesaggio di macerie» [15] caratterizzano la Sarajevo del 1997; infernale è la Palestina, visitata dall’autore con altri membri del PIE nel 2002 [16]. Soprattutto il mare nostrum è teatro della violenza nei confronti dei migranti.

Alla rappresentazione del loro destino concorre l’uso del mito antico. I migranti, infatti, ripetono il tormento del vagare di Ulisse, che non è proposto come l’eroe del ritorno – tanto più che non si può più tornare davvero nella terra da cui si è partiti – ma è piuttosto il naufrago, l’esule senza nome alla corte del re dei Feaci [17]; essi sono Enea in fuga da una terra in fiamme, sono Troiane, fatte schiave e costrette ad allontanarsi dalla propria patria [18].

Ma ancor di più i versi eliotiani di Morte per acqua riescono a parlare della realtà contemporaneaIn Retablo l’episodio in cui la statua dell’Efebo di Mozia si perde nel mare suscita la riflessione su un’altra perdita, ben più grave, quella delle vite umane che in ogni tempo si sono spente e si spengono nell’acqua, «sciolte nelle ossa» come Phlebas il fenicio [19]. In L’olivo e l’olivastro la citazione si lega esplicitamente al ricordo della morte del giovane Bugawi, morto nel 1981 per il naufragio del Ben Hur e condannato a rimanere per sempre in fondo al mare [20]. Anche i naufraghi di Scoglitti [21] sono Phlebas il fenicio, e lo sono tutti i morti del Mediterraneo, tutti quelli che barconi stracarichi e responsabilità umane hanno lasciato affogare [22].

Pagina del manoscritto con la citazione di Braudel

Già in un testo del ‘90 Consolo evidenzia l’ampliamento smisurato del braccio di mare tra Sicilia e Nord Africa [23]: l’autore osserva un confine laddove prima non c’era «frontiera, barriera fra due mondi, ma una via di comunicazione e di scambio» [24]. Non è un caso che si riferisca in più occasioni all’emigrazione di lavoratori di Sicilia, di Calabria o di Sardegna nelle terre degli «infedeli», all’emigrazione specie ottocentesca fatta anche di intellettuali e borghesi [25]. La sua insistenza va considerata in relazione al suo interesse per quell’emigrazione africana in Italia che ha avuto origine negli anni Sessanta e che non si è più arrestata. Le riflessioni a tal proposito sono estremamente lucide e inquadrano precocemente la questione. 

I primi lavoratori tunisini, forniti del semplice passaporto con il visto turistico e sprovvisti di quell’autorizzazione che permetteva un regolare contratto di lavoro, giungevano in Sicilia nel 1968. La presenza di questi primi immigrati, costretti a ritornare in patria alla scadenza del visto turistico, rispondeva alla domanda di lavoro a buon mercato da parte di proprietari terrieri e di armatori, per i quali reclutare questa manodopera e sfruttarne la condizione abusiva era senza dubbio un vantaggio.  Ai primi immigrati si aggiunsero allora parenti e amici e il fenomeno si allargò [26].

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«L’emigrazione in Italia dei poveri del Terzo Mondo» [27] ha inizio a Mazara, città che il 17 giugno 827 – ricorda Consolo citando Amari – accolse lo sbarco dei musulmani [28]. A distanza di secoli il miracolo economico degli anni Sessanta attiva di nuovo la rotta dal Nord Africa [29] che va a riempire i vuoti lasciati dall’altro flusso migratorio, quello dei meridionali verso il Nord. Anche se il caso di Mazara ha una sua indiscussa esemplarità, il fenomeno già all’origine riguarda un po’ tutto il trapanese: una terra che ha più di un tratto in comune con la regione di partenza [30]. Ma mentre, accennando alla somiglianza geografica e culturale delle due rive del Mediterraneo, porta l’attenzione sulla vicinanza tra i popoli e sui risvolti positivi dello scambio del passato, Consolo fa emergere la stortura del presente e individua in questa nuova migrazione l’inizio di una lunga serie di episodi di xenofobia e persecuzione [31].

Nel 1999, in Di qua dal faro, l’intellettuale già lamenta l’assenza di previsioni, progettazioni, di accordi tra governi [32]. Gli articoli successivi, suscitati in particolare dalla legge Bossi-Fini, si concentrano sul contrasto evidentissimo, soprattutto a Lampedusa e nelle altre Pelasgie, tra l’opulenza del turismo nella natura incontaminata e la disperazione dell’approdo dei migranti [33]. Il procedimento antifrastico con cui Consolo si finge sostenitore delle ragioni dei ricchi vacanzieri contro gli sbarchi invadenti degli stranieri evidenzia lo stridere dei due mondi: «Ma lì, a Lampedusa, inopinatamente vi giungono anche, mannaggia, gli emigranti clandestini»[34]. Così la bella Lampedusa diventa scenario di guerra contro l’infedele, come nel poema ariostesco. Nel Duemila l’isola, divenuta da «remoto scoglio», «meta ambitissima del turismo esclusivo», è luogo d’approdo di pescherecci e gommoni che rovesciano «i nuovi turchi, i nuovi invasori saracini», ovvero il carico di clandestini [35]. E – ancora è dominante l’antifrasi –, se non ci sono gli antichi paladini a combatterli e neppure le navi militari auspicate da Bossi, c’è però il mare che s’infuria e travolge ogni imbarcazione [36].

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Assurde si rivelano le leggi per gestire gli arrivi e, se già prima della Bossi-Fini, Consolo lamentava la violazione sistematica dei diritti dell’uomo, dopo il 2002 è ancora più duro. Bersaglio polemico sono le nuove normative, più rigide: le nuove disposizioni prevedono che le carrette siano bloccate in acque extraterritoriali, «forse anche speronate e affondate. Con tutto il loro carico umano» [37]. Bersaglio polemico sono i centri di prima accoglienza che – scrive – non meriterebbero questo nome, perché piuttosto di lager si tratta, luoghi atroci, di violenza e umiliazione [38]. Bersaglio polemico è la diffusione di sentimenti xenofobi, suscitati dalla politica nella mentalità comune, ben rappresentata dall’io narrante del racconto eponimo di La mia isola è Las Vegas che invoca la costruzione di muri d’acciaio per arrestare la marea dei migranti [39].

In quest’ottica di critica alla nuova legge e all’inadempienza del dovere morale verso i migranti va letta la netta opposizione di Consolo al progetto di un museo della migrazione a Lampedusa, promosso nel 2004 dalla deputata regionale dell’Udc Giusy Savarino. A lei l’autore si rivolge pubblicamente, accusando l’ipocrisia profonda di una tale iniziativa [40] e riflettendo su quanto sia irrimediabilmente compromessa l’identità dello spazio mediterraneo. Niente rimane del mare di miti e storia, niente della straordinaria convivenza tra culture diverse. Il monito dei reperti archeologici, delle narrazioni risulta poca cosa di fronte al mutamento dello sguardo collettivo sancito dalle leggi e ai lager mascherati da centri di accoglienza: il mare si è fatto frontiera, confine, che gli altri, gli stranieri, non devono superare. Ed è contemporaneamente cimitero, spazio del sacrificio, della tragedia. Perciò il progetto di un museo a Lampedusa è, per Consolo, strumento di una retorica ipocrita, che non è giusto appoggiare: che senso avrebbe un monumento all’emigrazione, quando proprio i migranti vengono combattuti, respinti, lasciati morire in mare?   

Divenuto, nei fatti, confine, limite, addirittura cimitero a causa della grande quantità di morti, il mare potrebbe essere, invece, occasione di arricchimento in virtù dello scambio tra popoli. È un’immagine ideale, eppure realizzabile, quella che Consolo propone, insistendo su una storia di civiltà, quella siciliana in particolare, che ha la radice della sua grandezza proprio nell’incontro tra le differenze: se l’isola è divenuta luogo di approdo dei migranti che provano a sfuggire alla guerra, alla persecuzione o alla povertà, non si deve dimenticare che il progresso, quello vero, è sempre figlio dell’arricchimento che proviene dall’alterità. Lo dimostrano gli straordinari effetti della dominazione araba in Sicilia, a cui Consolo riconosce, sulla base di un ricco corredo di fonti e seguendo l’opinione di Sciascia, un valore fondante in termini di identità [41]. Non a caso l’insistenza sulla presenza degli Arabi nell’Isola si traduce nella frequente celebrazione delle innovazioni in ambito agricolo, tecnico, delle trasformazioni in ambito artistico-culturale.

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Che l’arrivo di nuovi popoli – tutti, non solo gli Arabi – produca progresso è poi testimoniato per l’autore anche da migrazioni più antiche come dimostra l’entusiastica rappresentazione della Sicilia come museo a cielo aperto, che accoglie rovine del passato, città greche, elime, puniche. Numerosi sono i riferimenti alla nascita delle colonie, a volte molto precisi, con indicazione dell’ecista, del territorio di origine, degli sviluppi della vicenda coloniale, sulla base dei dati forniti da fonti antiche, come l’opera di Tucidide, o su testi più recenti che rinviano però alla storiografia greca: testi saggistici e prove narrative offrono una rappresentazione della Sicilia e del Mediterraneo che ne valorizza l’aspetto di crocevia di popoli e, concentrandosi sulle migrazioni dell’antichità, impostano un implicito confronto con gli spostamenti della contemporaneità, riconoscendovi ragioni identiche o simili, ovvero guerra, fame, difficoltà economiche.

Ne L’olivo e l’olivastro [42], ad esempio, Consolo si sofferma sull’emigrazione megarese verso la parte orientale dell’isola. La visita ai resti di Megara Hyblaea, assediata dall’orrendo polo industriale siracusano, suscita una rievocazione estremamente positiva dell’opera dell’ecista Lamis, dell’idea di uguaglianza e progresso dei coloni, della fertilità e della geometria nella suddivisione del terreno in lotti. All’enfasi sulla fondazione Consolo aggiunge il plauso per le capacità che i Megaresi, scacciati dai Corinzi di Siracusa, dimostrarono, affrontando l’ignoto della Sicilia occidentale dove fondarono Selinunte [43]. Se poi, in La Sicilia passeggiata, il mistero sull’origine di Segesta richiama i versi 755-758 del V libro dell’Eneide che, con il cenno alla costruzione del tempio di Venere sul monte Erice, fanno riferimento alla ktisis [44], questo accade perché allo scrittore interessa evidenziare la conseguente fusione tra popolazione straniera migrante (i Troiani) e popolazione locale (gli Elimi).

Risulta chiaro allora che per Consolo gli incontri, gli scambi tra popoli di culture diverse sono stati da sempre causa del cammino della civiltà, e che la chiusura, il rifiuto dell’ignoto che arriva da fuori, è perdita, regressione [45].Perciò, egli, servendosi di una frase di Zanzotto, «Ci troviamo oggi tra un mare di catarro e un mare di sperma», descrive il vecchio continente come scioccamente arroccato nelle sue posizioni. Vecchia davvero è l’Europa, vecchia l’Italia, non solo per l’età media della popolazione, ma per una cecità di fronte all’arrivo delle masse disperate dei profughi che non riconosce la ricchezza dell’accoglienza e addirittura produce morboso attaccamento ai privilegi, difesi con pericolosi atteggiamenti xenofobi [46].

All’imperativo dell’accoglienza umanitaria, a cui implicitamente alludono nell’articolo Gli ultimi disperati del canale di Sicilia le immagini tremende del mare-cimitero («bare di ferro nei fondali del mare») e dell’orrenda pesca dei morti («i corpi degli annegati nelle reti dei pescatori siciliani»), Consolo aggiunge la necessità di una valutazione delle possibilità economiche e culturali, persino letterarie, che derivano dai flussi di migranti. 

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Conclusioni

Se l’emigrazione a cui si riferiva Consolo era soprattutto quella dal Nord Africa – anche se non mancano nella sua opera riferimenti ad altre rotte, non mediterranee – oggi la provenienza dei migranti è più varia e non interessa solo il canale di Sicilia, sebbene Lampedusa continui ad essere punto di approdo per molti. Siamo atrocemente avvezzi alle immagini di tragedie in mare: per citarne solo alcune, quella del 3 ottobre 2013 proprio nelle acque di Lampedusa, il naufragio nei pressi di Bodrum del 2015, tristemente noto per la foto del corpo del piccolo Alan Kurdi, o quello più recente di Steccato di Cutro.

Di fronte ad uno scenario complicato dalla varietà di provenienze e rotte e, ancora, da politiche non risolutive, la lezione di Consolo resta quanto mai valida. Dalla conoscenza storica deve venire la consapevolezza che il progresso è sempre figlio dell’incontro e non si può allora guardare al Mediterraneo, e a nessun altro luogo, in termini di confine, limite: in gioco ci sono, proprio come scriveva l’autore, questioni culturali e economiche che non possono essere trascurate e ciò da parte dell’uomo comune e da parte dei politici. L’invito alla memoria del nostro passato inoltre implica l’invito al recupero dell’umanità – i Feaci accolgono e soccorrono Ulisse quando lo trovano naufrago – e della pacifica convivenza tra popoli diversi – la civiltà araba, ad esempio in Sicilia, seppe proporre un lodevole dialogo tra le diversità. Se non vogliamo che l’«im-mondo» prenda il sopravvento, allora, dobbiamo soprattutto restare umani. 

Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023
Note
[1] V. Consolo, Frammento, in Per una Carta “visiva” dei Diritti civili, Viennepierre, Milano 2001, anche in “Microprovincia”, 48, gennaio-dicembre 2010: 5.
[2] La citazione del passo di Braudel è molto frequente nell’opera di V. Consolo, ad esempio a conclusione di Il ponte sul canale di Sicilia (Di qua dal faro, in L’opera completa,a cura e con un saggio introduttivo di G. Turchetta e uno scritto di C. Segre, Mondadori, Milano 2015: 1198). Il passo di Braudel è in F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, trad. it. di C. Pischedda, Einaudi, Torino 1976: 921-922.
[3] Accordi. Poesie inedite, a cura di F. Zuccarello e C. Masetta Milone, Zuccarello editore, Sant’Agata di Militello 2015.
[4] Sull’argomento, ho già scritto diffusamente in A. Bellanova, Un eccezionale baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo, Mimesis, Milano 2021: 281-307.
[5] Emblematico Uomini e paesi dello zolfo, in Di qua dal faro, cit.: 981-982.   
[6] Arancio, sogno e nostalgia, in “Sicilia Magazine”, dicembre 1988:35-46, ora in La mia isola è Las Vegas, a cura di N. Messina, Mondadori, Milano 2012: 128-133, 128-129.
[7] Ma questa è Sarajevo o Assisi?, in “L’Espresso”, 30 ottobre 1997.
[8] Madre Coraggio, in La mia isola è Las Vegas, cit.: 196. 
[9] Orgogliosa Algeri tra mitra e coltello,in“Il Messaggero”, 20 settembre 1993.
[10] Le pietre di Pantalica, in Le Pietre di PantalicaL’opera completa, cit.: 619. Neró metallicó, in Il corteo di Dioniso, La Lepre edizioni, Roma 2009: 9.
[11] L’olivo e l’olivastroL’opera completa, cit.: 836.   
[12] Le pietre di Pantalica, in Le pietre di Pantalica, cit.: 625.
[13] Ivi: 623.
[14] Ad esempio in Quei parabolizzati che sognano l’Italia, in “Corriere della sera”, 20 giugno 1991 o Orgogliosa Algeri tra mitra e coltello, in “Il Messaggero”, 20 settembre 1993.
[15] Ma questa è Sarajevo o Assisi, cit.
[16  Madre Coraggio, in La mia isola è Las Vegas, cit.: 195-200.
[17] Sulla presenza del mito di Ulisse nell’opera di Consolo, si veda A. Bellanova, Un eccezionale baedeker, cit., passim.
[18] Versi dall’Eneide di Virgilio (II 707-710) e dalle Troiane di Euripide (vv. 45-47) vengono citati in più di un’occasione, soprattutto nei testi giornalistici, come monito e come testimonianza di un dramma che si ripete. Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, in “La Repubblica”, 18 settembre2007, o in I muri d’Europa, cit.: 25, o Migrazione, la civiltà come arte della fuga, cit. Ma si veda anche l’inserimento dei versi Aen. II 780 a epigrafe dell’ultimo capitolo di Nottetempo, casa per casa, quello su fuga-emigrazione di Petro (Nottetempo, casa per casa, in L’opera completa, cit.: 748).
[19] Retablo, in L’opera completa, cit.: 453.
[20] L’episodio è rievocato, con citazione da Eliot, in L’olivo e l’olivastro, in L’opera completa, cit.: 865-866. Nel giugno del 1981 appena dopo il terremoto che aveva colpito Mazara, gli armatori ebbero fretta di rimandare in acqua le navi. Nel naufragio del Ben Hur morirono cinque mazaresi e due tunisini. L’identità di questi rimase ignota per diversi giorni: un indizio della condizione di sfruttamento e illegalità in cui lavoravano gli stranieri. Sullo stesso episodio, sempre con riferimento a Phlebas il fenicio, si veda Morte per acqua, in “Il Messaggero”, 15 luglio 1981, o “Ci hanno dato la civiltà”, in “La Voce”, 23 giugno 1994.
[21] Dedicato ai morti per acqua, in “L’Unità”, 29 settembre 2002. La citazione dei versi di Eliot chiude l’articolo e, che mi risulti, è l’unico caso in cui il passo è riportato per intero. Consolo si riferisce a quanto avvenuto il 24 settembre 2002: uno scafista abbandona a 300 metri dalla spiaggia di Scoglitti il suo carico di migranti; le onde impediscono l’approdo, muoiono 14 persone. 
[22] Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, cit., o in I muri d’Europa, cit.: 29. Meno esplicito il riferimento a Eliot in Immigrati avanzi del mare, in “L’Unità”, 18 giugno 2003, dove è l’aggettivo “spolpato” (“qualche corpo gonfio o spolpato finisce nelle reti dei pescatori”) che allude a Phlebas il fenicio.
[23] Cronache di poveri venditori di strada, in “Corriere della sera”, 21 ottobre 1990.
[24] Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, cit.: 1193.
[25] Si veda in particolare Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, cit.: 1195-1196; Il Mediterraneo tra illusione e realtà, integrazione e conflitto nella storia e in letteratura, in G. Interlandi (a cura di), La salute mentale nelle terre di mezzo. Per costruire insieme politiche di inclusione nel Mediterraneo, Atti del Convegno di Psichiatria Democratica, Caltagirone, 12-13 marzo 2009, numero monografico di “Fogli di informazione”, terza serie, 13-14, gennaio-giugno 2010: 5-7. Si veda anche l’inserimento della vicenda come elemento narrativo in Nottetempo, casa per casa, che si conclude proprio con l’emigrazione di Petro in Tunisia (Nottetempo, casa per casa, cit.: 753-754).
[26] Sul fenomeno si veda A. Cusumano, Il ritorno infelice, Sellerio, Palermo 1978. Consolo lo cita in diverse occasioni, ad esempio, Il ponte sul canale di Sicilia, cit.: 1197.
[27]  L’olivo e l’olivastro, cit.: 865.
[28] Ivi: 864.
[29] Ibidem. Si veda anche Il ponte sul canale di Sicilia, cit.: 1197-1198. Molti gli articoli sul caso di Mazara, ad esempio I guasti del miracolo, in “Il Messaggero”, 10 luglio 1981; Morte per acqua, cit; “Ci hanno dato la civiltà”,cit. Ancora precedente l’articolo uscito su “Sans frontières” nel 1980 che si sofferma sulla storia di Mazara prima di concentrarsi sulla quarta guerra punica o guerra del pesce i cui protagonisti erano proprio i tunisini immigrati della casbah: Quatrième guerre punique, in “Sans frontières”, 30 settembre 1980.
[30] Alla somiglianza tra Italia meridionale e Nord Africa Consolo fa riferimento in “Ci hanno dato la civiltà”, cit. Sulla questione anche un articolo del 1981, Immigration africaine en Italie (“Sans frontières” 3 gennaio 1981): l’Italia è la prima tappa dei migranti per necessità geografiche ma anche perché è una terra non veramente straniera.
[31] L’olivo e l’olivastro, cit.: 865; Il ponte sul canale di Sicilia, cit.: 1197. Nel precedente I guasti del miracolo (cit.) Consolo rileva lo scandalo del dopo terremoto di Mazara (7 giugno 1981): ai tunisini vengono negate le tende, perché stranieri e perché non votanti e quindi ininfluenti nelle imminenti elezioni regionali.  
[32] Il ponte sul canale di Sicilia, cit.: 1197-1198.
[33] Il mondo di Bossi Fini stupido e spietato, in “L’Unità”, 29 agosto 2002.
[34] Ibidem.                                                               
[35] Lampedusa è l’ora delle iene, in “L’Unità”, 28 giugno 2003.
[36] Ibidem.
[37] Il mondo di Bossi Fini stupido e spietato, cit. 
[38] Ibidem ma anche Immigrati avanzi del mare, cit.
[39] La mia isola è Las Vegas, in La mia isola è Las Vegas, cit.: 217.
[40] Solo un monumento per gli immigrati, in “La Repubblica”, 21 agosto 2004. Sulla questione Consolo si era già espresso qualche giorno prima: Perché non voglio quel museo, in “La Repubblica”, 19 agosto 2004.
[41] Estremamente rappresentativa appare a proposito la sezione Sicilia e oltre in Di qua dal faro e, in particolare, il saggio introduttivo, La Sicilia e la cultura araba (Di qua dal faro, cit.: 1187- 1192).
[42] L’olivo e l’olivastro, cit.: 783.
[43] Ivi: 783-784, ma anche Retablo, cit.: 432; La Sicilia passeggiata, con fotografie di G. Leone, Nuova Eri, Torino, 1991: 94-95; Malophoros, in Le pietre di Pantalica, cit.: 578.
[44] La Sicilia passeggiata, cit.: 106.
[45] Quando i Lombardi emigrarono in Sicilia, in “Corriere della Sera”, 4 maggio 1991.
[46] Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, cit. La frase di Zanzotto è ripresa da A. Zanzotto, In questo progresso scorsoio. Conversazione con M. Breda, Garzanti, Milano, 2009: 68-69. Nell’ultima intervista Consolo riflette in modo particolare sull’ignoranza di chi solleva lo scontro di civiltà e accosta integralismo e islam: V. Pinello, La Sicilia di Consolo: l’ultima intervista, 27 gennaio, 2012, in“Golem”, in rete http://www.goleminformazione.it/articoli/vincenzo-consolo-e-la-sua-sicilia-sorriso-dellignoto-marinaio.html#.WHS021ycHDQ (verificato in data 15 ottobre 2023). 
Riferimenti bibliografici
Opere di Vincenzo Consolo
La Sicilia passeggiata, con fotografie di G. Leone, Nuova Eri, Torino 1991.
Il corteo di Dioniso, La lepre, Roma, 2009.
La mia isola è Las Vegas, a cura di N. Messina, Mondadori, Milano 2012.
L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di G. Turchetta e uno scritto di C. Segre, Mondadori, Milano 2015.
Accordi. Poesie inedite, a cura di F. Zuccarello e C. Masetta Milone, Zuccarello editore, Sant’Agata di Militello 2015.  
Articoli di Vincenzo Consolo
Quatrième guerre punique, in “Sans frontières”, 30 settembre 1980.
Immigration africaine en Italie, in“Sans frontières”, 3 gennaio 1981.
I guasti del miracolo,in“Il Messaggero”, 10 luglio 1981.
Morte per acqua, in “Il Messaggero”, 15 luglio 1981.
Cronache di poveri venditori di strada,in “Corriere della Sera”, 21 ottobre 1990.
Quei parabolizzati che sognano l’Italia, in“Corriere della sera”, 20 giugno 1991.
“Ci hanno dato la civiltà”, in “La Voce”, 23 giugno 1994.
Il mondo di Bossi Fini stupido e spietato, in “L’Unità”, 29 agosto 2002.
Dedicato ai morti per acqua, in “L’Unità”, 29 settembre 2002.
Immigrati avanzi del mare, in “L’Unità”, 18 giugno 2003.
Lampedusa è l’ora delle iene, in “L’Unità”, 28 giugno 2003.
Perché non voglio quel museo, in “La Repubblica”, 19 agosto 2004.
Solo un monumento per gli immigrati, in “La Repubblica”, 21 agosto
Gli ultimi disperati del canale di Sicilia,in“La Repubblica”, 18 settembre2007.
Migrazione, la civiltà come arte della fuga, in “L’Unità”, 18 settembre 2007.
I muri d’Europa, in L. Restuccia, G.S. Santangelo (a cura di), Scritture delle migrazioni: passaggi e ospitalità, Palumbo, Palermo 2008: 25-30.
Il Mediterraneo tra illusione e realtà, integrazione e conflitto nella storia e in letteratura, in G. Interlandi (a cura di), La salute mentale nelle terre di mezzo. Per costruire insieme politiche di inclusione nel Mediterraneo, Atti del Convegno di Psichiatria Democratica, Caltagirone, 12-13 marzo 2009, numero monografico di “Fogli di informazione”, terza serie, 13-14, gennaio-giugno 2010: 5-7.
Altra bibliografia 
Bellanova A., Un eccezionale baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo, Mimesis, Milano 2021
Braudel F., Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, trad. it. di C. Pischedda, Einaudi, Torino 1976.
Cusumano A., Il ritorno infelice, Sellerio, Palermo 1978.
Pinello V., La Sicilia di Consolo: l’ultima intervista, 27 gennaio, 2012, in“Golem”, in rete http://www.goleminformazione.it/articoli/vincenzo-consolo-e-la-sua-sicilia-sorriso-dellignoto-marinaio.html#.WHS021ycHDQ (verificato in data 15 ottobre 2023).
Zanzotto A., In questo progresso scorsoioConversazione con M. Breda, Garzanti, Milano 2009.

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Ada Bellanova, insegna lettere in un liceo pugliese. Si interessa di permanenza della letteratura greca e latina nel contemporaneo, di ecocritica, della percezione dei luoghi, dei temi della memoria, delle migrazioni e dell’identità. Si dedica da alcuni anni allo studio dell’opera di Vincenzo Consolo: da qui è nata la monografia Un eccezionale baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo (Mimesis 2021). Ha collaborato con La macchina sognanteErodoto108.  Nel 2010 ha pubblicato il libro di racconti L’invasione degli omini in frac, con prefazione di Alessandro Fo e nel 2016 Papamusc, un breve romanzo edito da Effigi.

Purché ci resti Itaca: prendersi cura delle radici. La voce di Consolo.


Ada Bellanova

1. Ripensare i luoghi in forma di idillio. Il dramma di Ulisse e di Ifigenia. Senza la letteratura Itaca sarebbe semplicemente una piccola isola greca nel Mediterraneo. Invece Omero, la tradizione, le invenzioni letterarie l’hanno resa il luogo per eccellenza delle radici e della memoria, la patria ritrovata dopo un lungo viaggio: l’hanno trasformata in simbolo 1. Ulisse in viaggio, intento ad affrontare pericoli, mostri e tempeste, porta con sé un’immagine di Itaca come luogo del cuore, patria perfetta, a cui desidera a tutti i costi tornare. Una polarità netta si crea tra il mondo avventuroso e minaccioso e il nucleo accogliente e protettivo della patria e della casa. Eppure Ulisse, una volta sbarcato, è costretto a interrogarsi subito sull’identità della terra, sullo scarto tra il sogno che ha cullato durante la lunga distanza e la realtà 2. Molte cose infatti sono cambiate: lui non è più lo stesso e Itaca è mutata, non solo per i soprusi dei Proci, ma anche perché il tempo ha segnato la sua geografia a tal punto da conferirle un paesaggio nuovo, diverso. Per queste ragioni, e non solo per l’intervento di Atena, Ulisse si guarda intorno e, smarrito, si pone la domanda: «Dove sono capitato?». Sebbene il finale dell’Odissea risulti confortante – l’eroe ottiene di nuovo il suo ruolo di re dopo la sconfitta dei Proci e l’intesa del talamo con Penelope – sorge il dubbio che l’Itaca ritrovata sia un po’ deludente rispetto al sogno e alla nostalgia. Perché altrimenti Ulisse sceglierebbe, come insegna l’altra tradizione, di ripartire? Non dovrebbe godersi la terra tanto amata? Il fatto è che, come scrive Jankelevitch, la nostalgia, per l’esule – per qualunque esule –, è insanabile, inestinguibile3 . Già nel momento del primo distacco dalla patria ha inizio un cambiamento, nel luogo e nell’individuo, che non permette di colmare 3 la distanza, in alcun modo, neppure nell’opportunità di un ritorno. Patria dolcissima solo nel ricordo è anche la città di Argo per Ifigenia. La sfortunata figlia di Agamennone, salva ma costretta all’esilio tra i feroci Tauri autori di sacrifici umani, non fa altro che sognare la sua reggia preziosa, in cui è stata bambina, principessa, ma che ormai, senza che lei lo sappia, è luogo insanguinato dagli omicidi, la morte del padre per mano di sua madre, quella di sua madre per mano di suo fratello. La Tauride – anche in questo caso la responsabilità è della letteratura4 – assume la connotazione di una terra selvaggia, priva di ogni forma di civiltà: la dolente sacerdotessa greca, pur investita dell’autorità religiosa, non può far altro che sciogliere il suo canto d’esilio, insieme alle schiave sue compagne. È questa la trama dell’Ifigenia in Tauride euripidea: l’autore antico ha composto una tragedia che recita il dramma della nostalgia, la stessa di Ulisse. La città lontana di Argo, nella mente di chi vive l’esilio, ovvero la protagonista e, con lei, il coro, assume i tratti di uno spazio desiderato e armonioso, un territorio caro, in cui rispecchiarsi e ritrovarsi: è emblema della Grecia della civiltà. Eppure, come dicevo, la terra lontana non è affatto così come l’esule se la dipinge e, anche di fronte al lieto fine, mentre Ifigenia e il fratello ritrovato salpano dalla Tauride ostile e si allontanano dai sacrifici, c’è da augurarsi che non ci sia nessun ritorno a casa. Ritrovare Argo, infatti, non è possibile e il ritorno può essere estremamente traumatico. Il mito e la letteratura, come si vede, proponendo una caratteristica veste per certi luoghi reali, li trasformano in simboli, metafore efficaci anche per la contemporaneità e per il nostro modo di vivere gli spazi. 2. Itaca non c’è più: la voce di Consolo. A chi percorre le pagine di Consolo non sfugge l’insistente riflessione, che nasce da più di uno spunto autobiografico, sul rapporto travagliato tra l’esule e la propria patria. In tutta la sua opera lo scrittore pone l’accento sul suo esilio nel Nord e sull’irredimibile nostalgia per la Sicilia lontana, patria del ricordo, e perciò idealizzata nella distanza, come in un’odissea contemporanea, tra le nebbie di una Milano grigia che ha più di un tratto in comune con la Tauride euripidea. L’olivo e l’olivastro (1994) e poi anche Lo Spasimo di Palermo (1998) descrivono un ritorno doloroso che ha i tratti di un incauto procedere tra le rovine di una patria in fiamme. Nel primo libro, che reca già nel titolo l’omaggio e la simbolizzazione degli spazi omerici – nell’Odissea olivo e olivastro segnano lo spazio del naufragio di Ulisse sulla costa dei Feaci –, al giovane migrante siciliano che, fuggito dal terremoto di Gibellina – quasi Enea che abbandona un’Ilio compromessa –, prova a ritornare dopo tanti anni, il nóstos è negato. Itaca non c’è più, fuor di metafora, perché la vecchia città è scomparsa sotto il sudario di cemento del Cretto di Burri, e la nuova, con la Stella texana che segna l’ingresso nel Belice, è, come scrive Consolo, «costruita dai Proci»5 , ha perso cioè l’identità della tanto sospirata patria delle radici in uno stravolgimento sociale e culturale: gli usurpatori hanno avuto la meglio e l’esule è impotente di fronte a un mondo che non gli appartiene e a cui non appartiene. Nella seconda opera, poi, veramente amaro è il ritorno del protagonista, lo scrittore Chino Martinez, a Palermo: la città degli anni Novanta, già compromessa dalla ferocia della speculazione edilizia, dal sacco che ha cementificato la Conca d’oro, deve fare i conti con la violenza mafiosa, esemplificata dalla drammatica esplosione finale in via d’Astorga che allude in maniera netta alla strage di via d’Amelio. È un’Itaca stravolta allora, quella dell’approdo, una terra in cui l’ulivo non ha posto, perché in essa non c’è più ombra di civiltà, e scomparso, irrimediabilmente, è anche il conforto della famiglia, già fagocitato dalla debole salute mentale di una moglie ormai morta, che niente ha a che fare con la Penelope omerica. A queste opere possono essere aggiunte moltissime pagine, come il testo eponimo di Le pietre di Pantalica, che piange il degrado – culturale, ambientale – dello scenario della bianca Siracusa, chiaman5 V. Consolo, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, Mondadori, Milano 2015, p. 869. 6 V. Consolo, Le pietre di Pantalica, in Id., L’opera completa, pp. 615-621. 7 Ifigenia fra i Tauri, trad. di Vincenzo Consolo e Dario Del Corno, Istituto Nazionale del Dramma Antico-XXVII ciclo di spettacoli classici (27 maggio-4 luglio 1982), INDA, Siracusa 1982. 8 «Non si ritorna più nei luoghi da cui si è partiti, perché quelli non sono più i luoghi che noi abbiamo lasciato. Non si è più di nessun luogo», V. Consolo, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Donzelli, Roma 1993, p. 69. 9 La percezione di un luogo e la sua rappresentazione, come insegna la geocritica, non si possono limitare all’unica componente visiva. Sulla necessità di cogliere la presenza delle percezioni sensoriali do in causa i simboli della tragedia euripidea6 , tradotta tra l’altro proprio da Consolo con Del Corno7 , che è messa in scena nel teatro antico. L’autore fa del suo vissuto il motore dell’invenzione narrativa: la sua personale prospettiva interpreta gli spazi e li reinventa sul piano letterario. In questo processo Itaca e Argo rimandano a un mondo che non c’è più: un universo intatto, in armonia, cancellato da una modernità incivile e snaturante e divenuto un perenne labirinto fitto di mostri e pericoli, una Tauride in cui si sacrificano gli innocenti. Nella prospettiva consoliana allora non è solo la Milano affarista ad assumere i tratti di luogo ostile: l’osservazione dell’intero spazio della contemporaneità – l’Italia, il Mediterraneo con i suoi naufraghi e ogni luogo in cui il migrante è perseguitato, ferito, il paesaggio mortificato dagli incendi, dall’industrializzazione, da un turismo becero e superficiale – denuncia una perdita irreparabile in termini di valori e identità8 . La polarità non è più, o comunque non solo, tra lo spazio fisico dell’esilio e la terra delle radici, ma tra lo spazio del presente, omologante e svilente, e quello del passato, in cui era ancora possibile un equilibrio. 3. Itaca con tutti i sensi. Nell’esilio la patria lontana – nello spazio e nel tempo – appare luminosa, contrapposta a un Nord, anche fuor di metafora, decisamente grigio. Una complessa trama di paesaggi visivi, con evidente omaggio al mondo dell’arte e della pittura, ma anche di paesaggi sonori, olfattivi, persino gustativi, che si sovrappongono e si intersecano, concorre a definire la Sicilia. Se indubbia è in ciò una ricca componente letteraria, al di là del topos però la pagina consoliana rivela una sensibilità che si lega al vissuto dell’autore: memoria e confronto personale con i luoghi determinano l’immagine che questi assumono sulla pagina scritta9 . Alla Milano affollata che propone sollecitazioni da grande città del Nord alla vista e all’udito – ben oltre il modello letterario va l’apprezzamento per l’umanità multicolore di Porta Venezia e per il suo vario patrimonio gustativo, mentre il fetore di Seveso10 è traccia olfattiva di un progresso feroce, dell’inquinamento e della deriva politica che a questi si accompagna – la Sicilia si contrappone con la sua festa dei sensi. Retablo, in particolare, è una straordinaria esibizione di percezioni sensoriali che testimoniano la scoperta e la sorpresa di fronte alla ricchezza e alla diversità dell’isola. Fin dal suo approdo a Palermo Clerici deve fare i conti, alla maniera dei viaggiatori del Grand Tour, con la novità delle sollecitazioni visive, sonore, olfattive11. Ma il protagonista e voce narrante accoglie soprattutto le capacità percettive del suo autore: la Sicilia è l’isola della memoria e gli straordinari paesaggi sensoriali che descrivono le rovine di Segesta o di Selinunte, l’universo arcano di Mozia, rivelano un compiacimento nella percezione che appartiene a Consolo, siciliano alla scoperta della propria terra. Pur senza abbandonarsi all’idillio a tutti i costi – attraverso la prospettiva di Clerici emergono anche tracce sensoriali non edificanti – l’autore tratteggia la propria Itaca come una terra che seduce con le sue innumerevoli sollecitazioni sensoriali. È in particolare nelle descrizioni gastronomiche di cui abbonda il racconto che emerge il compiacimento di Consolo12: non vi si può rintracciare dunque solo il modello letterario – la meraviglia del viaggiatore di fronte alle offerte culinarie – ma anche il gusto dello scrittore che ricorda i sapori della sua terra. L’interesse per pietanze dolci e salate è d’altra parte presente anche nella produzione giornalistica e saggistica e confessato in testi scopertamente autobiografici in cui emerge come tratto intimo la predilezione per i cibi del Sud, in contrasto con quelli evidentemente meno invitanti del Nord13. Itaca insomma nutre con il suo gusto anche a distanza e preziosa è la riserva d’antichi sapori e nella caratterizzazione letteraria dei luoghi reali, si veda anche «Quando sono da solo mi sfogo a mangiare le cose più salate e piccanti. Evito finalmente la minestrina, la paillardina e la frutta cotta. Mangio bottarga, sàusa miffa, olive con aglio e origano, peperoncini, caciocavallo, cubbàita… Poi, nel pomeriggio, non c’è acqua che basti a togliermi la sete», 16 «Ecco, io allora infilzerò con lo spiedo un rocchio di quella salsiccia fresca, condita con grani di pepe e semi di finocchio, lo farò arrostire sopra la brace, e l’offrirò a te, gentile lettrice, a te, caro lettore, insieme a un bicchiere rosso dell’Etna e a una mela d’oro, di quelle che mandava a casa nostra il compare Panascì. […] Erano mele gialle e lucide, dolcissime, che impregnavano la casa di profumo. Sovrastava il loro odore di pomelia e cedro, quello delle arance, dei fichi secchi, delle sorbe, delle zizzole, dei melograni e delle cotogne», Id., Natali sepolti, in AA.VV., Cantata di Natale. Racconti per venticinque notti di attesa, San Paolo, Milano 2001, pp. 83-89; ora in La mia isola è Las Vegas, pp. 191-194, a p. 193. odori che nei lunghi e grigi inverni del Nord riporta al ricordo del paese14. E anche se un nuovo approdo all’isola, in Ritorno al paese perduto, sottopone al rischio di nuove e per nulla confortanti sensazioni – non solo la casa non è più la stessa, pure la vista dal terrazzo è mutata, e più forte del senso della vista diventa quello dell’udito nel registrare un nuovo, invadente e sgradevole paesaggio sonoro15 – più forte del tempo resiste nella vivacità dell’allocuzione al lettore nel più tardo Natali sepolti il gusto delle radici: l’offerta diretta di un pasto appartenente alla Sant’Agata del passato, fatto di salsiccia, vino dell’Etna, profumatissime mele d’oro, interrompe il flusso narrativo e sembra testimoniare, nell’immediatezza dell’uso del presente, che qualcosa si è salvato16. 4. Proteggere le radici. Al di là della permanenza delle percezioni gustative, affrontato il rischio della rottura dell’idillio, si può scoprire che Itaca non è del tutto allo sfacelo e che sulle colonne di Argo si può ricostruire. Conviene però prendere coscienza del punto a cui siamo arrivati. Conviene ripartire dalle radici, ritrovare angoli vivi del paesaggio, lasciarsi ispirare da quanto di buono essi comunicano. Il che non vuol dire smettere di vedere le criticità di ciò che è stato: significa valorizzare ciò che può essere valorizzato e trovare una nuova via alternativa all’omologazione e allo sfruttamento. La vera letteratura ha questo di utile, ci svela a noi stessi, e le pagine di Consolo parlano a tutti e di tutti, toccano le corde del legame doloroso o vivificante che abbiamo con gli spazi e tentano di fare chiarezza su questioni grandi e urgenti: invitano cioè ad una consapevolezza ambientale nel senso più ampio dell’espressione come unica strada non solo per non perdere il luogo, ma anche per non perdere noi stessi. Illuminante è la riflessione dello scrittore sulla Sicilia e sul Mediterraneo: nell’amarezza di fronte allo scempio, di fronte ai facili stereotipi che semplificano lo spazio, lo appiattiscono – il seducente paradiso a buon mercato da una parte, il degrado e i sotterfugi dall’altro –, avvallati in maniera semplicistica da un certo tipo di informazione e da un certo tipo di politica, l’autore rivendica il valore della complessità. Lo spazio ha molte facce, molte sfumature, la bellezza ha una sua indubbia fragilità. Nella sua rappresentazione dello spazio individuiamo la valorizzazione di alcune isole di sopravvivenza: gli Iblei con l’arte intatta degli apicoltori e i Nebrodi coi pascoli verdissimi non sono semplice idillio, Itaca e Argo del ricordo in cui sarebbe meglio non tornare mai, ma un esempio di risposta concreta alla crisi del paesaggio e dell’identità contemporanea. Descrivendo la miracolosa armonia tra uomo e natura, la ricchezza ambientale – piante, animali –, tradizioni gastronomiche e saperi antichi, che caratterizzano queste oasi di sopravvivenza, Consolo valorizza una Sicilia quasi arcaica. In ciò non rifiuta il progresso in sé, piuttosto evidenzia la necessità che esso non faccia perdere all’uomo la sua identità storica e culturale, come è invece accaduto nel caso della violenta industrializzazione dell’isola. Mette cioè in evidenza che i luoghi non sono uno sfondo e che, se smettono di essere quello che sono in maniera rapida e feroce – fagocitati dall’omologazione, da interessi economici, dalla costruzione di barriere –, inevitabili e funeste sono le conseguenze anche sugli esseri umani. Così strettamente interrelate sono l’identità degli uomini e quella degli spazi. La sua opera invita dunque – e in ciò risiede la grande attualità del messaggio consoliano – a conservare le radici, a prendercene cura, perché solo nella salvaguardia di ciò che è rimasto possiamo sperare di non perdere noi stessi. Il passato, come insegnava anche Pasolini nella sua strenua definizione dell’ambiente storico e umano come territorio composito e stratificato nel tempo, insieme universo linguistico, identità dei luoghi, creazione artistica, può non essere un ricordo perduto: può anzi configurarsi come forza a cui attingere. Mi piace pensare allora che nei versi di Accordi, con l’ignoto tu, Consolo alluda ad un’identità sua e di tutti i figli del Mediterraneo, un’identità nata da una relazione vecchia di secoli con la terra, le piante, i muri a secco, con i paesaggi: tolto tutto questo, cosa saremmo? Sei nato dal carrubo e dalla pietra da madre ebrea e da padre saraceno. S’è indurita la tua carne alle sabbie tempestose del deserto, affilate si sono le tue ossa sui muri a secco della masseria Brillano granatini sul tuo palmo per le punture delle spinesante17. Solo se ripartiamo da questo, quindi, da ‘Itaca’, attraverso un cammino, senz’altro faticoso, difficile, di consapevolezza degli spazi e della nostra relazione con essi, possiamo avere qualche opportunità di sopravvivere anche noi. Solo salvando le radici, come le piante, possiamo avere speranza di non perire.
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3 V. Jankélévitch, L’irréversible et la nostalgie, Flammarion, Paris 1983, pp. 370-371. 4 B. Westphal, Le miroir barbare. Géocritique de la Tauride, in A. Le Berre (a cura di), De Prométée à la machine à vapeur: cosmogonies et mythe fondateur, Pulim, Limoges 2005, pp. 13-33. 5 V. Consolo, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, Mondadori, Milano 2015, p. 869. 6 V. Consolo, Le pietre di Pantalica, in Id., L’opera completa, pp. 615-621. 7 Ifigenia fra i Tauri, trad. di Vincenzo Consolo e Dario Del Corno, Istituto Nazionale del Dramma Antico-XXVII ciclo di spettacoli classici (27 maggio-4 luglio 1982), INDA, Siracusa 1982. 8 «Non si ritorna più nei luoghi da cui si è partiti, perché quelli non sono più i luoghi che noi abbiamo lasciato. Non si è più di nessun luogo», V. Consolo, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Donzelli, Roma 1993, p. 69. 9 La percezione di un luogo e la sua rappresentazione, come insegna la geocritica, non si possono limitare all’unica componente visiva. B. Westphal, Geocritica: reale, finzione, spazio, trad. di L. Flabbi, Armando editore, Roma 2009, p. 184. Sulla necessità di cogliere la presenza delle percezioni sensoriali nella caratterizzazione letteraria dei luoghi reali, si veda anche D. Papotti, Istruzioni geopoetiche per la lettura della città di Napoli, in F. Italiano, M. Mastronunzio (a cura di), Geopoetiche. Studi di geografia e letteratura, Unicopli, Milano 2011, pp. 43-63, a p. 49. 10 V. Consolo, Replica eterna, in Id., La mia isola è Las Vegas, a cura di N. Messina, Mondadori, Milano 2012, p. 180. 11 Id., L’opera completa, cit., p. 403. 12 A proposito W. Geerts, L’euforia a tavola. Su Vincenzo Consolo, in B. Van den Bossche (a cura di), Soavi sapori della cultura italiana, Atti del XIII Congresso dell’A.I.P.I., Verona/Soave, 27-29 agosto 1998, Cesati, Firenze 2000, pp. 307-316. 13 «Quando sono da solo mi sfogo a mangiare le cose più salate e piccanti. Evito finalmente la minestrina, la paillardina e la frutta cotta. Mangio bottarga, sàusa miffa, olive con aglio e origano, peperoncini, caciocavallo, cubbàita… Poi, nel pomeriggio, non c’è acqua che basti a togliermi la sete», V. Consolo, Un giorno come gli altri, in “Il Messaggero”, 17 luglio 1980, ora in Id., La mia isola è Las Vegas, pp. 87-97, a p. 92. 14 Id., E poi la festa del patrono, in “Corriere della sera” 15 agosto 1990, ora in La mia isola è Las Vegas, pp. 139-42, a p. 141. 15 Id., Ritorno al paese perduto, in “Il manifesto” 5 aprile 1992; ora in La mia isola è Las Vegas, pp. 146-149, a pp. 146-147. 16 «Ecco, io allora infilzerò con lo spiedo un rocchio di quella salsiccia fresca, condita con grani di pepe e semi di finocchio, lo farò arrostire sopra la brace, e l’offrirò a te, gentile lettrice, a te, caro lettore, insieme a un bicchiere rosso dell’Etna e a una mela d’oro, di quelle che mandava a casa nostra il compare Panascì. […] Erano mele gialle e lucide, dolcissime, che impregnavano la casa di profumo. Sovrastava il loro odore di pomelia e cedro, quello delle arance, dei fichi secchi, delle sorbe, delle zizzole, dei melograni e delle cotogne», Id., Natali sepolti, in AA.VV., Cantata di Natale. Racconti per venticinque notti di attesa, San Paolo, Milano 2001, pp. 83-89; ora in La mia isola è Las Vegas, pp. 191-194, a p. 193. 17 Id., Accordi. Poesie inedite, a cura di F. Zuccarello e Claudio Masetta Milone, Zuccarello editore, Sant’Agata di Militello 2015.

Giugno 2022 Editora Comunità Rio de Janeiro – Brasil

La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo

di Ada Bellanova



Partendo dall’evidente ricchezza di riferimenti geografici osservabile nell’opera di Vincenzo Consolo, il saggio si propone, mediante uno studio delle modalità di costruzione dell’immagine letteraria, di accendere l’attenzione non solo sugli spazi di cui l’autore parla direttamente, ma anche sulla nostra relazione con lo spazio. Guida dunque il lettore attraverso un universo labirintico e ‘palincestuoso’, che ha il suo centro in Sicilia e che comprende il Mediterraneo, l’Italia, il mondo intero. Invitando a cogliere la complessità della percezione e della rappresentazione, si sofferma sul dramma ecologico di un paesaggio costantemente a rischio e sulla crisi dell’identità umana che ne consegue.
Evidenziando poi la caratterizzazione del mare Mediterraneo come spazio di molteplicità e migrazioni lo studio rivela un’importante riflessione autoriale sulle emergenze dei nostri giorni.
“Il lettore potrà, facendosi strada in uno spazio letterario labirintico, compilare mappe di senso e comprendere i luoghi dell’autore e il nesso esistente tra geografie di carta e geografie reali? Se sì, forse sarà incoraggiato a scoprire la Sicilia, il Mediterraneo, chissà anche Milano. Ma, fatta salva la specificità dei luoghi chiamati in causa, si troverà inevitabilmente di fronte a una serie di riflessioni di più ampia
portata, ciò che accade di fronte alla vera letteratura. Comprenderà che i luoghi non sono uno sfondo, non solo quelli della pagina scritta, ancor meno i loro referenti della realtà: nessun luogo reale, infatti, è un
semplice contenitore, uno scenario su cui sfilare. Mediterà allora sul proprio modo di percepire lo spazio, sulla relazione tra rappresentazione e realtà, sulla memoria e sul cortocircuito che si produce quando, nello scorrere del tempo, Itaca smette di essere Itaca mentre i ricordi restano fedeli al passato. Sarà costretto a pensare a quello che sta succedendo al paesaggio, a tratti esteticamente splendido, a tratti deturpato, privato della sua identità. Ecco, si interrogherà sull’identità: se i luoghi non sono uno sfondo e smettono di essere quello che sono – fagocitati dall’omologazione, da interessi economici, dalla costruzione di barriere –, inevitabili e funeste sono le conseguenze anche sugli esseri umani. Così strettamente interrelate sono l’identità degli uomini e quella degli spazi. Per questo allora l’opera di Consolo può dirsi un eccezionale baedeker: vi si può cogliere l’invito a scoprire alcuni angoli geografici, mediante il rilievo a proposito delle emergenze architettoniche o naturalistiche che attendono il lettore che voglia avventurarsi alla scoperta dello spazio reale, ma vi si troverà anche la presentazione dei deprecabili interventi che deturpano il paesaggio e la vita umana. Già questo basterebbe ad attestarne la particolarità, perché le guide di viaggio, anche quelle “letterarie”, si soffermano piuttosto sugli aspetti seducenti, evitando invece ciò che produrrebbe un’esperienza quanto meno sgradevole per il lettore-viaggiatore. Mentre, alternando la lente dello stupore e dell’idealizzazione a quella dell’indignazione, attrae e scoraggia, il testo svela la complessità della nostra relazione con lo spazio, costringendo ad un’esperienza non sempre gratificante, e guida a una maggiore attenzione nei confronti dei luoghi, di tutti i luoghi, in quanto portatori di identità. Agli importanti segni di crisi della modernità l’opera risponde affermando il valore di ciò che è rimasto, traccia di passato nel presente: solo nella conservazione, nella cura possiamo sperare di non perdere noi stessi, ma questo non può accadere senza consapevolezza. Consolo dichiara insomma che i luoghi non sono uno sfondo, ma ci appartengono profondamente e rileva l’intimo scambio che esiste sempre tra ambiente e essere umano. Mi piace pensare allora che nei versi di Accordi, con l’ignoto tu, l’autore alluda proprio a questo, ad un’identità sua e di tutti i figli del Mediterraneo, un’identità nata da una relazione vecchia di secoli con la terra, le piante, i muri a secco, con i paesaggi: tolto tutto questo, cosa saremmo?

Sei nato dal carrubo
e dalla pietra
da madre ebrea
e da padre saraceno.
S’è indurita la tua carne
alle sabbie tempestose
del deserto,
affilate si sono le tue ossa
sui muri a secco
della masseria.
Brillano granatini
sul tuo palmo
per le punture
delle spinesante [1]”.

[1] Accordi. Poesie inedite, a cura di F. Zuccarello e Claudio Masetta Milone, Zuccarello editore, Sant’Agata di Militello 2015.

Purché ci resti Itaca: nelle radici una speranza per domani. La voce di Consolo

Ada Bellanova

Purché ci resti Itaca:

nelle radici una speranza per dopodomani.

La voce di Consolo.

1. Ripensare i luoghi in forma di idillio. Il dramma di Ulisse e di Ifigenia.

            Senza la letteratura Itaca sarebbe semplicemente una piccola isola greca nel Mediterraneo. Invece Omero, la tradizione, le invenzioni letterarie l’hanno resa il luogo per eccellenza delle radici e della memoria, la patria ritrovata dopo un lungo viaggio: l’hanno trasformata in simbolo[1].

            Ulisse in viaggio, intento ad affrontare pericoli, mostri e tempeste, porta con sé l’immagine di Itaca luogo del cuore, patria perfetta, a cui desidera a tutti i costi tornare. Una polarità netta si crea tra il mondo minaccioso – e avventuroso – e il nucleo accogliente e protettivo della patria e della casa. Eppure Ulisse, una volta sbarcato, è costretto a interrogarsi subito sull’identità della terra, sullo scarto tra il sogno che ha cullato durante la lunga distanza e la realtà[2]. Molte cose infatti sono cambiate: lui non è più lo stesso e Itaca è mutata, non solo per i soprusi dei Proci, ma anche perché il tempo ha segnato la sua geografia a tal punto da conferirle un paesaggio nuovo, diverso. Per queste ragioni, e non solo per l’intervento di Atena, Ulisse si guarda intorno e, smarrito, si pone la domanda: «Dove sono capitato?». Sebbene il finale dell’Odissea risulti confortante – l’eroe ottiene di nuovo il suo ruolo di re dopo la sconfitta dei Proci e l’intesa del talamo con Penelope – sorge il dubbio che l’Itaca ritrovata sia un po’ deludente rispetto al sogno e alla nostalgia. Perché altrimenti Ulisse sceglierebbe, come insegna l’altra tradizione, di ripartire? Non dovrebbe godersi la terra tanto amata? Il fatto è che, come scrive Jankelevitch, la nostalgia, per l’esule – per qualunque esule –, è insanabile, inestinguibile[3]. Già nel momento del primo distacco dalla patria ha inizio un cambiamento, nel luogo e nell’individuo, che non permette di colmare la distanza, in alcun modo, neppure nell’opportunità di un ritorno. 

            Ifigenia a sua volta, la sfortunata figlia di Agamennone, salva ma costretta all’esilio tra i feroci Tauri autori di sacrifici umani, non fa altro che sognare la sua Argo: una reggia preziosa, in cui è stata bambina, principessa, ma ormai, senza che lei lo sappia, luogo insanguinato dagli omicidi, la morte del padre per mano di sua madre, quella di sua madre per mano di suo fratello. La Tauride – anche in questo caso la responsabilità è della letteratura – assume la connotazione di una terra selvaggia, priva di ogni forma di civiltà: la dolente sacerdotessa greca, pur investita dell’autorità religiosa, non può far altro che sciogliere il suo canto d’esilio, insieme alle schiave sue compagne. È la trama dell’Ifigenia in Tauride euripidea: l’autore antico ha composto una tragedia che recita il dramma della nostalgia, la stessa di Ulisse. La città lontana di Argo, nella mente di chi vive l’esilio, ovvero la protagonista e, con lei, il coro, assume i tratti di uno spazio desiderato e armonioso, un territorio caro, in cui rispecchiarsi e ritrovarsi: è emblema della Grecia della civiltà. Eppure, come dicevo, la terra lontana non è affatto così come l’esule se la dipinge e, anche di fronte al lieto fine, mentre Ifigenia e il fratello ritrovato salpano dalla Tauride ostile e si allontanano dai sacrifici, c’è da augurarsi che non ci sia nessun ritorno a casa. Ritrovare Argo infatti non è possibile e il ritorno può essere estremamente traumatico.

           Il mito e la letteratura, proponendo una caratteristica veste per certi luoghi reali, li trasformano in simboli, metafore efficaci anche per la contemporaneità e per il nostro modo di vivere gli spazi.

            Ne sa qualcosa Vincenzo Consolo che in tutta la sua opera pone l’accento sul suo esilio nel Nord e sull’irredimibile nostalgia per la Sicilia lontana, patria del ricordo, e perciò idealizzata nella distanza, come in un’odissea contemporanea, tra le nebbie di una Milano grigia che ha più di un tratto in comune con la Tauride euripidea. L’olivo e l’olivastro (1994) e poi anche Lo Spasimo di Palermo (1998) descrivono un ritorno doloroso che ha i tratti di un incauto procedere tra le rovine di una patria in fiamme. Nel primo libro, che reca già nel titolo l’omaggio e la simbolizzazione degli spazi omerici – nell’Odissea olivo e olivastro segnano lo spazio del naufragio di Ulisse sulla costa dei Feaci – al giovane migrante siciliano che, fuggito dal terremoto di Gibellina – ecco Enea che abbandona un’Ilio compromessa – prova a ritornare dopo tanti anni, il nóstos è negato: Itaca non c’è più, fuor di metafora, perché la vecchia città è scomparsa sotto il sudario di cemento del Cretto di Burri, e la nuova, con la Stella texana che segna l’ingresso nel Belice, è, per dirla con le parole di Consolo, «costruita dai Proci»[4], non ha insomma molto a che fare con la tanto sospirata patria delle radici. Nel secondo, poi, veramente amaro è il ritorno del protagonista, lo scrittore Chino Martinez, a Palermo: la città degli anni Novanta, già compromessa dalla ferocia della speculazione edilizia, dal sacco che ha cementificato la Conca d’oro, deve fare i conti con la violenza mafiosa, esemplificata dalla drammatica esplosione finale in via d’Astorga che allude in maniera netta alla strage di via d’Amelio. A queste opere possono essere aggiunte moltissime pagine, come il testo eponimo di Le pietre di Pantalica, che piange il degrado – culturale, ambientale – dello scenario della bianca Siracusa, chiamando in causa i simboli della tragedia euripidea[5], tradotta tra l’altro proprio da Consolo con Del Corno[6], che è messa in scena nel teatro antico. L’autore fa del suo vissuto il motore dell’invenzione narrativa: la sua personale prospettiva interpreta gli spazi e li reinventa sul piano letterario. In questo processo Itaca e Argo rimandano a un mondo che non c’è più: un universo intatto, in armonia, cancellato da una modernità incivile e snaturante, e divenuto un perenne labirinto fitto di mostri e pericoli, una Tauride in cui si sacrificano gli innocenti. Nella prospettiva consoliana allora non è solo la Milano affarista ad assumere i tratti di luogo ostile: l’osservazione dell’intero spazio della contemporaneità – l’Italia, il Mediterraneo con i suoi naufraghi e ogni luogo in cui il migrante è perseguitato, ferito, il paesaggio mortificato dagli incendi, dall’industrializzazione, da un turismo becero e superficiale – denuncia una perdita irreparabile in termini di valori e identità[7]. La polarità non è più, o comunque non solo, tra lo spazio fisico dell’esilio e la terra delle radici, ma tra lo spazio del presente, omologante e svilente, e quello del passato, in cui è ancora possibile un equilibrio.

2. Proteggere le radici.

Io sono una forza del Passato.

Solo nella tradizione è il mio amore.

Vengo dai ruderi, dalle chiese,

dalle pale d’altare, dai borghi

abbandonati […]

       P.P. Pasolini[8]

            Eppure, affrontato il rischio della rottura dell’idillio, si può scoprire che Itaca non è del tutto allo sfacelo e che sulle colonne di Argo si può ricostruire. Conviene però prendere coscienza del punto a cui siamo arrivati. Conviene ripartire dalle radici, ritrovare angoli vivi del paesaggio, lasciarsi ispirare da quanto di buono essi comunicano. Il che non vuol dire smettere di vedere le criticità di ciò che è stato: significa valorizzare ciò che può essere valorizzato e trovare una nuova via alternativa all’omologazione e allo sfruttamento.

            La vera letteratura ha questo di utile, ci svela a noi stessi, e le pagine di Consolo parlano a tutti e di tutti, toccano le corde del legame doloroso o vivificante che abbiamo con gli spazi e tentano di fare chiarezza su questioni grandi e urgenti: invitano cioè ad una consapevolezza ambientale nel senso più ampio dell’espressione come unica strada non solo per non perdere il luogo, ma anche per non perdere noi stessi.

           Trovo illuminante la sua riflessione sulla Sicilia e sul Mediterraneo: nell’amarezza di fronte allo scempio, di fronte ai facili stereotipi che semplificano lo spazio, lo appiattiscono – il seducente paradiso a buon mercato da una parte, il degrado, i sotterfugi dall’altro –, avvallati in maniera semplicistica da un certo tipo di informazione e da un certo tipo di politica, l’autore rivendica il valore della complessità. Lo spazio ha molte facce, molte sfumature, la bellezza ha una sua indubbia fragilità.

            Nella sua rappresentazione dello spazio individuiamo la valorizzazione di alcune isole di sopravvivenza: gli Iblei con l’arte intatta degli apicoltori e i Nebrodi coi pascoli verdissimi non sono semplice idillio, Itaca e Argo del ricordo in cui sarebbe meglio non tornare mai, ma un esempio di risposta concreta alla crisi del paesaggio e dell’identità contemporanea. Descrivendo la miracolosa armonia tra uomo e natura, la ricchezza ambientale – piante, animali –, tradizioni gastronomiche e saperi antichi, che caratterizzano queste oasi di sopravvivenza, Consolo valorizza una Sicilia quasi arcaica. In ciò non rifiuta il progresso in sé, piuttosto evidenzia la necessità che esso non faccia perdere all’uomo la sua identità storica e culturale, come è invece accaduto nel caso della violenta industrializzazione dell’isola. Mette cioè in evidenza che i luoghi non sono uno sfondo e che, se smettono di essere quello che sono – fagocitati dall’omologazione, da interessi economici, dalla costruzione di barriere –, inevitabili e funeste sono le conseguenze anche sugli esseri umani. Così strettamente interrelate sono l’identità degli uomini e quella degli spazi.

            La sua opera invita dunque – e in ciò risiede, secondo me, la grande attualità del messaggio consoliano – a conservare le radici, a prendercene cura, perché solo nella salvaguardia di ciò che è rimasto possiamo sperare di non perdere noi stessi.

            Il passato – come insegnava anche Pasolini nella sua strenua definizione dell’ambiente storico e umano come territorio composito e stratificato nel tempo, insieme universo linguistico, identità dei luoghi, creazione artistica – può non essere un ricordo perduto: può anzi configurarsi come forza a cui attingere.

            Mi piace pensare che nei versi di Accordi,con l’ignoto tu, Consolo alluda ad un’identità sua e di tutti i figli del Mediterraneo, un’identità nata da una relazione vecchia di secoli con la terra, le piante, i muri a secco, con i paesaggi: tolto tutto questo, cosa saremmo?

Sei nato dal carrubo

e dalla pietra

da madre ebrea

e da padre saraceno.

S’è indurita la tua carne

alle sabbie tempestose

del deserto,

affilate si sono le tue ossa

sui muri a secco

della masseria

Brillano granatini

sul tuo palmo

per le punture

delle spinesante[9].

            Solo se ripartiamo da questo, allora, da ‘Itaca’, attraverso un cammino, senz’altro faticoso, difficile, di consapevolezza degli spazi e della nostra relazione con essi, possiamo avere qualche opportunità di sopravvivere anche noi. Possiamo avere qualche speranza, se non per domani, almeno per dopodomani. 


[1]A. Montandon, Itaque au fil du temps, in B. Westphal (a cura di), Le rivage des mythes. Une géocritique mediterranéenne. Le lieu et son mythe, Pulim, Limoges 2001, pp. 18-36.

[2]Odissea XIII 200-202.

[3]V. Jankélévitch, L’irréversible et la nostalgie, Flammarion, Paris 1983, pp. 370-371.

[4]V. Consolo, L’olivo e l’olivastro, in Id., L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, Mondadori, Milano 2015, p. 869.

[5]V. Consolo, Le pietre di Pantalica, in Id., Le pietre di Pantalica, in Id., L’opera completa, cit., pp. 615-621.

[6]Ifigenia fra i Tauri, trad. di Vincenzo Consolo e Dario Del Corno, Istituto Nazionale del Dramma Antico -XXVII ciclo di spettacoli classici (27 maggio-4 luglio 1982), INDA, Siracusa 1982.

[7]«Non si ritorna più nei luoghi da cui si è partiti, perché quelli non sono più i luoghi che noi abbiamo lasciato. Non si è più di nessun luogo», V. Consolo, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Donzelli, Roma 1993, p. 69. Dello stesso tono sono le affermazioni di Consolo nell’intervista con D. Calcaterra: «Una volta che si è partiti i ritorni sono impossibili. Qualsiasi ritorno, anche quello di Odisseo, dopo l’allontanamento, non riesce a colmare il distacco […] Nell’assenza si è consumato un duplice mutamento: dell’individuo e del luogo d’origine. Si prova una gran pena quando non riconosci più la tua terra, e la metamorfosi acquista la drammatica cifra dell’inesorabile degrado, della perdita, dello smarrimento. Ogni ritorno è dunque dolore. […] Oggi siamo tutti degli Ulissidi, degli erranti, espropriati del proprio luogo della memoria. Viviamo nell’indefinito, senza sicuri punti di riferimento, senza segni, intorno a noi c’è un mare da cui non s’intravede alcun approdo possibile, e d’altra parte non vediamo più la sponda da cui siamo partiti. Il destino dell’uomo contemporaneo è quello dell’errante, che ha perso la propria identità, la propria patria» (D. Calcaterra, Vincenzo Consolo, le parole, il tono, la cadenza, Prova d’autore, Catania 2007, pp. 20-22).

[8]P.P. Pasolini, 10 giugno 1962, in Poesie mondane, in Poesia in forma di rosa, in Id., Tutte le poesie, a cura di W. Siti, 2 voll., Mondadori, Milano 2003, I, p. 1099.

[9]Accordi. Poesie inedite, a cura di Claudio Masetta Milone e F. Zuccarello , Zuccarello editore, Sant’Agata di Militello 2015.
pubblicato “La macchina sognante” (28 dicembre 2020)

Cosa Loro. Mafie fra cronaca e riflessione, Vincenzo Consolo

*
Vincenzo Consolo, Cosa Loro. Mafie fra cronaca e riflessione. 1970-2010,
a c. di Nicolò Messina, Milano, Bompiani, 2017, pp. 315. Nel mantenere la visibilità di Vincenzo Consolo dopo la sua morte avvenuta nel 2012, il curatore del presente volume, Nicolò Messina, ha avuto un ruolo importante, anche grazie a La mia isola è Las Vegas (Milano, Mondadori, 2012), organica sistemazione di brevi scritti, racconti li chiamava lo scrittore (tra cui alcuni preziosi inediti), che coprono un arco di più di cinquant’anni. Un rapido censimento dei testi consoliani, pubblicati dopo il 2012, non può naturalmente prescindere dal Meridiano (L’opera completa, Milano, Mondadori, 2015) curato da Gianni Turchetta e con uno scritto di Cesare Segre. Ma vanno comunque citati anche gli Esercizi di cronaca, una raccolta di articoli pubblicati su L’Ora di Palermo, a cura di Salvatore Grassia, con prefazione di Salvatore Silvano Nigro (Palermo, Sellerio, 2013); gli Accordi, versi inediti, a cura di Claudio Masetta Milone  (Sant’Agata di Militello, Zuccarello, 2015) e sempre in ambito poetico le 4 liriche, 77 esemplari numerati con acquaforte originale di Luciano Ragozzino (Milano, “Il ragazzo innocuo”, 2017). Oltre ad alcune interessanti conversazioni”: Conversazione a Siviglia a cura di Miguel Ángel Cuevas (Caltagirone, Lettere da Qalat, 2016) che rimanda a Conversación en Sevilla, sempre a cura dello stesso (Sevilla, La Carbonería, 2014) e Autobiografia della lingua. Conversazione con Irene Romera Pintor (Bologna, “Ogni uomo è tutti gli uomini”, 2016). Per finire, le prose brevi di Mediterraneo. Viaggiatori e migranti (Roma, Edizioni dell’Asino, 2016). Cosa loro consta di sessantaquattro articoli scritti tra il 1970 ed il 2010, due anni prima della morte, pubblicati su diverse testate giornalistiche (L’Unità, Il Messaggero, Il Corriere della Sera, L’Ora, L’avvenire), su riviste (Linea d’Ombra, Euros) e su pubblicazioni di diversa natura, libri collettanei, ecc. Chiude il libro un’appendice
nella quale il curatore dell’edizione, Nicolò Messina, fornisce utilissime informazioni storiche e filologiche sui diversi pezzi, alcuni dei quali ha potuto collazionare con gli originali, dattiloscritti o manoscritti. Il titolo, Cosa loro, intende apportare, mediante lo scambio del possessivo, una modifica, di certo non solo grammaticale, alla definizione vulgata di “Cosa nostra”, per segnalare, si legge in una nota introduttiva, «un sistema da cui prendere senza compromessi le distanze e da contrastare indefettibilmente ». Consolo lo ha fatto nel corso di tutta la sua vita in quanto, ammetteva, «non si nasce in un luogo impunemente. Non si nasce, intendo, in un luogo senza essere subito segnati, nella carne, nell’anima da questo stesso luogo» («Memorie», ora in La mia isola…). In un articolo apparso su L’Ora nel 1982 («I nemici tra di noi», Cosa loro) proclama infatti che «la lotta alla mafia ha bisogno di noi, di ognuno di noi, nella nostra limpida coscienza civile, della nostra ferma determinazione; che è lotta politica, lotta per la nostra civiltà». Così Consolo “impugna” la scrittura per fare la sua parte. Scrive, come dice in «Un giorno come gli altri» (La mia isola…) perché la
scrittura «può forse cambiare il mondo». Con il narrare, invece, che è l’altro versante della sua ispirazione, il mondo non lo si cambia, lo si descrive soltanto. Negli articoli ora riuniti in Cosa loro, Consolo adotta quindi una “scrittura di presenza”, ossia una prosa militante che vibra fino ad innalzarsi alla liturgia indignata della riscrittura di un Dies irae da Requiem eseguito il 27 marzo 1993 nella cattedrale di Palermo per ricordare le stragi in cui persero la vita i giudici Falcone, Borsellino («soldati in prima linea » come li definisce), le loro scorte ed i congiunti («Dies irae a Palermo»). La “scrittura di presenza” assume, in certi scritti, la connotazione fisica dell’inviato speciale che segue “in diretta” le vicende che descrive: così ritroviamo lo scrittore al processo di Milano contro Michele Pantaleone nel 1975, querelato ma poi assolto, per aver denunciato un soggetto mafioso o a Comiso («Ero anch’io là, quella primavera del 1982, là a Comiso» – proclama con orgoglio – per protestare contro l’installazione di missili Cruise nella base della Nato. Ma l’intervento più solenne per un inviato speciale mandato in prima linea è quello al “maxiprocesso” del 1986: 475 mafiosi in gabbia. «Anch’io, in quel piovoso mattino del 10 febbraio del 1986, ero nella famosa, avveniristica, metafisica aula-bunker», afferma lo scrittore con
l’orgoglio di chi assiste, sono ancora parole sue, «al più grande psicodramma della storia siciliana, della storia nazionale». A cui seguirà purtroppo la tragica sequela di Capaci e di Via Amelio, nel 1992. Di Giovanni Falcone, a cui sono dedicati diversi articoli ed uno straziante necrologio, Consolo ha un ricordo personale: si conoscono ad una cena in casa di amici comuni e lo scrittore non può fare a meno di notare la tragica solitudine di quel commensale taciturno con «quell’aria triste di uomo “con toda su muerte a cuestas”», dice citando Federico García Lorca. Anche Falcone, come Ignacio Sánchez Mejía, era già avviato verso l’irreparabile destino. Consolo traccia la linea genealogica degli scrittori «siciliani e no» militanti: a cominciare dall’archetipo ottocentesco, Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, i primi che denunciarono, nella famosa inchiesta del 1870, l’esistenza della mafia e l’arretratezza della Sicilia. Seguono, più vicino a noi, il già citato Michele Pantaleone che passò dalla scrittura all’azione, raggiungendo il record di quaranta querele mossegli da presunti mafiosi, Danilo Dolci, con i suoi scritti e le sue inchieste e soprattutto Leonardo Sciascia che «come Sherlock Holmes – è il titolo di un articolo del 1994 – scende nei sotterranei del potere di Cosa nostra». Leonardo Sciascia è inevitabilmente per il nostro scrittore una sorta di nume tutelare. Ma anche per «quel grande illustratore dell’Italia di ieri e di sempre» che risponde al nome di Alessandro Manzoni, Consolo dice di nutrire una grande ammirazione. Del tutto diversi i giudizi di Consolo su alcuni  prestigiosi scrittori siciliani; quali Luigi Capuana, Giovanni Verga, e soprattutto Giuseppe Tomasi di Lampedusa. All’autore de Il sorriso dell’ignoto marinaio non poteva naturalmente andare a genio l’affresco storico de Il Gattopardo, definito peraltro come un «sentenzioso romanzo» che cerca di occultare con l’enfasi delle famose parole pronunciate da Fabrizio Salina, («Noi fummo i Gattopardi
e i Leoni; quelli che ci sostituiranno […]» eccetera eccetera..), le complicità
dell’aristocrazia siciliana nell’avvento delle iene in futuro odore di mafia. Ma il
«principe di Salina – si legge ne I nostri eroi di Sicilia del 2007 – ignorava o voleva
ignorare che le iene e gli sciacalli, i don Calogero Sedara, erano nati e cresciuti, si
erano ingrassati nelle terre, nei feudi dei suoi pari, dei nobili, mentre loro, i feudatari, se ne stavano nei loro palazzi di Palermo a passare il tempo tra feste e balli. Vogliamo dire che la mafia dei gabellotti, dei soprastanti e dei picciotti, mafia che sfruttava e opprimeva i braccianti, era nata là, nel latifondo, nel feudo, in quel sistema economico che durava da più di mille anni. Tomasi di Lampedusa, l’autore del Gattopardo, ignorava questo?».  Sotto la “scrittura di presenza” che cerca di «cambiare il mondo», circolano, nei diversi capitoli di Cosa loro, frammenti dell’altra vena, narrativa, dello scrittore, che il curatore del libro, profondo conoscitore dell’opera di Consolo, individua puntualmente nell’appendice. Il frammento più solido è, a mio avviso, quello relativo ad un episodio che prende forma in un articolo del 1991 per raggiungere poi l’elaborazione definitiva nel racconto «Le lenticchie di Villalba» del 2000 ( La mia isola…) e rientrare successivamente nella “scrittura di presenza” nel 2004 con il titolo significativo di «Prima educazione alla legalità». Nell’articolo apparso su Linea d’ombra nel 1991, troviamo infatti l’embrione del futuro racconto di un episodio che Consolo dice di narrare per la prima volta, «risalente –precisa – a poco meno di cinquant’anni or sono […]». C’è una colpa, confessa ironicamente lo scrittore, da cui intendo liberarmi: «io
sono stato in casa a Villalba, del famoso capomafia don Calogero Vizzini, [non solo] ho avuto in dono, dallo squisito personaggio, un torroncino di sesamo e un buffetto sulla guancia». «Racconto com’è andata», precisa, quasi per avvertire che dalla scrittura militante sta scivolando in quella narrativa della memoria. «Era l’estate del ‘43», così ha inizio l’episodio. Consolo, a quell’epoca aveva dieci anni, viaggiava in camion con il padre, commerciante di cereali, per racimolare generi alimentari che scarseggiavano. A Villalba, in provincia di Caltanisetta, riescono a rifornirsi di derrate tra cui le lenticchie per cui era famosa la cittadina. Dopo aver caricato il camion, stanno per partire ma vengono bloccati da un maresciallo dei carabinieri che proibisce loro di trasportare la merce. Gli consigliano di ricorrere a don Calò che in effetti sblocca la situazione, li fa partire ed in più regala il torroncino al piccolo Vincenzo. Seguendo la cronologia delle lenticchie arriviamo al racconto del 2000 che ha un finale da un punto di vista etico, più pertinente: niente dolci e buffetti sulle guance del bambino e soprattutto c’è il padre che rifiuta la protezione mafiosa di don Calò, fa scaricare il camion e durante il viaggio di ritorno fa notare al figlio che «in questi paesi ci sono persone che comandano più dei marescialli». E lo invita a raccontare l’episodio «in un bel copiato» che Consolo metterà per iscritto quasi sessant’anni dopo. Nell’articolo del 2004, intitolato, come si è appena detto, «Prima educazione alla legalità», l’episodio non può che riconfermare il finale sancito nel racconto del 2000, con una messa a fuoco piu ravvicinata del losco personaggio che il padre definisce senza mezzi termini “capomafia” ed ancora l’invito, quasi un lascito morale al figlio, a raccontarlo a scuola in un “copiato”. Una curiosità lessicale: il ritratto di don Calò attraversa diverse varianti iconografiche: nel 1991 («Mafia e media») è descritto come un «vecchio, imperioso, compassato»; nel 2000 («Le lenticchie…»), è semplicemente «un vecchio con gli occhiali e il bastone» mentre nel 2004 («Prima educazione alla legalità ») viene bollato definitivamente come «un vecchio laido e bavoso». In altre circostanze lo scambio tra scrittura e narrazione (anche di taglio saggistico) procede all’inverso, nel senso che è questa a fornire alla prosa militante, atmosfere, spunti o addirittura interi brani contenuti nei romanzi. Così l’«Invettiva» del 1992 nei giorni successivi all’assassinio di Giovanni Falcone («Adesso odio il paese,
l’isola, odio questa nazione disonorata, il governo criminale, la gentaglia che lo vuole… Odio finanche la lingua che si parla…»), è una citazione – è lo stesso Consolo a confermarlo – del coevo romanzo Nottetempo, casa per casa. Continuando questo rapido inventario, sempre sotto la guida attenta del curatore del volume, troviamo Al di qua dal faro come fonte ispiratrice dell’articolo «Sciascia come Sherlok Holmes nei sotterranei del potere di Cosa nostra». Per quanto riguarda la città di Palermo (in «I fantasmi di Palermo») essa è bersaglio di invettive, «Palermo è fetida» e «Questa città  è diventata un campo di battaglia», che provengono rispettivamente da Le pietre di Pantalica e Lo spasimo di Palermo. Attraverso gli articoli di Consolo ripercorriamo quarant’anni di una tragedia nazionale di corruzione e di morti ammazzati che ha il suo apice con l’attentato a Falcone ed a Borsellino: dopo la loro morte, possiamo dire con lo scrittore che «non siamo stati più gli stessi». Ai registri usati da Consolo nei diversi capitoli del suo lungo “copiato”, si deve aggiungere anche quello comico-grottesco in cui agiscono personaggi come Salvatore (Totò) Cuffaro (governatore della regione siciliana), il suo successore, Raffaele Lombardo, e dulcis in fundo Silvio Berlusconi. I primi due sembrano maschere della commedia dell’Arte. A Cuffaro (rinviato a giudizio per «rivelazione di notizie riservate e favoreggiamento» che, sia detto per inciso, approfittò della reclusione per scrivere una tesi di laurea sul sovraffollamento delle carceri) Consolo attribuisce una illustre ascendenza, nientemeno che Sancho Panza: come il personaggio di Cervantes è, afferma lo scrittore, governatore dell’Isola di Baratteria e come lui potrà affermare, alla fine del suo mandato: «nudo son nato e nudo mi ritrovo». L’elemento farsesco è suggerito dalla sua ghiottoneria: nei diversi “cammeo” che gli sono dedicati nel volume, da «Totò il buono» (2004) fino a «Totò se n’è juto» (2008), è raffigurato come un cicciottello in estasi «davanti a una enorme cassata siciliana». Il menù della sua voracità comprende anche altre leccornie come «cannoli, cassate e mammelle di vergine». Anche il suo successore Raffaele Lombardo eredita il debole per la pasticceria ed in effetti, dice Consolo, scivola pure lui «su un vassoio di cannoli» e sull’accusa di concorso in associazione mafiosa. Lombardo inoltre si è fatto portavoce dell’annoso assioma
secondo il quale a parlare della mafia si infanga la Sicilia. E se la prende pure
con chi a suo avviso l’ha denigrata: la lista include persino Omero, per aver rappresentato lo stretto di Messina nelle fogge mostruose di Scilla e Cariddi, poi Garibaldi, Verga, De Roberto, Pirandello, Tomasi di Lampedusa. Si salvano invece Camilleri e curiosamente lo stesso Consolo verso cui Lombardo manifesta una grande ammirazione. Al che lo scrittore in persona prende divertito la parola per esprimere la propria sorpresa: «Ohibò! […] se il Lombardo avesse letto qualche libro di Consolo, se ne sarebbe accorto che razza di denigratore della Sicilia è questo scrittore!». Il cast del grottesco si chiude con Silvio Berlusconi, «l’anziano uomo truccato, quello che secondo Pirandello susciterebbe, come la vecchia signora “goffamente imbellettata”, l’avvertimento del contrario il quale crea a sua volta la comicità». In un contributo ad un libro su don Pino Puglisi, sacerdote assassinato dalla mafia nel 1993, intitolato «La luce di don Puglisi nelle tenebre di Brancaccio», lo scrittore si chiede se la Sicilia e l’intero paese siano, per usare un’espressione di Sciascia, «irredimibili». La risposta è lui stesso a formularla in un intervento successivo in cui si sofferma, a mio avviso, in modo enigmatico sulla soglia della parola “utopia”: «Sì –risponde all’intervistatore che gli chiede un messaggio di speranza – come scrittore, devo dare speranza. E la do, credo la speranza, come gli altri, con la scrittura. Il grande critico letterario russo Michail Bachtin affermava che il romanzo critico nei confronti del contesto storico-sociale è romanzo utopico: vale a dire che esso, narrando il male sociale, fa immaginare il bene, indica la società ideale».

Cuadernos de Filología Italiana
Giovanni Albertocchi
Universitat de Girona

Vincenzo Consolo: da ” Accordi ” a ” Marina a Tindari “

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Vincenzo Consolo: da “Accordi” a “Marina a Tindari”

di

Sergio Palumbo

     La plaquette di Vincenzo Consolo “Accordi” apparsa nel dicembre del 2015 per Zuccarello Editore, lo stabilimento tipografico di Sant’Agata di Militello diventato famoso per la pubblicazione delle “9 liriche” di Lucio Piccolo finita poi nelle mani di Eugenio Montale, mallevadore dell’aristocratico poeta siciliano, non sorprende perché questo scrittore non è nuovo per rarità bibliografiche. Ma la plaquette postuma ha la particolarità di raccogliere una manciata di versi, il che rappresenta un fatto inedito perché Consolo non ha mai pubblicato sue poesie né, diceva, di averne mai scritte.

     Si tratta di una curiosità letteraria che certo non autorizza a parlare adesso di un Consolo poeta. Egli rimane un narratore puro come lo è Vittorini così come Quasimodo, Cattafi e Lucio Piccolo sono poeti puri. Gli altri importanti autori siciliani del secondo Novecento, non volendo scomodare ancor prima Pirandello, quali Sciascia, Bufalino, D’Arrigo, Bonaviri, Addamo, per quanto vengano considerati dalla critica essenzialmente dei narratori, ci hanno lasciato sillogi di versi, soprattutto gli ultimi due. Gli “Accordi” di Consolo, ritrovati nell’archivio milanese dello scrittore dalla moglie Caterina Pilenga e, come specificato nel libriccino, risalenti non si sa a quale data, sono stati amorevolmente raccolti a cura di Claudio Masetta Milone e Francesco Zuccarello. La plaquette, con impaginazione grafica di Giulia Tassinari, presenta in copertina un’incisione di Mario Avati.

     Diego Conticello, sempre attento e puntuale nelle sue ricognizioni, recensendo per “Carteggi letterari – Critica e dintorni” il 16 marzo scorso la plaquette consoliana, “Una mancata armonia: Accordi”, sottolinea opportunamente che in verità un precedente poetico di Vincenzo Consolo, edito, esiste. Una sua lirica infatti è compresa nell’antologia curata dal sottoscritto “Poesia al Fondaco” (Pungitopo, 1992). S’intitola “Marina a Tindari”. Nel 1972 venne data alle stampe, presso il laboratorio d’arti grafiche di Piero De Marchi a Vercelli, un fascicolo, su carta Fabriano tirata a mano in cento esemplari numerate fuori commercio (una delle preziose rarità bibliografiche appunto in cui appaiono testi consoliani), contenente, oltre a un commento curato da Sergio Spadaro, quello che si riteneva fino ad allora l’unico testo poetico dello scrittore santagatese. La plaquette (posseggo la copia numero 78) s’intitola “Marina a Tindari”. Il singolare componimento, all’epoca scritto per una mostra del pittore Michele Spadaro, reca in calce la firma di Vincenzo Consolo e la data: 27 febbraio 1972.

     In realtà. come ha poi chiarito lo stesso Sergio Spadaro, fu lui a mettere in versi il testo consoliano, anche se bisogna ammettere che dal fascicolo ciò non risulta con immediatezza. Occorre leggere il commento critico dello stesso Spadaro che accompagna la composizione lirica di Consolo per prenderne atto. Comunque, ripeto, la precisazione di Spadaro, ribadita pubblicamente in più occasioni, è giusta e va rispettata. Qui vorrei aggiungere ancora una cosa inedita. L’esemplare mio di “Marina a Tindari” reca addirittura due dediche autografe. La prima, dell’8 febbraio 1992, è del pittore per il quale Consolo scrisse il testo, Michele Spadaro, che fu pure mio amico. “Col permesso degli Autori, con simpatia, a Sergio Palumbo”. La seconda dedica, invece, riagganciandosi alla prima, è di Vincenzo Consolo. E Consolo, curiosamente, si attribuisce la “paternità” di quegli “antichi” versi. “Sant’Agata, 21 aprile 1992: Permetto, e come!, anche perché l’ispirazione di questi miei ‘antichi’ versi mi veniva da una mostra di Michele Spadaro, oltre che dalla memoria del Tindaro.
A Sergio Palumbo, Vincenzo Consolo”.

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Consolo come non lo avete mai letto

Consolo come non lo avete mai letto

Pubblicate una raccolta di poesie dello scrittore​ premio Strega nel 1992

Un Vincenzo Consolo inedito. Dagli archivi dello scrittore autore del «Sorriso dell’ignoto marinaio», si disvela un aspetto inusitato di poeta. «Accordi» è la raccolta di poesie pubblicata dall’editore Zuccarello. Il volume è stato presentato nelle sale del castello Gallego di Sant’Agata di Militello. Un luogo e un editore, paradigmatici nell’opera di Vincenzo Consolo. Il castello Gallego fa da sfondo al romanzo che ha reso celebre lo scrittore siciliano, «Il sorriso dell’ignoto marinaio». La sede dell’editore Zuccarello è il luogo del riscontro del giovane Consolo e del poeta Lucio Piccolo. Come raccontato tra le pagine de «Le pietre di Pantalica». Le poesie erano custodite in un cassetto dello scrittoio di Consolo nella sua casa milanese. Una serie di liriche che Consolo, aveva curiosamente assemblato in maniera artigianale. Un’insolita serie di fogli battuti con la sua storica Olivetti. Un Consolo insolito, privato, intimo. Un tratto poetico che lo scrittore premio Strega nel 1992, aveva consegnato alla discrezione di un cassetto segreto. Il libro è stato realizzato con una fattura attenta. Carta prodotta con un antico processo artigianale e cucita con un bizzarro filo da pescatore. In copertina, un’incisione del pittore Mario Avati. La grafica è stata realizzata da Giulia Tassinari. Il volume è stato stampato in cento esemplari numerati. Prevista una successiva ristampa commerciale della raccolta. Il libro è stato curato da Claudio Masetta Milone e da Francesco Zuccarello.

Enna Magazine del 25 febbraio 2015

La poetica di “Accordi” in un inedito di Vincenzo Consolo

La poetica di “Accordi” in un inedito di Vincenzo Consolo

Cultura | 23 febbraio 2016
 Un Vincenzo Consolo inedito. Dagli archivi dello scrittore autore del «Sorriso dell’ignoto marinaio», si disvela un aspetto inusitato di poeta. «Accordi» è la raccolta di poesie pubblicata dall’editore Zuccarello. Il volume è stato presentato nelle sale del castello Gallego di Sant’Agata di Militello. Un luogo e un editore, paradigmatici nell’opera di Vincenzo Consolo. Il castello Gallego fa da sfondo al romanzo che ha reso celebre lo scrittore siciliano «Il sorriso dell’ignoto marinaio».  La sede dell’editore Zuccarello è il luogo del riscontro del giovane Consolo e del poeta Lucio Piccolo. Come raccontato tra le pagine de «Le pietre di Pantalica». Le poesie erano custodite in un cassetto dello scrittoio di Consolo nella sua casa milanese. Una serie di liriche che Consolo, aveva curiosamente assemblato in maniera artigianale. Un’insolita serie di fogli battuti con la sua storica Olivetti.  Un Consolo insolito, privato, intimo. Un tratto poetico che lo scrittore premio Strega nel 1992, aveva consegnato alla discrezione di un cassetto segreto. Il libro è stato realizzato con una fattura attenta. Carta prodotta con un antico processo artigianale e cucita con un bizzarro filo da pescatore. In copertina, un’incisione del pittore Mario Avati. La grafica è stata realizzata da Giulia Tassinari. Il volume è stato stampato in cento esemplari numerati. Prevista una successiva ristampa commerciale della raccolta. Il libro è stato curato da Claudio Masetta Milone e da Francesco Zuccarello.

di Concetto Prestifilippo

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Il barone magico , Vincenzo Consolo

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Lucio Piccolo e Vincenzo Consolo

Un giorno, dopo anni, il barone Piccolo me lo trovai davanti nella carto-libreria-legatoria dei fratelli Zuccarello, titolari anche della tipografia “Progresso”. Entra, seguito dall’autista don Peppino. «Ecco qua» dice Piccolo. «Queste sono le poesie» e consegna dei fogli dattiloscritti, con un sorriso tra imbarazzato e divertito. Discussero di carta, di caratteri, di copertina, di copie. Poi gli occhi di Piccolo si appuntarono sui miei libri (vecchi libri che scovavo qua e là sulle bancarelle), ne lesse i titoli: Almanacco perpetuo di Rutilio Benincasa, Guida del monte Pellegrino, Patti e la storia del suo vescovado. Rise, guardò me, s’accorse che ero come contrariato, e si scusò. «Gli almanacchi, le guide, le storie locali, ah, sono pieni d’insospettabile poesia. Senta quest’attacco» aggiunse, aprendo la Guida del monte Pellegrino alla prima pagina; e si mise a leggere, con quella sua voce chiara: «Quando, mio caro lettore, ti trovi in quella grande pianura, alla quale i moderni diedero il nome di piazza del Campo, e che comunemente, da antichissimo tempo, si chiama Falde, gira lo sguardo a te attorno, e per quanto la tua vista si estende, di fronte, fino alle grandi prigioni, ed a sinistra fino al mare…». (Avrei ritrovato poi lo stesso attacco, la stessa cadenza, in Guida per salire al monte, inclusa in Plumelia: «Così prendi il cammino del monte: quando non / sia giornata che tiri tramontana ai naviganti, / ma dall’opposta banda dove i monti s’oscurano in gola / e sono venendo il tempo le pasque di granato e d’argento…».) Ero rimasto lì incantato, quando Lucio Piccolo sorrise ancora, mi tese la mano e: «Ho un’intera biblioteca di questi vecchi libri. Venga, venga a trovarmi a Capo d’Orlando. Al chilometro 109 c’è una stradina che arriva fino alla casa» e sparì con Don Peppino dietro.
Venne stampato quel libretto che fu inviato a Montale per il premio San Pellegrino. E quando Mondadori pubblicò i Canti barocchi con quella prefazione di Montale che diceva: «Il libricino, intitolato: 9 liriche, stampato da una sola parte del foglio e impresso in caratteri frusti e poco leggibili, non aveva dedica ma conteneva una lettera d’accompagnamento. Proveniente da Capo d’Orlando (Messina), i tipi erano quelli dello stabilimento “Progresso”, quel «caratteri frusti e poco leggibili» fu un affronto per Don Ciccino Zuccarello. «Io lo denunzio questo Pontale, lo denunzio!» si mise a urlare.
Alla casa dei Piccolo si arrivava per una ripida stra­detta a giravolte, bordata di piante, iris, ortensie, che fi­niva in un grande spiazzo dove era la porta d’ingresso su una breve rampa di scale. Oltrepassata questa, ci si tro­vava subito nell’unica sala che per tanti anni conobbi. Era una grande sala dalle pareti nude, senza intonaco, e il pavimento di cotto. Sulla destra, vicino a una finestra, tre poltrone di broccato e velluto controtagliato dai braccioli consumati attorno a un tavolinetto. Al muro, un monetario siciliano di ebano e avorio; più in là, un grande tavolo quadrangolare con le gambe a viticchio e con sopra panciuti vasi Ming blu e oro, potiches verdi e bianche, turchesi e rosa della Cocincina, draghi, galli e galline di Jacobpetit. Di fronte, sulla sinistra, una grande vetrina con dentro preziose ceramiche ispano-sicule, di Deruta, di Faenza. Negli angoli, colonne con sopra mezzibusti di antenati. Sopra le porte che si aprivano verso il resto della casa, medaglioni del. Màlvica, basso­rilievi in terracotta incorniciati da festoni di fiori e di frutta a imitazione dei Della Robbia. E ancora, per tut­te le pareti, ritratti a olio di antenati o quadretti a rica­mo o fatti delle monache coi fili di capelli. Il mio posto fu per anni su una poltrona davanti al poeta, che sede­va con le spalle alla finestra sempre chiusa, anche d’e­state (la luce filtrava fioca nella sala attraverso le liste della persiana). Lì, due, tre volte la settimana si faceva « conversazione», ch’era un lungo monologo di quel­l’uomo che «aveva letto tous les livres», come scrisse Montale, ch’era un pozzo di conoscenza, di memoria, di sottigliezza, di ironia. Le interruzioni erano solo quan­do nella stanza irrompeva Puck, la sua cagnetta, un grifoncino di Bruxelles, brutta e spelacchiata, ringhiosa. «Vieni qua, vieni qua dal tuo padrone, scimmietta, co­sa vuoi, ah, cosa vuoi?» la vezzeggiava facendosela saltare sulle gambe. O quando a tin certo punto entrava Rosa, la cameriera, col vassoio del caffè o delle granite. Ogni tanto appariva anche il fratello, il barone Casimi­ro, bello fresco rasato ed elegante come dovesse uscire per qualche festa. Era invece, come mi rivelò una volta in gran confidenza, ch’egli dormiva di giorno e vegliava di notte, e nel tardo pomeriggio, quando s’alzava, faceva toilette perché più tardi sarebbe cominciata la sua grande avventura dell’attesa notturna delle apparenze, delle materializzazioni degli spiriti. Il barone era un cul­tore di metapsichica e studiava trattati e leggeva riviste come «Luci e ombre». Mi spiegò una sua teoria sulle materializzazioni, non solo di uomini, ma anche di cani., di gatti, mi disse che a quelle presenze, per lo sforzo nel materializzarsi, veniva una gran sete ed era per questo che per tutta la casa, negli angoli, sotto i tavoli, faceva disporre ciotole piene d’acqua.
Di tanto in tanto arrivavano a villa Vina (Vena, in ita­liano: vena d’acqua, vena poetica?) in visita i «conti­nentali». Arrivò Piovene, Quasimodo, la Cederna e tanti e tanti altri, letterati e giornalisti.
L’incontro di Piccolo con Sciascia avvenne una do­menica, il primo giorno in cui, dopo secoli, nelle chiese si celebrava la messa in italiano. Sciascia arrivò da Cal­tanissetta al mio paese e assieme andammo da Piccolo. Al congedo, sulla porta, Piccolo solennemente disse allo scrittore, indicando con la mano su per le colline: «Sciascia, la invito a scrivere di queste nostre terre, di questi paesi medievali».
Avevo deciso di lasciare la Sicilia e di trasferirmi a Milano. «Non parta, non vada via » mi diceva Piccolo. «A Milano, con tutti gli altri, rischia di annullarsi. La lontananza, l’isolamento danno piùn fascino, suscitano interesse e curiosità». Non potevo rispondergli che non ero ricco, che dovevo guadagnarmi la vita. Non potevo dirgli, soprattutto, che lì in Sicilia mi sembrava tutto fi­nito, senza speranza, che a Milano, al Nord avevo la sensazione che tante cose si muovessero, che stesse per iniziare una nuova storia.
Partii in gennaio. Quando tornai, in estate, andai an­cora a trovare Piccolo. «Cosa dicono di me a Milano, co­sa dicono?» mi chiese subito. Niente, non dicevano nien­te. Piccolo, dopo la curiosità suscitata al suo esordio, e dopo essere stato trascinato nel ciclone del Gattopardo, era bell’e dimenticato: altri miti, altre scoperte andava fabbricando per più rapidi consumi l’industria culturale.
Lo vidi l’ultima volta un anno dopo. Trascrivo da un mio diario: «Entro in casa Piccolo a Capo d’Orlando nel momento in cui la televisione trasmette l’arrivo sulla Terra dell’Apollo 8. Il fratello del poeta mi chiama e mi fa accomodare davanti al televisore. Il poeta non viene. È sera. Nelle grandi, stanze della villa, poche e fioche lu­ci negli angoli e la luce lattiginosa del video sulle nostre facce. Fuori, il vento e la pioggia sferzano le campagne. Il fragore delle onde penetra la casa attraverso le persia­ne. Di quel mare di Capo d’Orlando che qualche giorno prima ha devastato il litorale. Vicina, la fiumara di Zap­pulla in piena trascina macigni, sbatte contro i piloni del ponte della ferrovia già incrinato. I treni che giungono dal Continente carichi di emigrati si fermano e quindi attraversano il ponte lentissimamente. La voce dello speaker alla televisione, man mano che passano i minuti, è sempre più forte, ansiosa, concitata. Piccolo è sprofon­dato nella poltrona, silenzioso e immobile, in un’altra stanza piena di penombra. Non ha visto gli astronauti fi­nalmente giunti a bordo dello Yorktown, non ha sentito la voce di Frank Borman che saluta il mondo. Lo rag­giungo. “Per la Teoria delle ombre” , mi dice “la mia prossima raccolta, ho preso spunto dagli studi di pro­spettiva che ho fatto nella mia giovinezza…”».
Una mattino di maggio mi trovavo in assemblea nel­l’azienda dove lavoravo. Era un’assemblea accesa, con­citata, tumultuosa: c’era in ballo il rinnovo del contrat­to di lavoro. I sindacalisti litigavano con quelli del Cub, il comitato unitario di base. Fu lì che mi vennero a chiamare e mi dissero di telefonare in Sicilia. Così appresi della morte di Lucio Piccolo, ch’era avvenuta durante la notte. Provai dolore, ma dolore anche per un mondo, un passato, una cultura, una civiltà che con lui se ne an­davano. Mi tornavano in mente i suoi versi, e questi so­prattutto: «…spento il rigore dei versetti a poco a poco / il buio è più denso / sembra riposo ma è febbre: / l’ombra pende al segreto / battere di un immenso / Cuore / di / fuoco». Ma i versi, gli infiammati versi di Piccolo, tornato in assemblea, furono fugati, sopraffatti dalle voci, dalle grida, da quel linguaggio per me in­comprensibile.

***

Lo sentivo sempre favoleggiare d’una Naso Illustrata per Carlo Incudine, in cui gran parte aveva il santo me­dievale Conone Navacita. Mi bastavano allora quei tre nomi, Naso, Incudine, Conone, disposti su tre piani, in una luce d’oro sospesa di meriggio mediterraneo, per restare rapito a contemplare un sibillino quadro surrea­le. Mi favoleggiava del libro Lucio Piccolo, e di grandi che per quelle contrade eran passati lasciando impron­te, segni poetici e regali. Come Ruggero il Normanno che, dopo vittoriosa battaglia contro i saraceni, lascia per voto al convento di Fragalà il suo stendardo. O Fe­derico di Svevia, che al castello de’ Lancia, in Brolo, ama Bianca e genera Manfredi («biondo era e bello e di gentile aspetto »). E Piccolo chiedeva: «Non nota lei, non nota che da queste parti aleggia ancora il vento di Soave?». Ironizzava poi su quel santo dal geometrico nome, Cono, Conone, la cui particolarità era quella di restar sempre in estasi sospeso (si può immaginare un santo più metafisico?) o su un altro secentesco, frate Perlongo, fatto beato per l’avversione dimostrata in tut­ta la sua vita verso le donne, al punto che da bambino si rifiutava di baciare la madre per non commettere pec­cato. E sorrideva Piccolo, sorrideva malizioso, scher­mendo le labbra con quel suo gesto di portarsi il polli­ce sotto il naso e carezzarsi i baffi.
Quel libro introvabile mi restò per molti anni miste­rioso, come quell’imprecisato Libro del Cinquecento da cui traevano divinazioni, profezie i maghi e le maghe di queste parti. Fino a quando il neoproduttivismo e la tec­nologia non m’hanno portato finalmente tra le mani la ristampa anastatica del libro. E vi ho letto allora ch’era Naso una città fondata da popolazioni greche venute da Naxos e chiamata Naxida, da cui Naso, che quindi niente aveva a che fare con l’organo che sta al centro del volto, rincagnato o ciranesco. Che fu poi, quella città, dal medioevo fino al ’700 dominio di conti. Dei quali l’ultimo, e più dispotico, un certo Sandoval, spodestato, per amor di giustizia, da un barone Piccolo. Così l’In­cudine: «Ed ecco tin bel dì fars’innanzi un giovane: ve­stiva un mantello azzurro alla spagnola, calzone nero stretto a ginocchio da sfarzose frange di argento, cotur­ni dalle fibbie d’oro, e toccava i ventiquattro anni.
Ricchezze godea di poderi estesissimi, perocché con l’ala dell’occhio, meno poche interruzioni, ci poteva domi­nare liberamente quasi dal Timeto al Fitalia, il più bel tratto dell’agro nassense, dicendo: è mio! Nobili i nata­li e per le armi e per scienza di leggi, allegoricamente si­gnificati con araldica bizzarria dallo stemma di famiglia; nobilissime le tradizioni. Egli era Gaetano Piccolo». Un antenato di Lucio Piccolo di Calanovella. E tra il Time-to e il Fitalia, nel più bel tratto dell’agro nassense, v’era, di proprietà dei Piccolo, Capo d’Orlando, il paese e il territorio sulla costa tirrenica della Sicilia. Su una pianura di fitti limoni, un cupo tappeto verde trapuntato di frutti d’oro, sovrastato dalle snelle, altissime palme con la cascata a fontana del fogliame, scandito dai filari di cipressi spartivento. In mezzo, invisibili, le casupole d’a­renaria e calce dei contadini. Una pianura stretta tra i colli, folti d’ulivi grigioargento, e il mare. Di fronte, gal­leggianti sulla linea dell’orizzonte, le isole Eolie. Nei giorni in cui il vento fuga i veli dei vapori, si scorgono le casette bianche di Lipari e Salina, il faro di Vulcano.
Il paese è adagiato sotto il promontorio, il Capo, un perfetto cono a picco sopra il mare, un ammasso d’are­naria sopra cui crescono, a macchia, il ficodindia, il len­tischio, l’acanto, il selino, l’euforbia, il cappero. In cima al Capo, i ruderi d’un castello e un santuario della Ma­donna dei pescatori pieno d’ancore, timoni, ex-voto di caicchi, gozzi, velieri in balìa di fortunali. Il Capo pren­de il nome da Orlando, il più «furioso » dei paladini di Carlo Magno. Doppiato il Capo, v’è la cala di San Gregorio, il villaggio dove di notte sbarcavano i pirati, «Terrore a la riva: la furia dei ratti trae fra gli strilli la gonna come bandiera / e il corsaro dagli occhi di nera porcellana, / da la barba serpentine: / la scimitarra stride con l’arma paesana… ».
Qui abitava zia Genoveffa, la vecchia fattucchiera the tagliava col coltello dal manico bianco le trombe marine, toglieva il malocchio con fumigazioni di ramet­ti d’alloro, erica, rosmarino. Qui era un tempo la città antica d’Agatirno, una delle città lungo questa costa che, coi loro nomi comincianti in A (Abacena, Alunzio, Apollonia, Amestrata, Alesa…) fanno pensare ai pri­mordi, alle origini della civiltà. Ma qui s’intrecciano an­cora e si confondono mito e storia, natura e civilizzazio­ne, poesia e realtà, simboli e metafore, vita e morte: qui gli uomini venivano sepolti dentro giaroni di terracotta, accovacciati in posizione fetale, come dentro l’utero materno.
Sopra un poggio che domina la pianura di Capo d’Orlando, il Tìndari e Cefalù ai due poli dell’orizzon­te, era la villa dei baroni Piccolo di Calanovella. Erano tornati nel 1930 su queste loro terre. Il padre era fuggi­to con una ballerina, se n’era andato a vivere a San Re­mo. La moglie, una principessa Tasca Filangeri di Cutò, sorella della madre di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, offesa nel suo orgoglio, aveva detto addio alla vita mon­dana di Palermo, dominata allora dai Florio, alle estati al castello di Santa Margherita Belice, la Donnafugata de Il Gattopardo, e s’era ritirata qui, coi suoi tre figli, Casimiro, Lucio e Giovanna, in esilio volontario, impo­nendo a sé stessa e ai figli, una vita austera, monacale.
Morta la madre, i tre fratelli, quasi ubbidendo a un segreto patto, a un giuramento, continuano fino alla morte la loro vita solitaria. In questa villa bianca, tra palme, pini, glicini, buganvillee, stipata di mobili, arazzi, porcellane antiche, lontani dal mondo, distaccati d’ogni preoccupazione d’ordine pratico (pensavano i tre ammi­nistratori alla conduzione delle terre; l’autista, il cuoco, le cameriere a quella della casa). Uniche frequentazioni, qualche amico o parente che ogni tanto veniva dalla Ca­pitale a fare visita. Più frequente quella di Tomasi di Lampedusa che qui a lunghi periodi soggiornava, e qui aveva concepito e scritto gran parte del suo romanzo (il nome dato a don Fabrizio, lo prende senz’altro dall’isola che ogni mattino si vedeva apparire di fronte, celeste e trasparente all’orizzonte, affacciandosi al ter­razzo-giardino pieno di piante esotiche, di ninfee galleg­gianti nelle vasche).
I tre fratelli, in questo buon ritiro, coltivavano le lo­ro segrete passioni. Calsimiro il primogenito, l’occulti­smo, la fotografia e la pittura. La baronessa Giovanna la passione della floricultura. Sperimentava innesti, inse­minazioni inusitati. Coltivava ortensie, iris, orchidee. Ma il suo orgoglio era l’aver fatto attecchire qui, in que­sta sua terra, una delicata e rara pianta tropicale, la puja, che dava un fiore blu come di porcellana, un fiore mallarmeano. Lucio, terzogenito, aveva la passione della letteratura, della poesia. Aveva fin da giovane scritto, scritto e distrutto. Finché non compose i Canti barocchi, in uno stato di incandescenza, di raptus, e non decise d’esporsi, di pubblicare: a cinquantadue anni. Fece stampare un piccolissimo libretto, dal titolo 9 liriche.
Liriche purissime, singolari, inedite nel panorama italiano, in cui convergevano tutta l’esperienza poetica europea vecchia e nuova. Una poesia dove vi è la natu­ra dolce e panica, misteriosa, concreta ma mutevole della campagna di Capo d’Orlando; dove vi sono le chiese barocche, gli oratori, i vecchi conventi, e le «anime ade­guate a questi luoghi», della Palermo della sua infanzia­-adolescenza; le passate stagioni, i trapassati che ritorna­no, in amorosa evocazione, in notturna processione, in febbrile ansia, in struggente flusso di memoria.
Lo frequentai per tanti anni, fino a quando non deci­si di lasciare la Sicilia. Ma ogni volta che ritornavo nel­l’Isola, non mancavo d’andare a trovare il poeta. Fu in uno di questi ritorni che insieme scendemmo dalla villa per andare in paese, a Capo d’Orlando. Da lì, alla cala di San Gregorio. Era una giornata d’aprile, chiara, cri­stallina. Al villaggio ci venne incontro zia Genoveffa, la maga delle trombe marine e dei fumi di rametti aroma­tici. «Bacio le mani, barone» salutò la vecchia. Piccolo si staccò da me e le andò incontro. Vicini, si parlarono.
Il sole calava verso le Eolie, il mare era fermo.
«I giorni della luce fragile, i giorni / che restarono presi ad uno scrollo / fresco di rami… / oh non li ri­chiamare, non li muovere, / anche il soffio più timido è violenza / che li frastorna… ».

ITALY,Sicily, Capo d'Orlando: The italian Poet Lucio PICCOLO. (c) Ferdinando Scianna/Magnum Photos

Vincenzo Consolo, Il barone magico
Le pietre di Pantalica, Mondadori, Milano 1988

Ma la luna, la luna… Vincenzo Consolo



 Si apre lo Zibaldone di Leopardi con questi versi: “Era la luna nel cortile, un lato Tutto ne illuminava, e discendea Sopra il contiguo lato obliquo un raggio…”1 . E quindi, ancora nello Zibaldone (3 ottobre 1828) Leopardi riporta un brano del Voyage d’Orenbourg à Boukhara, fait en 1820 del barone de Meyendorff, il quale parla dei Kirkisi e dice: “Plusieurs d’entre eux passent la nuit assis sur une pierre à regarder la lune, et à improviser des paroles assez tristes sur des airs qui ne le sont pas moins”2 . Si sa che da questo brano di Meyendorff, dei Kirkisi che intonano tristi canti guardando la luna, prende spunto Leopardi, per scrivere il suo Canto notturno di un pastore errante dell’Asia: “Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, Silenziosa luna?”3 . chiede il pastore errante, e si chiede: “Dico fra me pensando: A che tante facelle? Che fa l’aria infinita, e quel profondo Infinito seren? (…) (…) ed io che sono? Così meco ragiono…”4 .

1 LEOPARDI, G. (1970: 474): Canti con una scelta di prose, a cura di Francesco Flora [diciottesima edizione], Verona: Edizioni Scolastiche Mondadori. 2 Cfr. LEOPARDI, G. (1970: 281). 3 LEOPARDI, G. (1970: 281, vv. 1-2). 4 LEOPARDI, G. (1970: 288, vv. 85-90).

 Ci sembra che questo pastore del deserto asiatico si faccia filosofo, che, sotto quel profondo infinito sereno, sotto quella luna venga posseduto dallo spirito socratico. Così come Euripide, ci dice Friedrich Nietzsche ne La nascita della tragedia, inaugura la tragedia moderna per l’irruzione nelle sue opere di quello stesso spirito socratico: vale a dire dello spegnersi del canto, del canto corale come in Eschilo e in Sofocle, e dello sgorgare del pensiero, del ragionamento, dell’assillante e paralizzante argomentazione. “Ed io che sono?” si chiede il pastore asiatico. “Io sono” afferma invece con energia un altro errante, il nomade della valle dell’Indo o del deserto egiziano che percorre il Maghreb, giunge in Spagna, in Sicilia, nel Napoletano. Diciamo del gitano posseduto dal lorchiano duende, il gitano che distoglie lo sguardo dalla luna, dal cielo, per appuntarlo sulla terra. Del gitano che ritrova la misura umana, la finita geografia della sua esistenza, e questa afferma, con forza: con il canto, il cante jondo, il movimento, la danza, canto e movimento come quelli dei coreuti della antica tragedia greca. Ma rivolgiamo ancora lo sguardo alla luna, alla luna dei poeti, di Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso, rivolgiamo lo sguardo alla luna di Leopardi. Quasi tutti i Canti del poeta di Recanati sono illuminati dalla tenera luce dell’astro notturno, dell’ “eterna peregrina”, da La sera del dì di festa, a Alla luna, a La vita solitaria, a Il tramonto della luna. Dice in quest’ultima: “Dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno Nell’infinito seno Scende la luna; e si scolora il mondo…”5 . E in altri, in altri Canti ancora balugina la luna. E quando non è la luna, sono le “vaghe stelle dell’Orsa” o il “fiammeggiar delle stelle” sopra la desolata coltre di lava de La ginestra. Ma la luna, la leopardiana luna, si stacca dal cielo e cade sulla terra nell’idillio intitolato Spavento notturno o Il sogno. E così Alceta narra il suo sogno a Melisso:

 5 LEOPARDI, G. (1970: 370, vv. 10-12).

 “(…) Io me ne stava Alla finestra che risponde al prato, Guardando in alto: ed ecco all’improvviso Distaccasi la luna; e mi parea Che quanto nel cader s’approssimava, Tanto crescesse al guardo; infin che venne A dar di colpo in mezzo al prato (…) Allor mirando in ciel, vidi rimaso Come un barlume, o un’orma, anzi una nicchia, Ond’ella fosse svelta; in cotal guisa, Ch’io n’agghiacciava; e ancor non m’assicuro…”6 . Nel sogno di Alceta, di Leopardi, la spaventevole caduta della luna fa scolorire il mondo. Ma ci sono poi altri poeti che la rimettono in cielo, nel cielo della poesia. Lorca, ad esempio, gioiosamente, con un gioco quasi di fanciullo: “Alta va la luna bajo corre el viento (…) luna sobre el agua. Luna bajo el viento”7 . E ancora, “La quilla de la luna Rompe nubes moradas”8 . “Los niños se comen la luna Como si fuera una cereza”9 . “La luna está muerta, muerta; Pero resucita en la primavera”10. Risuscita la luna in Montale, Caproni, Luzi. E luminosamente in Andrea Zanzotto così:

6 LEOPARDI, G. (1970: 398-399, vv. 3-9 e 17-20). 7 Cfr. GARCÍA LORCA, F. (1921-1924): Canciones, “Nocturnos de la ventana [A la memoria de José de Ciria y Escalonte, Poeta (1)]”. 8 Cfr. GARCÍA LORCA, F. (1921): Poema del cante jondo, “Poema de la Saeta: A Francisco Iglesias [Madrugada]”. 9 Cfr. GARCÍA LORCA, F. (1921-1924): Canciones, “Teorías [Tío-vivo]”. 10 Cfr. GARCÍA LORCA, F. (1921-1924): Canciones, “Canciones de luna [Dos lunas de tarde: A Laurita, amiga de mi hermana]”.

 “Luna puella pallidulla Luna flora eremitica, Luna unica selenitica, distonia vita traviata, atonia vita evitata…11”. E la luna infine, la luna che profuma d’oriente, di Lucio Piccolo: “La luna porta il mese e il mese porta il gelsomino”12. Ma è una luna, quella di Piccolo, che, come nel sogno di Alceta del leopardiano Spavento notturno, si frantuma, cade sulla terra e mai più risuscita. Lucio Piccolo di Calanovella. E bisogna purtroppo dire ogni volta di questo grande poeta scoperto da Montale, dell’autore di Gioco a nascondere e Canti barocchi, Plumelia, La seta, Il raggio verde, bisogna dire, per la fama planetaria che raggiunse l’autore de Il Gattopardo, che Lucio Piccolo era cugino di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Era del Capo d’Orlando ma veniva sempre al mio paese, prima in landò, dal tempo screpolato, e poi in macchina. Correva sempre, correva, il volto chiuso in una sua gioia incomprensibile. M’accadeva d’incontrarlo spesso, e allora mi fermavo e lo seguivo con gli occhi finchè spariva. Un giorno, dopo anni, il barone Piccolo me lo trovai davanti nella carto-libreria-legatoria dei fratelli Zuccarello, titolari anche della tipografia Progresso. Entra, seguito dall’autista don Peppino. “Ecco qua” dice Piccolo. “Queste sono le poesie” e consegna dei fogli dattiloscritti, con un sorriso tra imbarazzato e divertito. Discussero di carta, di caratteri, di copertina, di numero di copie. Poi gli occhi di Piccolo si appuntarono sui miei libri che

11 Cfr. ZANZOTTO, A., 13 settembre 1959 (Variante), in IX Ecloghe (1962), in ZANZOTTO, A. (1999): Le poesie e prose scelte, Stefano Dal Bianco, Gian Mario Villalta (ed.), Milano: Mondadori. 12 Poesia dal titolo “La luna porta il mese”, in PICCOLO, L. (1956: 62): Canti barocchi e altre liriche, prefazione di Eugenio Montale, collana «I poeti dello Specchio», Milano: Mondadori.

avevo portato là per farli rilegare, vecchi libri che scovavo sulle bancarelle: almanacchi, guide, storie locali. Disse: “M’accorgo di non essere il solo ad amare questi libri. Sì, le guide, gli almanacchi, sono pieni di insospettabile poesia”. E aggiunse: “Ho una intera biblioteca di questi vecchi libri. Venga, venga a trovarmi a Capo d’Orlando. Al chilometro 109 c’è una stradina che arriva fino alla casa”. Questo fu verso la fine del ‘53: era morto Stalin, i Rosemberg erano stati assassinati, le acque avevano sommerso la Calabria e in Sicilia una Madonna di gesso piangeva al capezzale di un operaio comunista. Quel libretto stampato dalla tipografia Progresso, intitolato 9 liriche, venne inviato a Montale, e quando poi, nel 1956 Mondadori pubblicò Canti barocchi, Montale ne scrisse la prefazione. Scrisse: “(…) mi colpì in queste liriche un afflato, un raptus che mi facevano pensare alle migliori pagine di Dino Campana. Il lessico è spesso ricercato, ma la parola ha poco peso, l’armonia è quella di un moderno compositore politonale”. E ancora: “Lucio Piccolo ha letto tous les livres nella solitudine delle sue terre di Capo d’Orlando (…) Un uomo molto singolare, un uomo sempre in fuga, per certi aspetti affine a Carlo Emilio Gadda, un uomo che la crisi del nostro tempo ha buttato fuori del tempo”13. Quest’uomo io ho frequentato per anni, da lui ho appreso cos’è la cultura, cos’è la poesia. Il 17 febbraio del 1967 pubblicavo su L’Ora di Palermo un lungo articolo su Lucio Piccolo dal titolo “Il barone magico”. In quell’articolo davo l’anticipazione di una prosa, intitolata L’esequie della luna che il poeta stava componendo. Scrivevo: “L’esequie della luna è un balletto in tre tempi. Lo si chiama balletto per convenzione, ma potrebbe bene esso creare una nuova categoria letteraria. Pomposo, Fantastico e Pastorale ne formano i tre tempi. Il racconto è questo. La luna, fanciulla che s’ammala, cade sfaldandosi (il simbolo è palese): ne vediamo gli effetti alla corte di un viceré, in un convento di trepide suore e in campa

 13 Libretto “9 Liriche” stampato nello Stabilimento tipografico di Sant’Agata senza data. Montale nella prefazione pubblicata in Canti barocchi e altre liriche, (cit.), dice di aver ricevuto il libretto il giorno 8. 4. 1954 – La prefazione di Montale è da p. 9 a 19.

 gna, dove infine la Luna, fanciulla ricomposta in un’urna, viene sepolta presso le acque” 14. Nel settembre del 1967, Piccolo così communicava allo scrittore Corrado Stajano: “Intanto ho scritto una sorte di narrazione-fantasia, volutamente barocca e ingenuamente romantica, L’esequie della luna, opera più che altro nostalgica…”15. E ancora a Stajano, nell’ottobre dello stesso anno, scriveva: “Ho scritto recentemente una sorta di racconto fantastico (al quale già pensavo da lungo) in cui le parole dovrebbero essere rappresentative come le figure di un balletto. Clima dei Canti barocchi. È un canto estremamente nostalgico verso la Palermo di quando ero bambino proiettata sopra un immaginario Seicento dove opera o meglio non opera il burattinesco Viceré. La caduta del satellite significa appunto l’estinguersi dei residui del romanticismo-barocco (…). il quale fatto coincide pure con la crisi della nostra epoca (…) Comunque i resti vengono portati al riposo vicino le acque (notare questo riferimento ricorrente del simbolismo equoreo-eracliteo!) delle piccole comunità rurali, le quali sono le sole ancora ad intravedere barbagli, lucori zodiacali ecc…”16. Nel dicembre del 1967, la rivista Nuovi Argomenti, diretta da Carrocci, Moravia e Pasolini, pubblicava L’esequie della luna di Lucio Piccolo. In quello stesso numero appariva una parte de Il mondo salvato dai ragazzini di Elsa Morante e Pilade di Pier Paolo Pasolini. Il Pasolini che già nel 1964 aveva scritto il saggio Nuove questioni linguistiche in cui diceva della mutazione della lingua italiana dovuta al cosiddetto “miracolo economico”, al neo-industrialesimo e alla correlata espansione dei mezzi di comunicazione di massa. Il Pasolini che diceva della fine del mondo contadino in Italia, della sua plurimillenaria cultura e

14 Consolo, V. (1967): “Il barone magico. Quattro inediti di Lucio Piccolo, il poeta siciliano dei Canti barocchi, presentati da Vincenzo Consolo”, en L’Ora, Libri, Venerdì 17 febbraio, p. 9. 15 Lettera del 12 settembre 1967, in “Galleria”, Anno XXIX, n. 3-4 maggio-agosto 1979, p. 99 (Salvatore Sciascia Editore Caltanissetta). 16 Lettera ottobre 1967, stessa rivista “Galleria” come sopra pp. 99-100.

  dell’avvento della cultura di massa, del neo-capitalismo e della cultura piccolo-borghese. Lo stesso Pasolini poi che nel febbraio del 1975, pochi mesi prima della sua atroce morte, scriveva l’articolo sulla scomparsa delle lucciole. Leopardi, Pasolini, Piccolo: è pur vero che i poeti sono vati, sono “entusiasti”, vale a dire en theòs, vale a dire vaticinanti. Ed è pur vero che la vera scrittura è una scrittura palinsestica, una scrittura che scrive su altre scritture. Piccolo, nel 1967, aveva, con L’esequie della luna, aveva sì voluto rappresentare il tramonto di una cultura, che egli chiama “romantico-barocca”, ma aveva come presagito ciò che sarebbe successo da lì a qualche anno, la caduta del mito della luna appunto, della profanazione dell’astro dei poeti. Il 21 luglio 1969, l’astronave americana di nome Apollo -il fratello gemello di Diana approda sulla superficie dell’astro e degli uomini vi danzarono sopra con i loro scarponi di metallo. Nel romanzo incompiuto Un’isola nella luna William Blake ci dice che in quell’isola si parlava il linguaggio del nonsense. Ma un bel preciso e incisivo senso hanno quelle orme lasciate dall’astronauta sulla superficie della luna. Orma che è segno di violazione, di possesso. Scrive Sergio Perosa in L’isola la donna il ritratto: “La metafora principe del possessso è quella dell’orma, del footprint. Si può pensare per un momento (…) all’orma che lascia l’astronauta Armstrong sulla luna alla prima discesa della storia”17. Piccolo muore in quello stesso anno, il 1969. L’editore Vanni Scheiwiller racconta che Piccolo avrebbe voluto far musicare il suo L’esequie della luna da Gianfrancesco Malipiero e che avrebbe voluto, per la scenografia e i costumi, i disegni del pittore Fabrizio Clerici. Il desiderio di Piccolo non si è poi avverato, L’esequie della luna è rimasta solo una prosa da leggere. Nel 1969 io ero emigrato già da un anno a Milano. M’ero portato nel bagaglio l’idea o il progetto di un romanzo storico, apparso poi nel 1976 presso Einaudi col titolo Il sorriso dell’ignoto marinaio.

17 PEROSA, S. (1996: 48): L’isola la donna il ritratto, Torino: Bollati Boringhieri.

 Nel 1985, ancora presso Einaudi, apparve il mio Lunaria. La dedica, nel libro, è questa: “A Lucio Piccolo, primo ispiratore, con L’esequie della Luna. Ai poeti lunari. Ai poeti”18. Dicevo sopra che la vera scrittura è per me quella palinsestica, la scrittura vale a dire che scrive su altre scritture, la scrittura che poggia sulla memoria letteraria soprattutto. Il mio Lunaria era esplicitamente scritto su Leopardi e su Piccolo, ma anche su tanti altri poeti e scrittori. Partivo dunque da Leopardi e da Piccolo per rovesciarne l’assunto. La mia luna, sì, come dice Lorca “está muerta, muerta; / Pero resucita en la primavera19”. Risuscita in una contrada senza nome, una contrada che prenderà il nome di Lunaria. Credo sia chiara la metafora: la luna, sì, è caduta nel nostro contesto, nella nostra cultura occidentale, è caduta qui da noi la poesia. In luoghi ignoti, in contrade senza nome, in quelli che noi chiamiamo terzi, quarti o quinti mondi, in quei luoghi, pur afflitti di povertà e malattie, in quelle primavere della storia l’umanità sa creare ancora la poesia. Dice il mio Viceré Casimiro: “Se ora è caduta per il mondo, se il teatro s’è distrutto, se qui è rinata, nella vostra Contrada senza nome, è segno che voi conservate la memoria, l’antica lingua, i gesti essenziali, il bisogno dell’inganno, del sogno che lenisce e che consola”20. Il terrifico sogno dell’Alceta leopardiano si è dunque mutato nel sogno necessario, nel sogno che lenisce e che consola: il sogno della poesia. Cesare Segre, in Intrecci di voci, nel capitolo intitolato Teatro e racconto su frammenti di luna, mette a confronto e analizza L’esequie della luna e Lunaria. Scrive: “In Consolo, la figura del Viceré, dopo l’iniziale scena, comica, d’ignavia, si rivela progressivamente la coscienza della vicenda. Se ricordiamo che il Viceré scopre alla fine la sua natura di attore che impersona il Viceré, potremmo dire che quando egli pencola verso il comico è il

18 Consolo, V. (1985): Lunaria, «Nuovi Coralli 365», Torino: Einaudi. 19 Cfr. GARCÍA LORCA, F. (1921-1924): Canciones, “Canciones de luna [Dos lunas de tarde…]”, cit. 20 Consolo, V. (1985: 62).

 Viceré, quando è serio e meditativo è l’attore, distaccato tanto dal personaggio quanto dalla vicenda 21”. E trova consonanza e ulteriore sviluppo, l’affermazione di Segre, con quanto nota Irene Romera Pintor, l’autrice della magnifica traduzione in castigliano di Lunaria. Scrive: “Cierto, la sombra de La vida es sueño planea sobre las melancólicas ensoñaciones del Virrey, que ya no cree en su poder ni sabe siquiera quién es. Pero ningún crítico hasta ahora ha señalado la relación que sobre todo tiene Lunaria con El Gran Teatro del Mundo”22. E io ringrazio Irene Romera Pintor per questa rivelazione di un così alto rimando. La ringrazio per tutto il suo generoso lavoro su Lunaria.

Milano, 22 ottobre 2005


21 Cfr. SEGRE, C. (1991): “Teatro e racconto su frammenti di luna”, in ID., Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento, “Einaudi Paperbacks 214”, Torino: Einaudi, pp. 87-102 (cfr. in particolare p. 93). 22 Cfr. CONSOLO, V. (2003): Lunaria, edizione, introduzione, traduzione e note a cura di I. Romera Pintor, Madrid: Centro de Lingüística Aplicada Atenea (cfr. in particolare p. 12).