La vicenda biografica, il viaggio, l’esplorazione partono da Sant’Agata, un paese sconosciuto ai più, ai piedi dei Nebrodi e affacciato sul mare Tirreno, con le Eolie a vista [1]. Proprio qui Consolo nasce e trascorre i primi anni della sua vita, così che il luogo produce memoria, lo segna «nella carne, nell’anima», diventa ineludibile traccia di un percorso narrativo[2].
Oltre alle ragioni autobiografiche e
affettive, a favorire la presenza di Sant’Agata nelle mappe di Consolo è anche
la riflessione autoriale sulla posizione geografica del paese che si trova, per
così dire, al confine tra un oriente e un occidente, ovvero «alla
confluenza di due regni, dove si perdono, si sfumano, si ritraggono in una
sommessa risacca le onde lunghe della natura e della storia»[3].
Eppure il toponimo raramente compare nei testi narrativi, anche se i dettagli
geografici consentono di rintracciare nello scenario i tratti dello spazio
reale. Così ne La ferita dell’aprile, di cui già si è detto, o in La
grande vacanza orientale-occidentale, scopertamente autobiografico, dove
già la prima immagine – la vista dei
Nebrodi alti e rigogliosi – e poi la partecipata descrizione della marina,
delle fatiche dei pescatori, del litorale da Cefalù a Capo d’Orlando, delle
galleggianti Eolie, di una spiaggia «pietrosa» a cui
tornare come si trattasse di Itaca, il cenno veloce al Castello e alla Matrice
fanno pensare a Sant’Agata. La grande ricchezza di notazioni affettive e di
riferimenti a percezioni sensoriali testimonia l’esperienza e la memoria.
In Alesia
al tempo di Li Causi addirittura il luogo è mascherato da un
toponimofittizio ma il referente reale dello spazio di invenzione è svelato dal
riferimento al castello dei Gallego e dalla vista delle Eolie all’orizzonte[4].
Nella piazza del paese – anonima – Ciccio, il giovane protagonista del
racconto, «figlio d’un commerciante di alimentari»,
assiste agli eventi della Storia: il comizio di Girolamo Li Causi, le lotte dei
contadini, gli echi della strage di Portella della Ginestra, la propaganda
della Democrazia Cristiana e la vittoria nelle elezioni del 1948. Anche una
“contrada” poco nota può essere toccata dai grandi rivolgimenti storici: può
capitare che un ragazzino li osservi con «la testa tra i ferri della
ringhiera», si chiami Ciccio o Vincenzo. Piazza Vittorio Emanuele,
qui solo accennata e invece descritta in maniera precisissima in La testa
tra i ferri della ringhiera, con chiari riferimenti al castello, ai palazzi
nobiliari, alla bordatura di possenti platani[5],
diventa dunque punto di osservazione privilegiato, la radice di una prospettiva
nuova sul corso delle cose, e l’esperienza dei grandi eventi registrata dai
sensi si fa elemento propulsore fortissimo di un lungo e complesso dialogo tra
la letteratura e la Storia.
Il
sorriso dell’ignoto marinaio deve la sua riuscita anche alla straordinaria
scelta di mappare il castello Gallego di Sant’Agata con le scritte dei
prigionieri di Alcara. Un luogo familiare, uno dei più rappresentativi del
paese natio, si trasforma in elemento narrativo determinante. Lo spazio reale
si traduce in scenario e simbolo: la scala diventa chiocciola, la chiocciola
diventa storia, anzi la Storia, che si avvolge su se stessa e si confonde e
confonde. E anche la rilettura del Risorgimento, attraverso la valorizzazione
di un luogo e di un episodio “senza nome”, trova una sua radice a Sant’Agata,
lì dove si sono riversati i ricchi proprietari terrieri in fuga «dopo
rivolte contadine di Alcàra, d’Alunzio e di Bronte»[6].
Il toponimo
è taciuto anche in L’olivo e l’olivastro, dove sono intimi i dettagli
del ritorno doloroso, ad un paese che resta immobile, uguale a se stesso[7],
mentre la madre si fa evanescente come Euridice e la casa viene distrutta,
spazzata dalle ruspe, sostituita da un palazzo di banche e uffici che nasconde
la vista della spiagge e del mare[8].
La vicenda,
chiaramente autobiografica, diventa emblema della rapinosa speculazione
edilizia capace di travolgere anche ciò che è più caro e genera una traccia
narrativa ne Lo Spasimo di Palermo, traducendosinella
distruzione del giardino palermitano di Martinez, nell’apertura del cantiere e
nella costruzione di una nuova casa tra palazzi e casamenti[9].
[1]«Una
costa diritta, priva di insenature, cale, ai piedi dei Nèbrodi alti, verdi
d’agrumi, grigi d’ulivi. Una spiaggia pietrosa e un mare profondo che a ogni
spirare di vento, maestrale, tramontana o scirocco, ingrossava, violento
muggiva, coi cavalloni sferzava e invadeva la spiaggia» (La
grande vacanza orientale-occidentale, La mia isola è Las Vegas, pp.
163-169, a p. 163).
[2]«Sì,
si può cadere su questo mondo per caso, ma non si nasce in un luogo
impunemente. Non si nasce, intendo, in un luogo senza essere subito segnati,
nella carne, nell’anima da questo stesso luogo. Il quale, con gli anni, con
l’inesorabile, crudele procedere del tempo, si fa per noi sempre più sacro.
[…] Fin dal primo sguardo sul mondo, fin
dai primi bagliori dei ricordi – e sono scene isolate, fotogrammi luminosi
incorniciati dal nero dell’immemorabile – si è impresso, Sant’Agata, dentro di me per
sempre. Hieme et aestate et prope et procul, com’era scritto nella stele
fogazzariana, io porto in me questo punto unico del mondo, questo paese […]
Mi sono ispirato, narrando, a questo mio paese, mi sono allontanato da lui per
narrare altre storie, di altri paesi, di altre forme. Però sempre, in quel poco
che ho scritto, ho fatalmente portato con me i segni incancellabili di questo
luogo», Memorie, prima “Il Valdemone”, I, 1febbraio
1990, pp. 7-9, ora La mia isola è Las Vegas, pp. 134-138 alle pp.
135-138.
[3]Ivi,
p. 137. Sant’Agata assume il ruolo di limen, ago della bilancia tra
un’area dell’isola maggiormente segnata dalla natura e un’altra in cui invece
hanno la meglio la ragione, la storia. Nel luogo delle sue radici, dunque,
Consolo individua la molla della sua aspirazione ad una narrazione che sia «incontro
miracoloso, di ragione e passione, di logica e di magico, di prosa e poesia»
(Ivi, p. 138).
[4]Alesia
al tempo di Li Causi, prima “Il Manifesto”, 19 agosto 2007, ora La mia
isola è Las Vegas, pp. 223-227, a p. 223.
[5]La
testa tra i ferri della ringhiera, La mia isola è Las Vegas, pp.
201-204, alle pp. 201-202.
[6]Alesia
al tempo di Li Causi, La mia isola è Las Vegas, a p. 223.
[9]Lo Spasimo di Palermo, p. 931. Nei dintorni di Sant’Agata è ambientato anche il racconto dell’infanzia di Chino, con indubbio recupero di materiale autobiografico (ad esempio Ivi, p. 981).
Tratto da “Un eccezionale baedeker” (La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo)
II
saggio si propone di esaminare i punti di contatto tra Il sorriso dell’ignoto
marinaio e la novella Libertà (evidentemente presa da Consolo come punto di
riferimento), e al tempo stesso le divergenze nell’impostazione del racconto,
che risalgono ai diversi orientamenti ideologici dei due scrittori nei
confronti della materia, una rivolta contadina. Se in Verga si registra un
atteggiamento fermamente negativo verso la sommossa e le sue atrocità,
temperato solo dalla pietà per i contadini diseredati, in Consolo invece si
nota la volontà di comprenderne le ragioni. Non solo, se in Libertà la
rappresentazione appare scarsamente problematica, a causa dell’atteggiamento
dell’Autore che predetermina rigidamente le reazioni del lettore in un unica
direzione, Consolo conferisce problematicità al racconto grazie all’uso dei
punti di vista e delle voci, giocati abilmente a contrasto.
GLI ANTECEDENTI DELLA SOMMOSSA
Alla base del romanzo di Vincenzo Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976), si colloca una rivolta contadina, quella scoppiata il 17 maggio 1860 in un piccolo paese sui monti Nebrodi, Alcara Li Fusi, provocata come in Libertà,(1) dalle speranze e dalle illusioni nate all’arrivo dei garibaldini in Sicilia. Ma rispetto a Libertà si registra una differenza sorprendente: la sommossa non viene rappresentata. Il romanzo ruota intorno a un vuoto, a una clamorosa ellissi narrativa, che non può non sconcertare il lettore, deludendo le sue attese, specie se si accosta al testo avendo nella memoria quello famoso di Verga. Eppure tutto il congegno narrativo del romanzo, nella sua prima parte, prima di arrivare al momento decisivo, fa supporre che la rappresentazione della rivolta debba essere il culmine del racconto, il suo punto di convergenza centrale, la sua Spannung. Al capitolo terzo, il folle eremita che vive in una grotta sulla montagna incontra nello spiazzo della forgia a Santa Marecùma un gruppo di fabbri e pastori, “omazzi rinomati per potenza di polso e selvaggiume», (2)dai nomi “grottescamente eloquenti di briganti più che di uomini, simili agli antichi epiteti che si davano ai diavoli”
(1) I rimandi alla novella verghiana nel romanzo sono numerosi, pertanto essa, per usare la terminologia genettiana, ne viene a costituire l’ipotesto (GERARD GENETTA. Palinsesti La Letteratura al secondo grado, trad. it.Torino, Einaudi, 1997).
(2) Tutte le citazioni sono tratte dalla seconda edizione del romanzo, Milano, Mondadori, 1997, che reca un’importante Nota dell’autore, vent’anni dopo.
(come
nota finemente Giovanni Tesio nel suo commento), (1) «Caco Scippateste Car-cagnintra Casta
Mita Inferno Mistêrio e Milinciana», intenti a oliare fucili arrugginiti, a
fondere piombo, a riempir cartucce, a ritagliare proiettili, a molare falci,
accette, forconi, zappe, coltelli, forbicioni. La scena è interamente colta
attraverso il punto di vista dell’eremita, che, se a tutta prima crede di
essere capitato all’inferno, pur nella sua esaltazione ha l’intuito pronto e
capisce che vi è qualcosa di strano e sospetto in quell’armeggiare. Le stesse
risposte dei presenti all’ eremita sono ammiccanti e allusive: alla sua domanda
se intendono scannare maiali, rispondono: «- Porci di tutti i tempi, frate Nunzio
– Ce n’è tanti – Tanti – Stigliole salsicce soppressata coste gelatina lardo,
ah, l’abbondanza di quest’anno”; poi all’altra domanda se l’indomani pensano di
fare festa a San Nicola, affermano: «Saltiamo questa volta, frate Nunzio. Non vedete quanto
travaglio? […) Faremo festa per il giovedì che viene – Festa – Festazza […J
– Scendete dall’eremo, frate Nunzio, e vedrete -». Il clima infernale che avvolge
la scena potrebbe far supporre, nell’Autore, l’intento di usare immagini
fortemente connotate e subliminalmente suggestive per mettere in risalto il
carattere demoniaco della rivolta e così condizionare la reazione emotiva e il
giudizio del lettore in una precisa direzione (come avviene in Libertà con la «strega, coi vecchi capelli irti sul
capo, armata soltanto delle unghie», che sta innanzi ai rivoltosi ubriachi di
sangue); in realtà non si ha nulla del genere: al contrario, usare il punto di
vista di un folle delirante, al quale va tutta la responsabilità dell’immagine,
ottiene un effetto straniante, per cui l’adunanza dei futuri rivoltosi che
preparano le loro armi assume un carattere di fervore gioioso, e la
deformazione espressionistica della rappresentazione fa sentire la forza
latente e la rabbia repressa che cova in quei diseredati in vista della
prossima rivolta. Cosi le immagini gastronomiche da loro usate non hanno il
valore delle allusioni verghiane alla ferocia cannibalica della folla affamata,
anch’esse cariche di un pesante giudizio sull’ atrocità delle stragi
dissimulato nella trama segreta del racconto, ma possiedono qualcosa di
pantagruelicamente allegro. Infine le allusioni alla rivolta come festa non
hanno nulla a che vedere con il «carnevale
furibondo di luglio» di Libertà, ma fanno pensare a uno scatenamento
liberatorio di quella forza e di quella rabbia.
Arrivato
sulla piazza del paese, l’eremita vede che la caverna piena di gente rovescia
per la porta aperta uno sfavillio di luce, «come antro di fornace» (un rimando
interno alla forgia di prima), insieme a voci e urla. Da un gruppo che siede
sul sedile di pietra, composto dal lampionaio, dall’usciere comunale,
dall’inserviente del Casino dei galantuomini e dal sagrestano, il frate apprende
il motivo di quella baldoria:
–
Un tizio chiamato Garibardo
–
Chi e ‘sto cristiano?
Brigante. Nemico di Dio e di Sua Maestà
il Re Dioguardi. Sbarca in Sicilia e avviene un quarantotto…
–
Scanna monache e brucia conventi, rapina chiese, preda i galantuomini e
protegge avanzi di galera
–
Questi vanno dicendo che gli da giustizia e terre…
Segno
rapido di croce, mani giunte, capo chino e masticare un sordo paternostro
A
differenza di Verga, che avvia la narrazione della sommossa in medias res,
saltando tutti gli antefatti e partendo con il racconto dei primi atti compiuti
dai rivoltosi, il romanzo di Consolo indugia sugli antefatti, sul come il
diffondersi delle notizie sullo sbarco
VINCENZO CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio, a cura di Giovanni Teso, Torino, Einaudi 1995, p 63, nota 19
di
Garibaldi ecciti gli animi dei diseredati e persino, come si è visto, sulla
preparazione delle armi per i futuri eccidi. L’impostazione sembra voler
insinuare nel lettore l’attesa di ciò che dovrà accadere, la convinzione che la
rivolta sarà allo stesso modo diffusamente rappresentata, quasi a rendere poi
più sconcertante la delusione delle aspettative. Nel passo citato le notizie
dell’arrivo dei garibaldini e delle reazioni da essi provocate sono date
attraverso il punto di vista degli uomini d’ordine, che stanno dalla parte dei
signori e guardano con esecrazione e paura gli avvenimenti. In Libertà il punto
di vista conservatore sul processo risorgimentale è riportato solo mediante un
rapido accenno, l’uso spregiativo del verbo «sciorinarono» riferito al tricolore,
qui invece quel modo malevolo di interpretare l’impresa dei Mille è proposto
con ampiezza, evidentemente per mettere in piena luce una gretta chiusura
dinanzi a ogni avvisaglia di cambiamento sociale che dall’alto si irradia verso
il basso, contagiando anche i satelliti della classe padronale, come questi
modesti paesani che stanno a chiacchierare in piazza.
Quello
che nella novella verghiana era un rapido moto di disappunto dell’Autore
dinanzi alla sordità dei «galantuomini»
ai valori patriottici, qui si fa aperta polemica, ma più contro la chiusura
sociale dei conservatori che quella politica. È chiaro da che parte sta lo
scrittore.
Ancora
al capitolo quinto si ha un’ampia narrazione di un momento preparatorio della
sommossa, il raduno dei rivoltosi sempre nella conca di Santa Marecúma, la sera
precedente il giorno fissato. Giungono tre uomini a cavallo, due «civili» e un capo dei braccianti, che
sono i capi della rivolta e tengono i loro discorsi alla folla. Grazie ad essi
si delineano non solo le motivazioni dell’insurrezione, ma anche le correnti
per cosi dire ‘ideologiche’ che l’attraversano. Mentre in Libertà non emergono
figure di capi e i contadini sono presentati come una massa spinta da impulsi
ciechi e del tutto spontanei, una collettività indifferenziata in cui vi è una
perfetta unità di intenti nella pura esplosione di rabbia selvaggia e di
irrazionale furia distruttiva (tanto che viene escluso dal racconto il dato
storico dell’avvocato Lombardo, l’ideologo e l’organizzatore del moto), qui
Consolo ha cura di presentare le varie tendenze che, almeno nei capi, si
profilano tra la collettività rurale. Don Ignazio Cozzo, borghese e
sommariamente “alletterato”, cioè almeno capace di leggere e scrivere,
rappresenta la tendenza a conciliare le spinte più radicali e le posizioni più moderate:
il fine ultimo è una conciliazione delle istanze di giustizia sociale, rivolte
contro l’oppressione della classe dei proprietari, con il riconoscimento delle
autorità istituzionali, monarchia e Chiesa. Con tutto questo, l’oratore sa
toccare le corde più sensibili dell’uditorio, facendo leva sui suoi impulsi più
violenti, e invita a non farsi fermare da «pietà o codardia», perché grande è la «rabbia«, dopo anni di «sopportazione”, ordinando a ciascuno,
al segnale stabilito, «Viva
l’Italia!«,
di scagliarsi «sopra
il civile che si troverà davanti«.
Poi, sempre come spia del relativo moderatismo di questa tendenza, l’oratore da
appuntamento a tutti, a mezzanotte, per un solenne giuramento sopra il Vangelo,
davanti a un ministro di Dio, il parroco del Rosario.
A
contrastare questa linea insorge l’altro oratore, non un borghese ma il capo
dei braccianti, Turi Malandro, che rappresenta le tendenze più estremistiche
del movimento. Innanzitutto rifiuta il grido di «Viva l’Italia!« come segnale della sommossa,
proponendo invece «Giustizial»:
all’impostazione istituzionale, patriottica, contrappone quella sociale,
eversiva dei rapporti di proprietà, perché giustizia in quel contesto significa sostanzialmente
redistribuzione della terra. Una linea dura e spietata prospetta anche per
l’azione: avverte che sarà facile lo «scanna scanna pressati dalla rabbia», il difficile verrà dopo,
quando «il
sangue, le grida, le lacrime, misericordia, promesse e implorazioni potranno
invigliacchire i fegati più grossi. Non bisogna dunque cedere alla pietà: «Se uno, uno solo si lascia brancare da
pena o da paura, tutta la rivoluzione la manda a farsi fottere». Se in Libertà la
ferocia senza pietà dei rivoltosi era solo effetto di rabbia spontanea e di
odio accumulato contro gli oppressori, qui la violenza non appare cieca, ma
preordinata, teorizzata, ideologizzata, Non si ha una massa irrazionale, ma una
forza organizzata, indirizzata verso obiettivi precisi, consapevole dei propri
strumenti di lotta. In entrambi i casi gli atteggiamenti ideologici degli
Autori verso la massa popolare, le posizioni conservatrici di Verga e quelle di
sinistra di Consolo, non condizionano solo le tecniche narrative della sua
rappresentazione, ma determinano la fisionomia stessa dell’oggetto
rappresentato.
Il
borghese don Ignazio sa muoversi con destrezza in questo dibattito con il suo
contraddittore più estremista: accetta la parola d’ordine «Giustizia!», declassandola però a puro
segnale convenzionale, al pari dell’altra, «Viva l’Italia!», Si allinea sulle
posizioni anticlericali del capo bracciante, proclamando: «Siamo contro il Borbone e i servi suoi,
ma anche contro la chiesa che protegge le angherie e i tiranni», ma distingue
tra i preti «amici
e soci degli usurpatorio e preti liberali come il parroco del Rosario. Insinua
poi ragioni di opportunità, in quanto il prete è parente di un capitano che segue
Garibaldi, e i rivoltosi non possono fare a meno della protezione dei
garibaldini, che sono in grado di legittimare il loro operato agli occhi del
mondo.
Ultimo
preannuncio della sommossa è alla fine del capitolo l’incontro del gruppo di
braccianti e pastori nel paese con un «civile», il professor Ignazio, figlio del notaio don
Bartolo, il più odiato dei notabili, che alloro passaggio getta loro
provocatoriamente in
Faccia
i suoi scherni («Ah,
che puzzo di merda si sente questa sera.»), ai quali fa eco, ripetendo le
stesse parole, il figlio quindicenne. Tutti impugnano i falcetti, le zappe e le
cesoie, pronti alla reazione violenta, ma uno di essi, più padrone di sé, riesce a conte nerne l’impeto,
invitandoli a portare pazienza sino all’indomani. E il gruppo prosegue con i
denti serrati, soffiando forte dal naso «per furia compressa e bile che riversa», È l’ultima
immagine della rabbia che sta per esplodere.
2. L’ELLISSI NARRATIVA
A
questo punto, dopo così ampi indugi preparatori, il lettore si sente
legittimato ad aspettarsi subito dopo il racconto dettagliato della sommossa,
Invece non trova nulla del genere: il capitolo successivo è costituito da una
lunga lettera del barone di Mandralisca, già protagonista del primo, secondo e
quarto capitolo, che per le sue ricerche di naturalista si è trovato sul luogo
degli eventi e mesi dopo, a ottobre, scrive all’amico Giovanni Interdonato,
procuratore dell’Alta Corte di Messina che dovrà giudicare gli insorti scampati
alla fucilazione sommaria, come preambolo a una memoria che intende compilare
sui fatti di Alcara. E evidente allora che il principale problema
interpretativo proposto dal Sorriso dell’ignoto marinaio è capire le ragioni di
questa clamoroSa ellissi narrativa e la sua funzione strutturale nell’economia
dell’opera.
La
lettera del barone è il centro ideale del romanzo, e in essa si possono
rinvenire le ragioni dell’ellissi, del fatto che lo scrittore rinunci
sorprendentemente alla rappresentazione della rivolta popolare, II Mandralisca
vorrebbe narrare i fatti come li avrebbe narrati uno di quei rivoltosi, e non
uno come don Ignazio Cozzo, «che
già apparteneva alla classe de’ civili», ma uno «zappatore analfabeta». In questo
proposito dell’aristocratico intellettuale si può intravedere un’allusione alla
tecnica abituale delle narrazioni verghiane
incentrate sulle «basse
sfere», che consiste proprio nell’adottare una voce narrante al livello stesso
del personaggi popolari (tecnica peraltro solo parzialmente applicata in un
testo come Libertà, par dedicato a una sommossa contadina, poiché per buona parte il narratone terno al
piano del narrato è portavoce dei «galantuomini»).
Ma
il barone, che qui diviene il narratore in prima persona (con un passaggio al racconto
omodiegetico, mentre i capitoli precedenti erano affidati a un narratore
eterodiegetico), scarta decisamente questa possibilità: «Per quanto l’intenzione e il cuore
siano disposti, troppi vizi ci nutriamo dentro, storture, magagne, per nascita,
cultura e per il censo, Ed è impostura mai sempre la scrittura di noi
cosiddetti illuminati, maggiore forse di quella degli ottusi e oscurati da’
privilegi loro e passion di casta». Qui chiaramente il barone è alter ego e
portavoce dell’Autore stesso: se ne può dedurre facilmente che Consolo rinuncia
a narrare la sommossa perché è convinto che una simile operazione, condotta da
lui, intellettuale borghese, viziato nella sua visione dalla sua posizione di
classe, dalle «storture»
che le sono connaturate, sarebbe un «impostura»,
non sarebbe in grado di riprodurre le ragioni che hanno determinato l’evento,
anzi ne tradirebbe inevitabilmente il senso, risolvendosi in una
mistificazione. Il barone rintuzza poi l’obiezione che ci sono le istruttorie,
le dichiarazioni agli atti, le testimonianze: «Chi verga quelle scritte, chi piega
quelle voci e le raggela dentro i codici, le leggi della lingua? Uno scriba, un
trascrittore, un cancelliere»; e anche se esistesse uno strumento meccanico
capace di registrare quelle voci, come il dagherrotipo fissa le immagini, «siffatta operazione sarebbe ancora
ingiusta: poi che noi non possediamo la chiave, il cifrario atto a interpretare
que’ discorsi», e non solo sul piano linguistico: «Oltre la lingua, teniamo noi la
chiave, il cifrario dell’essere e del sentire e risentire di tutta questa
gente?»
Il
discorso del barone passa poi a toccare un altro punto di centrale rilevanza,
strettamente legato al precedente: l’impossibilità per i privilegiati, anche
per quelli «illuminati»,
di condividere i valori fondamentali, soprattutto quelli politici e culturali,
con le classi subalterne. Essi ritengono come unico possibile il loro codice,
il loro modo di essere e di parlare che hanno «eletto a imperio a tutti quanti «Il codice del dritto di proprietà e di
possesso, il codice politico dell’acclamata libertà e unità d’Italia, il codice
dell’eroismo come quello del condottiero Garibaldi e di tutti i suoi seguaci,
il codice della poesia e della scienza, il codice della giustizia e quello
d’un’utopia sublime e lontanissima…». Per questo la classe dominante parla di
rivoluzione, libertà, eguaglianza, democrazia, e riempie di quelle parole
libri, giornali, costituzioni, leggi, perché quei valori li ha già conquistati, li
possiede. Ma le classi subalterne sono estranee a quei valori, non possono
parteciparli: «E
gli altri, che mai hanno raggiunto i dritti più sacri e elementari, la terra e
il pane, la salute e l’amore, la pace, la gioia e l’istruzione, questi dico, e
sono la più parte, perché devono
intender quelle parole a modo nostro?». Quei valori non possono essere
semplicemente calati dall’alto: le classi subalterne devono da sole
conquistarseli, e allora «li
chiameranno con parole nuove, vere per loro, e giocotorza anche per noi, vere
perché i
nomi saranno intieramente riempiti dalle cose»; e allora «la storia loro, la storia, la
scriveran da sé,
non io, non voi, Interdonato, o uno scriba assoldato. tutti per forza di nascita,
per rango o disposizione pronti a vergar su le carte fregi. svolazzi, aeree
spirali, labirinti…* Quindi, per il barone, il riscatto dei subalterni varrà a
riscattare gli stessi privilegiati, ridando verginità e sostanza autentica a
valori che rischiano di ridursi, nelle loro mani, a meri flatus vocis inconsistenti o a vacue ornamentazioni
retoriche. Se gli intellettuali non possono non mistificare la storia degli
oppressi con la loro scrittura, la scrittura autentica di tale storia non potrà
essere che degli oppressi stessi, quando avranno conquistato gli strumenti
concettuali attraverso l’istruzione e l’emancipazione dalla loro subalternità.
Risulta
evidente, da tutte queste riflessioni del barone di Mandralisca, e dietro di
lui dello scrittore, la distanza ideologica che, sul tema comune della
rappresentazione di una rivolta contadina, separa il romanzo di Consolo da
Libertà. Verga, dal suo punto di vista di conservatore deluso e pessimista,
registra con la sua gelida oggettività, che tradisce una desolata amarezza,
l’estraneità dei contadini ai valori risorgimentali, il loro ridurre l’ideale
di libertà alla semplice redistribuzione della proprietà della terra. Consolo
invece, da una prospettiva storica che, grazie alla conoscenza dell’ampio dibattito
intervenuto nel frattempo, ha ben chiari i limiti del Risorgimento, specie nei
suoi riflessi sul Mezzogiorno, e soprattutto considerando la rivolta contadina
da tutt’altra angolatura, quella dell’intellettuale di sinistra, arriva a
comprendere le motivazioni profonde di quella estraneità e a giustificarla
storicamente e socialmente. Non solo, ma in chiave di materialismo storico
attribuisce agli aspetti materiali, cioè proprio alla terra, un peso
determinante rispetto agli ideali astratti. Il barone nel 1856 aveva
partecipato ai moti patriottici di Cefalù, ed ora rievoca le figure degli eroi
e dei martiri che allora avevano dato la vita per la causa: «Io mi dicea allora, prima de’ fatti
orrendi e sanguinosi ch’appena sotto comincerò a narrare, quei d’Alcara
intendo, finito che ho avuto questo preambolo, io mi dicea: è tutto giusto, è santo.
Giusta la morte di Spinuzza, Bentivegna, Pisacane… Eroi, martiri d’un ideale,
d’una fede nobile e ardente». Però
ora, sotto l’impressione sconvolgente della sommossa di Alcara, è assalito da
dubbi: «Oggi
mi dico: cos’è questa fede, quest’ideale? Un’astrattezza, una distrazione, una
vaghezza, un fiore incorporale, un ornamento, un ricciolo di vento.. Una
lumaca.” La lumaca, l’oggetto dei suoi studi eruditi e futili, è assunta dal
barone come immagine del vuoto sterile di una cultura di classe c, nella sua
forma a spirale(1) che si chiude su se stessa, «di tutti i punti morti, i vizi,
l’ossessioni, le manie, le coartazioni, i destini, le putrefazioni, le tombe,
le prigioni… Delle negazioni insomma d’ogni vita, fuga, libertà e fantasia,
d’ogni creazion perenne, senza fine». Per cui alla lumaca contrappone ciò che è
solido e concreto, la terra: «Perché, a guardar sotto, sotto la lumaca
intendo, c’è la terra, vera, materiale, eterna: e questo riporta il suo
pensiero alla rivolta dei contadini: «Ah la terra! È ben per essa che insorsero quei d’Alcàra,
come pure d’altri paesi, Biancavilla, Bronte, giammai per lumache», cioè per
ideali astratti e retorici.
Inoltre,
mentre il pessimismo induce Verga a essere profondamente scettico su una
diversa organizzazione della società, e quindi a convincersi che un’eventuale
redistribuzione della terra porterà comunque allo scatenarsi della lotta per la
vita e a nuovi sopraffattori, scaturiti dalla massa popolare stessa, che si
sostituiranno agli antichi, Consolo per bocca del suo aristocratico illuminato
prospetta come una conquista determinante l’accesso dei contadini alla terra,
nella prospettiva di una distruzione della proprietà privata, «la più grossa, mostruosa, divoratrice
lumaca che sempre s’è aggirata strisciando per il mondo», distruzione che il
barone vagheggia rifacendosi alle idee di Mario Pagano e di Pisacane, citato
testualmente: «Il
frutto del proprio lavoro garantito; tutt’altra proprietà non solo abolita, ma
dalle leggi fulminata come il furto, dovrà essere la chiave del nuovo edifizio
sociale. È ormai tempo di porre ad esecuzione la solenne sentenza che la Natura
ha pronunciato per bocca di Mario Pagano: la distruzione di chi usurpa». Se
Libertà ha alla base la negazione di ogni possibilità di progresso, dalle
Sull’importanza della figura della spirale nel romanzo si veda CESARE SEGRE, La costruzione a chioccola del «Sorriso dell’ignoto marinaio» di Consolo, in IDem, Intrecci di voci La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino. Einaudi, 1991, pp 71-86. Per una complessa interpretazione in chiave antropologica, si rimanda a Giuseppe Traina, Vincenzo Consolo, Fiesole, Cadmo, 2001, pp. 60 sgg
parole
del barone risalta una ferma fiducia nel progresso, in senso sociale, come
riscatto delle masse oppresse ad opera delle masse stesse, capaci di
distruggere il sistema iniquo della proprietà privata avviando a una totale
rigenerazione del mondo: «Per
distruggere questa i contadini d’Alcàra si son mossi, e per una causa vera,
concreta, corporale: la terra: punto profondo, onfalo, tomba e rigenerazione,
morte e vita, inverno e primavera, Ade e Demetra e Kore, che vien portando i
doni in braccio, le spighe in fascio, il dolce melograno…. E, in questo
proiettarsi in un futuro ritenuto possibile, la cui immagine lo esalta, la sua
prosa diviene lirica, enfatica, infarcita di rimandi classici e mitologici,
tradendo la sua natura di letterato: la scelta stilistica dello scrittore, che
mima lo stile del personaggio stesso, vale a denunciare, mediante un processo
di distanziamento e di straniamento, quanto di cultura aristocratica ed
elitaria permanga nel nobile, nonostante la sua apertura ideologica, quindi a
sottrarlo a ogni rigidezza esemplare e apologetica, a presentarlo in una luce
critica (ma su questo dovremo ritornare).
Per
la presa di coscienza dell’impossibilità di narrare i fatti di Alcara, «se non si vuol tradire, creare
l’impostura», al barone «è caduta la penna dalla mano»: rinuncia pertanto
all’idea di stendere quella memoria sullo svolgimento della sommossa che
intendeva sottoporre all’amico Interdonato, procuratore dell’Alta Corte. Si
limita a invitarlo ad agire «non
più per l’Ideale, si bene per una causa vera, concreta», «decidere della vita di uomini ch’
agiron si con violenza, chi può negarlo?, ma spinti da più gravi violenze
daltri, secolari, martiri soprusi angherie inganni. ». Ed in effetti il
procuratore, rispondendo alla sollecitazione dell’amico, manda liberi i
rivoltosi per amnistia, con un’ardita interpretazione di una legge del governo
dittatoriale che assolveva da delitti commessi contro il regno borbonico.
Evidentemente è significativa questa soluzione adottata da Consolo, se
paragonata a quella di Libertà: Verga insiste sul processo in cui i rivoltosi,
giudicati da giudici ostili per pregiudizio di classe, subiscono pesanti
condanne, nel romanzo di Consolo invece essi (a parte quelli fucilati subito da
una commissione speciale, come quelli fatti giustiziare da Bixio nella novella)
non subiscono pene. In entrambi i casi viene rispettata la realtà storica: ma è
importante che Consolo abbia scelto un fatto conclusosi con una soluzione
positiva, grazie all’apertura illuminata di chi rappresenta la giustizia,
mentre Verga abbia optato per un fatto risoltosi negativamente. Lo scrittore di
sinistra punta cioè su un episodio che consente un’apertura verso il futuro la
speranza in un ordine diverso in cui la giustizia non sia solo vendetta di
classe, mentre Verga sceglie un episodio storico che conferma il suo pessimismo
negatore di ogni prospettiva verso il futuro (e che lascia solo un margine alla
pietà per le vittime di una giustizia ingiusta).
Se
rinuncia a narrare l’evento in sé,
il Mandralisca ritiene agevole e lecito parlare solo «de’ fatti seguiti alla rivolta», «in cui i protagonisti, già liberi di
fare e di disfare per più di trenta giorni, eseguir gli espropri e i giustiziamenti
che hanno fatto gridar di raccapriccio, ritornano a subire l’infamia nostra, di
cose e di parole», cioè le fucilazioni sommarie e poi il processo a Messina.
Per cui, come il romanzo rappresenta la preparazione della sommossa, così si
sofferma sul quadro spaventoso del paese devastato da essa: le tombe del
convento dei cappuccini scoperchiate, con i cadaveri sparsi all’aria aperta. la
fontana con le carogne a galla nella vasca, «macelleria di quarti, ventri, polmoni
e di corami sparsi sui pantani e rigagnoli dintorno, non sai di vaccina,
becchi, porci, cani o cristiani», poi nella piazza del paese «orridi morti addimorati» che «rovesciansi dall’uscio del Casino e vi
s’ammucchiano davanti, sulle lastre, uomini fanciulli e anziani. Pesti,
dilacerati, nello sporco di licori secchi, fezze, sughi, chiazze, brandelli, e
nel lezzo di fermenti grassi, d’acidumi, lieviti guasti, ova corrotte e
pecorini sfatti. Sciami e ronzi di mosche, stercorarie e tafani.. Su questo
turpe ammasso si avventano cornacchie, corvi, cani sciolti, maiali a branchi, «briachi di lordura», un «vulturume» «piomba a perpendicolo dall’alto come calasse
dritto dall’empireo», «si
posa sopra i morti putrefatti» affondando il rostro e strappando «da ventre o torace, un tocco», poi «s’ erge, e vola via con frullio
selvaggio», mentre passa una carretta guidata da garibaldini, che costringono
gli astanti i caricarvi i morti per portarli al cimitero. Consolo insiste su
particolari orrorosi e ripugnanti ben più di quanto non faccia Verga, ma mentre
in Libertà lo scrittore soffermandosi sulle atrocità punta a suscitare nel
lettore reazioni emotive di sdegno e raccapriccio con tecniche di suggestione
sotterranea, qui più
che l’orrore in sé è in primo piano chi lo osserva, cioè il barone, con il suo atteggiamento
dinanzi allo spettacolo: vale a dire che i brani descrittivi, come crediamo
risulti chiaramente dalle citazioni, sono in primo luogo esercizi di bravura
stilistica intesi a mimare il particolare idioletto dell’aristocratico
intellettuale. L’orrore insomma è allontanato di un grado, sempre per
presentare il personaggio filtro del racconto in una prospettiva critica, per
equilibrarne l’eccessiva positività ed evitarne un ritratto apologetico,
mostrando attraverso il linguaggio i limiti storici della sua cultura.
Alla
prospettiva del barone, aperta a comprendere con acuta intelligenza politica e
sociale le ragioni della rivolta, è contrapposta subito dopo la prospettiva
contraria di chi conduce la repressione. Viene cioè riportato il discorso che il
colonnello garibaldino, che già con l’inganno aveva indotto i rivoltosi a
deporre le armi per arrestarli, rivolge alla popolazione del paese raccolta in
chiesa, dopo il Te Deum
di ringraziamento per la fine dei disordini. Nelle sue parole i prigionieri incatenati
«non sono omini ma furie bestiali, iene
ch’approfittaron del nome sacro del nostro condottiero Garibaldi, del Re
Vittorio e dell’Italia per compiere stragi, saccheggi e ruberie. lo dichiaro
qui, d’avanti a Dio, que’ ribaldi rei di lesa umanità. E vi do la mia parola di
colonnello che pagheranno le lor tremende colpe que’ scelerati borboniani che
lordaron di sangue il nostro Tricolore. […] L’Italia Una e Libera non tollera
nel suo seno il ribaldume». La registrazione di queste parole, con tutto il
loro livore forcaiolo, che arriva alla mistificazione di bollare come «borboniani» i rivoltosi, ha il compito
di denunciare come i garibaldini non fossero solo i paladini dell’ideale, e
tanto meno i portatori di una palingenesi sociale, come si erano illusi i
contadini, ma semplicemente venissero a imporre un ordine solo esteriormente
nuovo, che in realtà riproduceva in forme diverse l’oppressione di classe
precedente. Un’opposizione così forte tra la prospettiva illuminata
dell’intellettuale e quella reazionaria del militare portavoce degli interessi
del nuovo ordine non può essere priva di significato: occorrerà quindi
riflettere sul gioco di punti di vista congegnato dallo scrittore e cercar di
capire la sua funzione nella struttura del testo. Però prima è necessario
mettere in luce una più ampia opposizione che l’Autore costruisce per chiudere
il romanzo, e che presenta caratteristiche analoghe, suscitando gli stessi
problemi interpretativi.
3. LA SOMMOSSA ATTRAVERSO LE VOCI DEI PROTAGONISTI
Se
il barone rinuncia a descrivere la rivolta per l’impossibilità di narrare come
narrerebbero i contadini senza determinare un tradimento mistificatorio, alle
voci dei rivoltosi viene egualmente dato spazio nel romanzo. Il Mandralisca
infatti, recatosi nel castello dove erano stati rinchiusi i prigionieri,
trascrive le scritte da essi tracciate col carbone sui muri del sotterraneo. È
come il primo passo verso la realizzazione dell’auspicio formulato dal barone,
che i subalterni dovranno scrivere da sé la propria storia.
In
tal modo, attraverso le voci dirette dei protagonisti, emergono momenti fondamentali della sommossa e viene in
qualche modo colmato il vuoto dell’ellissi che ne aveva cancellato la
narrazione
Dalle
scritte affiorano, in forme elementari e sintetiche ma cariche di una forma
dirompente, le ragioni della rivolta, l’odio per i possidenti, la rabbia per i
soprusi e le ruberie ai danni dei diseredati, al tempo stesso, per rapidi ed
essenziali scorci, si profilano gli episodi più atroci, che sono affini a
quelli descritti da Verga, ma invece di essere affidati a un narratore non
neutrale, che indulge su determinati particolari per condizionare sottilmente
il giudizio del lettore, sono lasciati, senza filtri, alle parole secche degli
autori stessi delle efferatezze, al momento di scrivere ancora pienamente sotto
l’impulso dell’odio che allora li aveva mossi. Unica eccezione è la seconda
scritta, che solo all’inizio inveisce contro proprietari, pezzi grossi del
consiglio comunale, parroci e «civili»
che si sono appropriati delle terre del Comune escludendo chi ne aveva diritto,
sia «galantuomini»
sia «poveri
villani»: chi scrive è un «galantuomo»
egli stesso che, pieno di rabbia per essere stato estromesso dalla spartizione,
ha capeggiato la rivolta, ma ora confessa di essersi pentito del processo
devastante a cui aveva dato origine («Aizzai gli alcaresi a ribellarsi / ah male per noi /
nessuno fu più buono / di fermare la furia / dei lupi scatenati), per cui
chiede perdono a tutti. L’immagine dei «lupi» scatenati sembra proprio un intenzionale rimando, da
parte dello scrittore, al lupo «che
capita affamato nella mandra» di Libertà: ma certamente un suono diverso ha la
stessa immagine usata da un narratore portavoce delle classi alte vittime della
rivolta, delegato a esprimere l’esecrazione, il disprezzo e la paura che esse
nutrono per la furia popolare, oppure impiegata da chi è stato dentro la
sommossa e ora prende coscienza delle atrocità commesse, provandone orrore.
La
scritta successiva evoca l’uccisione del nipote del notaio, al presente, come
se chi scrive rivivesse in quel momento l’atto compiuto e ancora ne godesse: «Puzza di merda a noi / la sera di
scesa nel paese / stano turuzzo / nipote del notaro / strascino fora / serro
colle cosce / sforbicio il gargarozzo / notaro saria stato pure lui». Anche qui
si inserisce un’evidente allusione a Libertà: la conclusione della scritta
ripete quasi testualmente l’affermazione nella novella verghiana proferita da
uno della folla dinanzi al figlio del notaio abbattuto con un colpo di scure
dal taglialegna: «Bah!
egli sarebbe stato notaio, anche lui!». Ma proprio il collegamento esplicito fa
risaltare la distanza fra le due impostazioni del racconto. In Verga la
registrazione della frase vale a gettare una luce sinistra sul cinismo disumano
dei rivoltosi, qui invece la stessa frase riflette solo la comprensibile
indignazione dell’oppresso contro gli oppressori e il suo bisogno di giustizia.
Inoltre
in Libertà il ragazzo trucidato è biondo come l’oro, notazione che mira a
conferire alla vittima qualcosa di puro e angelico, e quindi a potenziare il
patetismo del racconto e a suscitare raccapriccio per la barbara uccisione
dell’innocente; nel romanzo di Consolo invece questo ragazzo, nell’episodio a
cui la scritta fa inizialmente riferimento, appare come una figura laida,
ripugnante sia moralmente sia fisicamente: la sera prima della rivolta aveva
schernito provocatoriamente, a imitazione del padre, pastori e fabbri al loro
passaggio in piazza, sostenendo di sentire puzzo di merda, rivelando cosi
l’odioso disprezzo della sua classe di privilegiati per i poveracci, per di più
era descritto «grasso
come ‘na femmina, babbaleo, mammolino, ancora a quindici anni sempre col dito
in bocca, la bava e il moccio», ed era definito spregiativamente «garrusello»,
cioè effeminato. È evidente la volontà di rovesciare l’impostazione verghiana.
Già nell’episodio della vigilia la figura appariva ignobile perché presentata attraverso la prospettiva
dei villani insultati e la loro reazione furibonda, come rivelava il linguaggio
adottato, che mimava quello dei villani stessi; poi nella scritta la
descrizione dello sgozzamento viene subito dopo la rievocazione degli insulti,
a far sentire come l’atto atroce sia scaturito dalla rabbia ancora viva e
cocente per l’affronto subito da parte del rappresentante degli oppressori: per
cui nella rievocazione dell’eccidio non si innesca alcuna reazione emotiva di
commozione e sdegno per l’innocente trucidato, in quanto la vittima non è innocente
per nulla, anzi, si ricava l’impressione che la feroce vendetta sia in qualche
modo giusta.
Le
altre scritte ricalcano sostanzialmente lo stesso schema, evocazione delle
angherie ed efferata punizione. Un’ulteriore eco di Libertà è il giovane Lanza
che cade senza un lamento, con gli occhi sbarrati «che dicono perché», e rimanda al don Antonio di Verga
che cade con la faccia insanguinata chiedendo «Perché Perché mi ammazzate?.
L’ultima
scritta, riportata inizialmente nel dialetto alcarese, afferma che «u populu
“ncazzatu
ri Laccara» e degli altri paesi siciliani ribellatisi «nun lassa supra a facci ri ‘sta
terra/manc’ ‘a simenza ri/ surci e cappedda», e termina nell’antico dialetto di
Sanfratello, di origine lombarda: «mart
a tucc i ricch / u pauvr sclama / au faun di tant abiss / terra pan /
l’originau è daa / la fam sanza fin / di / libirtâá». La parola conclusiva, «libirtãà, sembra ancora un rimando al testo
verghiano, ma se là risultava usurpata dai contadini che la intendevano solo
come appropriazione delle terre, qui la libertà è decisamente identificata con
la terra che dà pane, in coerenza con il discorso fatto in precedenza dal
barone, inteso a rivendicare la base materiale che assicura contenuto reale a
autentico ai valori ideali.
Il
romanzo però non termina qui: dopo la riproduzione delle scritte, vi sono
ancora tre appendici di documenti, di cui uno assume un’importante funzione
strutturale. si tratta di un libello, a firma di tal Luigi Scandurra,
pubblicato a Palermo nel 1860, che contiene una violenta requisitoria contro la
decisione del procuratore di mettere in libertà gli accusati. Qui i fatti di
Alcara sono presentati in una ben diversa luce rispetto alle parole del barone
di Mandralisca e alle scritte sui muri del carcere: i rivoltosi sono definiti «una mano di ribaldi», «un orda di malvaggi [sic], spinti dal
veleno di private inimicizie, e dal desio di rapina» che «assassinò quanti notabili capitò [sic] nelle
sue mani. saccheggiando e rubando le loro sostanze e le pubbliche casse,
Come
si vede la sommossa, dopo essere stata rievocata dall’interno, con le parole
dei protagonisti stessi, viene presentata da un punto di vista opposto, quello
degli uomini d’ordine, ferocemente ostili al moto popolare, di cui forniscono
un quadro deformante, riducendone le cause a motivazioni ignobili di interessi
personali e descrivendo gli oppressori come persone di specchiata virtù e come
innocenti agnelli sacrificali. Però non si direbbe che la registrazione dei due
opposti punti di vista, come già al capitolo settimo la contrapposizione tra la
prospettiva del barone e quella del colonnello garibaldino, risponda a intenti
di equidistanza e neutralità, come avviene in Libertà, dove a tal fine si
alternano il punto di vista dei «galantuomini»
e quello dei rivoltosi. La posizione dello scrittore si offre molto netta. Non
vi è dubbio, come testimonia tutta l’impostazione del romanzo, che egli voglia
presentare in una luce positiva il barone e abbia un atteggiamento estremamente
aperto e disponibile verso la rivolta e le sue ragioni, nonostante ne
sottolinei chiaramente i limiti politici e le atrocità, e che per converso la
riproduzione del libello e dei discorsi dell’ufficiale assuma una forte valenza
critica: i conservatori, attraverso la pura registrazione delle loro parole,
della loro bolsa retorica, del loro lessico pomposo e approssimativo, delle
loro sgrammaticature, denunciano tutto il loro livore forcaiolo e il loro
squallore intellettuale e morale. Ma mentre Verga a dispetto dei propositi di
obiettività punta su immagini e particolari di forte valore connotativo ed
emotivo, che,
suggestionino
nel profondo il lettore condizionandone il giudizio, Consolo al contrario,
proprio con il gioco dei punti di vista, mira a suscitarne non l’emotività ma
la riflessione razionale e la valutazione critica, quindi riesce a preservare
la problematicità della rappresentazione.
L’analisi
e del romanzo di Consolo a confronto della novella di Verga conferma quanto era
facile aspettarsi, conoscendo le rispettive posizioni ideologiche dei due
scrittori: cioè che la trattazione della sommossa contadina è condotta con
tecniche di rappresentazione e assume una peculiare coloritura in rispondenza a
tali posizioni. I rischi insiti nel pessimismo fatalistico di Verga, di
ascendenza conservatrice, non sono stati interamente evitati in Libertà, come
prova la scarsa problematicità della rappresentazione, dovuta all’atteggiamento
autoritario del narratore, che predetermina rigidamente le reazioni del lettore
in un’unica direzione (prima esecrazione per sommossa e poi pietà per gli
autori delle efferatezze divenuti vittime). Ma rischi simmetrici ed equivalenti
erano impliciti nell’ideologia di Consolo: l’impostazione “da sinistra’
poteva dare adito egualmente a rappresentazioni rigidamente univoche e a
procedimenti manipolatori, oppure a soluzioni predicatorie, parenetiche,
pedagogiche, propagandistiche, come testimonia certa narrativa sociale
dell’Ottocento oppure del neorealismo novecentesco.
Ci
sembra di poter concludere che tali rischi sono stati da Consolo evitati:(1) a
ciò ha contribuito proprio la scelta dell’ellissi narrativa, la rinuncia a una
descrizione diretta della sommossa, che sarebbe stata piena di insidie
difficili da evitare; vi ha inoltre cooperato il gioco dei punti di vista, tra
la prospettiva alta dell’aristocratico, aperto alle istanze popolari però ben
consapevole dei rischi di una scrittura che scaturisse dalla cultura dei
privilegiati, la voce diretta dei subalterni affidata alla riproduzione
testuale delle scritte sui muri del carcere, ed ancora la voce dei conservatori
rappresentata dalle tirate reazionarie del principe Maniforti contro la
disonestà e le ruberie dei villani, dal discorso del colonnello garibaldino e
dal libello contro la scarcerazione degli imputati.
(1) Su questo la critica é in genere concorde. Per Romano Luperini «attraverso il linguaggio, Consolo riesce a scrivere un romanzo politico senza invadenza alcuna di ideologia» (Romano Luperini, Il Novecento, Torino, Loescher, 1981, pag.868), tesi ripresa dal critico più di recente: «Lo sforzo polifonico di Consolo […] nasceva da un intento realistico di conoscenza e di giudizio (Toma, Rinnovamento e restaurazione del codice narrativo nell’ultimo trentennio: prelievi testuali da Malerba, Consolo, Volponi, in I tempi del rinnovamento, Atti del Convegno Internazionale Rinnovamento del codice narrativo in Italia dal 1945 al 1992, ( a cura di Serge Vanvolsem. Franco Musarra, Bart Van den Bossche, Roma, Bulzoni, 1995, p. 544), Per Massimo Onofri, in Consolo cultura e politica, letteratura e ideologia possono intersecarsi, senza che per questo la dimensione estetica si neghi a se stessa, risolvendosi in pedagogia sociale ed oratoria. Il critico richiama poi il rifiuto, da parte del protagonista di Nottetempo, casa per casa, Pietro Marano, dei versi di Rapisardi, il quale ricapitola in sé ‘tutti i tratti di una poesia civile e politica per cosi dire ingaggiata, sempre sul punto di travalicare nell’orazione»: Consolo invece è e resta scrittore politico proprio in quanto, nel contempo, elabora una sua implacabile condanna della retorica dell’impegno. […] Ciò significa che la disposizione politica della scrittura di Consolo si gioca prima di tutto sul piano della forma che su quello dei contenuti, «attraverso un’oltranza di stile»; la sua «è una letteratura che, in un’accezione tutt’altro che formalistica, ha fatto della forma una questione di sostanza» (Massimo Onofri, Nel magma Italia: considerazioni su Consolo scrittore politico e sperimentale, in ldem. Il sospetto della realtà, Saggi e paesaggi italiani novecenteschi, Cava de’ Tirreni, Avagliano, 2004, pp. 195-197)
“IL SORRISO DELL’IGNOTO MARINAIO” DI VINCENZO CONSOLO (OSCAR MONDADORI 2002)
Ritratto di Ignoto di Antonello da Messina (1470 circa)
La vicenda unitaria fu un processo complesso e contraddittorio e molti grandi scrittori italiani, ciascuno dalla sua ottica, ciascuno nella sua epoca, hanno raccontato negli anni che seguirono l’Unità d’Italia le speranze e le delusioni di un popolo che ci aveva creduto. Nel filone della letteratura meridionalista (De Roberto, Verga, Pirandello) si inserisce un romanzo, scritto da Vincenzo Consolo e pubblicato per la prima volta nel 1976, che racconta in un modo estremamente innovativo un episodio legato alla vicenda dello sbarco dei mille, rileggendola programmaticamente in funzione del presente. Il romanzo fu pensato in un momento storico in cui la generazione che nel sessantotto aveva sognato il rinnovamento politico e sociale si trovava davanti le tragedie e i disastri dello stragismo e del terrorismo. In quest’ottica scrivere un romanzo storico, annodandolo intorno a un episodio decisivo del Risorgimento, aveva per Consolo un preciso significato. Nel Sorriso dell’ignoto marinaio si ricostruisce la rivolta contadina avvenuta nel villaggio siciliano di Alcara li Fusi, all’indomani dello sbarco dei mille. Simile a quella di Bronte, raccontata da Verga nella novella Libertà, antecedente ad essa ma molto meno conosciuta, a cui il romanzo di Consolo si ricollega esplicitamente (“sconfitti nel loro paese, andavano altrove a continuare la lotta”).
Tutto in questo romanzo concorre a farne una metafora del presente. Il soggetto del quadro di Antonello da Messina, il sorriso dell’ignoto marinaio, è il simbolo di una cultura distaccata dal dolore della Storia. Simbolica è anche la scelta della struttura narrativa disarticolata. Oggi l’uso di costruire romanzi inserendo nel testo documenti autentici o come fa Camilleri – che di Consolo si è spesso dichiarato tributario – documenti inventati ma verosimili che mimano perfettamente lo stile e il linguaggio burocratico (La concessione del telefono, Il nipote del Negus) è abbastanza diffuso. Ma negli anni ’70 quel tipo di struttura narrativa appariva una scelta sperimentale e di rottura rispetto al romanzo storico tradizionale. I documenti d’archivio, da Manzoni in poi, sono alla base del romanzo storico ma nelle intenzioni dell’autore l’alternanza del racconto con inserti documentari (atti processuali, cronache), significava rinunciare volutamente a una forma compatta e armoniosa, per rispondere a due precise esigenze: dare forza di verità storica al romanzo e insieme creare nel lettore un effetto di straniamento per esprimere l’impossibilità di adattarsi alla società a lui contemporanea.Consolo aveva ben presente la polemica suscitata in quegli anni dal film di Florestano Vancini, Bronte: cronaca di un massacro, che per la prima volta ricostruiva l’episodio mostrando come la brutale repressione fosse stata perpetrata dal generale garibaldino Nino Bixio nella consapevolezza che la rivolta avesse il carattere di una rivoluzione proletaria. La critica “reazionaria e conservatrice” tenacemente attaccata alla sacralità dei fatti e delle figure del Risorgimento, bollò allora come un “ridicolo falso storico” il film.
Convinto sostenitore della tesi di Vancini, forte della conoscenza dei 19 volumi degli atti del processo dei condannati di Bronte da cui aveva personalmente tratto più di 700 schede, Consolo scrisse questo romanzo anche nell’intento di suffragare, con riscontri documentari, l’interpretazione data a quegli eventi dal film. Alla scelta di una struttura narrativa diversa da quella tradizionale si ricollega anche quella di rinunciare al narratore onniscente di manzoniana memoria e la verità emerge attraverso una pluralità di punti di vista. Non è un libro facile da leggere, Il sorriso dell’ignoto marinaio, ma è estremamente suggestivo (e siccome non è lungo, appena 171 pagine, vale la pena tentarci). Il lettore è indotto a scoprire la verità in maniera alogica, attraverso l’intuizione. Più che un romanzo è un’opera poetica. La strage dei contadini non è raccontata ma ne vengono descritti gli effetti devastanti attraverso l’inserzione delle didascalie delle acqueforti di Goya, I Disastri della guerra, segnalate nel testo dal corsivo. Carrettata per il cimitero (pg. 132) richiama alla mente il celebre episodio manzoniano del Lazzaretto, facendo scattare una straniante identificazione demolitoria tra i monatti in divisa rossa e i garibaldini.
E poi c’è l’uso della lingua, un vero e proprio impasto linguistico al servizio di un messaggio di polemica sociale. La lingua nazionale è per Consolo la lingua del Potere, è la lingua scritta dei documenti ufficiali che condannano a morte i contadini rivoltosi di Alcara Li Fusi. Questi ultimi, invece, parlano in dialetto. Più precisamente, in una variante minoritaria solo parlata, a sottolineare la marginalità degli umili e la negazione della memoria: il punto di vista dei contadini “traditi da Garibaldi” non lascerà traccia negli archivi ufficiali. Per Consolo la lingua nazionale era, nel momento in cui scriveva, uno strumento di colonizzazione. Rifiutarla assumeva il valore simbolico di contestazione della politica di integrazione nord-sud, portata avanti dalla democrazia cristiana in quegli anni. C’è però da domandarsi: se Consolo avesse scritto oggi quello stesso romanzo storico come metafora del presente, avrebbe utilizzato ancora la contrapposizione lingua nazionale-dialetti come simbolo di resistenza alla politica del Potere attuale? Ridotta com’è a pura esaltazione dell’elemento locale, strumento di divisione tra i cittadini italiani e di respingimento dei popoli altri da noi?
La notte del 15 gennaio 1969, un anno dopo il terremoto della Valle del Belice, mi trovai a Gibellina, tra le baracche dei superstiti di Gibellina, il paese più distrutto, di cui non rimaneva che un manto di macerie. Mi trovai con tanti altri, contadini di Santa Margherita, Montevago, Salaparuta, Santa Ninfa, e scrittori, pittori, scienziati, sociologi, sacerdoti, giornalisti, lì riuniti per un convegno, un pellegrinaggio in memoria e per appello, allo Stato e al mondo, che da lì, dal Belice, in nome dell’umanità, dei doveri dell’umanità, non bisognava distogliere lo sguardo, che alle popolazioni del Belice si doveva rispetto, solidarietà e aiuto. Vano monito e vano appello, che, poi, le cronache hanno dovuto puntualmente registrare l’ennesimo insulto a quella gente, non solo dimenticandola, ma miserevolmente tradendola con il solito sporco gioco delle corruzioni e dei furti.
Ma quella notte, tra le baracche di Gibellina, sotto un cielo invernale terso e stellato, tutti quei contadini lí convenuti, le donne, le vecchie e i bambini, con negli occhi ancora paura e dolore per i morti, guardavano i «forestieri» lí giunti per loro con l’antica diffidenza ma anche con malcelata gratitudine e speranza.
L’assembramento sulla spianata delle baracche si compose poi in un corteo, un lungo corteo luminoso come un fiume di fuoco per la fiaccola che ciascuno aveva acceso e reggeva in una mano, che si mosse e cominciò a salire sul colle di Gibellina. Fu lì, tra le macerie rese più sinistre e spettrali dal barbaglio delle fiaccole e dai fasci di luce dei proiettori che sciabolavano nel cielo, che vidi, alto sopra un rocchio di colonna abbattuta, Carlo Levi. Parlava a un gruppo di contadini che attorno a lui si erano disposti, e altri se ne avvicinavano e man mano il gruppo cresceva. Non sentivo le parole di Levi, ma vedevo i suoi gesti calmi e fraterni, il suo viso chiaro dall’espressione confortante, vedevo l’attenzione e la partecipazione dei contadini alle sue parole. E mi sovvennero in quel momento, come concentrate in un’unica parola, le pagine del Cristo si è fermato a Eboli, le pagine di Le parole sono pietre e tutte le pagine da lui scritte sul mondo contadino. Concentrate in quest’unica parola: amore. Questo è la forza e la poesia delle pagine di Levi: l’amore per tutto quanto è umano, acutamente umano, vale a dire debole e doloroso, vale a dire nobile. Da qui quella sua straordinaria capacità di guardare, leggere e capire la realtà, capacità di leggere la realtà contadina meridionale, di comunicare con essa. Da questo suo amore poi, l’ironia e l’invettiva contro il disumano, contro i responsabili dei mali, e la risolutezza nel ristabilire il senso della verità e della giustizia.
Le parole sono pietre – mai titolo di libro fu più felicemente duro e capace di colpire – è il frutto di un viaggio in Sicilia in tre tempi: nel 1951, nel 1952 e nel 1955, anno, questo stesso, in cui fu pubblicato per la prima volta il libro. Viaggio e non soggiorno, com’era stato per la Lucania. E proprio perché frutto di viaggio, Le parole sono pietre, al contrario del Cristo si è fermato a Eboli, ha dentro come un ritmo urgente, una tensione e quasi una febbre dello sguardo e dell’intelligenza nel cogliere voracemente la realtà e subito restituirla nella sua purezza e nel suo significato più vero.
Ultimo, allora, di una lunghissima e illustrissima schiera di viaggiatori in Sicilia, viaggiatori che spesso, in questa terra antica e composita, enormemente stratificata, sono stati ingannati e fuorviati da superfici arditamente colorate o da monumentalità incombenti, fino a giungere qualche volta allo smarrimento (come successe a quel povero inglese di nome Newman, divenuto poi cardinale, che dalla Sicilia scappò confuso e febbricitante), ultimo, dicevo, Levi, non ha distrazioni e incertezze.
Il 1951 non era, tanto per non cambiare, un anno particolarmente felice per l’Italia e ancor più per il Meridione e la Sicilia. Era un anno uguale o esattamente speculare a quello di cinquant’anni prima, al 1900. All’inizio di questo secolo, in Sicilia, dopo le ferite aperte dalle repressioni statali ai moti dei contadini e degli operai delle miniere di zolfo, era cominciata, col governo Giolitti, una terribile crisi agraria seguita da una grave crisi economica che aveva obbligato le masse diseredate e angariate dai creditori a salire sui bastimenti e salpare per l’America. Fu, quello, il primo grande esodo, la prima grande emigrazione. Mezzo secolo dopo, uscita, la Sicilia contadina, stremata dal fascismo e dalla guerra, ma accesa nella speranza di poter finalmente intervenire nella storia, di poter cambiare, essa, il corso della storia, subisce ancora la repressione e il sangue, da parte dello Stato, da parte delle eterne, oscure e prepotenti forze che da sempre l’hanno tenuta in soggezione: gli agrari e la mafia. Questi, nel 1947, armano la mano di un bandito, Giuliano, e lo fanno sparare contro contadini inermi che a Portella della Ginestra festeggiano il 1o maggio. Le elezioni nazionali del 1948 poi – sulle quali influirono pesantemente gli Stati Uniti e la Chiesa, per scongiurare, dissero, «il pericolo comunista» – e il conseguente governo centrista di De Gasperi, avevano vanificato i risultati e le speranze delle prime elezioni regionali siciliane, dell’aprile del ’47, in cui le forze popolari avevano ottenuto una grande affermazione. E nel 1951, ancora sotto un nuovo governo De Gasperi, nonostante gli aiuti americani del piano Marshall e nonostante l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, il divario fra le due Italie, quella del Nord e quella del Sud, si allargò sempre più. Nei primi anni cinquanta comincia così il secondo grande esodo delle masse contadine meridionali verso l’Italia settentrionale, verso il centro Europa, verso l’America, di nuovo verso quella mitica America nella quale erano approdati altri emigranti cinquant’anni prima.
Tra questi emigrati in America dell’inizio del secolo, vi fu un calzolaio siciliano, con moglie e sei figli. Uno di questi figli, Vincent, Vincent Impellitteri, cresciuto negli Stati Uniti, un giorno diventa sindaco di New York. Nel 1951, a distanza di mezzo secolo, questo primo cittadino della «più grande città del mondo» ritorna, quasi come una divinità, per una breve visita, al suo paese natale: Isnello, un paesino desolato sopra le Madonie, 600 metri d’altitudine, 4000 abitanti.
Carlo Levi segue Impellitteri in questa giornata di commozione e di trionfo a Isnello, guarda tutto, ascolta, annota, e ci fa subito capire, con la sua lieve ironia, che dietro la bella favola, dietro la mitologia dell’uomo di umili origini che può diventare importante in una nazione, come quella americana, «dove c’è libertà e uguaglianza», una ben altra realtà si nasconde. Quella per esempio del feroce gioco politico in una città come New York, gioco per cui un «estraneo» come Impellitteri può diventare sindaco solo con l’appoggio dell’Italian American Labor Council, il potentissimo consiglio del lavoro del settore dell’abbigliamento che vanta legami con la mafia. Ci fa capire che, contro il successo «pulito» di un Impellitteri o contro il successo sporco di un gangster come Lucky Luciano, ci sono stati Sacco e Vanzetti, c’è una massa enorme di immigrati che lavora e sgobba e non si arricchisce, non ha successo, resta povera. Che non ci sono Eldoradi, non ci sono nazioni innocenti, non esistono l’azzardo e la fortuna. Esistono i diritti e la giustizia: quelli bisogna far rispettare, questa reclamare. Se non l’hanno capito i contadini di Isnello, frastornati dalla Pontiac, dai discorsi reboanti delle autorità e dall’invasione dei petulanti giornalisti americani, lo hanno capito gli zolfatari di Lercara Friddi.
È qui che a Levi si apre l’antico mondo siciliano delle zolfare. Di cui bisognerebbe conoscere la storia: dei carusi ceduti dalle famiglie ai picconieri che su questi lavoratori bambini hanno ogni potere (ma il potere sommo, e sui picconieri e sui carusi, è esercitato dal proprietario, dal gabellotto, dal sorvegliante); del lavoro disumano dentro quelle fosse dantesche, delle esplosioni frequenti e dei crolli che vi avvenivano e delle vittime che dentro rimanevano sepolte; e la storia, anche, delle ribellioni e degli scioperi degli zolfatari, come quelli del 1893, che Pirandello raccontò nel suo romanzo I vecchi e i giovani.
A Lercara, dunque, nonostante la chiusura politica che sull’Isola e la Penisola in quegli anni si andava effettuando, nonostante la crudeltà, l’arroganza e la mafiosa sicurezza del proprietario della miniera Ferrara, detto Nerone, gli zolfatari, col loro primo sciopero che dura ormai da un mese, hanno appena acquistato una nuova coscienza, sono appena entrati «nel mobile fiume della storia». La causa di questo miracolo era dovuta al sacrificio di un ragazzo di diciassette anni, Michele Felice, morto schiacciato da un masso dentro la miniera. «Alla busta-paga del morto venne tolta una parte del salario, perché, per morire, non aveva finito la sua giornata»: «Il senso antico della giustizia fu toccato, la disperazione secolare trovò, in quel fatto, un simbolo visibile, e lo sciopero cominciò». Con poche parole secche Levi ci racconta un fatto tragico ed enorme. Trovato ora, qui a Lercara Friddi, il filo, lo scopo del viaggio, e del libro – la nuova coscienza e l’ingresso nella storia del mondo contadino siciliano – Levi corre su una precisa direzione. Non potendo però fare a meno di indugiare su quanto ancora in Sicilia ristagna e imputridisce, su quanto di violento investe, di penoso sgomenta, di dolce sfiora, di storico di mitico di poetico torna alla memoria. Ed è Palermo, la fastosa e miserabile Palermo, con i suoi palazzi nobiliari che imitano le regge dei Borboni tra i «cortili» di tracoma e di tisi, con le ville-alberghi in stile moresco-liberty di imprenditori come i Florio che s’alzavano sopra i tetti dei tuguri; la Palermo dalle strade brulicanti d’umanità come quelle di Nuova Delhi o del Cairo e dei sotterranei dei conventi affollati di morti imbalsamati, bloccati in gesti e ghigni come al passaggio di quello scheletro a cavallo e armato di falce che si vede nell’affresco chiamato Trionfo della morte del museo Abatellis. È la nera Catania di lava, l’azzurro-nera Aci Trezza di Verga, la Segesta d’oro o la bianca Erice di Venere; è Partinico con le buie case dei pazzi del quartiere Spine Sante, dove si muove Danilo Dolci, incomodo accusatore di mali e suscitatore di speranze; è Montelepre, con le sue aspre e orride montagne, teatro di imprese banditesche.
Ma vediamo, con Levi, Bronte e la ducea di Nelson.
Questo feudo, ottenuto dal cinico ammiraglio inglese per aver versato il sangue dei giacobini rivoluzionari napoletani (egli personalmente impiccò all’albero della sua nave l’ammiraglio Caracciolo), fu sempre difeso dai suoi discendenti con la repressione e il sangue. Come nel 1860, quando, per ordine di Bixio, vengono fucilati cinque rivoltosi, fra cui un povero, innocente pazzo. E questa resta una delle pagine più nere della cosiddetta epopea garibaldina. Ora, in questo 1955, dopo quasi un secolo da quell’impresa, i braccianti e i contadini che lavorano la terra della ducea sono ancora lì, nei tuguri, nei vicoli e nei cortili fetidi e malarici dagli ironici nomi di fiori, di muse e di poeti, che suonano come «ingiuria», insulto per loro. Sono lì, e i discendenti di Nelson, tramite il braccio forte e la furbizia dei loro amministratori e campieri, difendono ancora il feudo dalla legge di riforma agraria ingannando e derubando i contadini.
Ma la disperazione dei contadini di Bronte, come la disperazione di tutta quella Sicilia che ha sofferto per i morti e le ingiustizie, trova riscatto e senso nella forza, nella lucida consapevolezza, nella ferma determinazione di entrare nella storia, di restare nella storia, di una donna: Francesca Serio, la madre del sindacalista Salvatore Carnevale, ucciso dalla mafia.
Anche qui, come a Lercara Friddi con la morte del ragazzo Michele Felice, «il senso antico della giustizia fu toccato» e Francesca Serio, ferita nelle viscere sue antiche di madre mediterranea, invece di ripiegarsi nella tragica disperazione che annienta, trasferisce la sua furia nella ragione: l’urlo oscuro e il pianto si articolano in parole, le parole – quelle parole che diventano pietre – in un processo verbale, il processo verbale in racconto, essenziale, definitivo; e il suo linguaggio, rivendicativo, accusatorio, giuridico, partitico, tecnico, diventa un linguaggio storico, un «linguaggio eroico».
A Sciara, Levi ha trovato, sul filo sottile che inseguiva della nuova coscienza contadina, il punto più vero e più alto della realtà siciliana di quegli anni. E più vero e più alto si fa allora il tono del libro: le pagine su Francesca Serio sono indimenticabili, sono pagine di commozione rattenuta dal pudore, pagine di parole scarne e risonanti, pagine di poesia.
Sono passati più di cinquant’anni dalla prima pubblicazione di questo libro. In questo mezzo secolo la realtà siciliana si è trasformata, e non nel senso indicato da Francesca Serio e nel senso sperato da Carlo Levi, in quello cioè del progredire della storia verso la giustizia e la serenità per tutti. I braccianti e i contadini di Bronte sono emigrati in Germania, la ducea di Nelson è stata venduta alla Regione siciliana per un buon numero di miliardi; le miniere di zolfo di Lercara Friddi e tutte le altre miniere siciliane sono state chiuse perché improduttive: restano lì, gialle sotto la luna, come cavi monumenti di antiche morti e antiche sofferenze.
Di Francesca Serio, vecchia di oltre settant’anni, si sono avute le ultime notizie molti anni fa dalle colonne di un quotidiano dell’Isola. Si ricordava, su quel giornale, che venti anni prima, al processo di Palermo contro i mafiosi assassini di Salvatore Carnevale, l’avvocato di parte civile era Sandro Pertini. E su quel giornale era fotografata lei, com’era allora, alta e sottile, nobile nei lineamenti del volto incorniciato dallo scialle nero, che si appoggiava al braccio di Pertini. Diceva, sul giornale, di colui che sarebbe diventato presidente della Repubblica: «È un uomo giusto, un uomo giusto». I giusti, la giustizia: erano ancora le sue uniche certezze.
VINCENZO CONSOLO
Gennaio 2010
[…] – Da bambino mi mangiavo i ricci interi, con la scorza e le spine e il guscio, tanta era la fame: perché la nostra bocca è un mulino; e anche i fichi d’India mi mangiavo con la buccia e non mi facevano male, tanta era la fame; perché il nostro stomaco è un calderone e sotto la gola c’è una vampa che brucia ogni cosa, – mi diceva lo scoparo dell’Aspra aprendo per me dei ricci di mare che era stato a pescarmi sulle rocce di quella costa fra Bagheria e Capo Zafferano, sotto le rovine dell’antica città di Solunto, che è forse il luogo più bello dove un corpo umano possa stendersi al sole. Rocce scoscese terminano in mare con una specie di cornice o di piedistallo di pietra appena sopra il livello dell’onda, che, gonfiandosi dolce, la ricopre a tratti; e questa cornice piena di alghe e di conchiglie e di madrepore e di animali marini, dove si può passeggiare protetti alla vista dalle rocce strapiombanti e scavate sotto all’acqua in mille invisibili anfratti, è forata qua e là da larghe buche rotonde o in forma di cuore, come dei piccoli laghi o delle vasche naturali tappezzate di alghe tenere e piene di un’acqua appena mossa. Qui, in questi cuori marini, ci si può adagiare, mentre dai fori della roccia sale in spruzzi e in getti subitanei, con un gorgoglio sotterraneo, una doccia improvvisa, e, avvolti teneramente dal mare, rimanere a lungo senza pensieri, con null’altro davanti che un impenetrabile azzurro.
La capanna dello scoparo sta in alto sopra le rocce, ci si sdraia per asciugarsi, come su un morbido letto, su mucchi di giunchi, mentre egli li intreccia a triplici scope di palma che sembrano cimieri di Paladini o di guerrieri selvaggi, con tre criniere, e costano settanta lire. Questo luogo paradisiaco mi era stato indicato dalla duchessa di S., madre di una mia amica, che, avendo saputo del mio passaggio per Bagheria, mi aveva fatto pregare di salire nella sua villa perché voleva assolutamente conoscermi, e io, che avevo trovato chiusa la bottega dei carri dei fratelli Ducati (provvisoriamente chiusa perché il lavoro scarseggia anche per questi che sono i migliori pittori della costa, perché i carri calano di numero di mese in mese, sostituiti, a poco a poco, dai camion), ero salito alla villa, meravigliosa di architettura e di giardini alti sul paese davanti al mare, dove stava svolgendosi il banchetto di nozze di una delle cameriere, con volo di uccelli dalla torta nuziale, e ballo, e un pranzo fatto, secondo l’uso, di un solo piatto di pasta al forno con ragú di carne, seguito immediatamente dai confetti, dalle torte, dai croccantini, dai bigné, dai desserts colorati, dagli amaretti, dagli africanelli, dai pavesini, dagli svizzeri e da una sterminata quantità di spumoni, di cassate, di bombe Etiopia, di Moka, di nocciole Chantilly e di fragole imbottite. La duchessa troneggiava con bonaria autorità in mezzo alla festa; mi portò a visitare la villa piena di bizzarre statue dello Ximenes, ricordo di ottocentesche esposizioni internazionali, mi mostrò la sua stanza, dove vive lontana dal mondo, che, mi disse, ella odia. Una antica beltà per cui credo abbiano battuto molti cuori, e se ne vede ancora sul suo viso il chiaro ricordo; piena di energia vitale e di bizzarra violenza. Con questa energia e violenza mi assalí di domande. Da quanto tempo, mi disse, voleva sapere se io ero meglio o peggio dei miei libri; e io dovetti sottopormi, non so con quale risultato, al confronto e all’esame, che non lasciò da parte nessun punto e si volse alla letteratura, alla pittura, e perfino all’amore, e a Dio. Come resistere a quella scatenata forza della natura? Mi fece promettere che, in bene o in male, in tutti i modi, avrei scritto sinceramente qualche cosa di lei: e io, troppo brevemente, mantengo la promessa. Prima che mi congedassi ci raggiunse un giovane principe, suo amico o parente non so, che raccontò inaudite stravaganze e follie di spettacolosi membri della sua famiglia: personaggi morti da poco, con stature e barbe imponenti, pieni di disprezzo feudale, di manie smisurate, di proterva e folle vitalità. Avventure, scherzi, mistificazioni, travestimenti, pieni tutti di un grano di genio e di pazzia, e del senso della vita come di un teatro illimitato. Il discorso a un certo punto cadde su Sciara, dove egli aveva passato lunghi periodi della sua infanzia nel castello di una sua parente, la principessa Notarbartolo. Gli dissi della mia intenzione di andarci, e dell’uccisione del capolega. Non ne sapeva nulla di preciso, gli pareva vagamente di averne sentito parlare: doveva essere un violento, un esaltato… – Sciara, – mi disse, – è un paese ricco, c’è lavoro, bestiame, non ci sono poveri, ci si fanno delle cacce meravigliose, le campagne sono piene di quaglie. Da ragazzo stavo su al Castello, li conosco tutti quelli di Sciara, si saliva a caccia sul monte San Calogero, si prendevano le quaglie, una volta abbiamo ammazzato un’aquila reale.
Cosí oggi ero sulla strada per Sciara con Alfio e la sua Appia, e rifacevo ancora una volta, dopo quattro anni, la via della costa, nel grande sole di luglio. Passato Porticello e Casteldaccia, e Altavilla Milicia, bianca sulla collina, e San Nicolò, ci dovemmo fermare a lungo al passaggio a livello di Trabia, sempre chiuso per i lavori del doppio binario e per le manovre dei treni. Un bambino venne a offrirci un cestino di fragole freschissime. Si discusse sul prezzo, e Alfio, abituato a vedere quel ragazzo, in quel suo commercio che profittava della fermata obbligatoria al passaggio a livello, gli chiese, cosí a caso per farlo parlare, come era andata la lite coi suoi rivali. La lite immaginaria c’era stata davvero e il bambino l’aveva risolta a suo vantaggio applicando spontaneamente la regola della forza e del prestigio che regge tutto il paese. – Mi sono preso un socio, – disse. – Quell’altro, che voleva vendere le fragole qui dove spetta a me, era piú grande, ma adesso che siamo in due comandiamo noi e non ci viene piú.
Dopo Trabia e Termini Imerese, è la stessa strada di Isnello, fino a un bivio sulla destra. Qui si lascia la costa e si sale per una strada sbrecciata, polverosa e piena di buche, verso l’interno. Subito l’aspetto del paese cambia, si apre una grande valle di monti nudi, compare, lontana sul monte di faccia, Cerda, grigia nelle nude distese dei campi, con quel colore di terra e di stoppie, di silenzio e di antica malaria che accompagna come una nota continua e patetica la fatica contadina. A destra si leva altissimo il monte San Calogero, isolato e torreggiante, avvolto di nubi verso la cima. Dal suo interno scendono al mare le calde acque termali. Sotto la Sicilia, si racconta, sta sdraiato in eterno un Ciclope, là schiacciato sotto quel peso, per vendetta degli Dèi. La sua bocca è sotto l’Etna e lancia fiamme di lava, le sue spalle a Siracusa e allo Stretto, i suoi piedi sotto il monte di Erice, e, sotto il San Calogero, i suoi reni stillanti in eterno quelle acque benefiche.
Si sale a giravolte, tra i campi di stoppie del feudo. Passiamo in un uliveto di grandi alberi centenari, contorti, grigi e argentei sul giallo delle stoppie. È un uliveto della principessa, come tutte le terre circostanti. – Qui, – dice Alfio, – per queste olive, cominciò la prima azione di Salvatore Carnevale. Per queste olive e per questo grano. Quando lo hanno ammazzato, il grano era alto –. Ora, il grano era stato mietuto; qua e là, lontano, sulle distese del feudo, sorgevano i pagliai, come torri quadrate, e l’ombra grigia dei grandi olivi si stendeva sulla terra.
– Salvatore Carnevale io l’ho conosciuto, l’ho visto molte volte quando era vivo, qui a Sciara, e nelle riunioni contadine. Aveva trentadue anni, alto, bruno, scuro di pelle, nero di occhi e di capelli, pieno di fuoco e di energia, anche buon oratore era, deciso, violento, estremo, ma insieme molto equilibrato e con una visione precisa e semplice delle cose. Era uno dei migliori, un vero capo contadino. Era il solo di quella qualità qui a Sciara, e gli altri lo hanno capito benissimo. Fu lui a fondare la sezione socialista di Sciara, nel ’51, e a mettere in piedi la Camera del lavoro. A Sciara non c’era mai stato nulla, nessun partito, nessuna organizzazione per i contadini, niente mai. Era un paese feudale, lo vedrai. Fermo nelle stesse condizioni da chissà quanti secoli, terra di feudo, con la principessa, i soprastanti, i campieri; e i braccianti che non sapevano neanche di esistere, immobili da secoli. È un paese poverissimo, naturalmente (ti diranno che non è vero) in mano alla mafia. Non è un grosso centro di mafia come Caccamo, Termini, o Trabia o Cerda che le stanno tutto attorno, perché è poco piú di un villaggio. Ma quei pochi mafiosi sono i padroni e fanno la legge. È la condizione elementare dei paesi del feudo. Carnevale fu il primo, e mosse ogni cosa con l’esempio e il coraggio. Perché aveva una mente chiara, e capí che non si può venire a patti, che i contadini dovevano muoversi con le loro forze, che il contadino per vivere deve rompere con la vecchia struttura feudale, non può fare le cose a mezzo, non può accettare neppure il minimo compromesso. Capí che l’intransigenza è, prima che un dovere morale, una necessità di vita, e che il primo passo è l’organizzazione, e che ci si può fondare e appoggiare soltanto sulle organizzazioni che non hanno nulla a che fare con il potere. Per questo poteva apparire talvolta eccessivo, estremista. Aveva capito che in queste condizioni primitive e tese, di fronte a un potere organizzato e ramificato che arriva dappertutto, che controlla tutto con la sua legge, l’essenziale è non lasciarsi sedurre, né corrompere; né accettare mai, come cosa reale, la paura, l’omertà, la legge del terrore. L’ha pagato con la vita. Ma il paese è cambiato, lo vedrai.
– Proprio qui, queste olive della principessa, sono state la sua prima vittoria, e forse lo hanno condannato a morte. Era usanza antica che i contadini di Sciara che seminavano il grano sotto l’oliveto non avessero parte nel raccolto delle olive. Il grano era diviso secondo le vecchie proporzioni. Le olive erano tutte della proprietaria che ne affidava il raccolto a gente forestiera, a coltivatori e raccoglitori di Caccamo e ai loro soprastanti. Carnevale si fece forte della legge, e chiese che il raccolto delle olive fosse affidato agli stessi contadini che coltivavano il grano, e che la divisione fosse fatta come vuole la legge, in modo che la parte dei contadini fosse il sessanta per cento e quella della principessa il quaranta. Era il primo movimento contadino organizzato. E a Carnevale fu subito offerto da un amministratore del feudo, se avesse abbandonato la lotta, tutte le olive che egli avesse voluto. I contadini vinsero, ottennero quasi tutto quello che chiedevano; la mafia fu offesa e ferita nel suo fondamento, il prestigio, non tanto per la questione sindacale in sé, quanto per il modo intransigente e fiero con cui era stata condotta. Poco dopo cominciarono le occupazioni delle terre. Mi pare fosse l’ottobre del ’51. Tu sai come avvenivano queste cerimonie familiari e solenni, con le donne, i bambini, le bandiere, che andavano come a una festa a prendere il possesso simbolico della terra e poi tornavano alle loro case. Carnevale li guidava. Erano andati qui, sopra questi campi che si chiamano contrada Giardinaccio (è lí che poi è stato ammazzato). Al ritorno al paese il corteo fu fermato dal brigadiere, e Carnevale con tre altri contadini fu chiamato in Municipio per discutere, arrestato e mandato per otto giorni alle carceri di Termini Imerese; e di nuovo, anche questa volta, comparvero le minacce e le seduzioni della mafia. Un soprastante si rivolse alla madre offrendole la migliore tenuta di olive se il figlio avesse lasciato stare il partito, e oscure e chiarissime minacce se non fosse sottostato alle offerte. Ma queste cose te le racconterà assai meglio sua madre.
L’oliveto era finito, il terreno era aperto, il grano mietuto fino a perdita d’occhio, fino a un lontano dosso dietro a cui d’un tratto apparve il paese. Veramente il paese non si vedeva, ma erano sorti, come spuntati dalla terra, il castello, alto sopra una roccia, e, sotto di lui, piú in basso, la chiesa. Fra il castello e la chiesa stava, invisibile, il paese. Pareva un’immagine araldica della Sicilia feudale, troppo semplicistica, troppo simbolica per essere vera, con quei due soli neri profili verticali, stagliati sul cielo, come i segni del potere, piú protervo e alto il primo, sottomesso e aguzzo il secondo, e, in mezzo, quasi inesistenti, nelle casupole confuse con la terra, i contadini.
Un valloncello senz’acqua si apriva come una fessura nella polvere bruciata dei campi, verso il monte, dove Carnevale era stato ucciso. Lasciammo la macchina e cominciammo a inerpicarci sul pendio. Incontrammo un orto e una casupola: quattro piccoli cani bastardi ci vennero incontro abbaiando furiosamente e il contadino si fece sull’uscio, guardandoci diffidente. Ma quando capí dai nostri passi dove eravamo diretti, ci salutò, e, indicandoci col gesto di un principe i quattro alberelli di frutta del suo podere, ci disse di raccogliere tutto quello che avessimo voluto, che era nostro. Salimmo tra i cardi e le erbe spinose, tornammo tra il grano, piú in alto, fino a un sentiero orizzontale, visibile di lontano, nell’uniforme terreno, per un cippo di pietra. Qui Carnevale morí. Il cippo lo ricorda, con una semplice scritta, dove però due parole, le piú modeste e innocenti, dove si parla del pianto di tutto il popolo, sono leggibili solo sotto la calce che le ricopre, cancellate per ordine del prefetto.
Ora il grano è tagliato e l’occhio vede lontano lungo il sentiero che da Sciara, a mezz’ora di strada di qui, porta alla cava di pietra dove lavorava Carnevale. Ma quando, all’alba del sedici maggio, gli assassini lo attendevano, il grano era alto, e li copriva. Devono essersi fermati qui ad aspettarlo per lungo tempo, si vede ancora il terreno pesticciato sopra il sentiero. E avevano fatto passare quell’ora di attesa, prima di sparare, mangiando delle fave, ci sono ancora per terra le bucce rinsecchite. Mi pare che parlino maligne come antichi ruderi di un incendio, o vecchi documenti ingialliti. Le cose cosí cambiano natura, diventano prove, piene di senso, della realtà, buone o cattive, non piú oggetti, ma testimoni e partecipi. Mi chino a raccogliere una di quelle bucce. Scendono dai campi, come uccelli che scorgono di lontano e si buttano improvvisi, o mobili abitanti del deserto, dei contadini che ci hanno veduto vicino al cippo. Si fermano rispettosi a qualche passo di distanza, ci salutano, senza chiederci chi siamo: – Buon giorno, compagni.
– Carnevale è stato l’ultimo, finora, – disse Alfio, – dei contadini ammazzati sul feudo dalla mafia. La lista è lunga in questi anni, tu lo sai. Era stato due anni lontano di qui, a Montevarchi, a lavorare. Quando tornò era cominciata la Riforma. Settecento ettari erano stati scorporati, ma solo duecento distribuiti, e gli assegnatari avevano avuto una serie di «avvertimenti» dalla mafia perché non credessero di godersi impunemente le terre ricevute. A chi bruciarono il pagliaio, a chi sfondarono la porta, o rubarono le pecore o le capre, o l’aratro. La mafia e il feudo si difendono, tanto piú violenti se è una battaglia perduta. Appena tornato, Carnevale ricominciò con l’occupazione delle terre, per far applicare la legge: e per questo ha avuto un processo e una condanna. Poi lavorò alla costruzione della strada tra Sciara e Caccamo, e poi alla cava della pietra per la costruzione del doppio binario tra Termini e Trabia, quello che ci ha fermato al passaggio a livello. Anche la cava che è quassú, nel Giardinaccio, appartiene alla principessa, e i lavori sono di una ditta di Bologna; ma chi fa tutto sono gli appaltatori locali legati alla mafia. Carnevale era segretario degli edili e chiese le otto ore dovute per contratto mentre se ne lavoravano undici, e il pagamento dei salari arretrati. Scrisse a Palermo, fece comizi attaccando la mafia, venne di nuovo minacciato e infine ucciso mentre andava al lavoro. L’assassinio era, per cosí dire, firmato, con la simbologia delle uccisioni di mafia: i colpi al viso, per sfigurare il cadavere, in segno di spregio; e il giorno seguente il furto di quaranta galline, per il banchetto tradizionale. Ma tutto sarebbe finito nel silenzio, come tutte le altre volte. L’autorità avrebbe fatto le viste di indagare, nessuno avrebbe parlato. Si sarebbe, come tutte le altre volte, parlato di un delitto privato, per ragioni personali, o di onore, o di interesse, o di vendetta. Ma questa volta, per la prima volta nella storia della Sicilia, non è stato cosí. La madre di Salvatore ha parlato, ha denunciato esplicitamente la mafia al tribunale di Palermo. È un grande fatto, perché rompe il peso di una legge, di un costume il cui potere era sacro. Qualche cosa è davvero cambiato. Il giorno della morte di Carnevale il paese era terrorizzato, nessuno osava andare a vedere il morto, abbandonato all’obitorio. La denuncia ha scacciato il terrore, al funerale c’erano tutti, si sentivano solidali e sulla strada giusta, come al centro del mondo.
Eravamo discesi sui nostri passi: tornati sulla strada, in pochi minuti giungemmo a Sciara. Una strada la traversa salendo e scendendo da un capo all’altro, interrotta nel mezzo da una piazza con l’aquila del monumento ai caduti, e una assurda chiesa di stile olandese goticizzante al posto della chiesa antica. Da questa strada salgono verso il castello e scendono verso la valle le vie trasversali, larghe, ripide, sassose, come dei letti di torrente. Sono delle sciare, delle strisce, sono dei fiumi di pietra che rovinano a valle. Risalendole, tra le capre e gli asini e le vacche, e le basse casipole di pietra, si vede il castello dove tutte convergono. È, visto da vicino, un modesto castelluccio, quasi una villa signorile abbandonata e cadente; ma l’alta roccia a picco su cui è costruito e le siepi spinose di fichi d’India che lo circondano gli dànno un’aria militare e grifagna, come una rocca segregata e imprendibile, un luogo di separazione sanguinosa, e di disprezzo.
A salirci, che pace! La campagna digrada fino al monte San Calogero ammantato di nebbie, un silenzio solenne si stende sui campi, un intatto incanto pastorale lega gli alberi, le piante, le rocce, l’oro delle paglie, le azzurre lontananze, fino al cielo vuoto. Affacciandosi di lassú, tutto il paese circostante è come un libro aperto, e nulla è celato allo sguardo. Nell’immobilità della campagna il minimo moto di un uccello, di un animale, di un cristiano appare nitidissimo. Tutte le strade di Sciara, tutte le case, tutte le porte di tutte le case, tutti gli scalini davanti alle porte, tutte le persone sedute sugli scalini, si vedono ad una ad una, come in un grande quadro senza ombre. Chi sta qui non ha bisogno di interpreti o di spie, ma ha, col solo sguardo, il dominio. Sa chi esce e chi entra, chi è andato al lavoro e chi ne è tornato, chi ha acceso il lume e chi ha mangiato, chi ha munto la vacca, chi ha chiuso la porta. E chi sta sotto, su quelle soglie, in quelle case, sente sopra di sé gli occhi di questo uccello da preda appollaiato.
In una di quelle strade in discesa, di quelle specie di scoscendimenti sassosi che dirupano a valle, è la casa di Salvatore Carnevale e di sua madre, Francesca Serio, nella parte bassa del paese; vi si giunge dalla via principale scendendo degli alti e stretti scalini di pietra. Un vecchio stava sulla soglia, col viso rugoso bruciato dal sole, con un cappello stinto in testa: abituato alle visite, ci fece cenno di entrare. È una sola stanza stretta e lunga che prende luce dalla porta, con un soppalco nella parte di fondo, un forno di mattoni per il pane, vicino all’ingresso, qualche attrezzo appoggiato al muro nudo e bianco di calce, e un letto accostato alla parete, sotto il soppalco. Vicino al letto, seduta su una sedia, coperto il capo di uno scialle nero, sta, sola, Francesca, la madre. È una donna di cinquant’anni, ancora giovanile nel corpo snello e nell’aspetto, ancora bella nei neri occhi acuti, nel bianco-bruno colore della pelle, nei neri capelli, nelle bianche labbra sottili, nei denti minuti e taglienti, nelle lunghe mani espressive e parlanti: di una bellezza dura, asciugata, violenta, opaca come una pietra, spietata, apparentemente disumana. Chiede a Alfio se io sono un compagno o un amico, ci fa sedere vicino a lei, presso quel letto bianco che era quello di Salvatore, e parla. Parla della morte e della vita del figlio come se riprendesse un discorso appena interrotto per il nostro ingresso. Parla, racconta, ragiona, discute, accusa, rapidissima e precisa, alternando il dialetto e l’italiano, la narrazione distesa e la logica dell’interpretazione, ed è tutta e soltanto in quel continuo discorso senza fine, tutta intera: la sua vita di contadina, il suo passato di donna abbandonata e poi vedova, il suo lavoro di anni, e la morte del figlio, e la solitudine, e la casa, e Sciara, e la Sicilia, e la vita tutta, chiusa in quel corso violento e ordinato di parole. Niente altro esiste di lei e per lei, se non questo processo che essa istruisce e svolge da sola, seduta sulla sua sedia di fianco al letto: il processo del feudo, della condizione servile contadina, il processo della mafia e dello Stato. Essa stessa si identifica totalmente con il suo processo e ha le sue qualità: acuta, attenta, diffidente, astuta, abile, imperiosa, implacabile. Cosí questa donna si è fatta, in un giorno: le lacrime non sono piú lacrime ma parole, e le parole sono pietre. Parla con la durezza e la precisione di un processo verbale, con una profonda assoluta sicurezza, come di chi ha raggiunto d’improvviso un punto fermo su cui può poggiare, una certezza: questa certezza che le asciuga il pianto e la fa spietata, è la Giustizia. La giustizia vera, la giustizia come realtà della propria azione, come decisione presa una volta per tutte e da cui non si torna indietro: non la giustizia dei giudici, la giustizia ufficiale. Di questa, Francesca diffida, e la disprezza: questa fa parte dell’ingiustizia che è nelle cose.
Francesca racconta: – Su mio figlio morto venne il pretore a fare la perizia, sembrava urtato. Non bada che c’erano operai assai che ti guardano. Fai almeno come solito di legge, non diciamo come affetto perché era carne umana e perché era come te. Ma tu ti senti persona elevata, e quella a te ti sembrava niente. Allora fece con la testa un segno di disprezzo, e disse: «Ah, non era il momento di fare questo!» Come lo sento parlare cosí, mi volto e gli dico: «O vigliacco, hai ragione di dirlo che non era il momento, perché pensi alle elezioni e tu perdi terreno. Allora quando sei al potere vieni fin dentro e mi uccidi? È questa la disciplina che porti? Perché fai questa perizia per ingannarci? Perché non te ne vai a casa? Certo, non era il momento».
Di fronte all’ingiustizia che è nelle cose sta dunque la giustizia, che è una certezza. Ma la risposta di Francesca non è quella anarchica e individuale che arma la mano del brigante e lo spinge al bando, al rifiuto, al bosco: è una risposta politica, legata all’idea di una legge comune che è un potere a cui ci si può appoggiare, un potere nemico del potere: il Partito. La legge che dà certezza a Francesca non è l’autorità né i suoi strumenti: questi appartengono per natura al mondo nemico.
Racconta della prima pacifica occupazione delle terre nel ’51, quando suo figlio la prima volta guidò i contadini e venne poi arrestato:
– Eravamo andati alla montagna, eravamo piú di trecento persone; mentre eravamo là che stavamo mangiando un poco, chi era seduto, chi passeggiava, e non c’era nessuno che danneggiasse, venne un brigadiere di Sciara con un carabiniere, dice: «Per favore, per favore, per favore togliere la bandiera». Perché c’erano le bandiere che tenevamo sventolate. I contadini dicono: «No, perché dobbiamo togliere le bandiere, per quale motivo? Non è che le bandiere fanno male. Qui non è che stiamo facendo guasti». Ma il brigadiere dice: «Allora andiamo al paese, andiamo al paese». Ce ne andammo al paese. Quando arrivammo un po’ di via lontano, vedemmo di sotto la polizia col commissario e ci fermarono: «In alto le mani». Noi non avevamo né fucili né scoppette, niente. Ci fermarono e presero tutti i nomi e cognomi, a mio figlio, a Polizzi, a Tirruso, a Ceruti, a Lentini che chiamiamo il sindaco di Favara. A me mi chiesero il nome. Dice:
– «Lei come si chiama?»
– «Scritta sono io».
– «Passassi», dice. Alcuni prendemmo da una via, altri da un’altra, c’erano cinque o sei carabinieri. Disse uno di loro:
– «Ci avete pensato proprio a questa giornata. Ci siamo fatti le scarpe molli e i pantaloni tutti pieni di terra».
– «Ma per noi, – risposi, – per noi questa giornata è la piú bella giornata del mondo: bella, tranquilla, col sole. Questo è un divertimento che noi non abbiamo preso mai. Se non ci date le terre incolte, secondo la legge (perché si devono perdere?) ne avrete da fare di queste giornate. Questa è la prima che state facendo». E cosí ce ne andammo al paese. Arrivati al paese, invitarono mio figlio e altri quattro ad andare al Municipio in commissione per discutere e chiarire i fatti. E mio figlio venne a casa, si cambiò per andare al Municipio, credendo che doveva fare questo, perché noi non è che eravamo imparati di fare queste dimostrazioni. Mentre erano al Municipio a discutere, venne la polizia con la camionetta, li misero sulla camionetta e se li portarono a Termini, alla prigione.
La legge è una cosa, l’autorità è un’altra. Suo figlio, dice, voleva far rispettare la legge, il sessanta e quaranta, le otto ore, ma le autorità stanno dalla parte di quelli che violano le leggi. Quando, pochi giorni prima della morte, Salvatore aveva iniziato l’azione per le otto ore nella cava e venne provocato dai soprastanti, andò a raccontare il fatto al brigadiere di Sciara, e il brigadiere rispose: – Non è competenza mia, – e rifiutò di intervenire. Il giorno seguente ci fu lo sciopero, la ditta promise di rispettare le otto ore, e di pagare i salari arretrati. Francesca racconta che mentre lavoravano venne il maresciallo di Termini accompagnato da Mangiafridda Antonino, che faceva per la principessa il controllore dei camion.
– Il maresciallo fa chiamare fra tutti Carnevale, mio figlio. «Carnevale, venisse qui. Bada bene che tu sei il veleno dei lavoratori». Mentre mio figlio gli rispondeva che lui non era il veleno dei lavoratori, ma soltanto difendeva la legge, Mangiafridda si voltò e gli disse:
– «Picca n’ai di sta malandrineria!» (Durerai poco a fare lo spavaldo).
– Il maresciallo non fa il testimone contro Mangiafridda. Se le parole le diceva mio figlio, allora il maresciallo lo arrestava e se lo portava, ma siccome le ha dette Mangiafridda, che è il delinquente, il malfattore di Sciara, che era il magazziniere della principessa, non lo arrestò e se ne andarono. Questo fu il giorno tredici, venerdí.
Di questi episodi e di questi sprezzanti giudizi sulle autorità, lo sterminato discorso di Francesca è fitto, a ogni momento. Essa è tutta piena di ostilità e di violenza, la sua rottura è totale e senza mezzi termini, fondata sull’incrollabile certezza. È la rottura di una situazione secolare, del riconoscimento passivo che contro quella realtà non c’è nulla da fare. Senza quella certezza sarebbe possibile soltanto la disperazione, la rottura non sarebbe pensabile altro che nella forma poetica di un lamento funebre, o nel rifugio mitologico, nella fede nell’altro mondo, nella identificazione del morto con Cristo. Anche per lei il figlio è Cristo, ma in un modo tutto realistico (col brigadiere che come Pilato dice: – Non è competenza mia –), legato alla terra, e che non chiede amore, ma giustizia. Di qui questa passione fredda, questo impulso d’azione, questo slancio, che ha un poco la stessa natura della spinta che ha mosso a emigrare, per altre vie e con altri destini, i contadini ebrei di San Meandro Garganico in cerca di giustizia su questa terra. Ma per Francesca la terra non è altrove, è qui, a Sciara, in Sicilia, e la guerra si conduce con la parola, nel tribunale di questa stanza.
– Chi uccide me uccide Gesú Cristo, – aveva detto Salvatore al mafioso che era stato mandato a minacciarlo cinque o sei giorni prima della sua morte. – Era notte, mio figlio tornava dal lavoro, quando in un angolo buio sentí chiamare con un sussurro: «Ps, ps». Non si voltò e non rispose. Quello allora, spuntato dall’ombra, gli si avvicinò. Gli batte una mano sulla spalla. «Oh, – dice, – Totò, ti sei fatto superbo». «Ho un nome che mi ha dato Dio».
– «Bene, – dice quello, – ti voglio bene, se non ti volessi bene non mi metterei in questi inciampi. Hai da levarti dal partito e stracciare tutte le carte e non pensarci piú. Avrai una buona somma, che mentre campi non avrai piú da lavorare».
– Disse mio figlio: «Io non sono carne venduta, e non sono un opportunista».
– «Pensaci, che altrimenti farai una mala morte».
– E allora Salvatore rispose: «Vieni tu ad ammazzarmi, ma di’ a questi che ti ci mandano che quando hanno ammazzato a me hanno ammazzato a Gesú Cristo».
– Quando mio figlio arrivò a casa era agitato, e mentre mangiava, qui su questa tavola, si dava dei colpi in testa, cosí, con le mani, ma non parlava, diceva solo: «A me non mi convincono». Ma era pallido come un morto. Dette solo due cucchiaiate giuste giuste di pasta e smise di mangiare. «A tua madre non vuoi dire che cosa è successo?» Non voleva. Ma poi me lo raccontò. Ma non mi disse il nome di quello. Mi disse che lo avrebbe detto in pubblico, al comizio, la domenica. Ma la domenica il comizio non si poté tenere perché era proibito, per la festa del Santo Patrono, e il lunedí mattina, all’alba, lo ammazzarono.
– Chi uccide me uccide Gesú Cristo, – ripete Francesca. Ma sa che la sua Chiesa è in piedi tuttavia («se muore un monaco non si chiude il convento»). E questo potere, questa chiesa terrestre che la fa viva, che le ha asciugato il pianto, che le ha sciolto la lingua, le ha dato un linguaggio. Non è il linguaggio poetico della madre lucana che racconta la vita del figlio morto: è un linguaggio di rivendicazione, di oratoria, di discussione, un atto di accusa, è un linguaggio di partito. Anche i suoi termini suonano nuovi e strani nel dialetto: termini giuridici e politici, la legge, la riforma, il sessanta e quaranta, la lotta, l’organizzazione, gli opportunisti, e cosí via. Ma nella sua bocca, davanti alla morte, questo linguaggio, questo convenzionale e monotono linguaggio di partito, diventa un linguaggio eroico, come il primo modo di affermare la propria esistenza, l’arido canto di una furia che esiste per il primo giorno in un mondo nuovo. La nuova esistenza nasce con la forma della tragedia, è oscura, minuziosa, opaca e feroce. È una rivelazione, nel teatro del tribunale della coscienza, e del tribunale vero, quello di Palermo; un punto di verità raggiunto che dà vita e moto a tutte le cose e va ripetuto senza stancarsi, in un racconto ormai fissato, che non si perde piú, come non si perde quella raggiunta certezza. La morte del figlio le ha aperto gli occhi, ha fatto di lei una persona nuova e diversa, fortissima, indifferente agli altri, superiore a tutte le cose perché sicura di questa sua nuova esistenza. Prima, era una donna qualunque, una povera donna contadina, una forestiera qui a Sciara, che veniva da un paese della provincia di Messina, abbandonata dal marito, che scomparve e poi morí. Era venuta con questo figlio di cinque mesi, forse malvista in principio perché forestiera e sola.
– Andavo a lavorare per campare questo figlio piccolo, poi crebbe, andò a scuola ma era ancora piccolino, cosí tutti i mestieri facevo per mantenerlo. Andavo a raccogliere le olive, finite le olive cominciavano i piselli, finiti i piselli cominciavano le mandorle, finite le mandorle ricominciavano le olive, e mietere, mietere l’erba perché si fa foraggio per gli animali e si usa il grano per noi, e mi toccava di zappare perché c’era il bambino e non volevo farlo patire, e non volevo che nessuno lo disprezzasse, neanche nella mia stessa famiglia. Io dovevo lavorare tutto il giorno e lasciavo il bambino a mia sorella. Padre non ne aveva, se lo prese mio cognato qualche anno a impratichirsi dei lavori di campagna. Lo mandai alla scuola fino alla quinta, aveva il diploma e andava a giornata, e ci industriavamo la vita per campare fino a quando andò soldato.
Cosí Salvatore era venuto su senza il padre, e aveva dovuto superare già da bambino una condizione particolare anche piú difficile di quella degli altri bambini contadini, ed era cresciuto pieno di orgoglio. Aveva fatto due tentativi di uscire da quel mondo ristretto: un concorso per entrare nella polizia, dove non fu ammesso per la fedina penale di uno zio, un altro per diventare autista militare, che non riuscí perché, per il ritardo a preparare i documenti, passò il limite di età stabilito. Non era uno da accettare la condizione servile, il movimento contadino gli evitò la protesta individuale, la rivolta del bandito; e si fece organizzatore sindacale. La madre non lo seguiva, legata ancora al vecchio costume.
– Quando ci furono le prime elezioni, – racconta Francesca, – allora non c’era ancora il partito qui a Sciara, e Salvatore mi disse: «Madre, vorrei metteste il voto per Garibaldi, non si può sbagliare, è quello con la berretta, si riconosce, non ve lo scordate».
– «No, non me lo scorderò». Se lo fece promettere. Ma io quando andai a votare e vidi quel Dio benedetto di Croce, pensai: «Questo Dio lo conosco. Come posso tradirlo per uno che non conosco?» E misi il segno sulla Croce. A lui non dissi nulla: ma i voti per Garibaldi, in tutto il paese, furono appena sette, e il conto non tornava. Salvatore si arrabbiò. Era un poco nervoso: diventò un Lucifero. Ma io non gli dissi mai nulla di come avevo votato. Poi, quando si formò il partito qui a Sciara, la sera che firmò e si mise a capo come segretario, io feci una seratina di pianto. «Figlio, mi stai dando l’ultimo colpo di coltello, non ti ci mettere alla testa. Il voto daglielo, ma non ti ci mettere alla testa, lo vedi che Sciara è disgraziata, è un pugno di delinquenti, vedi che sei ridotto senza padre e dobbiamo lavorare». Ma lui rispose che erano tanti compagni e che non avessi paura. Io non volevo; ma ormai, madre di socialista ero, che dovevo fare?
Cosí cominciò il lavoro politico del giovane contadino, fondato sul senso di una nuova legge e del suo libero esame; e cominciò nello stesso tempo la lotta contro la mafia, le sue lusinghe, le sue minacce tante volte ripetute. Ma la madre allora non era ancora quella di oggi, non era staccata dall’antico costume e dalle antiche paure. La zia, che ora è entrata nella casa, è rimasta ancora oggi in parte quella di prima. Si siede vicino a noi e non parla, ma capisco che non può evitare il vecchio pensiero che la colpa della morte del nipote era nella sua attività politica. È piú giovane della sorella, ha un viso piú umano, gli occhi piú umidi di sentimento. Era anche lei madre a quel bambino che aveva allevato mentre la sorella lavorava nei campi; e sembra, a vederla, nel suo accorato silenzio, piú visceralmente legata a quel morto, piú indifesa, come un animale ferito. Ma Francesca non si arresta di parlare, racconta dell’infanzia del figlio, delle prime lotte, dei due anni passati da lui a Montevarchi (– Maledetto il giorno che lo mandai a chiamare –), dei suoi gesti, delle sue risposte ai funzionari, del suo lavoro tra i compagni contadini. Quando racconta dei detti del figlio, delle sue grandi e nobili frasi (come quando, a un tenente dei carabinieri che gli puntava contro la pistola, al ritorno da una occupazione di terre, a cavallo con la bandiera, disse: – Spara. Io sono qui soltanto per l’onore del popolo, – e mille altre), non altera la verità, per gusto teatrale, ma se ne accorge per la prima volta, e questo basta a dare alle frasi nobiltà e grandezza. Il suo discorso è un Vangelo, un povero, poliziesco vangelo di verità, una testimonianza di verità. Questo solo conta per lei; mentre parla giungono dalla chiesa vicina i rintocchi della campana. Non arresta il suo dire, ma vedo che fa rapidamente il suo segno di croce e mormora: – Santa campana, testimone di verità.
Avvisi di morte, offerte e minacce, Salvatore ne aveva avute molte, e di ciascuna il racconto è lungo, circostanziato, preciso, documentato, fin da quelle degli inizi o da quando era in prigione a Termini, e venne Tardibuono dalla madre e le disse: – Che ci guadagna con questo partito? si mette le grate davanti, e gli altri si raccolgono le olive. È un partito di «scanazzati». Se si leva, noi gli daremo la meglio terra, le olive –. Le ultime furono quelle dell’uomo che gli parlò all’oscuro, il dieci o undici di maggio, e quelle di Mangiafridda, il tredici. La domenica non poté tenere il comizio dove voleva fare i nomi di quelli che dovevano ucciderlo. La sera c’era festa nel «baglio» della principessa; là lo aspettavano: quasi per un presentimento, non volle salire: andò invece al cinematografo con la madre e la zia.
– Era un po’ disturbato, perché il comizio non lo aveva fatto, poi vanno a fare una pellicola cosí disgraziata, c’era un marito, una moglie, un altro con una accetta e gli hanno calato l’accetta in testa e gli hanno stroncato la testa. Mio figlio disse: «Guardate come li ammazzano gli avversari», si alzò con la faccia come la morte, mi disse: «Vado a dormire, restate qua». Quando finí il cinema, verso l’una, me ne venni a casa con la sedia e trovai mio figlio sul letto, che leggeva. Lui dormiva qui, io sopra nel soppalco. Sempre studiava la notte nel letto, tutte le sere per due, tre ore, fino a tardi. Quella notte io feci un sogno, sognavo di cantare, che voce bella che avevo, che applausi. Il canto della notte sarà il pianto del giorno. La mattina dovevo andare a lavorare. Alle cinque e mezza l’ho lasciato che si faceva i capelli e sono andata al pagliaio. Quando sono tornata, mio figlio stava nello stradale e se ne andava. Io dovevo andare in campagna, ma era mattina presto e mi misi a fare il pane. Facevo il pane quando mio figlio moriva.
– Mentre facevo il pane è arrivato mio cognato: correva già in paese la voce che c’era stato un morto, ma io non ne sapevo niente. Mi chiese se Totò era andato alla cava, a che ora era partito, se era solo. Aveva la faccia pallida e mi insospettii. Pensai a qualche disgrazia, e mi misi a piangere. Mi disse che c’era stato un morto, ma che era un vecchio, e che si andava a informare. Io corsi per il paese a chiedere notizie, vidi gente che piangeva, ma nessuno voleva dirmi nulla. E allora presi la via che aveva fatto mio figlio, con una donna che aveva alla cava il marito. Camminavo in fretta, guardando se vedevo tornare mio cognato, mio fratello; se tornavano, non era mio figlio, ma se non tornavano, era lui. Quando fui nella strada, intesi il rumore di una macchina. Girò la curva, vidi che era Mangiafridda. Lo fermai e gli dissi: «Dimmi la verità, chi è questo morto?»
– «Da come è messo non si può conoscere, – disse Mangiafridda, – c’è il brigadiere e i carabinieri che non fanno avvicinare nessuno. Davvero, sull’onore di mia madre, non me lo fecero vedere».
– Quando mi disse: «C’è il brigadiere e i carabinieri» che erano meglio che fratelli, erano sempre insieme, mangiavano insieme quando andavano in campagna, quando trebbiavano insieme a tutta la partita della principessa: «A te non ti disse il brigadiere questo morto chi era? Tu?»
– Mi si mossero tanto i nervi che a me sembrava di essere in un apparecchio che camminavo, e non piú a piedi, e camminavo; quella donna che era con me ogni tanto correva e mi prendeva per il braccio: «E lévati, e fammi camminare, fammi questo favore». Finí che arrivai dove era quel morto. Ma chi fui? Un fulmine, camminai come una disperata, nemmeno i piedi li posavo piú in terra. Quando sono arrivata, prima è venuto mio cognato: «Non correre che non è tuo figlio». Ma aveva la faccia come i morti. Mentre davo un altro passo, si avvicina il brigadiere di Sciara: «Signora, non è suo figlio». Mentre mi dicevano che non era mio figlio, ho fatto un altro passo e ho visto i piedi del morto, che era messo a testa sotto e coperto, e spuntavano solo i piedi, ma io ho visto le calzette bianche, erano le calzette che ho lavato ieri a mio figlio, che mio figlio ha messo nei piedi, e i piedi erano messi come metteva i piedi mio figlio, cosí. Non mi lasciavano avvicinare. Viene il maresciallo di Termini: «Se lei ha figli ed è cristiano, – (il maresciallo si mise a piangere), – mi deve portare da mio figlio, che questi vigliacchi dicono che non è mio figlio, ma è mio figlio». «Lei sa che non si può toccare», mi disse. «Non lo toccherò, lo voglio solo vedere: è mio figlio, nelle gambe è mio figlio, nei piedi è mio figlio, nello stare è mio figlio, voglio vedere la sua faccia». Tre volte mi infilai per potergli vedere la faccia: era nascosta. A lato mi si erano messi quei carabinieri e mi tenevano e mi guardavano.
– «Quando vennero ad ammazzare mio figlio non ci vennero a guardare, e ora guardano me. Io non è che ho ammazzato nessuno, che lo ho allevato per trentadue anni, e ora per andarlo a vedere mi guardate, a me mi guardate, e a quelli li lasciate liberi». Intanto, girando di spalle, dissi: «Figlio, e come ti ammazzarono, e cosí ti misero bello sistemato?» Nella terra non c’era nessun segno, niente, uno che è sparato, che è stato ammazzato, certo un movimento lo deve fare, o resta con il collo torto, o con le braccia aperte, o con una gamba allargata… certo non è che come spira resta. Finché era freddo il sangue qualche movimento lo deve fare. Uno spasimo, una convulsione in terra la deve fare; là, niente, pare che di sera si coricò lui, era messo bello aggiustato, la faccia bocconi che non si guardava in faccia, bello, diritto come una candela. Io tre volte mi infilai per potergli cercare la faccia.
– Mi hanno levata da vicino a mio figlio e mi hanno mandata a casa. Ero seduta sopra una pietra, prima mi sono seduta su una pietra nella parte di sopra e poi, visto che non lo potevo vedere, mi sono seduta di lato, e piangevo. Poi vennero i carabinieri, volevano farmi dire se aveva dei nemici per donne o per interessi, ma loro erano consapevoli di chi lo aveva morto, e poi la sera lo presero dal cimitero e me lo portarono in casa, passò dalla chiesa, gli abbiamo dato l’acqua benedetta, gli hanno fatto tutte le esequie che hanno potuto, lo hanno portato in paese e poi al Municipio. Quattro hanno arrestato, ma dovranno prendere anche quelli che li hanno mandati. L’ho sempre davanti agli occhi; non mi ricordo piú come entrava, come camminava, solo lo ricordo bocconi, per terra, sul sentiero.
Nella stanza sono entrati, a uno a uno, dei contadini, dei vecchi, dei giovani dagli occhi accesi di carbone lucente; stanno addossati al muro e ascoltano in silenzio quel vangelo. Ma è ormai notte fonda, e dobbiamo partire. Scendo dallo scalino della soglia, risalendo la strada buia. Qua e là per terra delle grandi masse nere fanno piú scura l’ombra, come macigni sparsi in un prato. Sono le vacche, le grandi vacche scure di Sciara che dormono sdraiate per la via: quando l’occhio si assuefà alla notte le distinguo come nere statue di animali arcaici in una Cina immaginaria. Piú avanti, una chiazza bianca sta immobile per terra, e vi ravviso un cane; ma non dorme: è morto.
Sopra gli scalini che portano alla via principale, al lume fioco di una lampadina elettrica con il suo piatto bianco, come le lampadine delle stanze, mi aspettano dei giovani contadini. Parlano di Salvatore, cosí onesto, tutto per il popolo, pulito, lavoratore; e vogliono che vada con loro alla Camera del lavoro. È una casa di contadini, una stanza che dà sulla strada, tappezzata di manifesti. Le galline dormono in un angolo. È l’abitazione del segretario, un vecchio contadino asciutto: il tavolo della famiglia è quello dell’ufficio. I contadini stanno seduti attorno a parlare come congiurati. Si riconoscono dal viso i violenti e gli incerti, tutte le maniere diverse di essere in un mondo che si muove e di cui essi, oscuramente, si sentono i protagonisti. Ma in un modo cosí difficile, avvolti in un labirinto di corde antiche e di antichi terrori, che la morte doveva ribadire, e ha inaspettatamente troncato. Il piú vivace è un bambino, il figlio del segretario, attivo, allegro, entusiasta, fiero di essere un falco, l’unico falco rosso fra tutti i gialli falchi del feudo di Sciara. Torno a uscire sulla strada, si affacciano tutti sull’uscio e mi salutano: – Compagno, compagno –. Nella loro bocca è una parola magica, una formula di scongiuro che dà la forza e il potere, e basta, come le trombe bibliche, a far crollare le mura della città.
Voglio girare un po’ le strade, ma è difficile essere soli. Un giovane contadino mi accompagna. Studiava, dice, con Salvatore, la sera. Studiavano il vocabolario. Là ci sono le parole, le parole che hanno scoperto e che solo adesso sono diventate necessarie. Vuole assolutamente pagarmi un caffè, e non posso schermirmi, per non ferirlo, quando estrae dalla tasca quegli spiccioli cosí preziosi. Lo lascio nella piazza, e risalgo solo verso il castello, girando attorno alle vacche addormentate. Una capra dorme appoggiata a uno stipite, con le zampe abbandonate, con la languida stanchezza di una donna. Sotto il castello, nel buio, due suonano invisibili l’armonica da bocca, e si rispondono da lontano. Passa un campiere a cavallo: il top-top dei ferri risuona sulle pietre. Sul cielo pieno di stelle si leva il profilo del San Calogero, una lampada elettrica fa apparire i bordi obliqui delle casette a un solo piano, le ultime del paese, davanti al vuoto della campagna. Il cielo è immenso, salgono vaghe nebbie dal mare, sul paese, sulle vacche addormentate, sui fiori di pastinaca nei campi. Scendo verso la macchina. Nel buio sento il clamore di una lite, qualcuno appoggiato a un muro mi dice: – Lite tra padre e figlio, non ci vuole consiglio –. Si chiudono le porte, si spengono i fuochi dei focolari, cala il sonno su Sciara, e partiamo nella notte.
Nei giorni seguenti tornai molte volte alla casa di Sciara. Qualche cosa mi attirava là, come un nero vortice, e ogni volta ritrovavo il paese, e la maligna pace del castello, e la chiesa con le tombe dei Notarbartolo, principi di Sciara e di Castelreale, gentiluomini di Camera; e quella stanza nuda col piccolo letto in fondo, e alle pareti bianche la Madonna di Altavilla, santa Rita, Gesú, la Sacra Famiglia e il Calendario del Lavoratore, e quella donna che muoveva il velo nero con le mani parlando, e quella voce oscura e ininterrotta che parla come se non dovesse cessare di parlare fino al giorno del Giudizio.
L’ultima volta, da Termini avevo preso la strada di Caccamo; mi portava un autista nuovo, un giovane dai baffetti sottili, dai modi rispettosi di un impiegato. La via sale dalla costa tra pendici che stillano l’olio, poi si entra tra i monti e lo sguardo spazia tra le azzurre distese dei feudi, quando, solenne e enorme, si leva sulla sua roccia il castello di Caccamo. Anche Caccamo, come Sciara, sta fra il castello e la chiesa, in mezzo ai campi di grano; ma non è, come quello, un villaggio, ma si allarga a coprire tutta la costa del monte. Ci fermammo a guardarlo dalla rotabile, compatto come un solo corpo di mille case, con la forma di un grande uccello o di una colomba con le ali chiuse posata sulla montagna. Il cielo si oscurò all’improvviso, e non eravamo ancora ripartiti che cadevano le prime gocce di pioggia. Era un temporale d’estate, rapido e selvaggio, e già la strada nuova di Sciara, quella dove aveva lavorato Salvatore, era un torrente, e i fulmini cadevano sulle pendici del San Calogero, e una nebbia d’acqua oscurava i profili lontani dei monti di Cerda. Passavano a cavallo, sorpresi dall’uragano, coperti con teli impermeabili, i campieri, la paglia sui campi fumava. Improvviso come era venuto, il temporale cessò, quando, passando tra pozze e ruscelli, scendemmo sulla piazza di Sciara. Francesca mi salutò ancora una volta, seduta vicino al letto, e mi diede una cartolina, un ritratto del figlio, ragazzo di sedici anni, vestito con gli abiti della festa, una grande cravatta americana, e un viso rotondo di bambino, coi neri occhi pieni di decisione e di fuoco, simile forse un poco alle immagini di Giuliano giovane, ma con una sorta di rettitudine, di fierezza modesta nello sguardo diritto come di chi vuol costruire il proprio destino. La madre mi chiese, salutandomi, sicura e imperiosa, che io scrivessi «il romanzo» della morte di suo figlio. Mi abbracciò, e la lasciai sola sulla sua sedia, con la sua voce che non si ferma, arida, uguale, nera.
Correvamo ancora una volta sulla tiepida costa verso Palermo. L’autista mi raccontava di sé e della sua vita. Era stato carabiniere al tempo delle repressioni. Una vita dura, un sacrificio inutile. Ora guadagnava ventinovemila lire al mese, aveva moglie e una bambina, per fortuna che sua madre lo ospitava e non doveva pagare l’alloggio. La politica non lo interessava: non c’è nessun partito che gli vada bene. Tuttavia, con un po’ di esitazione, perché non sapeva come la pensassi, mi confessò di aver avuto in passato simpatie per il MSI. Perché, disse, è un partito «sociale». Ci vuole qualche cosa di sociale, perché cosí non si può andare avanti con la miseria; però questo partito ha fatto cattiva prova, e allora nelle ultime elezioni lo aveva abbandonato e aveva pensato di votare per i socialisti. Per poter risolvere la vita, la sola via è quella sociale, quella del socialismo. Come si può campare? Veramente egli credeva anche in un’altra via. Aveva la passione del gioco, di tutti i giochi, ma soprattutto dei cavalli. – Ci metto tutto quello che posso risparmiare, e un giorno mi toccherà bene vincere. Una signora mi ha detto: «Ma con quelle mille lire che giochi ai cavalli, potresti comperare marmellata per la tua bambina». Lo so, ma la marmellata rimane sempre marmellata, e i cavalli possono diventare carne, bistecche, una casa, tutto quello che occorre –. Cosí egli sperava nella Giustizia o nella Fortuna, e non aveva scelto tra le due, i due soli modi mitologici per sopportare la miseria.
Palermo mi accolse nella sera, colorata e drammatica, come un grande formicaio, piena di splendore e di desiderio. Sta là, davanti al mare, assediata dalle montagne e dai feudi, in mezzo, tra i deserti dei banditi, i pescatori di Trappeto, gli uomini chiusi nelle gabbie di Partinico, la labirintica architettura della mafia, la protesta disperata e individuale del brigante a cui risponde l’iniziativa personale degli uomini come Dolci, e, dall’altra parte, la nera madre di Sciara, con la sua accusa, il suo Partito, il movimento contadino.
Sul molo, alla partenza del piroscafo di Napoli, si assiepa una grande folla, si levano saluti, si sventolano fazzoletti, per un vero distacco, per un abbandono. La notte ci avvolge sul mare e ci accompagna fino a Napoli, al primo sole, cosí chiaro, cosí azzurro. Per scendere a Napoli si passa dogana come se si andasse in un altro paese. La città si apre bianca e grigia nell’alba e pare piena di una tenerezza nervosa, nelle sue strade già fitte di commerci e di uomini intenti, con antica armonia, a un destino incerto. La Sicilia è lontana. Ma già il treno, nel mattino luminoso, mi porta a Roma, troppo consapevole e troppo ignara, addormentata nella sua storia senza limiti e nel torpore della calda estate. […]
Màster en Iniciació a la Recerca en Humanitats: Història, Art, Filosofia, Llengua i Literatura Universitat de Girona
I riflessi letterari dell’Unità d’Italia nella narrativa siciliana Director professor Giovanni Albertocchi Treball final de recerca de Annunziata Falco febbraio 2009
1 Introduzione Questo lavoro di ricerca si propone di offrire un inventario ragionato, di romanzi e novelle di autori siciliani, da Verga alla Agnello Hornby, diversi tra loro per età, cultura e condizione sociale, per rendere evidente la persistenza della riflessione sull’idea del Risorgimento “tradito”, in romanzi ambientati negli anni che vanno dal 1860 al 1894, dallo sbarco dei Mille di Garibaldi in Sicilia alla repressione violenta dei Fasci. Gli autori prescelti, hanno in comune una esperienza di allontanamento dalla Sicilia, per brevi o lunghi periodi a Roma o a Milano, che coincide spesso con il periodo più creativo sul piano letterario, alla ricerca forse di una integrazione,che non ci fu,con gli ambienti culturali italiani, del “continente”. Comune è in loro l’ attenzione ad un ricostruzione degli avvenimenti attraverso i documenti ma anche attraverso la memoria personale e quella familiare dei fatti, comune è la scelta della narrazione storica, rivitalizzata, dopo l’esperienza risorgimentale, che permette di inserire materiali storici assieme a vicende e personaggi inventati, per ricreare un ambiente, una società, una mentalità, una realtà, come quella del Sud così poco conosciuta, con riferimenti precisi, documentati. Negli scrittori prescelti, appare evidente un’ansia di tornare su avvenimenti, sufficientemente vicini per poter capire e per poter far capire, per raccontare e forse per “educare”un pubblico borghese, un pubblico, che però non sempre accolse favorevolmente delle opere che, spesso, non erano in sintonia con il proprio tempo, troppo polemiche, negative, che registravano l’immobilismo di una società, il fallimento della borghesia, anche nel campo dei sentimenti privati, all’interno della famiglia. La necessità di fare i conti con il nostro recente passato, di capire come sia stata possibile un’Unità politica ed istituzionale che non ha avuto ragione delle differenze(anzi le ha acuite)tra Nord e Sud, è sempre più presente tra gli scrittori contemporanei, siciliani e non solo, e le opere dei grandi autori continuano a “fare scuola”, ad essere un modello di riferimento. L’idea,che è sottesa a questo lavoro, è proprio di presentare materiali che possano essere utilizzati in un successivo lavoro di approfondimento, su temi che emergono dai romanzi prescelti. Oltre le essenziali note biografiche e critiche sugli autori si è ritenuto importante presentare delle note storiche di confronto
Estratto.
Vincenzo Consolo.
Vincenzo Consolo,che ama considerarsi “figlio di Verga, l’inventore linguistico per eccellenza “ inizia a scrivere Il sorriso dell’ignoto marinaio nel 1969, ma lo pubblica solo nel 1976. Il libro viene subito salutato come “ il rovescio progressista del Gattopardo” da contrapporre all’immobilismo di Tomasi di Lampedusa . L’immagine dell’Italia è subito rivoluzionaria, la fidanzata di Interdonato, Catena, ha ricamato su una tovaglia un’Italia con dei vulcani al fondo, che inizialmente sembravano delle arance «Sì,è l’Italia»confermò l’Interdonato. E le quattro arance diventarono i vulcani del Regno delle Due Sicilie,il Vesuvio l’Etna Stromboli e Vulcano. Ed è da qui,vuol significar Catena,da queste bocche di fuoco da secoli compresso,e soprattutto dalla Sicilia che ne contiene tre in poco spazio,che sprizzerà la fiamma della rivoluzione che incendierà tutta l’Italia Si tratta di un vero romanzo politico, pienamente all’interno della linea della narrativa storica siciliana, il cui intento è quello di raccontare l’Italia degli anni Settanta attraverso un romanzo ambientato nel 1860, ai tempi dello sbarco di Garibaldi in Sicilia. Il romanzo è ricco di materiali testuali eterogenei, come testi documentari, citazioni ironiche, che spezzano l’organicità del romanzo storico e con essa la pretesa dell’autore di governarne e spiegarne l’intreccio, insieme alla pretesa di governare la realtà e la storia. Il romanzo nasce mentre Consolo lavora a Milano e, come Verga, prova uno spaesamento iniziale per la nuova realtà urbana e industriale, la lontana Sicilia gli appare una pietra di paragone, un microcosmo nel quelle far riflettere temi e problemi di ordine universale. Il romanzo storico, e in specie il tema risorgimentale,passo obbligato di tutti gli scrittori siciliani,era l’unica forma narrativa possibile per rappresentare metaforicamente il presente,le sue istanze e le sue problematiche culturali(l’intellettuale di fronte alla storia,il valore della scrittura storiografica e letteraria,la “voce” di chi non ha il potere della scrittura,per accennarne solo alcune) . Il sorriso dell’ignoto marinaio, che Consolo considera un omaggio a Morte dell’inquisitore di Sciascia, nasce da tre fattori di base: il fascino esercitato dal quadro di Antonello da Messina Ritratto d’ignoto, che è conservato nel Museo Mandralisca di Cefalù;la rivolta di Alcàra nato nel 1933,Sant’ Agata di Militello, in provincia di Messina in una “isola linguistica” gallo-romanza, abitata da discendenti di popolazioni lombarda,trasferito a Milano dal 1968,dove diventa consulente editoriale 295Milano, P.,Un Gattopardo progressista,«L’Espresso»,4 luglio 1976 Consolo, Vincenzo,Il sorriso dell’ignoto marinaio,Milano:A.Mondadori,2006,p.53 In Lunaria vent’anni dopo,Valencia:Generalitat Valenciana-Universitat de Valencia,p.66 80 Li Fusi, avvenuta nel 1860, e un’inchiesta sui cavatori di pomice, che si ammalano di silicosi, che Consolo conduce per un settimanale. A questi si uniscono il dibattito politico e storico sul tema del “Risorgimento tradito”, sulla continuazione della secolare oppressione sotto una nuova veste, un dibattito che si stava ormai trasformando nella consapevolezza dell’esistenza di un secondo Risorgimento non compiuto e tradito: la Resistenza. I personaggi principali sono il barone Enrico Pirajno di Mandralisca, malacologo e collezionista d’arte, che era stato deputato nel 1848, un uomo che dovrà scendere nel carcere, labirintica chiocciola, per passare da un generico riformismo alla comprensione per le esigenze popolari, e l’avvocato Giovanni Interdonato, integerrimo rivoluzionario giacobino, esule dopo il ’48, impegnato a far da collegamento tra i vari gruppi di esuli e i patrioti dell’isola. I due si incontrano su una nave, nel 1852, dopo che il barone ha ricevuto in dono il Ritratto d’ignoto, attribuito ad Antonello da Messina, che la tradizione popolare chiama dell’Ignoto marinaio Mandralisca riconosce in Interdonato il sorriso ironico,pungente e amaro dell’uomo del dipinto, un sorriso che lo richiama continuamente all’azione politica, “il sorriso dell’intelligenza che si può rivolgere alla storia(e alla storia narrata nel romanzo).” I due personaggi si ritrovano in occasione della rivolta di Alcàra Li Fusi e del successivo processo, il barone prenderà le difese dei contadini insorti, che si sono mossi contro La proprietà,la più grossa,mostruosa,divoratrice lumaca che sempre s’è aggirata strisciando per il mondo e chiederà di aver clemenza a l’Interdonato, che doveva giudicare i rivoltosi, e lui estenderà loro l’amnistia, ritenendo la rivolta un atto politico. Consolo mette al centro del romanzo un aristocratico intellettuale, che riflette e giudica con un certo distacco, che può essere paragonato al principe Salina, ed un giovane rivoluzionario, l’Interdonato, che potrebbe richiamare molto lontanamente la figura di Tancredi, ma il rapporto tra i due personaggi, che era in Lampedusa di contrasto anche generazionale, nel romanzo di Consolo diventa un rapporto dialettico, Interdonato nella seconda parte della storia cercherà di indurre l’altro all’impegno. Negli anni Settanta, oltre alle critiche al mito risorgimentale, vi era stata una riscoperta anche storica dei fatti rivoluzionari, Sciascia, lo ricordiamo,aveva promosso la riedizione del lavoro di Radice sui fatti di Bronte, Vincenzo Consolo dando spazio alle rivolte contadine duramente Fu segretario di Stato per l’interno con Garibaldi,poi Procuratore generale della Corte d’appello di Palermo e Senatore del Regno nel 1865. Roberto Longhi,storico dell’arte,polemizzava con la tradizione popolare perché i quadri era dipinti su commissione e quindi quello raffigurato non poteva che essere che un signore,un ricco. Segre, Cesare, Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino:Einaudi,1991,p.73 Consolo Vincenzo ,Il sorriso dell’ignoto marinaio,Milano:A.Mondadori,2006,p.118 81 represse, quella di Cefalù, del 1856 e quella di Alcàra, del 1860, segnala la differenza tra i moti borghesi di ispirazione carbonara e le sollevazioni contadine, in cui si rivendicava la terra, in cui ci si voleva liberare del peso dei balzelli e dell’usura, e che sfociavano in esplosioni di sangue. Ad Alcàra, dopo la rivolta e l’eccidio, sarà un Interdonato, generale garibaldino cugino dell’altro Giovanni Interdonato, a disarmare e imprigionare i rivoltosi, e sarà il castello di Sant’Agata di Militello, con i suoi sotterranei elicoidali, che li ospiterà. Il castello Immensa chiocciola con la bocca in alto e l’apice in fondo,nel buio e putridume La metafora della chiocciola,come ha notato Segre, attraversa tutto il romanzo e rappresenta l’ingiustizia, i privilegi della cultura, ed acquista una valenza di autocritica nei confronti di Mandralisca che se ne occupa, con amore, nelle sue ricerche. Vincenzo Consolo, rifiutandosi di narrare ciò che era stato già narrato, lascia spazio ai documenti, alle lettere, alle memorie attribuite a personaggi realmente esistiti ma inventate, che hanno il compito di sintetizzare gli avvenimenti, mentre il narratore deve soffermarsi sugli episodi, concedendosi il tempo della riflessione e della descrizione. La struttura del romanzo storico è quindi profondamente modificata, l’impasto linguistico è mirabile, l’effetto non è realistico. Nel 1968 era vivo il dibattito su quello che era il rapporto tra classi sociali e strumenti linguistici, si faceva sempre più evidente che gli oppressi non erano in grado di far sentire la propria voce, Vincenzo Consolo, in questo romanzo, tenta di dare voce a loro, ai braccianti, agli esclusi dalla Storia, che è “ una scrittura continua di privilegiati”, a chi ha visto la propria disperazione deformata da degli scrivani in “istruzioni,dichiarazioni,testimonianze”, la Storia infatti l’hanno scritta i potenti e non gli umili, i vincitori e non i vinti. L’impasto linguistico del romanzo mescola l’italiano sostenuto e barocco, dei primi capitoli, al dialetto siciliano, spesso sommariamente italianizzato, al sanfratellano, il poco noto idioma gallo-romanzo parlato da un brigante recluso, e al napoletano delle guardie o al latino. Mandralisca, poi, usa un siciliano che, con immagine dantesca si può chiamare “illustre” , letterariamente nobilitato e regolarizzato sul latino. In un’intervista Consolo ha affermato Ho voluto creare una lingua che esprimesse una ribellione totale alla storia e ai suoi miti. Ma non è il dialetto. E’ l’immissione nel codice linguistico nazionale di un materiale che non era registrato,è l’innesto di vocaboli che sono stati espulsi e dimenticati306 il suo quindi è “ un lavoro da archeologo”, che riporta alla luce ciò che è sepolto nelle Ibidem,p. Sono di questi anni gli studi di Tullio De Mauro e La lettera ad una professoressa di Don Milani Consolo, Vincenzo,Il sorriso dell’ignoto marinaio,Milano:A.Mondadori,2006,p.112 Lo nota G.Contini La lingua ritrovata :Vincenzo Consolo,a cura di M.Sinibaldi,«Leggere»,2,1988,p.12 82 profondità linguistiche dell’italiano, non è una corruzione dell’italiano, non va “verso il dialettismo di colore”, proprio di autori come Camilleri. Il libro si conclude con il proclama del prodittatore Mordini “agli italiani di Sicilia”, in vista del plebiscito del 21 ottobre del 1860, per l’unificazione. Il barone Mandralisca abbandonerà la sua turris eburnea, brucerà i suoi libri e le sue carte e si darà all’azione, aprirà una biblioteca, un museo e una scuola in modo tale che la prossima volta la storia loro,la storia,la scriveran da sé .