Congresso Internacional
Organizzado por Irene Romera Pintor
Departament Filologia Francesa i Italiana
Facultat de Filologia Traducciò i Comunicacciò
Universitat de Valencia.
Tag: Giovanni Albertocchi
Citazioni pittoriche e strategie ecfrastiche nell’opera di Vincenzo Consolo
L’articolo indaga l’intenso dialogo tra i romanzi consoliani e le arti figurative, in particolare la pittura. Un dialogo che si avvale di strategie molteplici, le icone autoriali annunciate spesso dai titoli tematici dei romanzi, il ricorso all’ekphrasis nascosta, gli inserti critici riferiti alle opere d’arte. Con particolare riferimento a Il sorriso dell’ignoto marinaio ed a Retablo prende in esame, per altro, l’uso che lo scrittore fa dell’ekphrasis, il suo valore metanarrativo e metadiegetico.
L’opera di Consolo riserva ampio spazio alle citazioni figurative.[1] Lo scrittore, intervistato da Giuseppe Traina, ha dato una spiegazione della ricchezza dei riferimenti pittorici riscontrabili nei suoi romanzi ricorrendo ad un assunto semiologico, affermando la volontà di superare la contrapposizione tra lo svolgimento temporale del linguaggio verbale e lo svolgimento spaziale dell’opera figurativa. Per Consolo la continua evocazione dell’immagine riscontrabile nella sua scrittura risponde all’esigenza di equilibrio tra temporalità e spazialità:
Credo ci sia bisogno di equilibrio tra suono e immagine, come una sorta di compenso, perché il suono vive nel tempo, invece la visualità vive nello spazio. Cerco di riequilibrare il tempo con lo spazio, il suono con l’immagine. Poi sono stati motivi d’ispirazione, di guida, le citazioni iconografiche di Antonello da Messina o di Raffaello. In Retablo c’è l’esplicitazione dell’esigenza della citazione iconografica: il “retablo” appartiene alla pittura ma è anche “teatro”, come nell’intermezzo di Cervantes.[2]
La stessa perigrafia dei romanzi consoliani rinvia spesso a suggestioni figurative o a palesi citazioni pittoriche, evidenti fin dai titoli: com’è noto Il sorriso dell’ignoto marinaio fa riferimento al dipinto di Antonello da Messina, il ritratto virile d’ignoto custodito nel Museo Mandralisca di Cefalù. Anche Retablo, romanzo pubblicato nel 1987 per i tipi Sellerio, evoca la pittura fin dal titolo. Il termine catalano retablo indica infatti una pala d’altare inquadrata architettonicamente: essa può articolarsi in diversi scomparti formando un dittico, un trittico o un polittico costituito da tavole dipinte, talvolta da sculture o dall’alternanza di dipinti e bassorilievi, tenendo insieme, in quest’ultimo caso, imagines pictae e fictae. Il titolo scelto da Consolo, facendo riferimento ai polittici iberici, denunzia in primo luogo la vocazione pittorica del libro. Ma retablo è inteso dall’autore come un significante polisemico, come un lessema evocativo di rara e remota sonorità che contiene, ad un tempo, riferimenti figurativi, teatrali e letterari: «La parola retablo (parola oscura e sonora, che forse ci viene dal latino retrotàbulum: il senso, per me, dietro o oltre le parole, vale a dire metafora) l’ho assunta nelle varie accezioni: pittorica, shahrazadiana, cervantesiana».[3] Tra l’altro il lemma spagnolo rinvia alla memoria del Retablo de las meravillas di Miguel de Cervantes. L’evocazione cervantesiana può essere intesa anche come un riferimento al tratto illusorio dell’arte, motivo a cui il romanzo dedica più di una riflessione. Attraverso la scelta di un titolo di carattere tematico[4] l’autore allude, infine, all’organizzazione narrativa del libro, articolato per scene e quadri successivi che potrebbero essere considerati come delle tavole sovrapposte, pur mantenendo la loro autonomia narrativa. Il testo consoliano si configura dunque come un polittico, come una successione di quadri narrativi al centro dei quali sta il motivo odeporico, ovvero il viaggio del cavaliere Fabrizio Clerici nella Sicilia del XVIII secolo, e una tarsia di citazioni che ne fanno uno dei romanzi più complessi e levigati della letteratura italiana del secondo Novecento.
Per dare un titolo all’ampia intervista concessa all’IMES nel 1993, lo scrittore, ancora una volta, ha usato un riferimento pittorico evocando Fuga dall’Etna di Guttuso.[5] Consolo ha riproposto il nome che il pittore siciliano ha dato ad una tela di vaste dimensioni realizzata tra il 1938 e il 1939, la sua prima composizione corale, lungamente meditata e preparata attraverso studi, ritratti e paesaggi realizzati tra la Sicilia e la Sila.[6] Nel dipinto un’eruzione etnea assume un più ampio significato sociale e diventa l’occasione per rappresentare masse di contadini in fuga concitata, arditi scorci di cavalli che negli stilemi e nell’esemplificazione formale rivelano la memoria di Guernica di Picasso: un’allusione alla sofferenza del mondo contadino e al dramma della migrazione, anch’esso un vulnus iscritto nella storia del Novecento. Non è un caso che Consolo si sia ricordato del telero guttusiano: nell’intervista, infatti, l’autore ripercorre il suo itinerario biografico e intellettuale, parla dell’allontanamento dall’isola natale, della condizione di erranza, della metafora odissiaca che attraversa i suoi romanzi, del nostos impossibile e del trasferimento giovanile a Milano. La citazione di Fuga dall’Etna testimonia, tra l’altro, dell’amicizia tra lo scrittore e Guttuso che si traduce nelle argute allusioni presenti in diversi romanzi. Si veda, ad esempio, il cenno, incastonato nelle pagine di Retablo, al «pittore celebrato […] della Bagarìa», anacronisticamente collocato in un elenco di artisti siciliani d’epoca manierista o barocca: «Siete meglio del Monrealese, meglio dello Zoppo di Ganci, del Monocolo di Racalmuto, meglio di quel pittore celebrato (non ricordo il nome) della Bagarìa».[7] L’allusione consoliana, che qui assume le connotazioni di un ammiccante gioco a nascondere, non è dissimile dalla scelta di fare dell’amico Clerici, pittore lombardo inquieto e surreale, il protagonista del libro.
Anche l’ultimo romanzo di Consolo, Lo Spasimo di Palermo, fa riferimento a un’opera pittorica, il dipinto di Raffaello un tempo custodito nella chiesa palermitana di Santa Maria dello Spasimo e oggi esposto nelle sale del Museo del Prado. Secondo la narrazione del Vasari la tavola dell’Urbinate sarebbe giunta in Sicilia per mare, attraverso fortunosi accadimenti.[8] La citazione dello Spasimo (ovvero della raffaellesca Andata al Calvario di Cristo) è usata per conferire una connotazione martirologica alla narrazione. Il romanzo, infatti, si confronta col tema dell’impotentia scribendi, con lo smarrimento del protagonista e, nelle pagine conclusive, allude alla strage di via D’Amelio, all’attentato che determinò la morte di Paolo Borsellino. Il simbolismo sotteso dal riferimento pittorico è intensificato dalla riproduzione di una pagina dello spartito del Dies irae del compositore augustese Manuele d’Astorga.[9] La citazione pittorica, il ricercato recupero di un testo musicale d’epoca barocca, i riferimenti cinematografici portano al massimo grado l’orchestrazione plurima dei codici, facendo culminare la narrazione in una successione di suggestioni sinestetiche che conferiscono forza al tragico explicit.
Oltre alla perigrafia, alle tarsie intertestuali ed alle note icone autoriali di Consolo, ovvero alle esplicite costruzioni ecfrastiche dedicate al ritratto virile di Antonello da Messina nel Sorriso dell’ignoto marinaio, all’oratorio serpottiano di San Lorenzo in Retablo, al caravaggesco Seppellimento di Santa Lucia ne L’olivo e l’olivastro ed alla tavola raffaellesca nello Spasimo, Miguel Ángel Cuevas ha messo in evidenza il ricorso, da parte dello scrittore, alla strategia dell’«ekphrasis nascosta».[10] Cuevas, attraverso lo studio variantistico delle opere consoliane, ha sottolineato come l’autore tenda all’occultamento dell’originario costrutto ecfrastico, restituendo al lettore non la descrizione di un’immagine, ma la sua immediatezza:
L’occultamento della dimensione ecfrastica del testo finisce per far diventare l’immagine un’alterità senza equivalenze, senza punto di riferimento: un’alterità assoluta; le figure si palesano in una loro ambiguità atopica, all’interno della quale la persistenza di segni elocutivi descrittivi potrebbe essere interpretata – non solo, ma almeno anche – come indizio del flusso di coscienza, come l’apparire, in ogni caso, di una diversa voce narrante: che paradossalmente provoca effetti di denarrativizzazione.[11]
Se l’ekphrasis, figura di pensiero per aggiunzione che la retorica ha considerato da sempre il mediumtra la letteratura e le arti, è la descrizione verbale di una rappresentazione visuale, se, come ha affermato Mengaldo, la «descrizione verbale non mima l’opera, ma lo sguardo che percorre l’opera»,[12] la strategia di opacizzazione referenziale adottata da Consolo rende ancora più complessi i rapporti intercorrenti tra testo e immagine. Il ricercato equilibrio tra temporalità e spazialità, di cui lo scrittore ha parlato nell’intervista concessa a Traina, rivela risvolti assai complessi considerando che spesso, nelle narrazioni consoliane, la visività verbale si pone come controfigura di un’immagine non dichiarata: «rapporti, in definitiva, basati su convergenze o parallelismi che incrinano, mostrandone l’obsolescenza, le tradizionali ed escludenti collocazioni delle immagini su un asse spaziale in rapporto al logos che si svolge sulla temporalità».[13]
In sintesi il rapporto tra i romanzi di Consolo e la pittura si avvale di strategie molteplici: la retorica della citazione e le icone autoriali che spesso sono preannunciate dal titolo tematico dell’opera; le ekphrasis nascoste, incastonate in una scrittura sempre caratterizzata da forte pittorialità; inserti critici e metadiegetici riferiti alle opere d’arte che testimoniano la raffinata formazione dell’autore e contribuiscono ad accentuare l’antinarratività delle sue opere dalla densa struttura ‘palinsestica’.[14] Un’ulteriore riflessione, sulla scorta degli studi di Michele Cometa dedicati alla retorica visuale, si impone in rapporto alle diverse forme di integrazione dell’ekphrasis nelle opere consoliane.
1. Il sorriso dell’ignoto marinaio: la funzione metapoetica e metanarrativa dell’ekphrasis
Si è già notato che Il sorriso dell’ignoto marinaio fa riferimento, fin dal titolo, ad un dipinto antonelliano, il ritratto virile custodito al Museo Mandralisca di Cefalù. La tavola quattrocentesca, che una tradizione suggestiva ma infondata indicava come il ritratto di un marinaio, è alla base dell’ordine delle somiglianze che attraversa il romanzo. Fin dall’incipit il protagonista, barone Enrico Pirajno di Mandralisca, tiene la tavola dipinta sotto braccio, riportandola da Lipari, dove l’ha fortunosamente scoperta, al suo palazzo cefaludese. L’antefatto del primo capitolo fa da sintesi del viaggio dell’aristocratico collezionista e vi dà un’esatta collocazione cronotopica, datandolo 12 settembre 1852: «Viaggio in mare di Enrico Pirajno barone di Mandralisca da Lipari a Cefalù con la tavoletta del ritratto d’ignoto di Antonello recuperata da un riquadro dello stipo della bottega dello speziale Carnevale».[15]
Leggendo il romanzo si scopre che il volto effigiato nel dipinto è somigliante a quello del patriota Giovanni Interdonato, l’uomo che il barone ha scorto, travestito da marinaio per sfuggire alle rappresaglie borboniche, nell’imbarcazione che lo riportava alla sua dimora. L’Interdonato avrà un ruolo essenziale nel determinare la presa di coscienza politica del Mandralisca. Otto anni dopo il viaggio alle Eolie, infatti, nel crinale storico del 1860, il Pirajno abbandonerà i suoi studi eruditi, la passione per la malacologia, il suo interesse per il collezionismo di mirabilia naturalia et antiquaria perseguito secondo l’habitus aristocratico e, essendosi rispecchiato nel volto dell’amico, muoverà da un generico liberalismo ad una più profonda comprensione della questione sociale.
Incastonata nel primo capitolo del Sorriso è la celebre ekphrasis del quadro di Antonello, ospitato tra le collezioni del Mandralisca:
Apparve la figura d’un uomo a mezzo busto. Da un fondo verde cupo, notturno, di lunga notte di paura e incomprensione, balzava avanti il viso luminoso. […] L’uomo era in quella giusta età in cui la ragione, uscita salva dal naufragio della giovinezza, s’è fatta lama d’acciaio, che diventerà sempre più lucida e tagliente nell’uso ininterrotto. L’ombra sul volto di una barba di due giorni faceva risaltare gli zigomi larghi, la perfetta, snella linea del naso terminante a punta, le labbra, lo sguardo. Le piccole, nere pupille scrutavano dagli angoli degli occhi e le labbra appena si stendevano in un sorriso. Tutta l’espressione di quel volto era fissata, per sempre, nell’increspatura sottile, mobile, fuggevole dell’ironia, velo sublime d’aspro pudore con cui gli esseri intelligenti coprono la pietà. Al di qua del lieve sorriso, quel volto sarebbe caduto nella distensione pesante della serietà e della cupezza, sull’orlo dell’astratta assenza per dolore, al di là, si sarebbe scomposto, deformato nella risata aperta, sarcastica, impietosa o nella meccanica liberatrice risata comune a tutti gli uomini.[16]
La descrizione del ritratto è anche una sua interpretazione oscillante tra etopea e prosopografia, ricca di connotazioni fisiognomiche che verranno riproposte per stabilire il complesso gioco di rifrazioni e proiezioni identificative tra i personaggi del romanzo.
La giusta età della ragione, l’ironia che si pone come tertium tra l’eccesso di severità e il riso aperto, sarcastico o spietato, anticipa il percorso di maturazione politica ed esistenziale del protagonista. Consolo piega così a particolare partitura quella vocazione fisiognomica presente nei romanzi di molti scrittori siciliani, da De Roberto a Tomasi di Lampedusa, da Sciascia ad Addamo. Del resto a indirizzare il lettore verso un’attenta interpretazione del testo è la citazione in esergo, tratta dall’Ordine delle somiglianze di Sciascia: «Il giuoco delle somiglianze è in Sicilia uno scandaglio delicato e sensibilissimo, uno strumento di conoscenza […]. I ritratti di Antonello “somigliano”; sono l’idea stessa, l’arché della somiglianza […]. A chi somiglia l’ignoto del Museo Mandralisca?».[17] Nell’economia narrativa del Sorriso sono diverse le ipostasi del riconoscimento e del rispecchiamento che stabiliscono la tensione speculare tra i personaggi principali. Significativamente il momento in cui l’aristocratico individua nell’Interdonato il marinaio già scorto nel viaggio del 1852 è anche il momento in cui egli si accorge della straordinaria somiglianza tra il patriota e l’uomo effigiato nella tavola antonelliana.[18]
Il ritratto di Antonello, nella Memoria che il Mandralisca invia all’Interdonato sui fatti di Alcàra Li Fusi, vero e proprio nucleo ideologico del romanzo, diventa anche l’emblema di una ragione distaccata, condizionata dalla nascita, dalla posizione di casta o dalle necessità di carriera. Rispecchiandosi nel ritratto antonelliano, in altre parole, il Mandralisca pone una spietata critica a se stesso, alla sua classe sociale, alle sue «imposture»,[19] alla stessa intellettualità progressista che concepisce comodi ideologemi e interessate teleologie, a partire dalla stessa retorica risorgimentale.
Cuore di molteplici tensioni narrative, simboliche e proiettive, la tavola di Antonello assolve dunque ad un ruolo capitale nel romanzo, ben lontana dall’essere una semplice citazione iconica. Usando il linguaggio di Cometa è utile indagare, in quest’opera consoliana, l’«integrazione per trasposizione»[20] dell’ekphrasis.La riflessione dello studioso, sulla scorta della rilettura di un testo classico come le Immagini di Filostrato, categorizza diverse forme di integrazione ecfrastica, da intendersi come integrazione da parte del lettore nel suo repertorio.[21] Scrive Cometa: «Il lettore è dunque invitato non solo a penetrare con lo sguardo nell’immagine ma anche a integrarla con le proprie preconoscenze e con la propria esperienza pregressa».[22] Naturalmente nel Sorriso si possono riconoscere forme molteplici di integrazione dell’ekphrasis, e tra esse l’«integrazione ermeneutica»,[23] forse il procedimento più ricercato alla base del patto ecfrastico: nel Sorriso la descrizione dell’opera d’arte si avvale delle consapevolezze critiche, iconografiche e iconologiche di Consolo, in dialogo con quel lettore colto che le possieda e le sappia intendere. Come vedremo in seguito gli inserti critici e metadiscorsivi hanno una parte significativa nel Sorriso. Ma il romanzo del 1976 rimane un caso esemplare in cui l’opera d’arte assume un vero e proprio ruolo genetico, al punto che l’intero plot è stato concepito attraverso costanti rinvii ad essa. È parimenti evidente che la descrizione del ritratto antonelliano assolve alle funzioni metapoetica e metanarrativa, nel senso postulato da Cometa che ha recuperato motivi propri della poetologia schlegeliana e romantica, secondo cui l’ekphrasis permette di prefigurare ed anticipare il senso di un romanzo, costituendo un dispositivo in cui l’opera letteraria si «rispecchia», una lente in cui si scorge un’«immagine unitaria della narrazione».[24]
Oltre al caso dell’icona antonelliana, si possono individuare nel Sorriso molteplici esempi di ekphrasis nascosta; per tutti la descrizione, incastonata nel primo capitolo, di un cavatore di pomice liparitano sofferente, osservato dal Mandralisca durante il viaggio da Lipari a Cefalù. Come ha messo in evidenza Cuevas, nella descrizione dell’uomo si riconosce un dettaglio della Crocefissione di Anversa, una tavola antonelliana in cui il ladrone di sinistra si attorce in un ultimo spasimo che precede la morte.[25] Vi è nel Sorriso un’essenziale e ben nota triangolazione di riferimenti figurativi: il ritratto antonelliano, la Crocefissione di Anversa e Los desastres de la Guerra di Goya, i cui titoli scandiscono la narrazione del settimo capitolo, dedicato alla sanguinosa rivolta contadina di Alcàra Li Fusi ed alla sua repressione.[26] Come ha sottolineato Rosalba Galvagno alcune ekphrasis del Sorriso possono essere ricondotte alle incisioni de Los desastres.[27] Ma il novero dei rinvii meno evidenti alle arti plastiche e figurative è molto ampio. Non manca chi ha individuato nella rappresentazione dello studiolo del Mandralisca un probabile riferimento al San Gerolamo di Vittore Carpaccio, alle opere di Filippino Lippi o a quelle del ceroplasta siracusano Matteo Durante.[28]
Tra i tanti riferimenti espliciti alle arti sono riscontrabili cenni alla statuaria ed alla produzione ceramica greca, all’icona marmorea del Giovane con la tunica del Museo Whitaker di Mozia ed al cratere del Pittore di Lipari rappresentante la vendita del tonno. Altri riferimenti evocano il Trionfo della morte di Palermo (l’affresco tardogotico di Palazzo Sclafani che ha ispirato Guernica di Picasso, citato spesso anche da Sciascia e Bufalino), le sculture rinascimentali di Francesco Laurana ed Antonello Gagini, le tele del secentista Pietro Novelli. La descrizione delle collezioni messe insieme dal Mandralisca restituisce una fitta successione di citazioni pittoriche:
Venne il momento della visita al museo. Guidati dal barone Mandralisca, fecero il giro della quadreria disposta in doppia fila alle pareti. Sentirono distratti elogiare la luce dell’Alba a Cefalù del Bevelacqua, l’espressione intensa della Sant’Anna del Novelli, la sapienza prospettica dell’Ultima Cena della scuola del Ruzzolone, dove le figure erano così tonde e grosse, così sazie, che sembrava quella sì un’ultima cena, ma il cui inizio non si conosceva, con portate continue di maccheroni al sugo. E così avanti, per le tavole bizantine, per ignoti siciliani, per i napoletani e gli spagnoli, fino a quello della giovane formosa che offre alle labbra di un vecchio rinsecchito il capezzolo rosa d’una mammella bianca che sbuca dallo scuro in piena luce.[29]
Nella rappresentazione dei dipinti non mancano increspature ironiche, come nel rapporto che viene stabilito, con un improvviso abbassamento del tono della narrazione, tra il motivo iconografico dell’Ultima cena e le «portate continue di maccheroni al sugo»: un’allusione al succulento banchetto che è probabilmente l’unico motivo per cui gli ospiti hanno accettato l’invito del barone a recarsi nella sua dimora e «godere la visione di una nuova opera unitasi alla loro collezione».[30] La stessa capacità rovesciante è rivelata nella descrizione di un dipinto che fa riferimento alla lactatio, tradizionale emblema di una delle Virtù Teologali, la Carità. Lo statuto iconografico che, nella tradizione figurativa barocca era l’occasione per rappresentare la nudità e la procacità femminili, esplicita qui il suo sottointeso erotico e diventa un’allusione alla ben poco edificante brama di un «vecchio rinsecchito»,[31] con un evidente riferimento alle Sette opere di Misericordia di Caravaggio.
Consolo, nel Sorriso, recupera un motivo letterario e parodico, quello dell’antiquario, della sua greve erudizione, della sua mania collezionistica che ha un archetipo nella goldoniana Famiglia dell’antiquario e conosce significative riprese anche nei romanzi di Capuana e De Roberto.[32] Non è un caso che, scorgendo una statua classica tra i marmi accatastati in un’imbarcazione, immaginando di accaparrarsela, il Pirajno si ponga in fantasiosa competizione con altri aristocratici dediti alla raccolta di nobilia opera del passato. Rappresentando la brama del Mandralisca, lo scrittore incastona nella narrazione un elenco dei maggiori collezionisti siciliani realmente esistiti ed attivi tra il XVIII e il XIX secolo:
Uh, ah, cazzo, le bellezze! Ma dove si dirigeva quella ladra speronara, alla volta di Siracusa, bianca, euriala e petrosa, o di Palermo, rossa, ràisa e palmosa? Pirata, pirata avrebbe voluto essere il barone, e assaltare con ciurma grifagna quella barca, tirarsela fino all’amato porto sotto alla rocca […]. Avrebbe fottuto il Bìscari, l’Asmundo Zappalà, l’Alessi canonico, magari il cardinale, il Pèpoli, il Bellomo e forse il Landolina.[33]
L’ironia consoliana raggiunge il culmine nella descrizione dei crateri attici radunati nella collezione Mandralisca, con le loro scene erotiche ed altre raffigurazioni ispirate ai baccanalia, certamente non confacenti alla morale del XIX secolo:
Oltre al Venditore di tonno, oltre a matrone languide, sdraiate, con ancelle attorno che le aiutavano a fare toilette, i vasi neri e rossi mostravano fauni impudichi e sporcaccioni, con tutta l’evidenza dritta della infoiatura, che abbrancavano per la vita, per le reni ninfe sgambettanti per portarsele, poverette, chissà dove; altre scene di fughe e rapimenti, altre di ragazze estatiche davanti a giovanotti inghirlandati e con bordoni in mano di cui non si capivano le intenzioni. Gli uomini si davano gomitate, facevano ammiccamenti, azzardavano sottovoce interpretazioni, mentre il barone li informava sull’epoca e sul luogo della provenienza di quelle antichità.[34]
Concependo il suo romanzo come un «antiromanzo storico»,[35] sullo sfondo di un Risorgimento gramscianamente inteso come mancata rivoluzione, Consolo ha usato la sua conoscenza della storia dell’arte per fare il verso al barone collezionista, per rappresentare la vacuità della sua classe sociale. L’integrazione ermeneutica dei costrutti ecfrastici vuole il concorso esegetico del lettore, la sua comprensione dei passaggi ironici. La «plurivocità» del Sorriso,[36] oltre che nei processi parodici, è ravvisabile nella stessa contraddittorietà e complessità di un personaggio come il Mandralisca che, in ultimo, riuscirà ad allontanarsi dalla concezione erudita ed esornativa della cultura propria della sua classe sociale, destinata ad un ineluttabile declino, acquisendo un’acuta e demistificante consapevolezza politica.
2. Retablo, o delle rifrazioni ad infinitum
Consolo ha fatto del pittore milanese Clerici il protagonista di Retablo. Le allusioni a Clerici e Guttuso non sono casuali. Ad ispirare il romanzo, infatti, è stato un viaggio in compagnia dei due artisti nella Sicilia orientale, un’occasione in cui lo scrittore ha rivisto i templi dorici di Segesta, Selinunte e Agrigento percorrendo alcune delle tappe canoniche del Grand Tour d’Italie.[37] Consolo, dunque, ispirandosi ad un fatto realmente accaduto, ha dato un doppio letterario al suo amico. A complicare il gioco di allusioni vi è la perigrafia, la scelta di illustrare la prima di copertina della prima edizione del libro con un dettaglio di un dipinto di Clerici,[38] ed ancora la scelta di incastonare nel testo diverse ekphrasis ispirate all’opera dello stesso artista. Non sembra un caso che il pittore milanese sia stato anche il protagonista di un romanzo di Savinio, Ascolto il tuo cuore, città, ed abbia fatto conoscere a Sciascia La tentazione di Sant’Antonio, la tela del manierista Rutilio Manetti in cui è effigiato il diavolo con gli occhiali, investito di forti valori simbolici nel romanzo Todo modo.[39]Le vertiginose rifrazioni del libro consoliano sono degne della teoria di rispecchiamenti de Las Meninas di Velázquez, dipinto emblematico della temperie barocca.
La rappresentazione di un viaggio in Sicilia nel XVIII secolo, la ricchezza di riferimenti figurativi e la diffusa retorica dello sguardo fanno di Retablo l’opera consoliana in cui il rapporto tra letteratura e pittura si fa più intenso e insistito.[40] I rimandi figurativi, per altro, agiscono in profondità, fino a dare forma alla stessa architettura ed alla focalizzazione del racconto. Il romanzo, infatti, è ripartito in tre capitoli o tavole: Oratorio, Peregrinazione e Veritas. A ciascuna di queste parti corrisponde una diversa voce narrante, quella di Isidoro in Oratorio, quella di Clerici in Peregrinazione e quella di Rosalia in Veritas. Un intreccio di voci che restituisce al lettore gli stessi accadimenti osservati da angolazioni diverse, moltiplicando prismaticamente le visioni e le possibili interpretazioni della realtà.
Ad incipitdi Oratorio è posto il celebre inno che Isidoro innalza a Rosalia: una petitio amorosa, una laica preghiera, una litania o un delirio in cui la scomposizione del nome dell’amata in Rosa e Lia, il moltiplicarsi delle figure fonetiche ed etimologiche, l’intertestualità non priva di echi danteschi e petrarcheschi, l’investimento ambiguo ed ambivalente della donna si spingono ad un parossistico virtuosismo. Subito dopo Isidoro, dedito alla questua e alla vendita delle bolle, narra in prima persona l’amore concepito per la giovane che, quotidianamente, gli appariva alla finestra insieme alla madre. Le due donne hanno ordito il raggiro dell’inesperto questuante facendogli credere di poter sposare la ragazza e, fattesi consegnare il denaro delle bolle, sono scomparse nel nulla. Cacciato dunque dal convento, il fraticello è ridotto alla condizione di facchino alla Cala di Palermo. Qui, finalmente, gli appare il cavaliere Clerici, sceso da una nave che ha il nome simbolico di Aurora.[41] L’aristocratico viaggiatore prende con sé Isidoro, lo allontana dalla vita dura ed ambigua del porto e ne fa il suo accompagnatore nel viaggio in Sicilia volto all’osservazione e alla riproduzione dei monumenti antichi. Quando Clerici fa conoscere al fraticello il cavaliere Serpotta e gli mostra l’oratorio palermitano di San Lorenzo, questi scorge nella statua della Veritas il sembiante dell’amata Rosalia, va in escandescenze e sviene.
Come si vede da questa veloce sintesi il primo capitolo di Retablo consegna subito al lettore una pluralità di toni: l’incipitlirico, la seduzione e il raggiro di Isidoro che rinvia all’archetipo novellistico di Boccaccio, la rappresentazione della baraonda della Cala, non priva di dettagli bassi, spuri e scatologici, la descrizione dettagliata dell’oratorio serpottiano. Il primo apparire di Rosalia tra i vicoli di Palermo è una delle tante ekphrasis nascoste che costellano la narrazione, annunciata da un preciso riferimento al «riquadro», ovvero alla finestra da cui si sporge la ragazza in compagnia della madre:
Alzai gli occhi e vidi nel riquadro, ah, la mia sventura!, la donna che teneva la funicella del panaro e accanto una fanciulla di quindici o sedici anni, la mantellina a lutto sulla testa che lei fermava con graziosa mano sotto il mento. E gli occhi tenea bassi per vergogna, ma da sotto il velario delle ciglia fuggivan lampi d’un fuoco di smeraldo. Mai m’ero immaginato, mai avevo visto in vita mia, in carne o pittato, un angelo, un serafino come lei.[42]
La scena, più che un generico riferimento all’Annunciata antonelliana di palazzo Abatellis, rinvia ad un’opera di Bartolomé Esteban Murillo, Las Gallegas, ovvero Due donne galiziane alla finestra, custodita alla National Gallery di Londra: un riferimento fino ad oggi non evidenziato dalla letteratura critica, tuttavia ricco di impliciti che contribuiscono a connotare la figura di Rosalia. Nel dipinto appaiono due donne, una giovane e una matura, che affacciandosi alla finestra ammiccano al passante-spettatore: un espediente che, attraverso lo sguardo muliebre, tende ad oltrepassare lo spazio della tela, come spesso accade nelle opere del secentista spagnolo. Si tratta di un dipinto di genere popolaresco, una scena di seduzione in cui è forse raffigurata una giovane prostituta con la sua mezzana. Il dettaglio della mantellina fermata con la mano sotto il mento è puntualmente riscontrabile nella descrizione di Retablo e si fa indice dell’esatta referenzialità del testo consoliano. L’ekphrasis delinea dunque l’immagine ambivalente della giovane, il cui atteggiamento, in apparenza pudico, dissimula una capacità seduttiva rivelata dallo sguardo che, «sotto il velario delle ciglia», emana, secondo una significativa sinestesia, «lampi d’un fuoco di smeraldo».[43]
Fin dalla prima apparizione, dunque, Rosalia è rappresentata secondo le valenze ambigue della donna levatrice e sprofondatrice, una duplicità iscritta nel suo stesso nome composto che rinvia alla patrona palermitana, quella Santa Rosalia nella cui iconografia, inventata nei primi decenni del Seicento, confluiscono non pochi statuti rappresentativi della Maddalena.[44] Un percorso iconografico certo non ignoto a Consolo che, nell’inno di Isidoro, si avvale dell’oscillazione tra la figura laica e quella profana di Rosalia, facendo riferimento alla statua marmorea della santa venerata nel santuario di Monte Pellegrino.[45]
Già in Oratorio, dunque, la giovane donna appare ad una finestra, tecnema della visione non dissimile dalla cornice di un dipinto,[46] viene ricordata attraverso il simulacro marmoreo della santa, la si immagina rappresentata in una delle figure in stucco dell’oratorio serpottiano, è evocata ripetutamente nelle catene paronomastiche e nella dimensione ecoica dell’inno incipitario che scompone e richiama ripetutamente il suo nome: tutti simulacra del sentimento amoroso concepito da Isidoro, espressione dell’ossessione del fraticello e dell’intangibilità di uno sfuggente oggetto del desiderio.[47] Per altro, nella rappresentazione laico-profana di Rosalia e nelle reduplicazioni della sua immagine, è facile scorgere la suggestione de Gli elisir del diavolo di Hoffmann.
Tra le statue che ritraggono Rosalia vi è l’allegoria serpottiana della Verità che, secondo lo statuto iconografico, è rappresentata come Nuda Veritas. La descrizione del teatro plastico settecentesco è una delle più note icone autoriali incastonate nel libro che nasconde, nella stessa rappresentazione degli stucchi rischiarati da un raggio di sole, l’ekphrasis di un dipinto di Clerici. Il raggio che penetra nell’aula, che colpisce una ninfa di cristallo e, rifrangendosi, illumina le statue, è lo stesso che si può scorgere in una tela del pittore milanese, La grande confessione palermitana: il chiarore diffuso dal raggio solare, consustanziale al «bianco puro»[48] dell’oratorio, rivela nel dipinto una natura luttuosa che lega le candide statue all’immagine funerea dei corpi imbalsamati delle catacombe dei Cappuccini di Palermo. Ecco che il testo consoliano, in una vertiginosa sovrapposizione, include in una descriptio un’altra ekphrasis. Come ha rilevato Maria Rizzarelli: «L’ordine delle somiglianze che nel Sorriso costituiva il principio gnoseologico della conversione ideologico-sociale del Mandralisca, diviene qui ordine delle apparenze, da fondamento conoscitivo si trasforma, attraverso l’esasperante trionfo della figura del doppio, in ordine dell’illusione con cui s’identifica l’arte».[49]
La rappresentazione dell’oratorio è il punto culminante del capitolo iniziale di Retablo. Se in questa prima parte del romanzo si incontrano alcuni grandi pittori e artisti (un rapido cenno è dedicato anche al dipinto palermitano di Caravaggio, la Natività), il secondo capitolo, Peregrinazione, è totalmente incentrato sulla figura di Clerici che, accompagnato da Isidoro, intraprende il suo viaggio e la sua esplorazione della Sicilia.
Anche Clerici viaggia per l’isola con l’intento di dimenticare la donna amata, Teresa Blasco, futura sposa di Cesare Beccaria e dunque futura nonna di Alessandro Manzoni.[50] Alla nobildonna milanese, il cui padre ha origine spagnola e la madre siciliana, il cavaliere dedica il suo diario di viaggio. Fin dalla Dedicatoria, indirizzata a Teresa, Clerici si dice intenzionato a illustrare e a narrare la patria materna della donna, rivelando così l’intenzione di avvalersi sia della parola che dell’immagine, di usare entrambi i codici per rappresentare la Sicilia.[51] Del resto, già in Oratorio, l’aristocratico viaggiatore è stato presentato da Isidoro in virtù della sua abilità di disegnatore: «Quel don Fabrizio che sbarcò in Palermo, con la fortuna mia, per viaggiare l’Isola, scoprire l’anticaglie e disegnar su pergamene con chine e acque tinte templi e colonne e statue di cittate ultrapassate».[52] Lo stesso cavaliere, ben presto, sente l’esigenza di porre sotto gli occhi di donna Teresa non solo le immagini del mondo classico, i monumenti antichi, ma anche le brutture della società contemporanea. Clerici si rivela, dunque, un viaggiatore assai lontano da compiacimenti arcadici e vagheggiamenti idilliaci, dall’eterno archetipo della pastorale teocritea e dalle sue riprese settecentesche. Le sue intenzioni e il suo sguardo disilluso preannunciano un motivo che diventerà dominante nei successivi romanzi consoliani, il contrasto tra la memoria del passato e un presente di rovina, immemore e degradato.
Il percorso di Clerici ricalca parzialmente quello del Grand Tour nella Sicilia occidentale: Palermo, la vicina Monreale, Alcamo, Segesta, Selinunte, Mozia e Trapani. Retablo rimodula dunque, attraverso una complessa trama intertestuale, temi e motivi propri dell’odeporica settecentesca, configurandosi come un Voyage pittoresque, un Conte philosophique e un romanzo picaresco. Lo sguardo di Clerici è quello straniante del pittore, aduso a scrutare le fisionomie, a indovinare l’animo di chi gli sta di fronte. La sua visione è arguta e disincantata, in altre parole è quella di uno smaliziato e inquieto viaggiatore novecentesco, anche se le illusioni, gli apparati effimeri, le rifrazioni, le quinte teatrali e i retabli ingannevoli appaiono ad ogni passo del suo viaggio, adatte a rappresentare le oltranze immaginative di pittori, scultori e architetti della Sicilia barocca o tardobarocca. Il trionfo della teatralità e la voglia di destare meraviglia trovano il culmine nella descrizione di Alcamo, la patria del Soldano Lodovico, il luogo dove si riunisce l’Accademia de’ Ciulli Ardenti che, con la sua poesia edulcorata e pretenziosa, non rende onore all’autore del Contrasto. È qui che, in occasione della festa del paese, appare il Retablo de las meravillas, un apparato aniconico e illusorio in cui ogni spettatore può proiettare e scorgere i suoi fantasmi.
Nell’ultimo capitolo di Retablo, Veritas, Rosalia racconta finalmente la sua verità: realmente innamorata di Isidoro, è divenuta una cantante che si appresta a debuttare in una rappresentazione della Vergine del Sole di Cimarosa. Ospite nel palazzo di un munifico marchese, è stata educata al bel canto da don Gennaro Affronti, un artista castrato che le ha fatto da «padre» e da «madre».[53] Rosalia si è dunque mantenuta fedele ad Isidoro, convinta che per preservare un amore sia necessaria la sua cristallizzazione. Per questo esorta l’amato a ritornare alla vita passata ed alla sicurezza claustrale.
Ogni aspetto della vita e dell’arte, in Retablo, si rivela illusorio: l’amore di Isidoro e Rosalia verrà preservato solo a costo di una monacazione spirituale; l’amore concepito da Clerici per donna Teresa Blasco non è ricambiato. Frequenti sono i dubbi, espressi dallo stesso Clerici, sulla possibilità di rappresentare quant’egli ha osservato nel suo viaggio: l’impotenza dell’arte è metaforizzata dalla condizione del castrato don Gennaro, ovvero dalla sua impotentia generandi. L’uso sapiente dei costrutti ecfrastici e delle rifrazioni che sembrano riproporsi ad infinitum allude all’intangibilità della realtà. Motivi che percorrono in modo insistito l’opera di Consolo e, dopo essersi affacciati in Retablo, passando per un testo capitale come Catarsi, giungono alle pagine intensamente patemiche dello Spasimo. Ma anche per viam negationis l’autore, col vertiginoso spessore palinsestico della sua opera, ha riaffermato la necessità dell’arte e della scrittura, del nesso intimo tra parola e immagine, del loro irrinunciabile valore tetico.
1 Cfr. M. Á. Cuevas, ‘Ut Pictura: El imaginario iconográfico en la obra de Vincenzo Consolo’, Quaderns d’Italià, 10, 2005, pp. 63-77.
2 G. Traina, Vincenzo Consolo, Fiesole (FI), Cadmo, 2001, p. 130.
3 La citazione è tratta da S. Puglisi, Soli andavamo per la rovina. Saggio sulla scrittura di Vincenzo Consolo, Acireale-Roma, Bonanno, 2008, p. 207.
4 Cfr. G. Genette, I titoli, in Id., Soglie. I dintorni del testo, Torino, Einaudi, 1989, pp. 55-101.
5 V. Consolo, Fuga dall’Etna, Roma, Donzelli, 1993.
6 Per le immagini di Fuga dall’Etna e dei suoi bozzetti cfr. F. Carapezza Guttuso (a cura di), Guttuso. Capolavori dai musei, Milano, Mondadori Electa, 2005, pp. 60-61.
7 V. Consolo, Retablo, Palermo, Sellerio, 1987, ora in Id., L’opera completa, a cura di G. Turchetta, Milano, Mondadori (I Meridiani), 2015, p. 417. Tutte le successive citazioni saranno tratte da questa edizione.
8 Cfr. G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue, insino a’ tempi nostri, Torino, Einaudi, 1991, pp. 630-631.
9 Per uno studio della fitta intertestualità de Lo Spasimo di Palermo mi permetto di rinviare a D. Stazzone, ‘Testi e intertesti in Vincenzo Consolo: Lo Spasimo di Palermo’, in F. Cattani, D. Meneghelli (a cura di), La rappresentazione allo specchio. Testo letterario e testo pittorico, premessa di S. Albertazzi, M. Cometa, M. Fusillo, Roma, Meltemi, 2008, pp. 185-201.
10 Adotto qui le definizioni di «icona autoriale» ed «ekphrasis nascosta» proposte in M. Á. Cuevas, ‘L’arte a parole. Intertesti figurativi nella scrittura di Vincenzo Consolo’, in R. Galvagno (a cura di), «Diverso è lo scrivere». Scrittura poetica dell’impegno in Vincenzo Consolo, introduzione di A. Di Grado, Avellino, Biblioteca di Sinestesie, 2015, pp. 17-37. Di notevole valore teorico è l’introduzione alla raccolta degli scritti per artisti di Consolo: M. Á. Cuevas, ‘L’arte a parole’, in V. Consolo, L’ora sospesa ed altri scritti per artisti, Valverde (CT), Le Farfalle, 2018, pp. 9-16.
11 M. Á. Cuevas, L’arte a parole, p. 29.
12 P. V. Mengaldo, Tra due linguaggi. Arti figurative e critica, Torino, Bollati Boringhieri, 2005, p. 38.
13 M. Á. Cuevas, L’arte a parole, p. 30.
14 Quanto al palinsesto consoliano cfr. D. O’ Connell, ‘Consolo narratore e scrittore palincestuoso’, Quaderns d’Italià, 13, 2008, pp. 161-185; D. O’ Connell, ‘Furor melancholicus: poetica pittorica nella narrativa di Vincenzo Consolo’, in D. Perrone, N. Tedesco (a cura di), Letteratura, musica e arti figurative tra Settecento e Novecento, Firenze, Franco Cesati, 2014, pp. 147-160.
15 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano, Mondadori, 1976, ora in Id., L’opera completa, p. 127. Tutte le successive citazioni saranno tratte da questa edizione. Per una storia critico-genetica ed alcune valutazioni filologiche sul Sorriso cfr. N. Messina, ‘«Il sorriso dell’ignoto marinaio» di Vincenzo Consolo. Un approccio a III Morti sacrata’, in J. Eynaud (a cura di), Interferenze di sistemi linguistici e culturali nell’italiano, Atti del X Congresso AIPI (Università di Malta, La Valletta, 3-6 settembre 1992), Zabbar (Malta), Gutemberg Press, 1993, pp. 141-163; N. Messina, Per un’edizione critico-genetica dell’opera narrativa di Vincenzo Consolo «Il sorriso dell’ignoto marinaio», tesi di Dottorato, Universitad Complutense, Madrid, 2007, [accessed 17 February 2020]; D. O’ Connell, ‘“And he a face still forming”: Genesis Gestation and Variation in Vincenzo Consolo’s Il sorriso dell’ignoto marinaio’, Italian Studies, 1, 2008, pp. 119-140.
16 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, p. 143-144.
17 Sul rapporto tra Consolo e Sciascia cfr. C. Madrignani, ‘Dopo Sciascia’, La rivista dei libri, novembre 2001, pp. 26-29; M. Á. Cuevas, ‘Parole incrociate: Sciascia e Consolo’, in L. Trapassi, Leonardo Sciascia, un testimone del secolo XIX, Acireale-Roma, Bonnanno, 2012, pp. 195-206. Quanto alla funzione delle epigrafi nell’opera consoliana mi permetto di citare D. Stazzone, ‘Tra palinsesto e paratesto: le epigrafi di Consolo’, Quaderns d’Italià, 21, 2016, pp. 183-192.
18 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, p. 161.
19 Ivi, p. 219.
20 M. Cometa, La scrittura delle immagini. Letteratura e cultura visuale, Milano, Raffaello Cortina, 2012, p. 135.
21 Si fa cenno alla nozione di «repertorio» elaborata da W. Iser, L’atto di lettura. Una teoria della risposta estetica, Bologna, il Mulino, 1987.
22 M. Cometa, La scrittura delle immagini,p. 116.
23 Ivi, p. 121. 24 Ivi, p. 140.
25 La Crocefissione, custodita al Koninklijk Museum voor Schone Kunstern di Anversa, è un olio su tavola realizzato da Antonello nel 1475, durante la sua permanenza a Venezia. Cfr. M. Lucco (a cura di), Antonello da Messina. L’opera completa, Cinisiello Balsamo (MI), Silvana Editoriale, 2006, pp. 216-221.
26 Cfr. M. Á. Cuevas, ‘Ancora su Antonello’, Testo, 59, 2010, pp. 117-124.
27 Cfr. R. Galvagno, ‘«Bella la verità». Figure della verità in alcuni testi di Vincenzo Consolo’, in Ead. (a cura di), «Diverso è lo scrivere»,pp. 39-64.
28 Cfr. S. Grassia, La ricreazione della mente. Una lettura del «Sorriso dell’ignoto marinaio», Palermo, Sellerio, 2011, p. 44. Per l’iconografia di San Gerolamo cfr. H. Friedmann, A Bestiary for Saint Jerome. Animal Symbolism in European Religious Art, Washington D.C., Smithsonian Institution Press, 1980, pp. 291-293. Per l’iconografia di San Gerolamo nelle opere consoliane cfr. S. S. Nigro, ‘Gerolamo e Agrippino’, La Sicilia, 15 novembre 1988.
29 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, pp. 141-142.
30 Ivi, p. 135. 31 Ivi, p. 142.
32 Si pensi al don Eugenio Uzeda dei Vicerè di De Roberto o al don Tindaro del Marchese di Roccaverdina di Capuana.
33 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, pp. 134-135.
34 Ivi, p. 142. 35 V. Consolo, Fuga dall’Etna, p. 45.
36 C. Segre, ‘La costruzione a chiocciola nel Sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo’, in Id., Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino, Einaudi,1991, p. 83.
37 Cfr. V. Consolo, Conversazione a Siviglia, a cura di M. Á. Cuevas, Caltagirone (CT), Lettera da Qalat, 2016, pp. 45-46.
38 Si tratta di un dettaglio de La grande confessione palermitana, riprodotto nella prima copertina di V. Consolo, Retablo, Torino, Sellerio, 1987.
39 Il racconto della scoperta sciasciana del dipinto di Manetti è in F. Clerici, ‘L’eremo, l’abate e il diavolo’, in Id., Di profilo, a cura di M. Carapezza, Milano, Novecento, 1989, pp. 267-271.
40 Per alcune valutazioni complessive su Retablo cfr. N. Zago, ‘C’era una volta la Sicilia. Su «Retablo» e altre cose di Consolo…’, in Id., L’ombra del moderno, da Leopardi a Sciascia, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1992; G. Turchetta, ‘Il luogo della vita: una lettura di «Retablo»’, in M. Lanzillotta, G. Lo Castro, E. Porciani, C. Verbaro (a cura di), Visitare la letteratura. Studi per Nicola Merola, Pisa, 2014, ETS, pp. 647-656.
41 È evidente il simbolismo onomastico adottato da Consolo: il cavaliere Clerici, infatti, approdando a Palermo, salva Isidoro, lo trae dall’abisso in cui era sprofondato e gli permette di rinascere a nuova vita. Ma il nome del «pacchetto Aurora», nel continuo gioco di allusioni che caratterizza la scrittura consoliana, rinvia anche all’incrociatore russo che, nel dicembre 1908, portò soccorso alla popolazione di Messina dopo il terremoto che aveva raso al suolo la città siciliana e Reggio Calabria. L’Aurora, per altro, ebbe un ruolo di primo piano nella rivoluzione d’Ottobre, sparando il primo colpo d’arma da fuoco dal castello di prua, segnale dell’inizio della rivoluzione.
42 V. Consolo, Retablo, p. 371. 43 Ibidem.
44 Per l’iconografia della patrona palermitana Santa Rosalia cfr. M. Cometa, Descrizione e desiderio. I quadri viventi di E. T. A. Hoffmann, Roma, Meltemi, 2005.
45 V. Consolo, Retablo, p. 369.
46 Quanto alla finestra, alla sua funzione di tecnema della visione e al suo ruolo nelle descrizioni letterarie cfr. P. Hamon, Imagerie. Littérature et imageau XIX e siècle, Paris, Édition José Corti, 2001.
47 Cfr. il saggio di R. Galvagno, «Bella la verità», pp. 39-64.
48Ibidem.
49 M. Rizzarelli, ‘Un Retablo come uno specchio. Le voyage pittoresque del cavaliere Fabrizio Clerici’, in A. Ottieri (a cura di), Ai margini della letteratura. Le “scritture contaminate”, Sinestesie, IV, 2006, p. 92.
50 Per i rapporti tra Retablo e l’Illuminismo lombardo cfr. G. Albertocchi, ‘Dietro il Retablo. «Addio Teresa Blasco, addio marchesina Beccaria». Leggere Vincenzo Consolo’, Quaderns d’Italià, 10, 2005, pp. 95-111, ora in G. Albertocchi, «Non vedo l’ora di vederti». Legami, affetti, ritrosie nei carteggi di Porta, Grossi e Manzoni, Firenze, Clinamen, 2011, pp. 141-159.
51 Cfr. V. Consolo, Retablo, p. 379. 52 Ivi, p. 370. 53 Ivi, p. 473.
da Arabeschi n. 15
Nello scriptorium barocco di Vincenzo Consolo: riprese e ribaltamenti letterari in Retablo
Nicola Izzo
Negli anni Ottanta, la produzione di Consolo è contraddistinta dalla stilizzazione barocca, che raggiunge il suo culmine con Retablo (1987), opera-laboratorio e straordinario compendio letterario. Tale studio si concentra sulla pratica di riscrittura espletata dall’autore siciliano, che, quale il Pierre Menard autore del Chisciotte borgesiano, ricrea e rivisita testi importanti della letteratura italiana (Leopardi, Ariosto) ed europea (Goethe, Jaufré Rudel, Eliot).
Parole chiave:Consolo , Retablo , Leopardi , Ariosto , Genette , intertestualità , palinsesto , parodia , ribaltamento
1 Retablo è un che si contraddistingue per la sua fitta
stratificazione linguistica e letteraria, che va a termine – declinandosi
attraverso un’abile e ricercata commistione di prosa e lirismo, raffinato
pastiche espressionistico di toni e stili un vero e proprio palinsesto, che
richiama quanto teorizzato da Gerard Genette a proposito della letteratura
della seconda metà del Novecento (Genette 1982). L’intento di tale studio è
pertanto di penetrare tra i vari livelli dell’opera, alla ricerca dei numerosi
riferimenti intertestuali presenti, estrinsecandone in modo speciale i giochi
di parodie e ribaltamenti operati da Consolo.
A ciò va premio che la struttura di Retablo ricalca quella dell’omonimo
polittico e che la comp (…)
2 Il primo obiettivo è quello di analizzare il modo in cui i
personaggi dell’opera interagiscono all’interno del microcosmo consolano. La
passione che lega frate Isidoro a Rosalia e il sentimento di Fabrizio Clerici
sono manifestazioni di due opposte concezioni amorose, che rimandano a topoi
medievali attestati repertorio della letteratura.
3 Per quanto riguarda Isidoro: «Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato,
rosa che ha confuso, ro (…)
Alle prime intense parole d’ordine di utilizzatore», non notare quanto esse
presentino le medesime caratteristiche li forma che Guiette identificava nel
modello utilizzato, riconoscevi «la supremazia dell’ordine estetico utilizzato
per il suo valore incantatorio» e sublimato « ove «il linguaggio verrà
utilizzato per suo valore incantatorio» e sublimato « dalla sua collocazione,
dal suo volume, dall’uso che ne viene fatto» (Guiette 1990: 140).
4 La vexata quaestio sul nome del giullare autore dell’opera è tuttavia risolta
più avanti da Conso (…)
Il racconto di Isidoro e Rosalia è affiancabile al contrasto di Cielo o Ciullo
d’Alcamo, Rosa fresca aulentissima , breve composizione che il De Sanctis
identificava come il primo testo della letteratura italiana (De Sanctis 1981:
59) e che rielaborava il modello della pastorella (sottogenere della lirica
medievale che Bec inserimento nel registro popolareggiante) (Formisano 1990:
123) attraverso la «rottura del contrasto un po’ meccanico fra il portatore
delle convenzioni cortesi e la detentrice dell’istintiva diffidenza e
riottosità dell’ambiente plebeo» ( Pasquini 1987: 119).
5 Alcune concordanze possono anche il gioco evidenziabili e confermerebbero
letterario operato dallo scrittore siciliano:
Ahi, non abènto , e majormente ora ch’uscii di Vicarìa (Consolo 1987: 19).
Per te non ajo abènto notte e dia (Rosa fresca aulentissima, str. I, v. 4).
O ancora:
[…] la quale m’illudeva che, giunti a un numero bastevole di onze , smesso il
saio, avrei impalmato la figlia sua adorata Rosaliuzza (Consolo 1987: 23).
Intendi bene ciò che bol[io] dire?
men’este di mill’ onze lo tuo abere (Rosa fresca aulentissima, str. XVIII, vv.
4-5).
Il rivolgersi in prima persona al proprio amato scandendone il nome in funzione
vocativa richiamerebbe una certa teatralità, non estranea all’ambito
giullaresco e popolaresco (Apollonio 1981: 107-109); tuttavia, alle prime
intense evocazioni dei due incipit di Oratorio e Veritas , vi sono due cesure
orientate ad includere le due opposte della versione vicenda che deve l’ini
afflato lirico-sentimentale a una struttura dal respiro diegetico più ampio, la
cui vivacità e concretezza ricondurrebbero alla tradizione dei fabliaux .
6 Un modesto chierico e un’umile popolana si configurano
come due protagonisti ideali di un ipotetico fabliau , dacché, come afferma
Charmaine Lee «i frequentatori di questi luoghi ci vengono descritti con
abbondanza di dettagli, e quasi con una sorta di compiacimento nel ritrarre gli
aspetti più bassi della realtà» ( Lee 1976: 27) . E racconto senso di
concretezza si declina nell’accezione tutta erotica dell’amore che congiunge i
due protagonisti.
5 Cfr. «[…] la narrativa dei fabliaux , sbrigativa e salace, imperniata su
personaggi della borghesi (…)
7 Considerata la coscienza tabuizzata medievale, l’oscenità
andava infatti a costituire un serbatoio rilevante di temi per i fabliaux ;
seppure tale licenziosità non fosse affatto l’esito di menti pretestuosamente
lubriche, bensì espressione di un carnevalesco e faceto senso del contrario che
si risolveva nella parodia del modello di riferimento, ovvero quel fin’amor
cortese che plasmava il modello curiale e che in Retablo è riconoscibile nel
racconto di Fabrizio intorno al quale ruota il secondo capitolo dell’opera,
Peregrinazione 5 .
8 Questo senso del contrario è rilevabile anche attraverso la maniera in cui
Isidoro e Rosalia utilizza l’immaginario religioso. Le fattezze di Rosalia
nella mente d’Isidoro si ricollegano alla statua dell’omonima Santa (Consolo
1987: 19), così come l’aspetto del fraticello viene da lei giudicato «torvo,
nero come un san Calogero» (Consolo 1987: 194) paragonato al giovane «biondo e
rizzuto come un San Giovanni» (Consolo 1987: 194) di cui ella s’infatua
all’inizio del racconto. Tale operazione di sniženie bachtiniano, di
iconoclastico abbassamento sul piano materiale e corporeo di figure spirituali
(invero giocato al limite della blasfemia), porta con sé una non trascurabile
carica di irriverenza; e al devotamente suscettibile uditorio medievale non
poteva che destare il riso (o quantomeno suscitarne lo scandalo) (Bachtin 1979:
25).
9 L’amore che lega Rosalia ed Isidoro è un sentimento denso
di passione e di sensualità, che, come canta Ariosto, «guarda e involva e
stempre/ogni nostro disegno razionale» (Ariosto 1976: XIII, 20) e che alla fine
conduce all ‘insania il protagonista. Tale immagine di follia amorosa – «questo
furore che riduce l’uomo, come quel paladin famoso, a nuda e pura bestia,
privato vale a dire del cervello» (Consolo 1987: 58) – non può che rievocare le
mirabolanti vicende dell’Orlando Furioso, verso cui lo scioglimento di alcuni
nodi intertestuali riconduce il lettore di Retablo.
10 Già lo stesso elegiaco lamento di Isidoro, che occupa le pagine iniziali di
Oratorio , rende assimilabile la percezione del proprio sentimento a
quell’effetto insieme inebriante e stuporoso cantato dall’Ariosto:
[…] libame oppioso, licore affatturato, letale pozione
(Consolo 1987: 17).
«e questo hanno causato due fontane
che di effetto liquore
ambe in Ardenna, e non sono lontane:
d’amoroso disio l’una empie core;
che bee de l’altra, senza amor rimane» (Ariosto 1976: I, 78).
6 Ma anche Ariosto 1976: X, 46: «il suo amore ha dagli altri
differenza:/speme o timor negli altri (…)Passione che logora e consuma,
provocando quel «duol che sempre il rode e lima» (Ariosto 1976: I, 41) 6 , ea
cui Consolo in Retablo conferisce maggiore carnalità rispetto all’accezione
intellettuale ariostesca:
lima che sordamente mi corrose l’ossa (Consolo 1987: 18).
che ‘l poco ingegno ad o ad o mi lima (Ariosto 1976: I, 2).
Tale poche erotismo viene riassunto nelle righe che narrano della ben celata
dote del fraticello,
[…] e t’appressasti a me che già dormivo, ah Isidoro, Dio benedica, io subito
m’accorsi che la bellezza tua stava nascosta. Bella, la verità (Consolo 1987:
194). E che rievocano parodisticamente uno dei più salaci episodi ariosteschi,
quello di Bradamante, Ricciardetto e Fiordispina.
E se non fosse che senza dimora
Vi potete chiarir, non credereste:
e qual nell’altro sesso, in questo ancora
ho le mie voglie ad ubbidirvi preste.
Commandate lor pur, che fieno o ora
e sempre mai per voi vigile e deste.
Così le dissi; e feci ch’ella istessa
Trovò con man la veritade espressa (Ariosto 1976: XXV, 65)
11 La voluttuosa follia di Isidoro, in cui convivono
illusione e eros, è al centro anche di Peregrinazione , secondo capitolo di
Retablo in cui – invertendo lo schema diegetico ariostesco in cui un chierico,
Turpino, narrava la furia del cavaliere Orlando – il cavaliere Fabrizio narra
le penose conseguenze della passione del fraticello «che per amor venne in
furore e matto» (Ariosto 1976: I, 2)
[…] divenne matto: crollato in terra, si contorse, schiumò, lacerossi gli
abiti, la faccia, quindi nel vico si diede a piangere, a urlare come un
forsennato (Consolo 1987: 186).
E poi si squarciò i panni, e mostrò ignudo
l’ispido ventre e tutto ‘l petto e ‘l tergo;
e cominciò la gran follia, sì orrenda,
che de la più non sarà mai ch’intenda. (Ariosto 1976: XXIII,
133)
D’altronde al lettore colto di Retablo non sarà sfuggito che il racconto di
Fabrizio Clerici si avvicina per rutilante vitalismo, visività e inventiva
all’opera ariostesca, ovvero a quell’ideale di rappresentazione della vita
«nella sua più reale consistenza e nelle sue fughe fantastiche e irreali»
(Consolo 1987: 63).
12 Il viaggio di Fabrizio in Sicilia presenta, attraverso
efficaci immagini e ironici capovolgimenti, una realtà in cui il confine con la
menzogna risulta labile, ove ci si imbatte in «venditori d’incanti e illusioni»
(Consolo 1987: 63), in retablos de las maravillas che trasportano in lontani
castelli d’Atlante in cui «a tutti par che quella cosa sia,/ che più ciascun
brama e desia» (Ariosto 1976: XII, 20), attraverso una lunga e immaginifica
sequela di visioni in cui sfilano anche io potenziale:
Ecco che in mezzo a voi passa, sul suo destrier bianco e lo stendardo in mano
del Redentore nostro Gesù Cristo, seguito da’ chiari e baldi, dai più arditi
cavalèr normanni, il Conte magno, Roggiero d’Altavilla, il grande condottiero
che l ‘isola liberò dal giogo saracino […] (Consolo 1987: 65).
A tal proposito, è d’uopo rimarcare che Consolo, richiamando il poema
ariostesco, ne dissolve il proposito encomiastico in un ironico rovesciamento
di prospettiva, in linea con i suoi propositi critici ed estetico-ideologici.
L’autore di Retablo è stato uno scrittore permanentemente protetto alla ricerca
della verità, in lotta contro le falsificazioni imposte dai poteri costituiti,
rappresentati un tempo proprio da quella cavalleria cantata da Ludovico
Ariosto, e di cui con sarcasmo egli mette in dubbio i valori, come è
evidenziabile in questo passaggio: «voglia il cielo che in fatto d’armi, di
violenze e guerre, valga comunque e sempre la finzione» (Consolo 1987: 112).
13 Valori dissolti in una dimensione etica che appare infatti contraddittoria,
ambigua, manipolata. Sa lo scrittore siciliano che l’asservimento è costume
troppo frequent, come deplorava già San Giovanni ad Astolfo riconoscendo «la
giù ruffiani, adulatori, / buffon, cinedi, accusatori, e quelli/che viveno alle
corti e che vi sono/più grati assai che ‘il virtuoso e ‘l buono» (Ariosto 1976:
XXXV, 20) e come Fabrizio stigmatizza nella sua invettiva a mo’ di serventese, scagliandosi
contro «l’impostore, il bauscia, ciarlatan» (Consolo 1987: 128).
14 In Retablo , Consolo si confronta soprattutto con il tema metaletterario
della mistificazione artistica ad uso del potere, rappresentato da «il falso
artista, el teatrant vacant e pien de vanitaa» e dal «poeta dalla putrida
grascia brianzola» (Consolo 1987: 128), domanda che già Ariosto aveva posto
cinque secoli o sono:
Non fu sì santo né benigno Augusto
Come la tuba di Virgilio suona.
L’aver avuto in poesia buon gusto
La proscrizion iniqua gli perdona (Ariosto 1976: XXXV, 26)
Chiedendosi se in «questo che tutti chiamano il teatro del gran mondo, vale
sovente la rappresentazione, la maschera, il romore vuoto che la sostanza vera
della realtate» (Consolo 1987: 112).
15 Come accennato in precedenza, al sentimento segnato dalla
carnalità e dalla sensualità di Isidoro si contrappone l’aureo amore ideale di
Fabrizio, narratoci da lui stesso in Peregrinazione.
7 Albertocchi (2005: 95-111) dedica un esauriente articolo alla reale figura
storica di Teresa Blas (…)
16 Già in epigrafe Consolo consegna al lettore attento e meticoloso la chiave per aprire il portello centrale di Retablo, dove ci viene narrato il sentimento di Fabrizio Clerici per la contessina Teresa Blasco 7:
Avendo gran disio,
dipinsi una figura
bella, a voi somigliante.
Come in questa canzonetta Jacopo da Lentini rielabora e adatta al proprio substrato culturale stilemi e temi della lirica trobadorica provenzale, l’autore di Retablo svolge in questo capitolo – riprendendolo e proponendone un’ironica lettura in prospettiva postmoderna – il leitmotiv del fin’amor , l’amore inteso come suprema forma di affinamento spirituale. Fin’amor che contrapponendosi al fals’amor , l’amore nel senso carnale che lega Isidoro a Rosalia, va a formare una struttura a chiasmo in cui le due coppie – Isidoro e Rosalia, Fabrizio e Teresa – si pongono l’una al polo contrario dell’altra.
17 In Retablo sono presenti quei già largamente attestati
nella retorica mediolatina che tutti i simboli devono riconoscersi subito quali
importanti punti di riferimento per l’interpretazione artistica e il cui
ricorso implicava, per i poeti, collocarsi nell’alveo di una tradizione
consolidata e insieme approfondirla (Di Girolamo 1989: 36).
8 Per il lessico specifico trobadorico, oltre ai già citati testi di Formisano
e Di Girolamo, si ri (…)
9 È Fabrizia Ramondino, estimatrice e critica della prima ora di Retablo , a
suggerire, nella sua re (…)
10 Questi versi e quelli successivi sono ripresi da Roncaglia 1961: 304-307.
18 Sin dalla dedicatoria il cavaliere Fabrizio pone in
risalto la sottomissione alla sua domna 8 , doña Teresa, raffigurata come
sublime figura («donna bella e sagace, amica mia, che un padre di Spagna e una
madre di Sicilia ornaro di virtù speciali», Ret .:33) attorniata da una turba
di savai , uomini vili («sciocchi e muffi e mercantili», Ret .: 33). E, mentre
procede egli nella sua quête 9 cavalleresca, il pittore milanese vagheggia
della propria amata, la cui dimensione platonica viene caricata da Consolo nei
suoi tratti d’irraggiung. irraggiungibilità che si collega al tema della
distanza (e quan me sui partitz de lai/remembram, d’un amor de lonh ) 10 che
nel fitto repertorio della letteratura provenzale è trattato da Jaufré Rudel.
11 Si rimanda per un rapido sunto ancora a Di Girolamo 1989: 63, e approfonditi
da Picone 1979. Si c (…)12 Ibidem.
19 Quelle che rimangono ad oggi alcune delle più interessanti interpretazioni date all’ amor del lonh rudeliano 11 sono sovrapponibili al sentimento di Fabrizio ea «quel volontario vallo», «gelida distanza» (Consolo 1987: 76) che pone egli tra sé e la sua dama. L ‘amor de lonh di Fabrizio Clerici traduce in concreto quel sottile senso di angoscia compendiato nel paradosso cristiano di un «reale irreale» (il mondo invisibile esiste mentre quello visibile non ha nessuna esistenza) 12, come del resto conferme le sue inquietudini metafisiche («cos’è mai questa terribile, meravigliosa e oscura vita, questo duro enigma che l’uomo sempre ha declinato in mito, in racconto favoloso, […]?», (Consolo 1987: 134)). Da qui laperegrinazione come forma di affinamento spirituale.
20 Tuttavia, questo esemplare riconducibile al filone dell’amor cortese viene anch’esso capovolto in Retablo . Come è narrato nella sua vida , Jaufré Rudel dirigeva il suo amore verso la Contessa di Tripoli, donna che non aveva mai visto, ma di cui aveva ascoltato la descrizione, procedendo dunque dall’ideale al concreto. Al contrario, Fabrizio vagola alla ricerca di un’astrazione da ricondurre al concreto modello di partenza, di un «frammentario brano di poesia o d’un eccelso modello di beltà» (Consolo 1987: 77). Questo di Fabrizio è un amore dunque perfettamente intellettualistico, totalmente contemplativo, e che nulla concede al desiderio de «le carni ascose immaginate» (Consolo 1987: 172).
21 Tale eccesso di mezura – per usare un efficace ossimoro – non porta ad alcuno forma di elevazione e perfezione spirituale quale prevista dal fin’amor . Il nostro protagonista, alla fine della sua peregrinazione, si ritroverà più smarrito di prima e l’unico cambiamento inferto alla sua condizione di partenza sarà la notizia del matrimonio tra la sua amata Teresa Blasco e il Marchese Cesare Beccaria.
22 In Retablo, nel finale, si verifica anche questo estremo
ribaltamento dello schema di riferimento: il protagonista non accetterà il
«compromesso» che è posto alla base del fin’amor : all’ amor del lonh preferirà
un’errabonda solitudine e alla servitium amoris un prematuro comiat : «Ora
addio, donna bella e sagace, che foste amica mia. Addio Teresa Blasco, addio
marchesina Beccaria» (Consolo 1987: 189).
13 Dietro i personaggi del Cavaliere Fabrizio e del suo servo Isidoro che
compiono il loro Grand Tou (…)
23 Siamo giunti in questo modo alla fine del percorso
compiuto dai protagonisti, percorso che presenta molti tratti assimilabili alla
tradizione della narrativa picaresca 13. Tuttavia, poiché poiché Consolo
rovescia anche la struttura del Bildungsroman , Fabrizio, alla fine del suo
cammino, non avrà raggiunto né una crescita interiore, né tantomeno una calma
accettazione del presente, ma vivrà per sempre con quello che definisce un
«dolore senza nome» (Consolo 1987: 140).
24 Questo senso di ineluttabilità non è soltanto un’angoscia individuale, ma in
Retablo si collega alla concezione postmoderna della Storia, («[…] noi
naufraghi di una storia infranta», (Consolo 1987: 146)), di cui è andata persa
l ‘idea di causalità. Ed è in questa atmosfera rarefatta di disincanto che
riecheggiano i versi del Leopardi, la cui memoria letteraria è importante anche
per l’analisi dell’altra grande opera barocca di Consolo, Lunaria (Consolo 1985
e 1996) , pubblicata due anni prima di Retablo . Il dialogo col poeta di
Recanati non è solo poetico, ma anche filosofico, in quanto il pessimismo di
Fabrizio Clerici è assimilabile a quello che pervade i Canti leopardiani.
25 Inequivocabili sono le concordanze con L’infinito :
sedendo e mirando , e ascoltando… (Consolo 1987 : 101)
14 Si veda Leopardi 2007 (qui e di seguito, per tutte le citazioni
leopardiane).
Ma sedendo e mirando … (L’Infinito , v. 4) 14
26 E con La Ginestra :
O secol nostro superbo di conquiste e di scienza, secolo illuso, sciocco e
involuto!» (Consolo 1987: 128)
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco (La Ginestra, vv. 52-53)
15 È doveroso qui richiamare Alejo Carpentier e il suo El Siglo de Las Luces,
romanzo storico pubbli (…)
Il pessimismo storico di Leopardi viene da Consolo tradotto
nello scetticismo antilluministico di Fabrizio Clerici («peggiori di quanto noi
pensiamo sono i tempi che viviamo!»; Consolo 1987: 42) che porta questi ad
allontanarsi dalla Milano illustri dove intellettuali come i fratelli Verri e
Cesare Beccaria, l’autore del saggio Dei delitti e delle pene, che diffondendo
le nuove idee del Secolo dei Lumi 15.
27 La critica antistoricistica postmoderna si esprime in Retablo attraverso la
caduta del mito del progresso. E, riflesso nella finzione romanzesca
settecentesca, è riconoscibile il giudizio che dà l’autore agli anni Ottanta
del Novecento, anni in cui alla composizione letteraria egli affianca la
pratica giornalistica. La Milano tanto odiata da Fabrizio Clerici è la stessa
città contro cui l’autore scaglia la propria invettiva. Erano quelli gli anni
del governo socialista di Bettino Craxi (che darà vita dieci anni dopo allo
scandalo di Tangentopoli) e in cui in Italia c’era una diffusa idea di
benessere. Consolo, da grande intellettuale, individua proprio in quel periodo
la nascita del degrado sociale e culturale italiano, e non esita a condannarlo
dalle pagine del suo romanzo:
Arrasso, arrasso, mia nobile signora, arrasso dalla Milano attiva, mercatora, dalla
stupida e volgare mia città che ha fede solo nel danee, ove impera e trionfa
l’impostore, il bauscia, il ciarlatan, il falso artista, el teatrant vacant e
pien de vanitaa, il governante ladro, il prete trafficone, il gazzettier
potente, il fanatico credente e il poeta della putrica grascia brianzola.
Arrasso dalla mia terra e dal mio tempo, via, via, lontan! (Consolo 1987: 128)
Al tema storico di Retablo si coniuga anche il tema metafisico del Tempo. Uno
dei temi più ricorrenti nell’opera di Consolo è proprio il «male di vivere», la
profonda consapevolezza della caducità delle cose. Le rovine di antiche civiltà
presenti durante la Peregrinazione dei nostri protagonisti ci vengono come
destino «simboli indecifrati ed allarmanti» (Consolo 1987: 42), manifestazioni
della contingenza che domina il destino dell’Uomo.
28 Fabrizio si reca tra gli antichi templi siciliani per
abbandonare il concetto di Tempo escatologico e tornare al Tempo classico e
circolare del mito e finalmente ritrovare ristoro dalle proprie angosce nella
«stasi metafisica» (Consolo 1987: 40).
16 Il viaggio del grande autore di tedesco si svolge tuttavia nel 1787, circa
un ventennio dopo quel (…)
29 Il tour siciliano di Fabrizio avviene nella stessa epoca in cui si colloca un altro importante resoconto di viaggio, quasi parallelo al tour del nostro protagonista, quello di Goethe in Sicilia 16 , parte centrale del suo tour italico alla ricerca delle radici culturali e civili dell’ Occidente. Il grande poeta – che all’epoca aveva trentasette anni, nel pieno del suo fulgore artistico – arriva in Sicilia dopo averto le raffinate suggestioni di Venezia, l’eleganza colorata rinascimentale di Ferrara, la maestosità di Roma, la confusa e vivacità di Napoli , ed aver goduto sia dei diversi paesaggi culturali sia dei vasti campionari minerali, vegetali e paesaggistici offerti dalla penisola.
30 Alle tre pomeridiane del 2 aprile, allo sguardo estasiato
del poeta tedesco, si offrì «il più ridente dei panorami», Palermo:
La città, situata ai piedi d’alte montagne, guarda verso nord; su di essa,
conforme all’ora del giorno, splendeva il sole, al cui riverbero tutte le
facciate in ombra delle case ci apparivano chiare. A destra il Monte Pellegrino
con la sua elegante linea in piena luce, a sinistra la lunga distesa della
costa, rotta da baie, penisolette, promontori. Nuovo fascino aggiungevano al
quadro certi slanciati alberi dal delicato color verde, le cui cime, illuminate
di luce riflessa, ondeggiavano come grandi sciami di lucciole vegetali davanti
alle case buie. (Goethe 1983: 255-257)
Il medesimo spettacolo si offre a Fabrizio, assalito sul ponte nave dalle prime
impressioni antelucane di una Palermo immersa nell’incantevole aria mattutina e
inondata di luce:
[…] in oscillìo lieve di cime, arbori, guglie e campanili, in sfavillìo di
smalti, cornici e fastigi valenciani, matronali cupole, terrazze con giare e
vasi, in latteggiar purissimo de’ marmi nelle porte, colonne e monumenti, in
rosseggiar d ‘antemurali, lanterne, forti e di castell’a mare, in barbaglìo di
vetri de’ palagi, e d’oro e specchi di carrozze che lontano correvano le
strade. (Consolo 1987: 35)
17 Cfr. Capponi P., «Della luce e della visibilità, considerazioni in margine
all’opera di Vincenzo (…)
Gli effetti di luce e di riverbero su cui indugiano le consoliane fanno parte
di quella «retorica della luce» 17 descritto da Paola Capponi, e in cui pagine
va considerata la stessa esperienza biografica dello scrittore. La
polarizzazione su cui è incentrata tale riflessione si basa ancora su due
coppie disposte a chiasmo: una che si muove sul piano orizzontale e diatopico –
la Milano di Fabrizio Clerici e dell’ emigréVincenzo Consolo contrapposta ai
luoghi natii dello scrittore siciliano – e l’altra di ordine verticale e
diacronico – che si muove tra il grigio presente lombardo e le atmosfere
mediterranee del suo passato: «Di luce in luce, donna Teresita, di oro in oro.
» (Consolo 1987: 34). E la memoria influenza così la percezione dei fenomeni
esterni, come viene espresso in queste righe:
«E sognare è viepiù lo scrivere, lo scriver memorando del passato come
sospensione del presente, del viver quotidiano. E un sognare infine, in suprema
forma, è lo scriver d’un viaggio, e d’un viaggio nella terra del passato»
(Consolo 1987: 95).
31 Ma ciò si verifica soltanto in quella metaforica camera
oscura ove acquistano forma le reminiscenze dell’autore. Infatti nella
dimensione reale e presente, come ha modo di testimoniare il milanese Fabrizio
ad Alcamo, ove vige un iniquo sistema di poteri, lo splendore isolano si
effonde anche sulla miseria ed ha forza abbacinante, dissimulatoria:
Ma fu quello come il segnale d’un assalto nella guerra, la guerra intendo,
antica e vana, contra il nemico della fama. Che non si scorge qui, di primo
acchitto, come da noi ne’ nebbiosi e gelati inverni nella campagna bassa o su
per le valli sopra i laghi o sotto le gran montagne delle Alpi, ovvero meglio
in alcuni quartieri popolosi e infetti di Milano, per la chiarità del cielo e
pei colori, per la natura benevola e accogliente […] (Consolo 1987: 69).
Anche Goethe, perso nelle sue ricognizioni artistiche e scientifiche, ha modo
di assistere, proprio ad Alcamo, al penoso spettacolo di questa «guerra tra
poveri»:
Qualche cane ingoiava avido le pelli di salame che noi gettavamo; un piccolo
mendicante cacciò via i cani, divorò di buon appetito le bucce delle nostre
mele e venne a sua volta messo in fuga dal vecchio accattone. La gelosia di
mestiere è di casa ovunque. (Goethe 1983: 297)
e di misurare la propria indignazione sulle problematiche sociali dell’isola,
di biasimarne l’ambiguo e corrotto sistema di poteri che fa perno sulla
religiosità cristiana,
[…] l’intera cristianità, che da milleottocento anni asside il suo dominio, la
sua pompa ei suoi solenni tripudi sulla miseria dei propri fondatori e dei più
zelanti seguaci (Goethe 1983: 264)
e di cui siamo efficaci ragguaglio anche in Retablo.
E il Soldano in pompa magna, quale sindaco della civitate, in uno con i
decurioni, e con gli amici, seguito da cavalieri e da pedoni, in quella festa
della patrona santa, fece la visita e l’omaggio a tutti i conventi, ritiri ,
orfanotrofi, spedali, chiese, collegi, monasteri e compagnie. E in ognuno, in
sale, refettori o sacrestie, era ogni volta un ricevimento con dolciumi e
creme, rosoli, caffè e cioccolata (Consolo 1987: 60).
La Sicilia si offre quale realtà composita, come egli ha modo di notare appena
sbarcatovi in quel di Palermo «assai facile da osservarsi superficialmente ma
difficile da conoscere» (Goethe 1983: 255); un metaforico vasto retablo,
meraviglioso e vivace, che può rivelare una miserrima realtà.
32 Tuttavia è da notare che l’animo, seppur sensibile, del
grande autore del Werther, non sembra turbarsi intimamente, come accade invece
a Fabrizio Clerici. Ciò è giustificabile con la semplice constatazione che,
mentre il viaggio di Goethe in Sicilia in uno dei tanti tour che uomini di alta
cultura compivano in quel tempo per gustare gli splendori naturali dell’isola e
immergersi nelle sue anticheggianti suggestioni, dietro
Il viaggio letterario del lombardo Fabrizio Clerici si cela il nóstos di
Vincenzo Consolo e il lamento per la sua terra ferita intride di sé le pagine
dell’opera:
Dietro la croce e la Compagnia, venia la gente più miserevole, la più lacera,
malata e infelice. Ed era, così ammassata, così livida, come la teoria d’un
oltretomba, una processione d’ombre, d’umanità priva di vita e di colore
(Consolo 1987: 184).
L’autore siciliano sa che dietro alle mirabolanti facciate come quelle
architettoniche di Trapani, dietro alle bellezze fastose, si cela una realtà di
brutture, su cui si spande un mirabolante, quanto ingannevole, velo:
Mai vid’io insieme tanto orrore, tanto strazio. L’altra faccia, il rovescio o
forse la verità più chiara e netta di questa nostra vita. Che nascondiamo
ognora con l’illusione, i velami, gli oblii, le facciate come quelle teatrali
de’ palazzi della rua Nuova e della Grande, ch’io avea visto e ammirato la sera
avanti, della gente lussuosa, spensierata che là vi dimorava (Consolo 1987:
184).
La prosa consolaana rivela, attraverso la sua efficace espressività, una
tensione maggiore, un più acuto sguardo, laddove Goethe sembra solo intento a
gratificare la propria algida curiosità di visitatore, come accade tra le
rovine della terremotata Messina. Nell’autore tedesco sembra che l’itinerario
siciliano produca nulla più di un vacuo corroboramento del suo gusto
estetizzante e razionale. Laddove Fabrizio sembra inquietarsi, sconfortarsi
sempre più per il desengaño che ad ogni piè sospinto sembra squarciare il velo
di maraviglia che ammanta l’isola, il poeta tedesco sembra esaltarsi:
l’esaltazione poetica che provavo su questo suolo supremamente classico faceva
sì che di tutto quanto apprendevo, vedevo, osservavo, incontravo,
m’impossessassi per custodirlo in una riserva di felicità (Goethe 1983: 333).
Eppure sia Clerici che Goethe giungono in Sicilia con un bagaglio estetico e
culturale similitudine. Goethiana infatti è l’intenzione di risalita alle
origini, storiche e culturali in prima istanza, ma anche naturali, a cui
Fabrizio aggiunge un ulteriore fattore sentimentale:
[…] mi pare di viaggiare alla ricerca degli stampi o matrici del vostro
meraviglioso sembiante, della grazia che dagli avoli del corno di Sicilia
ereditaste, in tanto che viaggio in cerca delle tracce d’ogni più antica
civiltate. (Consolo 1987: 77).
Mentre la ricerca del poeta tedesco sembra focalizzarsi su una più asettica
analisi biologica, ovvero uno studio sull’ Urpflanze , la pianta originaria che
egli stesso aveva teorizzato:
Di fronte a tante forme nuove o rinnovate si ridestò in me la vecchia idea
fissa se non sia possibile scoprire fra quell’abbondanza la pianta originaria
(Goethe 1983: 295).
Ma soprattutto il poeta dell’ Italienische Reise e il pittore di Retablo –
dalla predilezione artistica tuttavia analoga a quella del compagno di viaggio
di Goethe, il pittore Christoph Heinrich Kniep – sono accomunati dal medesimo
punto di riferimento artistico: quel canone neoclassico ed ellenizzante,
winkelmanniano , ravvisabile nell’opera di Consolo nell’episodio della statua
moziese:
Più che un umano atleta trionfante, un dio mi parve, un Apolline, dalle forme
classiche, ideali, di quelle tanto amate dal Winkelmano.(Consolo 1987: 159)
e rintracciabile più volte nelle proprie di Goethe. Tuttavia equilibrio il
poeta tedesco vi dimostra un più legame, rivelando una maggior aderenza a
quell’ sintesi d’armonia, compostezza e razionalità mediato dal von Riedesel:
«[…] alludo all’eccellente von Riedesel, il cuicino custodisco in seno come
breviario o talismano.» (Goethe 1983: 307). Mentre, per quanto riguarda il
protagonista dell’opera di Consolo, nel gusto della descrizione-elencazione
sono ravvisabili influssi barocchi.
33 Efficace, a tal proposito, è il raffronto che può essere
operato attraverso le opposte rappresentazioni del tempio di Segesta, al centro
di una delle scene più suggestive di Retablo, ove si palesa la differenza
sostanziale di atteggiamento dei due viaggiatori:
Le colonne sono tutte ritte; due, ch’erano cadute, sono state risollevate di
recente. Se rivela o no uno zoccolo è difficile definire, e non esiste un
disegno che c’illumini al riguardo […]. Un architetto potrebbe risolvere la
questione (Goethe 1983: 306).
Il diametro di tutte le colonne è di 6 piedi, quattro
pollici, sei linee; l’altezza di 28 piedi, e sei pollici… E potrei viepiù continuare
se non temessi di tediarvi con altezze e larghezze e volumi, con piedi e
pollici e linee (Consolo 1987: 97)
Laddove Goethe rivolge la sua attenzione alla semplice ricognizione
tecnico-strutturale, il pittore milanese si lascia rapire dalla fascinazione
«del tempio che vorrei ritrarre in modo distanziato, come fosse una realtà che
poggia sopra un altro pianoforte, in un’aura irreale o trasognata» (Consolo
1987: 109); e alle speculazioni estetico-architettoniche goethiane si
contrappongono le riflessioni di carattere metafisico del protagonista
consolano:
[…] Come porta o passaggio concepire verso l’ignoto, verso l’eternitate e
l’infinito. (Consolo 1987: 99)
Goethe, come ci suggerisce lo stesso Consolo, giunge in Sicilia, questa realtà
eterogenea e prismatica, cercando non di raccontarla, bensì di «misurarla», con
la capziosa – o piuttosto presuntuosa – crede di decifrare il mistero
siciliano:
Sono, ripetiamo, queste certezze riposte nella bellezza, nell’ordine,
nell’armonia, nella cognizione e classificazione della natura, gli argini, le
barriere contro l’indistinto, il caos, l’imprevedibile, il disordine. Contro
l’infinito (Consolo 2001: 246).
A differenza di Goethe, Fabrizio riesce a spogliarsi dei suoi oberanti metri
illuministici e riesce ad abbandonare gli stereotipi estetizzanti e
classicheggianti legati al mito siciliano. Le antiche vestigia così alimentano
le sue inquietudini in quanto tracce degli orrori alla storia dell’Uomo che
«vive sopravvivendo sordo, cieco e indifferente su una distesa di struttura e
di dolore, calpesta inconsciamente chi soccombe» (Consolo 1987: 151). Nel
viaggio storico del poeta tedesco invece non vi è traccia di tali riflessioni,
da cui, anzi, sembra rifuggire:
Non bastava, osservai, che di tempo in tempo le sementi venivaro, se non da
elefanti, calpestate da cavalli e uomini? Che bisogno c’era di ridestare
bruscamente dal suo sogno di pace la fantasia risuscitando tali frastuoni?
(Goethe 1983: 259)
Clerici si arrenderà al mistero siciliano, alla sua ricchezza ed al suo
fascino, contrariamente al poeta tedesco che schiavo della sua razionale
riluttanza di non varcare, nel viaggio a ritroso verso l’antichità della
storia, verso l’origine della civiltà, la soglia dell’ignoto, di non inoltrarsi
nell’oscura e indecifrabile eternità; di non smarrirsi, immerso in una natura
troppo evidente e prorompente, nell’indistinto, nel caos infinito. (Consolo
2001: 244)
18 «Misera. La seule ha scelto qui nous console de nos misères est le divertissement,
et cependant c’est (…)
34 Come è stato scritto da Genette «une dialettique perplexe
de la veille et du rêve, du réel et de l’imaginaire, de la sagesse et de la
folie, traverse toute la pensée baroque» (Genette 1996: 18). Opera barocca per
eccellenza, Retablo gioca sull’oscillazione tra i temi della maravilla ed il
desengaño , della verità e della mistificazione, tra le percezioni sensibili
della superficie dei fenomeni e l’abisso dell’esistenza, tra le visioni che il
mondo propone ei riflessi capovolti di esse. I protagonisti consoliani si
trovano quindi «a passare dal sogno e dall’incanto al risveglio più lucido», e
ciò lungo il corso di un divertissement letterario, che – collegandosi e
capovolgendo un celebre pensiero di Blaise Pascal 18– non spinge alla
distrazione dalle domande dell’interiorità, ma ne esprime attraverso un’intensa
sensibilità stilistica, dacché come affermare ancora Genette «l’univers baroque
est ce sophisme pathétique où le tourment de la vision se résout – et s ‘achève
– en bonheur d’expression».
O mia Medusa, mia Sfinge, mia Europa, mia Persefone, mio sogno e mio
pensiero, cos’è mai questa terribile, meravigliosa e oscura vita, questo duro
enigma che l’uomo sempre ha declinato in mito, in racconto favoloso,
leggendario, per cercar di rispecchiarla, di decifrarla per allusione, per
metafora? (Consolo 1987:135)
Bibliografia
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APPUNTI
2 A ciò va premesso
che la struttura di Retablo ricalca quella dell’omonimo polittico e che la
comprensione e decodifica del racconto di Isidoro e Rosalia – senza dimenticare
la predella situata nell’esatta metà dell’opera – presuppone una lettura
unitaria laddove essa si presenta scissa in due capitoli: Oratorio e Veritas, e
presentanti ciascuno il relativo punto di vista narrativo.
3 Per quanto riguarda Isidoro: «Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato,
rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha róso, il mio cervello
s’è mangiato.» (Consolo 1987: 17-18). A queste parole nella risposta quelle di
Rosalia, su parte finale dell’opera: «Isidoro, dono dell’alma e gioia delle
carni, spirito di miele, verdello della state, suggello d’oro, candela della
Pasqua, battaglio d’ogni festa […]» (Consolo 1987: 193).
4 La vexata quaestio sul nome del giullare autore dell’opera è tuttavia risolta
più avanti da Consolo a favore della seconda ipotesi quando introdurrà,
ammantata da una notevole ironia, la sedicente Accademia poetica de Ciulli
Ardenti. A tal proposito, è interessante notare che anche Dario Fo si è
soffermato su Rosa fresca aulentissima, identificando il nome esatto
dell’autore in Ciullo e scartando l’invalso Cielo, risultato questo di una
mistificazione culturale a scopo censorio (ciulloindica anche membro il
maschile). È quanto meno ipotizzabile che Consolo conosca l’altro e più
scurrile significato della parola, tant’è che sembra giocarci col lettore in
queste righe: «di Ciullo intenno, chiaro al monno intero, e surtutto per nui de
l’Accademia ardente che al nome suo s’appenne» (Consolo 1987: 54).
5 Cfr. «[…] la narrativa dei fabliaux , sbrigativa e salace, imperniata su
personaggi della borghesia, del clero, del contado, o anche dell’aristocrazia,
ma in una chiave beffarda che sembra antitetica a quella del romanzo o del lai
» (Rutebeuf 2007 : 13).
6 Ma anche Ariosto 1976 : X, 46: «il suo amore ha dagli altri differenza:/speme
o timor negli altri il cor ti lima».
7 Albertocchi (2005: 95-111) dedica un esauriente articolo alla reale figura
storica di Teresa Blasco, rivelandone, attraverso i documenti dell’epoca, le
vicende – invero scabrose – che la videro protagonista nella Milano dei Lumi, e
che la allontanano notevolmente dalla figura di donna vereconda tratteggiata
nel diario di viaggio di Fabrizio.
8 Per il lessico specifico trobadorico, oltre ai già citati testi di Formisano
e Di Girolamo, si rimanda al più agevole glossario posto a margine di Cataldi
2006: 226-229.
9 È Fabri Ramondino, estimatrice e critica della prima ora di Retablo, a
suggerire, nella sua recensione all’opera inclusa nel numero del 3 novembre
1987 de «Il Mattino», che il romanzo è costruito secondo lo schema della quête
dei cavalieri erranti: l’orazione, la peregrinazione e la verità ritrovata.
10 Questi versi e quelli successivi sono ripresi da Roncaglia 1961: 304-307.
11 Si rimanda per un rapido sunto ancora a Di Girolamo 1989: 63, e approfonditi
da Picone 1979. Si consiglia inoltre la lettura dell’introduzione dell’edizione
curata da Chiarini 2003.
12 Ibidem.
13 Dietro i personaggi del Cavaliere Fabrizio e del suo servo Isidoro che
compiono il loro Grand Tour siciliano sono intravedibili le sagome dei
personaggi di Jacques le fataliste.
14 Si veda Leopardi 2007 (qui e di seguito, per tutte le citazioni
leopardiane).
15 È doveroso qui richiamare Alejo Carpentier e il suo El Siglo de Las Luces,
romanzo storico pubblicato nel 1962, e che ha sviluppato, per temi e atmosfere,
Vincenzo Consolo.
16 Il viaggio del grande autore di tedesco si svolge tuttavia nel 1787, circa
un ventennio dopo quello del protagonista di Retablo.
17 Cfr. Capponi P., «Della luce e della visibilità, considerazioni in margine
all’opera di Vincenzo Consolo», in: AA.VV. 2005.
18 «Misera. La seule ha scelto qui nous console de nos misères est le
divertissement, et cependant c’est la plus grande de nos misères. Car c’est
cela qui nous empêche principalement de songer à nous, et qui nous fait perdre
insensiblement. Sans cela, nous serions dans l’ennui, et cet ennui nous
pousserait à chercher un moyen plus solide d’en sortir. Mais le divertissement
nous amuse, et nous fait arriver insensiblement à la mort .» (Pascal 1971: I,
268).
Nicola Izzo , “Nello scriptorium barocco di Vincenzo Consolo: riprese e
ribaltamenti letterari in Retablo ” ,
reCHERches , 21 | 2018, 113-128.
Nicola Izzo
Université Jean Monnet, Saint-Étienne
Cosa Loro. Mafie fra cronaca e riflessione, Vincenzo Consolo
*
Vincenzo Consolo, Cosa Loro. Mafie fra cronaca e riflessione. 1970-2010,
a c. di Nicolò Messina, Milano, Bompiani, 2017, pp. 315. Nel mantenere la visibilità di Vincenzo Consolo dopo la sua morte avvenuta nel 2012, il curatore del presente volume, Nicolò Messina, ha avuto un ruolo importante, anche grazie a La mia isola è Las Vegas (Milano, Mondadori, 2012), organica sistemazione di brevi scritti, racconti li chiamava lo scrittore (tra cui alcuni preziosi inediti), che coprono un arco di più di cinquant’anni. Un rapido censimento dei testi consoliani, pubblicati dopo il 2012, non può naturalmente prescindere dal Meridiano (L’opera completa, Milano, Mondadori, 2015) curato da Gianni Turchetta e con uno scritto di Cesare Segre. Ma vanno comunque citati anche gli Esercizi di cronaca, una raccolta di articoli pubblicati su L’Ora di Palermo, a cura di Salvatore Grassia, con prefazione di Salvatore Silvano Nigro (Palermo, Sellerio, 2013); gli Accordi, versi inediti, a cura di Claudio Masetta Milone (Sant’Agata di Militello, Zuccarello, 2015) e sempre in ambito poetico le 4 liriche, 77 esemplari numerati con acquaforte originale di Luciano Ragozzino (Milano, “Il ragazzo innocuo”, 2017). Oltre ad alcune interessanti conversazioni”: Conversazione a Siviglia a cura di Miguel Ángel Cuevas (Caltagirone, Lettere da Qalat, 2016) che rimanda a Conversación en Sevilla, sempre a cura dello stesso (Sevilla, La Carbonería, 2014) e Autobiografia della lingua. Conversazione con Irene Romera Pintor (Bologna, “Ogni uomo è tutti gli uomini”, 2016). Per finire, le prose brevi di Mediterraneo. Viaggiatori e migranti (Roma, Edizioni dell’Asino, 2016). Cosa loro consta di sessantaquattro articoli scritti tra il 1970 ed il 2010, due anni prima della morte, pubblicati su diverse testate giornalistiche (L’Unità, Il Messaggero, Il Corriere della Sera, L’Ora, L’avvenire), su riviste (Linea d’Ombra, Euros) e su pubblicazioni di diversa natura, libri collettanei, ecc. Chiude il libro un’appendice
nella quale il curatore dell’edizione, Nicolò Messina, fornisce utilissime informazioni storiche e filologiche sui diversi pezzi, alcuni dei quali ha potuto collazionare con gli originali, dattiloscritti o manoscritti. Il titolo, Cosa loro, intende apportare, mediante lo scambio del possessivo, una modifica, di certo non solo grammaticale, alla definizione vulgata di “Cosa nostra”, per segnalare, si legge in una nota introduttiva, «un sistema da cui prendere senza compromessi le distanze e da contrastare indefettibilmente ». Consolo lo ha fatto nel corso di tutta la sua vita in quanto, ammetteva, «non si nasce in un luogo impunemente. Non si nasce, intendo, in un luogo senza essere subito segnati, nella carne, nell’anima da questo stesso luogo» («Memorie», ora in La mia isola…). In un articolo apparso su L’Ora nel 1982 («I nemici tra di noi», Cosa loro) proclama infatti che «la lotta alla mafia ha bisogno di noi, di ognuno di noi, nella nostra limpida coscienza civile, della nostra ferma determinazione; che è lotta politica, lotta per la nostra civiltà». Così Consolo “impugna” la scrittura per fare la sua parte. Scrive, come dice in «Un giorno come gli altri» (La mia isola…) perché la
scrittura «può forse cambiare il mondo». Con il narrare, invece, che è l’altro versante della sua ispirazione, il mondo non lo si cambia, lo si descrive soltanto. Negli articoli ora riuniti in Cosa loro, Consolo adotta quindi una “scrittura di presenza”, ossia una prosa militante che vibra fino ad innalzarsi alla liturgia indignata della riscrittura di un Dies irae da Requiem eseguito il 27 marzo 1993 nella cattedrale di Palermo per ricordare le stragi in cui persero la vita i giudici Falcone, Borsellino («soldati in prima linea » come li definisce), le loro scorte ed i congiunti («Dies irae a Palermo»). La “scrittura di presenza” assume, in certi scritti, la connotazione fisica dell’inviato speciale che segue “in diretta” le vicende che descrive: così ritroviamo lo scrittore al processo di Milano contro Michele Pantaleone nel 1975, querelato ma poi assolto, per aver denunciato un soggetto mafioso o a Comiso («Ero anch’io là, quella primavera del 1982, là a Comiso» – proclama con orgoglio – per protestare contro l’installazione di missili Cruise nella base della Nato. Ma l’intervento più solenne per un inviato speciale mandato in prima linea è quello al “maxiprocesso” del 1986: 475 mafiosi in gabbia. «Anch’io, in quel piovoso mattino del 10 febbraio del 1986, ero nella famosa, avveniristica, metafisica aula-bunker», afferma lo scrittore con
l’orgoglio di chi assiste, sono ancora parole sue, «al più grande psicodramma della storia siciliana, della storia nazionale». A cui seguirà purtroppo la tragica sequela di Capaci e di Via Amelio, nel 1992. Di Giovanni Falcone, a cui sono dedicati diversi articoli ed uno straziante necrologio, Consolo ha un ricordo personale: si conoscono ad una cena in casa di amici comuni e lo scrittore non può fare a meno di notare la tragica solitudine di quel commensale taciturno con «quell’aria triste di uomo “con toda su muerte a cuestas”», dice citando Federico García Lorca. Anche Falcone, come Ignacio Sánchez Mejía, era già avviato verso l’irreparabile destino. Consolo traccia la linea genealogica degli scrittori «siciliani e no» militanti: a cominciare dall’archetipo ottocentesco, Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, i primi che denunciarono, nella famosa inchiesta del 1870, l’esistenza della mafia e l’arretratezza della Sicilia. Seguono, più vicino a noi, il già citato Michele Pantaleone che passò dalla scrittura all’azione, raggiungendo il record di quaranta querele mossegli da presunti mafiosi, Danilo Dolci, con i suoi scritti e le sue inchieste e soprattutto Leonardo Sciascia che «come Sherlock Holmes – è il titolo di un articolo del 1994 – scende nei sotterranei del potere di Cosa nostra». Leonardo Sciascia è inevitabilmente per il nostro scrittore una sorta di nume tutelare. Ma anche per «quel grande illustratore dell’Italia di ieri e di sempre» che risponde al nome di Alessandro Manzoni, Consolo dice di nutrire una grande ammirazione. Del tutto diversi i giudizi di Consolo su alcuni prestigiosi scrittori siciliani; quali Luigi Capuana, Giovanni Verga, e soprattutto Giuseppe Tomasi di Lampedusa. All’autore de Il sorriso dell’ignoto marinaio non poteva naturalmente andare a genio l’affresco storico de Il Gattopardo, definito peraltro come un «sentenzioso romanzo» che cerca di occultare con l’enfasi delle famose parole pronunciate da Fabrizio Salina, («Noi fummo i Gattopardi
e i Leoni; quelli che ci sostituiranno […]» eccetera eccetera..), le complicità
dell’aristocrazia siciliana nell’avvento delle iene in futuro odore di mafia. Ma il
«principe di Salina – si legge ne I nostri eroi di Sicilia del 2007 – ignorava o voleva
ignorare che le iene e gli sciacalli, i don Calogero Sedara, erano nati e cresciuti, si
erano ingrassati nelle terre, nei feudi dei suoi pari, dei nobili, mentre loro, i feudatari, se ne stavano nei loro palazzi di Palermo a passare il tempo tra feste e balli. Vogliamo dire che la mafia dei gabellotti, dei soprastanti e dei picciotti, mafia che sfruttava e opprimeva i braccianti, era nata là, nel latifondo, nel feudo, in quel sistema economico che durava da più di mille anni. Tomasi di Lampedusa, l’autore del Gattopardo, ignorava questo?». Sotto la “scrittura di presenza” che cerca di «cambiare il mondo», circolano, nei diversi capitoli di Cosa loro, frammenti dell’altra vena, narrativa, dello scrittore, che il curatore del libro, profondo conoscitore dell’opera di Consolo, individua puntualmente nell’appendice. Il frammento più solido è, a mio avviso, quello relativo ad un episodio che prende forma in un articolo del 1991 per raggiungere poi l’elaborazione definitiva nel racconto «Le lenticchie di Villalba» del 2000 ( La mia isola…) e rientrare successivamente nella “scrittura di presenza” nel 2004 con il titolo significativo di «Prima educazione alla legalità». Nell’articolo apparso su Linea d’ombra nel 1991, troviamo infatti l’embrione del futuro racconto di un episodio che Consolo dice di narrare per la prima volta, «risalente –precisa – a poco meno di cinquant’anni or sono […]». C’è una colpa, confessa ironicamente lo scrittore, da cui intendo liberarmi: «io
sono stato in casa a Villalba, del famoso capomafia don Calogero Vizzini, [non solo] ho avuto in dono, dallo squisito personaggio, un torroncino di sesamo e un buffetto sulla guancia». «Racconto com’è andata», precisa, quasi per avvertire che dalla scrittura militante sta scivolando in quella narrativa della memoria. «Era l’estate del ‘43», così ha inizio l’episodio. Consolo, a quell’epoca aveva dieci anni, viaggiava in camion con il padre, commerciante di cereali, per racimolare generi alimentari che scarseggiavano. A Villalba, in provincia di Caltanisetta, riescono a rifornirsi di derrate tra cui le lenticchie per cui era famosa la cittadina. Dopo aver caricato il camion, stanno per partire ma vengono bloccati da un maresciallo dei carabinieri che proibisce loro di trasportare la merce. Gli consigliano di ricorrere a don Calò che in effetti sblocca la situazione, li fa partire ed in più regala il torroncino al piccolo Vincenzo. Seguendo la cronologia delle lenticchie arriviamo al racconto del 2000 che ha un finale da un punto di vista etico, più pertinente: niente dolci e buffetti sulle guance del bambino e soprattutto c’è il padre che rifiuta la protezione mafiosa di don Calò, fa scaricare il camion e durante il viaggio di ritorno fa notare al figlio che «in questi paesi ci sono persone che comandano più dei marescialli». E lo invita a raccontare l’episodio «in un bel copiato» che Consolo metterà per iscritto quasi sessant’anni dopo. Nell’articolo del 2004, intitolato, come si è appena detto, «Prima educazione alla legalità», l’episodio non può che riconfermare il finale sancito nel racconto del 2000, con una messa a fuoco piu ravvicinata del losco personaggio che il padre definisce senza mezzi termini “capomafia” ed ancora l’invito, quasi un lascito morale al figlio, a raccontarlo a scuola in un “copiato”. Una curiosità lessicale: il ritratto di don Calò attraversa diverse varianti iconografiche: nel 1991 («Mafia e media») è descritto come un «vecchio, imperioso, compassato»; nel 2000 («Le lenticchie…»), è semplicemente «un vecchio con gli occhiali e il bastone» mentre nel 2004 («Prima educazione alla legalità ») viene bollato definitivamente come «un vecchio laido e bavoso». In altre circostanze lo scambio tra scrittura e narrazione (anche di taglio saggistico) procede all’inverso, nel senso che è questa a fornire alla prosa militante, atmosfere, spunti o addirittura interi brani contenuti nei romanzi. Così l’«Invettiva» del 1992 nei giorni successivi all’assassinio di Giovanni Falcone («Adesso odio il paese,
l’isola, odio questa nazione disonorata, il governo criminale, la gentaglia che lo vuole… Odio finanche la lingua che si parla…»), è una citazione – è lo stesso Consolo a confermarlo – del coevo romanzo Nottetempo, casa per casa. Continuando questo rapido inventario, sempre sotto la guida attenta del curatore del volume, troviamo Al di qua dal faro come fonte ispiratrice dell’articolo «Sciascia come Sherlok Holmes nei sotterranei del potere di Cosa nostra». Per quanto riguarda la città di Palermo (in «I fantasmi di Palermo») essa è bersaglio di invettive, «Palermo è fetida» e «Questa città è diventata un campo di battaglia», che provengono rispettivamente da Le pietre di Pantalica e Lo spasimo di Palermo. Attraverso gli articoli di Consolo ripercorriamo quarant’anni di una tragedia nazionale di corruzione e di morti ammazzati che ha il suo apice con l’attentato a Falcone ed a Borsellino: dopo la loro morte, possiamo dire con lo scrittore che «non siamo stati più gli stessi». Ai registri usati da Consolo nei diversi capitoli del suo lungo “copiato”, si deve aggiungere anche quello comico-grottesco in cui agiscono personaggi come Salvatore (Totò) Cuffaro (governatore della regione siciliana), il suo successore, Raffaele Lombardo, e dulcis in fundo Silvio Berlusconi. I primi due sembrano maschere della commedia dell’Arte. A Cuffaro (rinviato a giudizio per «rivelazione di notizie riservate e favoreggiamento» che, sia detto per inciso, approfittò della reclusione per scrivere una tesi di laurea sul sovraffollamento delle carceri) Consolo attribuisce una illustre ascendenza, nientemeno che Sancho Panza: come il personaggio di Cervantes è, afferma lo scrittore, governatore dell’Isola di Baratteria e come lui potrà affermare, alla fine del suo mandato: «nudo son nato e nudo mi ritrovo». L’elemento farsesco è suggerito dalla sua ghiottoneria: nei diversi “cammeo” che gli sono dedicati nel volume, da «Totò il buono» (2004) fino a «Totò se n’è juto» (2008), è raffigurato come un cicciottello in estasi «davanti a una enorme cassata siciliana». Il menù della sua voracità comprende anche altre leccornie come «cannoli, cassate e mammelle di vergine». Anche il suo successore Raffaele Lombardo eredita il debole per la pasticceria ed in effetti, dice Consolo, scivola pure lui «su un vassoio di cannoli» e sull’accusa di concorso in associazione mafiosa. Lombardo inoltre si è fatto portavoce dell’annoso assioma
secondo il quale a parlare della mafia si infanga la Sicilia. E se la prende pure
con chi a suo avviso l’ha denigrata: la lista include persino Omero, per aver rappresentato lo stretto di Messina nelle fogge mostruose di Scilla e Cariddi, poi Garibaldi, Verga, De Roberto, Pirandello, Tomasi di Lampedusa. Si salvano invece Camilleri e curiosamente lo stesso Consolo verso cui Lombardo manifesta una grande ammirazione. Al che lo scrittore in persona prende divertito la parola per esprimere la propria sorpresa: «Ohibò! […] se il Lombardo avesse letto qualche libro di Consolo, se ne sarebbe accorto che razza di denigratore della Sicilia è questo scrittore!». Il cast del grottesco si chiude con Silvio Berlusconi, «l’anziano uomo truccato, quello che secondo Pirandello susciterebbe, come la vecchia signora “goffamente imbellettata”, l’avvertimento del contrario il quale crea a sua volta la comicità». In un contributo ad un libro su don Pino Puglisi, sacerdote assassinato dalla mafia nel 1993, intitolato «La luce di don Puglisi nelle tenebre di Brancaccio», lo scrittore si chiede se la Sicilia e l’intero paese siano, per usare un’espressione di Sciascia, «irredimibili». La risposta è lui stesso a formularla in un intervento successivo in cui si sofferma, a mio avviso, in modo enigmatico sulla soglia della parola “utopia”: «Sì –risponde all’intervistatore che gli chiede un messaggio di speranza – come scrittore, devo dare speranza. E la do, credo la speranza, come gli altri, con la scrittura. Il grande critico letterario russo Michail Bachtin affermava che il romanzo critico nei confronti del contesto storico-sociale è romanzo utopico: vale a dire che esso, narrando il male sociale, fa immaginare il bene, indica la società ideale».
Cuadernos de Filología Italiana
Giovanni Albertocchi
Universitat de Girona
I riflessi letterari dell’Unità d’Italia nella narrativa siciliana
Màster en Iniciació a la Recerca en Humanitats: Història, Art, Filosofia, Llengua i Literatura Universitat de Girona
I riflessi letterari dell’Unità d’Italia nella narrativa siciliana Director professor Giovanni Albertocchi Treball final de recerca de Annunziata Falco febbraio 2009
1 Introduzione Questo lavoro di ricerca si propone di offrire un inventario ragionato, di romanzi e novelle di autori siciliani, da Verga alla Agnello Hornby, diversi tra loro per età, cultura e condizione sociale, per rendere evidente la persistenza della riflessione sull’idea del Risorgimento “tradito”, in romanzi ambientati negli anni che vanno dal 1860 al 1894, dallo sbarco dei Mille di Garibaldi in Sicilia alla repressione violenta dei Fasci. Gli autori prescelti, hanno in comune una esperienza di allontanamento dalla Sicilia, per brevi o lunghi periodi a Roma o a Milano, che coincide spesso con il periodo più creativo sul piano letterario, alla ricerca forse di una integrazione,che non ci fu,con gli ambienti culturali italiani, del “continente”. Comune è in loro l’ attenzione ad un ricostruzione degli avvenimenti attraverso i documenti ma anche attraverso la memoria personale e quella familiare dei fatti, comune è la scelta della narrazione storica, rivitalizzata, dopo l’esperienza risorgimentale, che permette di inserire materiali storici assieme a vicende e personaggi inventati, per ricreare un ambiente, una società, una mentalità, una realtà, come quella del Sud così poco conosciuta, con riferimenti precisi, documentati. Negli scrittori prescelti, appare evidente un’ansia di tornare su avvenimenti, sufficientemente vicini per poter capire e per poter far capire, per raccontare e forse per “educare”un pubblico borghese, un pubblico, che però non sempre accolse favorevolmente delle opere che, spesso, non erano in sintonia con il proprio tempo, troppo polemiche, negative, che registravano l’immobilismo di una società, il fallimento della borghesia, anche nel campo dei sentimenti privati, all’interno della famiglia. La necessità di fare i conti con il nostro recente passato, di capire come sia stata possibile un’Unità politica ed istituzionale che non ha avuto ragione delle differenze(anzi le ha acuite)tra Nord e Sud, è sempre più presente tra gli scrittori contemporanei, siciliani e non solo, e le opere dei grandi autori continuano a “fare scuola”, ad essere un modello di riferimento. L’idea,che è sottesa a questo lavoro, è proprio di presentare materiali che possano essere utilizzati in un successivo lavoro di approfondimento, su temi che emergono dai romanzi prescelti. Oltre le essenziali note biografiche e critiche sugli autori si è ritenuto importante presentare delle note storiche di confronto
Estratto.
Vincenzo Consolo.
Vincenzo Consolo,che ama considerarsi “figlio di Verga, l’inventore linguistico per eccellenza “ inizia a scrivere Il sorriso dell’ignoto marinaio nel 1969, ma lo pubblica solo nel 1976. Il libro viene subito salutato come “ il rovescio progressista del Gattopardo” da contrapporre all’immobilismo di Tomasi di Lampedusa . L’immagine dell’Italia è subito rivoluzionaria, la fidanzata di Interdonato, Catena, ha ricamato su una tovaglia un’Italia con dei vulcani al fondo, che inizialmente sembravano delle arance «Sì,è l’Italia»confermò l’Interdonato. E le quattro arance diventarono i vulcani del Regno delle Due Sicilie,il Vesuvio l’Etna Stromboli e Vulcano. Ed è da qui,vuol significar Catena,da queste bocche di fuoco da secoli compresso,e soprattutto dalla Sicilia che ne contiene tre in poco spazio,che sprizzerà la fiamma della rivoluzione che incendierà tutta l’Italia Si tratta di un vero romanzo politico, pienamente all’interno della linea della narrativa storica siciliana, il cui intento è quello di raccontare l’Italia degli anni Settanta attraverso un romanzo ambientato nel 1860, ai tempi dello sbarco di Garibaldi in Sicilia. Il romanzo è ricco di materiali testuali eterogenei, come testi documentari, citazioni ironiche, che spezzano l’organicità del romanzo storico e con essa la pretesa dell’autore di governarne e spiegarne l’intreccio, insieme alla pretesa di governare la realtà e la storia. Il romanzo nasce mentre Consolo lavora a Milano e, come Verga, prova uno spaesamento iniziale per la nuova realtà urbana e industriale, la lontana Sicilia gli appare una pietra di paragone, un microcosmo nel quelle far riflettere temi e problemi di ordine universale. Il romanzo storico, e in specie il tema risorgimentale,passo obbligato di tutti gli scrittori siciliani,era l’unica forma narrativa possibile per rappresentare metaforicamente il presente,le sue istanze e le sue problematiche culturali(l’intellettuale di fronte alla storia,il valore della scrittura storiografica e letteraria,la “voce” di chi non ha il potere della scrittura,per accennarne solo alcune) . Il sorriso dell’ignoto marinaio, che Consolo considera un omaggio a Morte dell’inquisitore di Sciascia, nasce da tre fattori di base: il fascino esercitato dal quadro di Antonello da Messina Ritratto d’ignoto, che è conservato nel Museo Mandralisca di Cefalù;la rivolta di Alcàra nato nel 1933,Sant’ Agata di Militello, in provincia di Messina in una “isola linguistica” gallo-romanza, abitata da discendenti di popolazioni lombarda,trasferito a Milano dal 1968,dove diventa consulente editoriale 295Milano, P.,Un Gattopardo progressista,«L’Espresso»,4 luglio 1976 Consolo, Vincenzo,Il sorriso dell’ignoto marinaio,Milano:A.Mondadori,2006,p.53 In Lunaria vent’anni dopo,Valencia:Generalitat Valenciana-Universitat de Valencia,p.66 80 Li Fusi, avvenuta nel 1860, e un’inchiesta sui cavatori di pomice, che si ammalano di silicosi, che Consolo conduce per un settimanale. A questi si uniscono il dibattito politico e storico sul tema del “Risorgimento tradito”, sulla continuazione della secolare oppressione sotto una nuova veste, un dibattito che si stava ormai trasformando nella consapevolezza dell’esistenza di un secondo Risorgimento non compiuto e tradito: la Resistenza. I personaggi principali sono il barone Enrico Pirajno di Mandralisca, malacologo e collezionista d’arte, che era stato deputato nel 1848, un uomo che dovrà scendere nel carcere, labirintica chiocciola, per passare da un generico riformismo alla comprensione per le esigenze popolari, e l’avvocato Giovanni Interdonato, integerrimo rivoluzionario giacobino, esule dopo il ’48, impegnato a far da collegamento tra i vari gruppi di esuli e i patrioti dell’isola. I due si incontrano su una nave, nel 1852, dopo che il barone ha ricevuto in dono il Ritratto d’ignoto, attribuito ad Antonello da Messina, che la tradizione popolare chiama dell’Ignoto marinaio Mandralisca riconosce in Interdonato il sorriso ironico,pungente e amaro dell’uomo del dipinto, un sorriso che lo richiama continuamente all’azione politica, “il sorriso dell’intelligenza che si può rivolgere alla storia(e alla storia narrata nel romanzo).” I due personaggi si ritrovano in occasione della rivolta di Alcàra Li Fusi e del successivo processo, il barone prenderà le difese dei contadini insorti, che si sono mossi contro La proprietà,la più grossa,mostruosa,divoratrice lumaca che sempre s’è aggirata strisciando per il mondo e chiederà di aver clemenza a l’Interdonato, che doveva giudicare i rivoltosi, e lui estenderà loro l’amnistia, ritenendo la rivolta un atto politico. Consolo mette al centro del romanzo un aristocratico intellettuale, che riflette e giudica con un certo distacco, che può essere paragonato al principe Salina, ed un giovane rivoluzionario, l’Interdonato, che potrebbe richiamare molto lontanamente la figura di Tancredi, ma il rapporto tra i due personaggi, che era in Lampedusa di contrasto anche generazionale, nel romanzo di Consolo diventa un rapporto dialettico, Interdonato nella seconda parte della storia cercherà di indurre l’altro all’impegno. Negli anni Settanta, oltre alle critiche al mito risorgimentale, vi era stata una riscoperta anche storica dei fatti rivoluzionari, Sciascia, lo ricordiamo,aveva promosso la riedizione del lavoro di Radice sui fatti di Bronte, Vincenzo Consolo dando spazio alle rivolte contadine duramente Fu segretario di Stato per l’interno con Garibaldi,poi Procuratore generale della Corte d’appello di Palermo e Senatore del Regno nel 1865. Roberto Longhi,storico dell’arte,polemizzava con la tradizione popolare perché i quadri era dipinti su commissione e quindi quello raffigurato non poteva che essere che un signore,un ricco. Segre, Cesare, Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino:Einaudi,1991,p.73 Consolo Vincenzo ,Il sorriso dell’ignoto marinaio,Milano:A.Mondadori,2006,p.118 81 represse, quella di Cefalù, del 1856 e quella di Alcàra, del 1860, segnala la differenza tra i moti borghesi di ispirazione carbonara e le sollevazioni contadine, in cui si rivendicava la terra, in cui ci si voleva liberare del peso dei balzelli e dell’usura, e che sfociavano in esplosioni di sangue. Ad Alcàra, dopo la rivolta e l’eccidio, sarà un Interdonato, generale garibaldino cugino dell’altro Giovanni Interdonato, a disarmare e imprigionare i rivoltosi, e sarà il castello di Sant’Agata di Militello, con i suoi sotterranei elicoidali, che li ospiterà. Il castello Immensa chiocciola con la bocca in alto e l’apice in fondo,nel buio e putridume La metafora della chiocciola,come ha notato Segre, attraversa tutto il romanzo e rappresenta l’ingiustizia, i privilegi della cultura, ed acquista una valenza di autocritica nei confronti di Mandralisca che se ne occupa, con amore, nelle sue ricerche. Vincenzo Consolo, rifiutandosi di narrare ciò che era stato già narrato, lascia spazio ai documenti, alle lettere, alle memorie attribuite a personaggi realmente esistiti ma inventate, che hanno il compito di sintetizzare gli avvenimenti, mentre il narratore deve soffermarsi sugli episodi, concedendosi il tempo della riflessione e della descrizione. La struttura del romanzo storico è quindi profondamente modificata, l’impasto linguistico è mirabile, l’effetto non è realistico. Nel 1968 era vivo il dibattito su quello che era il rapporto tra classi sociali e strumenti linguistici, si faceva sempre più evidente che gli oppressi non erano in grado di far sentire la propria voce, Vincenzo Consolo, in questo romanzo, tenta di dare voce a loro, ai braccianti, agli esclusi dalla Storia, che è “ una scrittura continua di privilegiati”, a chi ha visto la propria disperazione deformata da degli scrivani in “istruzioni,dichiarazioni,testimonianze”, la Storia infatti l’hanno scritta i potenti e non gli umili, i vincitori e non i vinti. L’impasto linguistico del romanzo mescola l’italiano sostenuto e barocco, dei primi capitoli, al dialetto siciliano, spesso sommariamente italianizzato, al sanfratellano, il poco noto idioma gallo-romanzo parlato da un brigante recluso, e al napoletano delle guardie o al latino. Mandralisca, poi, usa un siciliano che, con immagine dantesca si può chiamare “illustre” , letterariamente nobilitato e regolarizzato sul latino. In un’intervista Consolo ha affermato Ho voluto creare una lingua che esprimesse una ribellione totale alla storia e ai suoi miti. Ma non è il dialetto. E’ l’immissione nel codice linguistico nazionale di un materiale che non era registrato,è l’innesto di vocaboli che sono stati espulsi e dimenticati306 il suo quindi è “ un lavoro da archeologo”, che riporta alla luce ciò che è sepolto nelle Ibidem,p. Sono di questi anni gli studi di Tullio De Mauro e La lettera ad una professoressa di Don Milani Consolo, Vincenzo,Il sorriso dell’ignoto marinaio,Milano:A.Mondadori,2006,p.112 Lo nota G.Contini La lingua ritrovata :Vincenzo Consolo,a cura di M.Sinibaldi,«Leggere»,2,1988,p.12 82 profondità linguistiche dell’italiano, non è una corruzione dell’italiano, non va “verso il dialettismo di colore”, proprio di autori come Camilleri. Il libro si conclude con il proclama del prodittatore Mordini “agli italiani di Sicilia”, in vista del plebiscito del 21 ottobre del 1860, per l’unificazione. Il barone Mandralisca abbandonerà la sua turris eburnea, brucerà i suoi libri e le sue carte e si darà all’azione, aprirà una biblioteca, un museo e una scuola in modo tale che la prossima volta la storia loro,la storia,la scriveran da sé .