L’(IN)ATTUALITÀ DI VINCENZO CONSOLO, FRA SPERIMENTALISMO. ED ETICITÀ. LA RESISTENZA IN SICILIA. TRAVESTIMENTI E FUTURO NOTE SU CONSOLO

LA SCUOLA DELLE COSE
In questo numero hanno scritto:
GIANNI TURCHETTA, NICOLÒ MESSINA, DAVIDE DI MAGGIO, NINO SOTTILE ZUMBO, ALESSANDRO SECOMANDI, FABIO RODRÍGUEZ AMAYA L’(IN)ATTUALITÀ DI VINCENZO CONSOLO, FRA SPERIMENTALISMO. ED ETICITÀ. LA RESISTENZA IN SICILIA. TRAVESTIMENTI E FUTURO NOTE SU CONSOLO

E. ALEJO CARPENTIER CONSOLO, VOCE PLURIMA L’(IN)ATTUALITÀ DI VINCENZO CONSOLO, FRA SPERIMENTALISMO ED ETICITÀ

Gianni Turchetta
L’eccezionale spessore artistico e intellettuale di Vincenzo Consolo rende sempre più necessaria una sua più stabile e più percepibile “canonizzazione” – per usare un termine classico della storiografia e della teoria letteraria – che gli consenta di diventare parte integrante e ben riconosciuta del senso comune della letteratura. In prima approssimazione, Consolo è, un po’ paradossalmente, uno scrittore “attuale” anche e proprio per la sua “inattualità”: questa sua (in)attualità ha a che vedere con la sua idea di letteratura. Consolo è ossessionato, da un lato, dalla necessità di dire la storia – perché per lui bisogna parlare della storia, del passato, del presente, della storia tutta – ma dall’altro mostra anche la fine della fiducia nell’engagement, cioè proprio di un modo di essere intellettuale che Sartre ha reso poco meno che proverbiale. Anche questo è un paradosso, e apparentemente una contraddizione; ma nella scrittura di Consolo le contraddizioni sono vitali, e prendono avvio da un’irriducibile contraddizione di partenza: bisogna parlare, ma sapendo che le parole hanno limiti così severi che diventa quasi avere la tentazione di tacere. Proprio su questa irrisolvibile duplicità Consolo costruisce la sua originalissima unione di sperimentalismo ed eticità, che ne rappresenta la più acuta e flagrante specificità. Vi sono tanti scrittori sperimentali e tanti scrittori etici – per dirla in un modo un po’ rapido e sommario – ma è quasi impossibile trovare una così stretta congiunzione tra due atteggiamenti che non vanno molto d’accordo. Detto in modo ancora un po’ sommario: di solito lo sperimentatore sembra sempre proiettato soprattutto verso le forme, laddove lo scrittore etico, e tanto più lo scrittore “politico”, verso i contenuti. Consolo riesce sempre a far stare insieme queste due dimensioni. Tante volte è stato accusato di “formalismo”: ma si tratta di un’accusa davvero ingiusta e poco fondata. Come scrittore Consolo, da un lato, attinge alla tradizione meridionalistica, cioè agli scrittori, ai saggisti e agli studiosi, a volte anche ai politici, che hanno scritto del Meridione d’Italia, della sua storia, della sua miseria, dell’oppressione, della distanza tra l’Italia del Sud e le altre parti più ricche d’Italia: da Gramsci a Salvemini, a Guido Dorso, a Danilo Dolci, allo stesso Carlo Levi. Ma al tempo stesso è uno scrittore molto vicino a quello che possiamo chiamare il “modernismo”, cioè, in tre parole, allo sperimentalismo non avanguardistico: questo è un altro suo tratto forte, che serve anche a ricordarci quanto egli sia stato, nonostante la convergenza di date (il suo romanzo d’esordio, La ferita dell’aprile, è del 1963), lontano dalla neoavanguardia, con cui anzi polemizzava aspramente, in riconoscibile sintonia con le critiche a essa rivolte da Pier Paolo Pasolini. Non a caso tra gli autori di riferimento della scrittura di Consolo si collocano Eliot e Joyce. Vi proporrò ora un esempio molto caratteristico della forza di Consolo, della sua originalità e della sua irriducibile, e produttiva, duplicità. Tutti abbiamo presente ciò che sta succedendo in Europa e nel mondo: dove migliaia, centinaia di migliaia, milioni di persone migrano, si spostano e spesso muoiono nel tentativo di emigrare. Moltissimi, tragicamente, soccombono nel canale di Sicilia e al largo delle coste dell’Egeo, uccisi “dall’acqua”. Ecco, Consolo, in tempi molto lontani, ha cominciato a cogliere questo movimento che oggi è sotto gli occhi di tutti e che ha preso proporzioni così ampie da diventare uno degli argomenti centrali dell’agenda politica dell’Unione Europea. Se ne parla in continuazione, e ci si scontra su questo: i muri, le quote, i soldi alla Turchia e i ricatti di Erdogan, gli imbarazzi e le titubanze della UE. Consolo ha capito prestissimo la rilevanza assoluta del fenomeno incombente delle migrazioni nella tarda modernità, anche e proprio nell’area mediterranea: già negli anni ottanta infatti ha scritto spesso di migranti che morivano in acqua, specie nordafricani o più generalmente africani. Si pensi, fra gli altri, a un racconto esemplare come Il memoriale di Basilio Archita, scritto a caldo nel 1984. Ecco così che possiamo ben percepire il Consolo che guarda al presente, alla storia, al Meridione nostro e al Meridione del mondo, cogliendo con eccezionale profondità quello che sta succedendo, prima di tanti altri. Ma se guardiamo a questa sua percezione da un altro lato, ci accorgeremo che Consolo ha anche un’ossessione letteraria, che lo rincorre fin dai primissimi racconti (si veda Un sacco di magnolie, 1957) e poi ricorrerà per tutta la sua carriera di scrittore: l’immagine del morto in acqua e “per acqua”, non solo perché ha davanti una certa realtà, ma anche perché ha sempre in mente l’immagine della Death by Water della Waste Land di Thomas Stearns Eliot, sezione IV, con la figura di Phlebas il fenicio, morto nell’affondamento della sua nave. L’ossessione letteraria (formale, se volete) fa insomma tutt’uno con la profondità e la lucidità nello scandaglio del reale (dei “contenuti”): Consolo è anche questo, con un’intensità che ben pochi possono vantare. E ci sarebbe peraltro da insistere – la critica non l’ha fatto abbastanza – sulle radici propriamente modernistiche, in senso letterario, di Consolo, e quindi non solo su quelle meridionali, di cui si parla più spesso. Il suo primo romanzo, un Bildungsroman, La ferita dell’aprile, parla di un ragazzo che cresce in una scuola di preti del Nord della Sicilia, in un luogo mai nominato ma che assomiglia molto alla Barcellona Pozza di Gotto dove Consolo effettivamente frequentò le scuole medie, e in un mondo che parla una lingua che non gli appartiene. Il protagonista viene infatti da San Fratello, e ha come lingua madre il sanfratellano: egli impara il dialetto siciliano, l’italiano e anche un po’ di francese, che studia a scuola. Intravediamo quindi una questione della lingua, in cui prende corpo una questione d’identità. Ma anche – e questo certo non è stato sottolineato abbastanza dalla critica – in La ferita dell’aprile è evidente ancora una volta il richiamo alla letteratura modernista: non solo nel vistoso richiamo ancora a Eliot, al suo “April is the cruellest month” (celeberrimo attacco di The Burial of the Dead, sezione I di The Waste Land), attraverso la mediazione di Basilio Reale, ma anche e soprattutto a Joyce, il cui A Portrait of the Artist as a Young Man presenta non poche analogie tematiche e narrative, a cominciare proprio dal tema principale, l’educazione di un giovane in una scuola di preti. D’altra parte, già in questo primo Consolo c’è molto dialetto e, per farla breve, non è per lui possibile rinunciare a nessuna delle due componenti, ovvero il Meridione e la grande letteratura modernista europea, o limitarne il peso. Resta fra le altre cose ancora tutto da decifrare il ruolo di Cesare Pavese nella formazione di Consolo. Pavese, significativamente citato nell’epigrafe del capitolo finale, poi espunto, di La ferita dell’aprile, fa da mediatore, come traduttore e non solo, per molti scrittori italiani verso la letteratura di lingua inglese e americana. Sicuramente, ad esempio, ha un peso importante nell’avvicinare Consolo e tanti altri scrittori italiani a William Faulkner. Sono ancora tutti da approfondire i rapporti tra Faulkner e la letteratura italiana (ma anche di altre nazioni, a cominciare da quella sudamericana: si pensi, per esempio, a quanto di Faulkner arriva a García Márquez). Tutto ciò conferma l’eccezionalità della congiunzione, in Consolo, tra la dimensione meridionale costante, ossessiva, e una non meno costante, rigorosa prospettiva di sperimentalismo modernista, non avanguardistico. Per Consolo la “letteratura” è il linguaggio spinto sino alle sue estreme possibilità. Si ha “letteratura” quando, cioè solo quando vi è una pressione sul linguaggio, una tensione, un’aspirazione violenta, che è al tempo stesso formale e morale. Consolo cerca sempre di dare al linguaggio il massimo di densità formale, attraverso una sorta di pluralizzazione del linguaggio, cioè la moltiplicazione, esibita, dei suoi vari strati, ai quali si sforza di attribuire sistematicamente una speciale densità linguistico-retorica, e quindi una speciale intensità. Questo linguaggio preme verso una verità, una capacità di dire il reale che, unita alla densità formale, vorrebbe far sì che le parole fossero dense, al limite, come le cose. Quindi, da un lato, Consolo vuole che le parole siano come cose, magari addirittura, per citare ancora una volta Carlo Levi, che le parole siano come pietre. Le parole vorrebbero e dovrebbero essere pesanti. Ma le parole non sono cose, e tanto meno pietre: per questo Consolo ci dice continuamente e allo stesso tempo che la “letteratura” è per definizione una “missione impossibile”. Se è infatti necessario caricare le parole sino a farle diventare più che parole, azioni e cose, d’altro canto bisogna farlo sapendo che non sarà mai possibile, che le parole sono per definizione mancanti… Proprio qui, a ben vedere, sta la grandezza di Consolo: cioè sia in questo sforzo di caricare all’estremo le parole, ma anche nella costante, coesistente consapevolezza dei limiti invalicabili della parola. Sono pochi gli scrittori che, come lui, hanno saputo spingere verso un’idea fortissima di letteratura, che comunque resiste come ideale di riferimento: ma continuando al tempo stesso a rivelarci la miseria della letteratura stessa, anche della più alta. Scrivere non basta, ma bisogna continuare a scrivere, sfidando sempre l’oblio e la inesorabile durezza delle cose.


LA RESISTENZA IN SICILIA

Nicolò Messina
Universitat de València

Nell’autunno del 2017, a cinque anni dalla scomparsa di Vincenzo Consolo, usciva per i tipi di Bompiani Cosa loro. Mafie tra cronaca e riflessione 1970-2010. Il libro nasceva a mia cura (il braccio), anche per l’impegno collaborativo di Caterina Pilenga, vedova dello scrittore (la mente), personaggio straordinario che teneva “ambo le chiavi del cor” (Inferno XIII, 58-59) del marito, per il quale non fu solo compagna di tutta la vita, ma interlocutrice vicina, pungolo assiduo, segretaria e archivista, collaboratrice, conoscitrice profonda tanto della lettera compiuta della scrittura consoliana, quella consegnata per la stampa delle singole opere (era capace di recitarne a memoria intere pagine), quanto dei suoi meandri e retroscena. Negli usi di una certa Spagna si imponeva al penitente il sambenito, una sorta di scapolare che denunciava la colpa di cui fare ammenda, un ammennicolo che di per sé ti esponeva al pubblico ludibrio, agli insulti, al giudizio sommario, e che – Goya docet – l’Inquisizione completava nell’autodafé con la coroza, l’allungato copricapo conico che rendeva ancor più identificabile il malcapitato. Nel linguaggio comune permangono i relitti della trista usanza: cargar con el sambenito, llevar el sambenito, colgar/ poner el sambenito, che hanno a che vedere con la nomea che si ha o con il marchio infamante con cui bollare qualcuno. I siciliani avrebbero il sambenito della mafiosità. Da cui nessuno si libera fuori dalla Sicilia, soprattutto all’estero, benché con la mafia non abbia mai stretto patti di connivenza, né sia sceso a patti affollando l’ampia area grigia dell’omertà. Non dovette liberarsene neanche Consolo che dalla Sicilia si autoesiliò e da intellettuale impegnato si sentì in dovere di fare i conti con una mafia che ormai si declinava al plurale, anzi volle farci i conti, non volle sottrarsi guadagnandoci l’isolamento, l’ostracismo. Sarebbe rientrato – di fatto ci rientrò – in un nuovo elenco dei mali della Sicilia esemplato su quello della famigerata lettera del mantovano cardinale Ernesto Ruffini (1964), nel quale avrebbe trovato posto con Sciascia magari scalzando il Gattopardo, convinto com’era, Consolo, che fosse stata la classe sociale del suo autore a passare nell’Ottocento il testimone del potere agli “sciacalletti”, alle “iene”, e che fossero così proprio quei nobili, da dirigenti agonizzanti, a essere corresponsabili dell’infiltrazione mafiosa nelle istituzioni e nell’attività politica (Cosa loro, pp. 11, 45, 64; soprattutto pp. 251, 255, 296). Ricordiamoci della “resistibile ascesa” (B. Brecht) di don Calogero Sedara! Cosa loro lo dimostra e dimostra come e quanto Consolo si schierasse indefettibilmente contro l’olivastro mafioso, il cancro che infesta con le sue metastasi ormai immedicabili l’isola e l’Italia intera. Basta scorrere le pagine scritte sotto la spinta dei terribili fatti del 1982 e di dieci anni dopo, rileggere quelle finali, vibranti e sconsolate di Lo spasimo di Palermo (1998). Tra la quasi settantina di testi dell’arco temporale 1970-2010, confluiti in Cosa loro, ne vogliamo proporre uno dei primi, per motivi anche circostanziali, perché sembra attinente al momento attuale, alla presunta dormienza della mafia nel presente dell’Italia, della Sicilia: I nemici tra di noi (“L’Ora”, lunedì 6 settembre 1982; Cosa loro, pp. 49-50). Si badi intanto alla data. Venerdì 3 settembre: tre giorni prima era stato assassinato dalla mafia il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro. Ancor prima, il 30 aprile, era stato trucidato Pio La Torre insieme a Rosario Di Salvo (I nostri eroi di Sicilia, “L’Unità”, domenica 22 aprile 2007; Cosa loro, pp. 251-255). Audace – forse anche discutibile per alcuni, inclini ai cavilli come i dialoganti del racconto di Sciascia Filologia (Il mare colore del vino, 1973) – l’accostamento poco rituale alla Resistenza, ma certo in dissonanza con il trito e ritrito retoricismo di tanta antimafia di facciata. Allora, 1982, e oggi, a trent’anni dalle stragi di Capaci e Via D’Amelio. In una Palermo di svolta amministrativa in cui – in campagna elettorale – l’hanno fatta da padroni i nuovi vecchi, homines novi emersi da un’interminabile trasformistica querelle des anciens et des modernes (si parla difficile in certi colti salotti panormiti e no!). Chissà cosa avrebbe detto Consolo in occasione di questo trentennale. Non più di quanto scrisse a caldo dei due pluriomicidi in cui mafia e conniventi, in un’ottica bellicistica di guerra allo Stato, non ricorsero a tecniche chirurgiche per eliminare gli obiettivi principali (Giovanni Falcone, Paolo Borsellino), ma preferirono per così dire sparare nel mucchio, bombardarono a tappeto per non lasciare scampo né tracce, tranne quella dell’arroganza del proprio potere (Cosa loro, pp. 101-104, 105-108, 109-111, 113-115; 117-120). Né meno indignato sarebbe stato il suo atteggiamento di quando la seconda carica esplosiva di Via D’Amelio scavò più in profondità la voragine di Capaci, gli strappò definitivamente ogni speranza di riscatto. Quanto incisero quegli scoppi nell’afasia narrativa dello scrittore (Lo spasimo non fu seguito da Amor sacro, l’opera tanto annunciata e invano attesa)? Quanto, l’imbarbarimento dei tempi, dei comportamenti, dei linguaggi del nuovo ventennio di Mascelloni (La mia isola è Las Vegas, 2012, p. 178)? Quanto, i morti per acqua (T.S. Eliot) che cominciavano a trasformare il Mediterraneo da mare culla di civiltà in cimitero a cielo aperto? L’incipit dell’articolo è rivelatore: “Parecchi anni fa, quando dalla Sicilia emigrai a Milano – emigrazione imposta dal potere politico-mafioso – mi colpì subito la gran quantità di lapidi affisse sulle facciate delle case che ricordano i morti caduti nella guerra antifascista, nella Resistenza. Lapidi che diventano ogni anno, la sera del 25 aprile, stazioni di civili processioni con fiaccole e sotto cui vengono appesi mazzi di fiori, ghirlande di foglie. Sono riti del nostro Stato civile e democratico che non avevo mai visto, a cui non ero abituato, perché nel Sud, in Sicilia non c’era stata la Resistenza”. Il trasferimento definitivo a Milano, dove Consolo lavorerà alla RAI, è spiegato non come conseguenza del concorso vinto contro ogni previsione, ma di un autoesilio ritenuto inevitabile, rispondente alle sue inquietudini ideologiche, esistenziali, al disadattamento a una realtà d’origine in lento disfacimento, in balia di una mutazione antropologica inarrestabile in cui il nuovo dei fumaioli industriali che nessuno vuole altrove, i moderni mostri inquinanti, si somma al vecchio degli squilibri sociali medievali mai affrontati con serio senso della prospettiva dallo Stato unitario liberale monarchico, né da quello repubblicano seguito alla sconfitta dell’Italia fascista. Ultimo, Consolo, degli scrittori siciliani della diaspora milanese del tempo: Vittorini, Quasimodo, l’amico Basilio Silo Reale… È – afferma perentorio – una “emigrazione imposta dal potere politico-mafioso”, prolungamento del mai tramontato medioevo siciliano, non interrotto né dalla modernità né dall’Illuminismo (gran cruccio di Sciascia e dello stesso Consolo), né dal Risorgimento impostosi in una versione nemmeno timidamente antimoderata (S. Massimo Ganci, L’Italia antimoderata, Guanda, Parma 1968) e quindi occasione fallita di effettiva trasformazione e di reale superamento della questione meridionale (Il sorriso dell’ignoto marinaio è il contributo consoliano alla lettura di quella fase storica), né dal vento del Nord del secondo Risorgimento che fu la Resistenza (“nel Sud, in Sicilia non c’era stata la Resistenza”). Anche questa occasione di cambiamento fu negata alla Sicilia. Lo stesso sbarco degli Alleati a Gela (10 luglio 1943) è offuscato da complicità e da aiuti richiesti e indesiderabili. “Ma in Sicilia, subito dopo la guerra, dopo la formazione di questo Stato democratico, è cominciata una guerra contro un nemico interno, efferato e terribile come quello nazifascista: la mafia. E oggi sono tante, tante le lapidi che ricordano i caduti di questa lotta eroica e disperata, dai caduti di Portella della Ginestra al generale Dalla Chiesa. Oggi, dopo quarant’anni, Palermo è piena di queste lapidi. […] E se si scegliesse un giorno dell’anno per la commemorazione della lotta alla mafia [dal 1996 l’auspicio si è avverato su iniziativa di Libera, scegliendo il 21 marzo di ogni anno, data confermata dalla legge n. 20 dell’8 marzo 2017. NdE], ci sarebbe di che fare processioni con fiaccole, di che appendere fiori e corone” Sul filo coerente del ragionamento, però, Consolo il mondo che viene soppiantato dall’incedere della modernità. D’altra parte questi scatti non possono neanche essere considerati solo alla stregua di un reportage di documentazione sociale: quasi una classificazione gerarchica di immagini ad uso scientifico per qualche manuale etnologico o un corrispondente studio sul campo. Lo impediscono innanzitutto le regole compositive che Giuseppe Leone si è dato e che costituiscono la cornice di riferimento del suo progetto: concentrarsi sul travestimento, sull’emozione psicologica varia e variabile che di volta in volta affiora dalle sue fotografie. È così che emerge un’identità espressiva specifica che tiene insieme tutto il lavoro di Giuseppe Leone e gli conferisce forma e riconoscibilità: in altre parole, è la capacità del fotografo che trova il suo carattere e la sua distinzione tra rappresentazione condivisa e coagulo autonomo di senso, tra attenzione alla convenzione e deroga della norma. Per comprendere questo punto basterebbe confrontare le sue fotografie con le sequenze della festa di San Bruno scattate per illustrare Sud e magia di Ernesto De Martino, in cui il valore documentativo prevale su ogni altro aspetto, tralasciando quell’emblematicità espressiva e tecnica che è invece sempre ben presente. Nel caso di Leone si assiste infatti a una particolare programmazione visiva che vede convergere antropologia culturale e progetto artistico, sguardo narrativo partecipe e distacco documentario, evidenziando quei nessi sedimentati e stratificati nella memoria collettiva profonda quanto inconsapevole che si potrebbero ben definire “dimenticati a memoria”, secondo l’efficace definizione coniata in altro contesto da Vincenzo Agnetti. Queste donne e uomini sempre presenti nel suo lavoro si liberano dal consueto e dal quotidiano per spingersi oltre le colonne d’Ercole del genere e della categoria. È un modo che, seppure vissuto inconsciamente, affonda le sue radici in una selva di antichi miti e di riti transculturali che avevano lo scopo di riconnettere gli opposti; qui l’unità degli opposti significa far riaffiorare sulla superficie del corpo la possibilità di un dialogo effettivo tra le polarità maschile e femminile, ritualità magica per favorire la fertilità ed esorcizzare la morte; sono coincidenze che travalicano i confini geografici e che si riflettono in una modalità arcaica la quale rivive oggi e porta in sé la memoria di riti propiziatori che allontanano gli influssi negativi, che avevano la funzione di connettere con il sacro, il divino e il magico. Ecco dunque che la fotografia di Giuseppe Leone acquista una luce ben diversa che la strappa dalla cronaca per reinserirla nel tempo lungo della storia dell’umanità. Le sue immagini mostrano le tracce attualizzate di questo mondo archetipo e fortemente perturbante, tanto che lo straniamento che noi stessi proviamo guardando le sue fotografie è forse un’altra spia del riaffacciarsi alla coscienza dell’antico sogno della confluenza di terra, principio femminile, e di cielo, principio maschile. Dopo aver evidenziato questa complessa rete di coincidenze, le figure del fotografo siciliano dalle apparenze quasi sciamaniche qui appaiono come un fenomeno quasi asessuato. C’è senso di sfida in molti di questi volti, ma vi si legge anche una struggente malinconia, che alla fine prevale sulla buffoneria. Ci ricordano la sequenza di scatti a Ezra Pound di Lisetta Carmi, una serie di fotogrammi quasi rubati davanti alla sua casa a Rapallo. Rivediamo, attraverso questi volti, l’immensa anima di Pound, la sua grandezza interiore, il poeta infinito e disperato, la sua totale solitudine. La malinconia nei volti fotografati da Leone invece è congeniale perché diviene simbolo stesso sia della lontananza in cui affonda lo sguardo dei soggetti, sia dell’ambigua indefinizione di genere che traspare da queste figure. La malinconia è come il sorriso della Gioconda, una sfumatura al limite della percezione che sposta il piano dell’osservazione dalla biografia del soggetto al suo grado di fusione con la natura, fino alla sua capacità di riassorbirsi in essa. Nell’evento dedicato a Vincenzo Consolo, organizzato da Lyceum – La Scuola delle Cose nello spazio di Oliveri in provincia di Messina, sono esposte fotografie celebri di Giuseppe Leone. Soprattutto, una di esse ritrae Gesualdo Bufalino, Vincenzo Consolo e Leonardo Sciascia, grandi amici del fotografo siciliano, apparentati da un’insolita contentezza, immortalati in uno scatto che è diventato un simbolo. Tre scrittori isolani accomunati da un’incontenibile risata, consegnati per sempre alla memoria da Giuseppe Leone. La foto dei tre scrittori è un frammento dell’intensa intimità che si registrava in contrada Noce – spiega Leone –, la tenuta estiva di Sciascia. Lo scatto è del 1982 e sancisce non solo la fine del Novecento letterario, ma anche il tramonto di una meravigliosa cultura eccentrica. Tre intellettuali che hanno operato lontano dai centri di potere della cultura ufficiale. Sciascia, Consolo e Bufalino erano scrittori di provincia, ma non erano provinciali. Scrittori di levatura europea, nati in tre minuscoli paesi siciliani: Racalmuto, Sant’Agata di Militello e Comiso. Racconta Giuseppe Leone: “A scatenare la fragorosa risata fu il riferimento ad altri due grandi autori isolani: Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Lucio Piccolo. Leonardo Sciascia raccontò del loro arrivo a Milano, invitati dall’organizzatore del Premio San Pellegrino, Eugenio Montale. Il poeta aveva convocato i due cugini siciliani per renderli edotti sul da farsi. I due, accompagnati da un valletto, si presentarono infagottati in pesanti pastrani, bizzarri come Totò e Peppino nella celebre sequenza cinematografica di Totò, Peppino e la malafemmina. Mentre Sciascia raccontava l’episodio con la sua proverbiale vocina e si appalesò la scena dei due cugini a Milano intabarrati, scoppiò la fragorosa risata dei tre scrittori, eternizzata dal bianco e nero della sequenza fotografica”. I richiami transculturali che il lavoro di Giuseppe Leone innesca sono quindi sia iconografici che archetipici, in quanto sanno far emergere sofferenza e gioia, tragedia e riso, vita e morte, festa e carestia. Così Leone ha saputo cogliere quelle tracce con cui il soggetto appare più vicino alle modalità profonde, individuali dell’esistenza, a quell’essere “fusi con il mondo sensibile” di cui spesso scrive lo storico e filologo ungherese Károly Kerényi, coautore insieme a Jung nel 1941 dell’Introduzione all’essenza della mitologia, dove si legge che “il simbolo, nel suo significato funzionale, non indica tanto verso il passato, quanto verso il futuro, verso uno scopo che non è ancora stato raggiunto”. Anche Giuseppe Leone coglie un presente che irrimediabilmente collega al passato e coraggiosamente si rivolge al futuro. Viene rovesciata così la prospettiva di un mondo bloccato e si mostra la possibilità dello scambio e della fluidità del pensiero, contro l’anestetizzazione generale del presente. Il fotografo siciliano cerca di “vedere” l’anima delle società che cambiano, la solitudine e il disagio dell’uomo moderno. Sembra attirato dall’essere e non essere delle figure che fotografa, dalla non fissità del loro vivere “ai margini”, con coraggio e anche provocazione. Vede in loro una verità, un vivere “altro” che apre quella porta che la società convenzionale rifiuta di varcare. Di andare oltre gli schemi e le visioni correnti. Ed è da questa ricerca interiore, da questa radicale capacità di rimessa in discussione (che diventa alla fine insieme un’accettazione) di ogni punto di vista, da questa capacità di sovvertire il nostro sguardo, che bisogna partire per comprendere la
fotografia di Giuseppe Leone.


NOTE SU CONSOLO E ALEJO CARPENTIER

Alessandro Secomandi

Quando si parla delle influenze letterarie su Vincenzo Consolo, alcuni nomi sono da sempre imprescindibili. Si possono ricordare Manzoni, Pirandello, Piccolo e Sciascia, quest’ultimo da un punto di vista soprattutto etico e politico in senso lato. Ma pian piano comincia a farsi largo anche un altro punto di riferimento, più sorprendente e più defilato rispetto ai maestri di cui sopra. È il cubano Alejo Carpentier, figura centrale della letteratura ispanoamericana dall’uscita di Il regno di questa terra (o mondo, in traduzione Einaudi). Era il 1949, e questo breve romanzo sulla rivoluzione di Haiti avrebbe lasciato un segno indelebile prima nella narrativa del continente, poi al di fuori. Consolo conosceva bene l’opera di Carpentier. Lo testimoniano, per esempio, il saggio La pesca del tonno in Di qua dal faro (1999), l’articolo del 1989 sulla ghigliottina del Museo Pepoli a Trapani, per il “Corriere della Sera”, e ancora quello del 1997 dedicato a Il regno, per “Il Messaggero”. Ma è un dato che emerge pure in qualche intervista: Consolo lo reputava uno degli autori più affascinanti nel panorama latinoamericano, e forse il più affine. Sono singole immagini proposte da Carpentier a tornare in questi omaggi. Come i colori, profumi e sapori dei Caraibi e di quel mare, fonte di ispirazione anche per l’apertura di Il sorriso dell’ignoto marinaio, con lo sbarco di Mandralisca a Oliveri. Il cubano li descrive con straordinaria vividezza in Il regno e Il secolo dei lumi (1962), due romanzi del suo ciclo rivoluzionario. E poi appunto la ghigliottina, emblema quanto mai tangibile delle contraddizioni dell’Illuminismo, fra progresso scientifico e rinnovate barbarie: Consolo recupera da Il secolo la scena del suo arrivo nelle colonie francesi tra fine Settecento e inizio Ottocento, trasportata su una nave assieme al decreto per l’abolizione della schiavitù, e ne fa la chiave di volta delle proprie riflessioni sulla “Macchina”. Un ponte inedito fra Trapani e la Guadalupa che ovviamente guarda anche oltre, ampliando la prospettiva alla Storia universale e al suo costante intreccio di olivo e olivastro, ragione e follia, cultura e natura. Nella biblioteca personale di Consolo si trova pure Il regno edizione Longanesi del 1959. Consolo, che era solito annotare e sottolineare i suoi libri, ne mette in particolare risalto il finale. Qui lo si cita dall’edizione Einaudi: “l’uomo […] soffre e spera […] e lavora per individui che mai conoscerà, e che a loro volta soffriranno e spereranno e lavoreranno per altri che [non] saranno felici, perché l’uomo brama sempre una felicità sita oltre la porzione che gli è stata assegnata. Ma la grandezza dell’uomo consiste proprio nel voler migliorare quello che è. […] Nel Regno dei Cieli non c’è grandezza da conquistare, visto che là tutto è gerarchia fissa, […] impossibilità di sacrificio […]. Per questo, oppresso da pene e Doveri, bello nella sua miseria, capace di amare […], l’uomo può trovare la sua grandezza, la sua piena misura solo nel Regno di questo Mondo”. In questo brano c’è molto di quanto, a livello tematico, Consolo riprende anche da Carpentier. Lo si potrebbe definire pessimismo storico, che nei romanzi del cubano assume connotati più lievi e un andamento spiraliforme, ovvero con piccole ma decisive deviazioni dall’immutabilità del cerchio perfetto, e che invece in quelli di Consolo si fa più radicale e “gattopardesco”. Così, se ad esempio in Il regno e Il secolo ogni fallimento degli ideali porta comunque a un qualche piccolo passo avanti, in Il sorriso e Nottetempo, casa per casa tutto cambia per restare come prima. Nessuna differenza concreta, per la vita dei contadini nell’entroterra siciliano, con il passaggio solo e soltanto politico dai Borboni ai Savoia (Il sorriso); nessun progresso sociale e civile, anzi un imbarbarimento e una deriva autoritaria con l’arrivo dei fascisti sull’isola (Nottetempo). E la spirale, simbolo millenario e forma barocca presente pure in Il sorriso, assume i lugubri, materialissimi connotati del carcere dove finiscono i braccianti, i subalterni, gli ultimi della società. Sono i sotterranei del Castello Gallego di Sant’Agata di Militello, edificio dove oggi ha sede la Casa Letteraria Consolo. Sia detto di sfuggita, anche in Il regno compare un castello, a ulteriore parallelismo: è la Citadelle Laferrière voluta dal primo e unico re negro di Haiti, Henri Christophe, per i suoi labirinti degna erede delle carceri piranesiane. Non stupirà che i protagonisti di entrambi gli scrittori siano spesso intellettuali messi di fronte ad autentiche rivoluzioni, o comunque a cambiamenti epocali, dalle grandi speranze e dai rovinosi sviluppi. Lo sono Esteban e Sofía, i rampolli di una buona famiglia habanera che vivono sulla loro pelle tutta l’ambiguità della Rivoluzione francese nel Nuovo Mondo (Il secolo). Ancora di più lo è Enrico Pirajno, barone di Mandralisca, che all’alba dell’Unità d’Italia fa i conti con un massacro di notabili per mano dei contadini in rivolta ad Alcara Li Fusi, e con la conseguente fucilazione sommaria di alcuni degli insorti da parte dell’esercito garibaldino (Il sorriso). Lo è pure Pietro Marano, giovane maestro di scuola dalle simpatie socialiste che, nel cefaludese dei primi anni venti, finisce coinvolto negli scontri con le squadracce e si ritrova costretto a fuggire in esilio (Nottetempo). Su un piano diverso e più “metafisico”, ma non per questo imparagonabile, rientra nel novero anche Fabrizio Clerici, pittore lombardo che viaggia per una Sicilia settecentesca dai contorni quasi di fiaba, senza dubbio, e però non priva di piccoli quadri che accennano alle secolari ingiustizie dell’isola (Retablo). In aggiunta, durante il suo itinerario Clerici si imbatte in una ghigliottina, elemento già evidenziato da Salvatore Grassia: è un nuovo omaggio a Carpentier, oltre che all’esemplare della “Macchina” esposto a Trapani. Fra i due autori esiste poi un’intersezione nel richiamo ad altri mezzi artistici. Si potrebbe ricordare la presenza della musica, che ispira nell’andamento, nel ritmo o nella suddivisione dei capitoli almeno tre romanzi di Carpentier (il breve La fucilazione, Concerto barocco e La consacrazione della primavera), e che in Lo spasimo di Palermo fa da contrappunto pure visivo, con lo spartito dello Stabat Mater di Emanuele d’Astorga, al drammatico finale. Ma è soprattutto la pittura che rappresenta la più nitida forma di “intrusione” condivisa da Carpentier e Consolo. Basti pensare alle didascalie di I disastri della guerra di Goya, citate tanto in Il secolo quanto in Il sorriso come commento e compendio a scene di violentissima, sanguinosa devastazione. Inevitabile che le vere e proprie incisioni di Goya diventino un riferimento figurativo immediato, benché implicito. Vale la pena accennare anche al fatto che entrambi questi romanzi, di nuovo Il secolo e Il sorriso, sono scanditi nei loro intrecci dall’apparizione sistematica e significativa di un dipinto ripreso dalla realtà: in ordine, il primo è Esplosione in una cattedrale, o Il re Asa che distrugge gli idoli, del misterioso Monsù Desiderio, mentre il secondo è ovviamente il Ritratto d’ignoto di Antonello da Messina. Resta un ultimo punto di contatto da considerare, uno dei più lampanti e dei più difficili allo stesso tempo. Per il linguaggio, per le forme, per l’ispirazione in senso lato, sia Carpentier che Consolo si ritenevano scrittori barocchi. Ciascuno dei due reinterpreta questa categoria a proprio modo, e intendendola in maniera almeno parzialmente diversa da come la si concepiva nel Seicento. Il problema di un confronto approfondito tra i loro rispettivi e differenti “barocchismi”, operazione che in ogni caso qui risulterebbe impossibile, è a monte: Consolo conobbe Carpentier attraverso le traduzioni italiane, prima Longanesi, poi Einaudi e Sellerio, che quindi andrebbero scandagliate a loro volta in una sorta di complesso triangolo comparativo. Eppure, al di là di alcune caratteristiche generiche come la prosa molto densa, nel loro stile si può cogliere un elemento barocco che li accomuna e che, soprattutto, balza quasi subito all’occhio. Si tratta dell’archeologia linguistica. Da una parte, il recupero che Carpentier fa di vocaboli castigliani in disuso, ormai vivi solo in America Latina, con lo scopo dichiarato di rivendicare una specifica identità continentale, separata da quella della penisola iberica. Dall’altra, i tanti localismi che Consolo utilizza con l’obiettivo di salvare dialetti e varietà regionali dalla scomparsa. Con ogni probabilità è soltanto una coincidenza, questa sì, tra due autori che non si incontrarono mai di persona, ma che comunque intrattengono uno straordinario e sorprendente rapporto letterario.

CONSOLO, VOCE PLURIMA

Fabio Rodríguez Amaya

Radicato nell’Italia profonda, nauta nell’immensità delle lingue, maestro del barocco connaturato alla sua nativa Sicilia, Vincenzo Consolo (Sant’Àita di Militieddu 1933 – Milano 2012) si è impegnato come poeta – senza aureola né allori – a esplorare la storia e i suoi protagonisti: la natura, l’individuo, la società. Come ogni buon scrittore del Sud era memore, allo stesso tempo, dell’oscuro e del cristallino Siglo de Oro della Spagna imperiale e cattolica, così come dell’arte e delle letterature europee, di classici quali Omero, Virgilio, Dante, Rabelais, Montaigne, Cervantes e Manzoni, dei suoi contemporanei più vicini in quanto a ingegno e immaginazione come Joyce, Beckett e T.S. Eliot e, ovviamente, dei siciliani, tutti. Dal suo esordio come autore nel 1963, con La ferita dell’aprile, Consolo si è dedicato a indagare con gli strumenti della scrittura e in maniera iconoclasta la materia, la società e la cultura. Motivato, in principio, dall’urgenza di nominare le cose nelle loro minuzie e nei loro limiti immaginabili e impossibili, senza alcun indugio assumendo come propria eredità il crogiolo in cui convergono espressioni, popoli e idiomi di quella che una volta era la capitale del mondo e oggi patisce nella decadenza che imperversa. Consolo è stato una figura marginale per la sua condizione periferica rispetto al centro, e perché migrante dalla provincia marinara e contadina all’urbe industriale. Però non era marginale il suo sapere. Si è impegnato con la letteratura, l’arte e la società civile nell’ottica militante di esercitare il mestiere della lettura e della scrittura come migliore possibilità di conoscenza e di critica. L’ha fatto contrapponendosi a tutto ciò che uniforma, annulla e aliena nella società industriale e postindustriale, nella vertigine propria dell’epoca delle comunicazioni di massa, alla vigilia dell’avvento di Internet. Nomade quanto sedentario, l’ha fatto radicato alla terra siciliana, ancorato allo Ionio e al Tirreno come i suoi Antonio di Giovanni de Antonio, il Mandralisca, nobile erudito cefalutano, e Interdonato, democratico illuminista, tutti personaggi di Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976), vela di maestra della sua produzione. Consolo ha affrontato non poche sfide, distante da tutti e al contempo vicino a tutti, in primo luogo agli artisti (con testi oggi raccolti in L’ora sospesa). Così come al suo amico e maestro Lucio Carlo Francesco Piccolo di Calanovella, insieme alla moltitudine di personaggi immaginari e reali che popolano le sue finzioni. Ciò di cui si è occupato spazia dalla Sicilia e dal Mezzogiorno, teatro della “nobile” spedizione di Garibaldi e dei misfatti borbonici e sabaudi, all’Italia degli anni di piombo, passando per la repubblica, il compromesso storico e il ’68, oggetti sia di ripulsa che di fascino. L’ha fatto esplorando il morbo delle ideologie e le piaghe del fascismo, della mafia, della corruzione, del terrorismo e della politica. Senza mai dimenticare la propria cornice culturale, specie il Gruppo 63 e la sua ambiguità, la doppia morale mostrata da un buon numero dei suoi membri, rinserrati nel narcisismo, nel lassismo dell’“intelligenza liberamente oscillante” (Mannheim dixit), che per la sua collocazione equivoca si arroga il diritto di offrire una visione “oggettiva” della società con il fine apostolico di contribuire alla sua conoscenza, alla proliferazione di chimere, alla costruzione narrativa della Storia, anfiteatro di “menzogna e sconfitta”, a scapito di quella autentica. A differenza di molti suoi contemporanei, non è difficile pensare a Consolo nel discreto silenzio delle sue ricerche, del suo lavoro giornalistico e saggistico per poter sopravvivere. Lui, così simile e così diverso dall’amico e maestro Leonardo Sciascia (il racalmutese di L’ordine delle somiglianze e delle Epigrafi); simile e diverso dai non pochi siculi-isole, isolati, o dai peninsulari impossibilitati a emergere come un arcipelago che si oppone alle stoltezze e alle miserie della specie umana. Prigionieri, come lui, di quel fantasma del passato, ingombrante, che vede l’Italia intera come un territorio d’eccezione da circa tre millenni, nonostante il tramonto definitivo della Trinacria, la decadenza borbonica dei Salina (e dintorni), mirabilmente messa a fuoco da Giuseppe Tomasi di Lampedusa, e i contrastanti miti risorgimental – repubblicani, gli orrori dei conflitti, le promesse del secondo dopoguerra, la repressione statale e poliziesca, il sogno della ricostruzione, la deturpazione degli immaginari colonizzati dai dogmi monoteisti o dalle ottuse dottrine politiche, l’effimera “dolce vita”, la bolla del boom economico e la caduta abissale del Paese nell’ultimo ventennio (di cui Consolo è stato grande testimone). Si è preso questi oneri non per il riconoscimento ufficiale, non per ingraziarsi le frivole voci degli ideologismi, ma per la sua passione e per la decisa autonomia intellettuale, tradotta in una scrittura espressionista per nulla compiacente. Una scrittura, anzi, dalla più lucida eresia nei confronti del romanzo, soprattutto storico (e isterico). Con polso fermo, in uno stato naturale di alterazione della coscienza, unito al fardello della sua origine semiproletaria, Consolo travasa la sua esperienza vitale e culturale in narrazioni inedite, in palinsesti difficili, multiformi e proliferanti che riverberano nel sincretismo, nella sorpresa, nello straripamento, sempre a debita distanza dallo sperimentalismo, dalle postavanguardie, dall’antiromanzo o dalle mode effimere del mercato editoriale. La sua personale maniera di articolare gli eventi, di porsi e di collocare i lettori davanti all’entelechia della Cultura, davanti alla lingua (dai più poco o mal conosciuta), di andare intrecciando storie e aneddoti preferibilmente statici, ma pure itineranti, attraverso linguaggi che riecheggiano un’oralità stratificata, una testualità composita, a reminiscenza di autori e opere e voci e forme e stravaganze e invenzioni che le popolano; proprio questa personale maniera di raccontare innalza i suoi lavori a paradigmi della babele contemporanea. La sua narrativa, come un fiume in piena, è sfuggente, polimorfa, polifonica, plurilingue, plurivoca e, allo stesso tempo, multisonante, magmatica e leggera, intricata come un frattale, ardua come un dedalo, complessa come la struttura a forma di chiocciola del carcere del Castello Gallego a Sant’Agata, o come il limaçon, o come un prospetto spiraliforme e labirintico di Escher. Senza considerare i temi e gli argomenti che tratta con disinvoltura, ancorati alla conoscenza storica, all’etica e alla materia (Consolo è uno scrittore materialista), mi riferisco alla dedizione disciplinata e alla lucidità della distillazione linguistica, allo sguardo macroscopico, all’attenzione maniacale per la forma che, sempre frenetica, succulenta e ingegnosa, è capace non solo di fondere idee, immagini e metafore, ma pure di muovere per il testo i fatti, le voci narranti e pure i lettori con mille espedienti. E questo insieme diventa l’apice della sua narrativa. Un insieme corroborato dall’estro, dal volo immaginativo che si riversa nelle tante enumerazioni al limite del caotico, e che non vi sconfina solo grazie all’ordinata sapienza che timona la scrittura. E sono decisive per strutturare i suoi lavori molte varietà prospetta una correlazione fra antifascisti caduti e caduti di mafia. E la stabilisce sulla base del concetto di “nemico interno”, del parallelo nazifascismo – mafia: l’uno e l’altra accaniti contro ogni dinamica democratica circolare (D. Dolci), legati a una visione verticistica autoritaria escludente. In quest’ottica non mancherebbero, anzi purtroppo avanzerebbero, alla Sicilia, lapidi commemorative. Ma non sono certo gli omaggi floreali, i sermoni rituali, il modo migliore di onorare i vecchi resistenti, tra i quali furono anche alcuni siciliani e meridionali sorpresi al Nord dall’armistizio e dalla farsa tragica della Repubblica Sociale di Salò, o i nuovi resistenti antimafiosi. Il cui nuovo nemico – “loro e nostro” – è ben definito in una carrellata storica che ripassa i decenni dell’Italia repubblicana, dalla metà degli anni quaranta in poi, su uno sfondo che rimanda a L’olivo e l’olivastro (1994) e sembra quello disegnato dal racconto eponimo di La mia isola è Las Vegas (pp. 215-217): “Ma non è questo che vogliono i morti per un ideale, per una causa giusta, non vogliono riti e fiori: gli uni e gli altri si consumano e appassiscono, diventano presto stanchi e vuoti simboli, buoni solo per la nostra consolazione. Questi morti non vogliono mai perdere il valore del loro sacrificio: valore di lacerazione, di inquietudine, di furore e di lucidità delle nostre coscienze. Vogliono che non dimentichiamo per un attimo la orribile faccia del loro e nostro nemico. Di quello che ieri armava la mano del bandito Giuliano per uccidere inermi proletari e, con l’Indipendenza, voleva trasformare questa nostra terra in un’isola di bische e di bordelli, di traffico e consumo di droga, di vizio e degradazione, di assoluto sfruttamento di molti e assoluto privilegio di pochi. Di quello che in questi quarant’anni ha distrutto e imbarbarito quest’isola di umanità e di cultura, ha distrutto le nostre campagne, i nostri paesi, le nostre città, i nostri monumenti, ha fatto versare lacrime amare ai nostri emigrati in Germania o in Svizzera. Di quello che ha fatto della Sicilia, di Palermo la testa di ponte e una delle centrali più importanti delle multinazionali del traffico della droga, dei sequestri, del crimine di ogni sorta. Di quello che se ne sta tranquillo e beato nel suo palazzo, nella sua villa, scorrazza sul suo yacht, accumula miliardi che trasferisce in banche estere”. L’explicit dell’articolo non può essere – sia concesso il bisticcio di parole – più esplicito e spiega il gelo della Sicilia ufficiale su Consolo, la profonda antipatia nei suoi riguardi, perché Consolo aveva poco o nulla da compatire, simpatizzare, da sentire in sintonia con tale Sicilia, la vasta zona grigia (P. Levi), se non del consenso, del non dissenso mafioso. Ecco ancora un altro collegamento irrituale alla storia del Novecento europeo, alla più grande tragedia del secolo scorso: le deportazioni e l’annientamento dei Lager; e un ulteriore rimando alla grigia nebbia del consenso fascista miracolosamente dissoltasi nell’immediato secondo dopoguerra. Consolo punta il dito decisamente verso l’uomo della strada che non ha fatto il salto del divenire cittadino consapevole, compartecipe della casa comune, della cosa finalmente pubblica, di tutti. Ma ricorre al plurale (“tutti conosciamo […] sappiamo […] ha bisogno di noi, ognuno di noi”): fa appello agli altri e a sé, non si erge a giudice, è uno dei (si augura) tanti a volersi liberare di non metaforici sambenito e coroza, dei reali lacci e lacciuoli mafiosi, del “nostro nemico” comune. Antimafia non è il delegare la lotta ai martiri, agli eroi, l’abbandonarli a combattere da soli in prima linea e il piangerli e onorarli da morti; è l’orgoglioso prendere coscienza del proprio ruolo di cittadini, di soggetti politici avulsi dai condizionamenti, dalle manipolazioni. Ecco perché – per loro e per noi – non possiamo, non dobbiamo dimenticarci: “Della faccia di questo nemico invisibile ma che tutti conosciamo, anche delle facce a tutti note dei loro compari, protettori e protetti, che a Palermo e a Roma da tanti, tanti anni occupano le poltrone del potere politico e amministrativo. E vogliono quei morti che sappiamo che la lotta alla mafia non ha bisogno di eroi soli e isolati da immolare, che sono ingiusti i sacrifici dei sindacalisti, dei La Torre, dei Dalla Chiesa; che la lotta alla mafia ha bisogno di noi, di ognuno di noi, nella nostra limpida coscienza civile, della nostra ferma determinazione; che è lotta politica, lotta per la nostra civiltà”. València, 24 giugno 2022

TRAVESTIMENTI E FUTURO

Davide Di Maggio e Nino Sottile Zumbo

“Scattando, senza sosta, ha messo in salvo, condotto a riva i relitti di un naufragio culturale. Immagini che testimoniano una trasformazione sociale epocale, la fine della civiltà contadina”. (Vincenzo Consolo su Giuseppe Leone) Una fotografia non mostra soltanto qualcosa che appartiene a chi l’ha scattata, così come non riguarda esclusivamente quello che vi è stato colto in un particolare momento in un luogo specifico. Le immagini piuttosto vivono in mezzo a questi due poli, il loro creatore e il loro soggetto, e aggiungono qualcosa che non si trova né nell’uno né nell’altro. Questo avviene perché esse, oltre a significare, circolano in un sistema di relazioni, di riferimenti molteplici e di echi lontani. Anche le immagini che compongono le fotografie di Giuseppe Leone (Ragusa 1936), nell’ambito di un intenso lavoro portato avanti negli anni, superano con forza l’idea di una fotografia esclusivamente autoreferenziale e autobiografica, nonostante che anche questi elementi vi rientrino come una delle loro caratteristiche. Nel corso di quasi settant’anni di attività il fotografo siciliano ha percorso in lungo e largo la sua isola. Non c’è villaggio dell’entroterra o paesino della costa che non abbia fotografato, prima che uno dei due sparisse. L’incontro, all’inizio degli anni settanta, con l’antropologo Antonino Uccello lo spinge con maggiore decisione verso la fotografia antropologica, quella che indaga costumi, ma anche il duro lavoro, le condizioni sociali della Sicilia interna. Sebbene egli ami definire le sue immagini “neorealiste” perché legate al mondo operaio, contadino, alle miniere d’asfalto del ragusano. La sua fotografia però va oltre la poetica neorealista per avvolgere con una intensa pietas i soggetti, soprattutto quando rappresentano 9 Vincenzo Consolo a Noto, anni ottanta. Riproduzione riservata Vincenzo Consolo a Noto, anni ottanta. Riproduzione riservata dell’italiano: arcaico, classico, aulico, gergale, accademico, popolare e attuale, meticciato a dialetti come l’antico sanfratellano, gallo-italico, con tutte le loro sfumature fonetiche, lessicali e grafiche. Decisiva, pure, la contaminazione con il latino, il francese, l’inglese, lo spagnolo e il portoghese, oltre ai documenti e alle notizie minuziosamente trascritti come intermezzi, appendici e contrappunti alla finzione. Cosa dire della tensione tra lo spazio-tempo dell’Essere, la Sicilia e il Sud intero, e il tempo – spazio dello Stare, Milano e il Nord, tra meridionale e settentrionale, tra urbano e rurale di questa Italia unita a forza? Gli spazi senza tempo della gestazione e della devastazione, intensi nella sua isola circondata dall’onnipresente Mediterraneo, culla dell’Occidente, fucina di popoli e saperi dall’epoca preistorica. La Sicilia, “madre terra di uomini e dèi”, il centro dove si amalgamano sicani ed elimi, fenici e greci, latini e bizantini, arabi e normanni. La Sicilia è il luogo privilegiato della narrativa, della saggistica e della pubblicistica di Consolo, perché proprio lì prende vita, tra città, borghi, monumenti, processioni, resti di civiltà, vulcani, isole, spiagge, colline, botteghe, commerci e campi, nella contraddizione e nel dubbio, nel conforto, nella festa e nel lutto. È l’epicentro della memoria e dell’oblio: un passaggio obbligato per il viaggiatore e per il corsaro, per l’erudito e per l’analfabeta, per il militare, il togato e il prelato. I testi e le narrazioni di Consolo sono intrisi di nostos, di assenza; arricchiti da un limpido raziocinio e da un discorso prolisso in un continuo viavai fra mito e storia, archeologia e botanica, sapienza ed evidenza, teoria ed empirismo: tutti elementi che rendono la sua opera una geogonia dove confluiscono organico e inanimato, cromatismi e sapori, tonalità e aromi, oggetti materiali e immateriali che con prelibata precisione ne definiscono la scrittura. È l’imperante regno dei sensi siciliano, la Sikelia, con il suo retrogusto di terra nera e terra rossa, argilla gialla e argilla grigia, lava, zolfo, pomice, pietre, salnitro, sabbia, iodio, arancine, provola, canestrato, melanzana, sarde, totani, basilico, granite, vite, olio e grano, insomma di qualsiasi frutto di terra e di mare. Cosa dire del suo verbo torrenziale, nominale e a tratti estremo? Del costante contrappunto fra violenza e ordine, follia e razionalità, scienza e superstizione, armonia e disordine, conservazione e annichilimento, sempre in tensione tra loro, senza dialettiche improvvisate, e strutturate nelle unità indivisibili anteriori ai tempi del silenzio, del caos e del nulla che proprio Consolo rinnova e attualizza. Per me sono stati di grande fascino la sua apatia irriverente e timorata, il suo sorriso vigile e beffardo, identico a quello dell’Ignoto del Museo Mandralisca a Cefalù. E identico nei ritratti dei siciliani Giovanna Borgese, Giuseppe Leone, Ferdinando Scianna. È quel sorriso che tra rivolte e dissertazioni, viaggi e persecuzioni, incontri, deliri e verità, fa diventare lo studio dell’erudito malacologo Mandralisca come quello del San Girolamo di Antonio di Giovanni de Antonio, e ciò rinsalda la sapienza di Consolo e il suo piacere per la pittura. Fra la sua contenuta produzione narrativa (Consolo sapeva che pubblicare un libro all’anno è delirio, vanità e deriva), in particolare Il sorriso, Retablo (1987), Nottetempo, casa per casa (1992), L’olivo e l’olivastro (1994) e Lo spasimo di Palermo (1998) sono stati per me segnavia nell’impossibile compito di vivere e sognare in italiano. Ma pure il resto della Conca d’Oro che sono i suoi testi occupa un posto d’eccezione nella mia memoria e nelle mie letture di persona sradicata dal suolo colombiano, poi abbracciata dall’italiano, mia nuova patria. A lui come a Pirandello, Verga, Vittorini, Bufalino e Sciascia, e a pochi altri (Carlo Levi, i partenopei), devo la mia preferenza per il Sud, per il verosimile, per il possibile, per questo modo di trasformare il racconto, grande menzogna, in una grande verità. Ripercorrere i libri di Consolo dà poi ulteriore lustro ai miei connazionali, già giganti, che sono Borges, Carpentier, Lezama, Sarduy, García Márquez, Espinosa e Burgos Cantor. Perché, come loro, Consolo ha saputo amalgamare generi, modi, stili, saperi e linguaggi, fino a diventare una voce plurima: la propria e quella di tutti. La voce alta, media, bassa, aulica, triviale, gergale, personale, collettiva del pescatore, del contadino, del nobile, dell’intellettuale, del paria, del sognatore, del lacchè, del proletario, dell’ingenuo, dello scienziato, del corrotto, del politico, del rivoluzionario, del prete, dell’assassino. E così trasfigura il mondo circostante in parola diamantina, riscrivendolo e, al contempo, rifondandolo nel linguaggio sostantivo e mai aggettivo, fino all’estremo del barocco (come in Retablo). Il tutto nonostante un certo pausato e trasognato disincanto. D’altronde, per noi del Sud, “la nostra arte è sempre stata barocca: una costante dello spirito che si caratterizza per l’orrore del vuoto, della superficie nuda, dell’armonia lineare, della geometria; uno stile dove attorno all’asse centrale – non sempre palese o evidente – si moltiplicano quelli che potremmo chiamare nuclei proliferanti […]. Non dobbiamo temere il barocchismo, che è la nostra arte […], creata per la necessità di nominare le cose. Perché ogni simbiosi, ogni meticciato genera un barocchismo”. Sono parole del cubano Alejo Carpentier (insieme a Borges l’autore ispanoamericano preferito da Consolo, ben letto e conosciuto), che del barocco è maestro. A lui il santagatese rispondeva virtualmente: “La mia cifra è barocca. […] D’altra parte quasi tutti gli scrittori siciliani sono barocchi, anche quelli che sembrano scrittori logici come Sciascia, Lampedusa, Brancati […]. La Sicilia è un crogiolo di civiltà, babele delle razze e delle lingue”. Consolo ha saputo mettere in luce le ipocrisie e le cadute della storiografia, della propria attualità e del suo divenire, quelle della fragile, irresoluta e oscillante collocazione dell’intellettuale davanti all’urgenza di cambiamenti radicali, quelle dei sofismi rivoluzionari e dei cavilli del compromesso, e anche quelle della disperanza in un mondo di tenebre. È stato exemplum nel leggere e nel tradurre la condizione umana, miserabile o proba, eterea o concreta, tronfia o infelice, travasata in un crogiolo di semi, sememi, morfemi, stilemi, locuzioni e composti sintagmatici espatriati dalla lingua di oggi. Tuttavia feraci come le onde e le sartie gonfiate dal vento, oppure inariditi dalla violenza, dal fanatismo e dalle stragi (che aggrediscono la lingua, come avvertiva pure Pasolini). Modulati nel fraseggio, nell’armonia, nella cadenza, nel ritmo, nei contrasti e nella musica fatta parola. Musiche e polifonie sognate da un poeta della forma, che incarna la voce profonda dei senza voce, le grida e i silenzi del mare, del vento, del fuoco, della neve e dell’estio. Soprattutto, per Consolo, la voce dell’uomo e del suo astio per una società iniqua, che continuerà ad ammutolire e a violentare e a perseguitare e a cacciare e a fucilare e a seppellire i più umili e gli emarginati e i rifiutati e i paria e i condannati e gli esiliati dal Regno dell’Uomo che è il Regno di questo Mondo (il Sale della Terra). Però ci restano le voci; voci come la sua. Perché una cosa non c’è, ed è l’oblio, come insegnano Omero e Dante e Cervantes e Shakespeare e Borges e Saramago. Come Consolo anche loro maestri del barocco.

Anno II, n. 9,

luglio-agosto 2022

I riflessi letterari dell’Unità d’Italia nella narrativa siciliana

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Màster en Iniciació a la Recerca en Humanitats: Història, Art, Filosofia, Llengua i Literatura Universitat de Girona

I riflessi letterari dell’Unità d’Italia nella narrativa siciliana Director professor Giovanni Albertocchi Treball final de recerca de Annunziata Falco febbraio 2009

1 Introduzione Questo lavoro di ricerca si propone di offrire un inventario ragionato, di romanzi e novelle di autori siciliani, da Verga alla Agnello Hornby, diversi tra loro per età, cultura e condizione sociale, per rendere evidente la persistenza della riflessione sull’idea del Risorgimento “tradito”, in romanzi ambientati negli anni che vanno dal 1860 al 1894, dallo sbarco dei Mille di Garibaldi in Sicilia alla repressione violenta dei Fasci. Gli autori prescelti, hanno in comune una esperienza di allontanamento dalla Sicilia, per brevi o lunghi periodi a Roma o a Milano, che coincide spesso con il periodo più creativo sul piano letterario, alla ricerca forse di una integrazione,che non ci fu,con gli ambienti culturali italiani, del “continente”. Comune è in loro l’ attenzione ad un ricostruzione degli avvenimenti attraverso i documenti ma anche attraverso la memoria personale e quella familiare dei fatti, comune è la scelta della narrazione storica, rivitalizzata, dopo l’esperienza risorgimentale, che permette di inserire materiali storici assieme a vicende e personaggi inventati, per ricreare un ambiente, una società, una mentalità, una realtà, come quella del Sud così poco conosciuta, con riferimenti precisi, documentati. Negli scrittori prescelti, appare evidente un’ansia di tornare su avvenimenti, sufficientemente vicini per poter capire e per poter far capire, per raccontare e forse per “educare”un pubblico borghese, un pubblico, che però non sempre accolse favorevolmente delle opere che, spesso, non erano in sintonia con il proprio tempo, troppo polemiche, negative, che registravano l’immobilismo di una società, il fallimento della borghesia, anche nel campo dei sentimenti privati, all’interno della famiglia. La necessità di fare i conti con il nostro recente passato, di capire come sia stata possibile un’Unità politica ed istituzionale che non ha avuto ragione delle differenze(anzi le ha acuite)tra Nord e Sud, è sempre più presente tra gli scrittori contemporanei, siciliani e non solo, e le opere dei grandi autori continuano a “fare scuola”, ad essere un modello di riferimento. L’idea,che è sottesa a questo lavoro, è proprio di presentare materiali che possano essere utilizzati in un successivo lavoro di approfondimento, su temi che emergono dai romanzi prescelti. Oltre le essenziali note biografiche e critiche sugli autori si è ritenuto importante presentare delle note storiche di confronto

Estratto.

Vincenzo Consolo.

Vincenzo Consolo,che ama considerarsi “figlio di Verga, l’inventore linguistico per eccellenza “ inizia a scrivere Il sorriso dell’ignoto marinaio nel 1969, ma lo pubblica solo nel 1976. Il libro viene subito salutato come “ il rovescio progressista del Gattopardo”  da contrapporre all’immobilismo di Tomasi di Lampedusa . L’immagine dell’Italia è subito rivoluzionaria, la fidanzata di Interdonato, Catena, ha ricamato su una tovaglia un’Italia con dei vulcani al fondo, che inizialmente sembravano delle arance «Sì,è l’Italia»confermò l’Interdonato. E le quattro arance diventarono i vulcani del Regno delle Due Sicilie,il Vesuvio l’Etna Stromboli e Vulcano. Ed è da qui,vuol significar Catena,da queste bocche di fuoco da secoli compresso,e soprattutto dalla Sicilia che ne contiene tre in poco spazio,che sprizzerà la fiamma della rivoluzione che incendierà tutta l’Italia Si tratta di un vero romanzo politico, pienamente all’interno della linea della narrativa storica siciliana, il cui intento è quello di raccontare l’Italia degli anni Settanta attraverso un romanzo ambientato nel 1860, ai tempi dello sbarco di Garibaldi in Sicilia. Il romanzo è ricco di materiali testuali eterogenei, come testi documentari, citazioni ironiche, che spezzano l’organicità del romanzo storico e con essa la pretesa dell’autore di governarne e spiegarne l’intreccio, insieme alla pretesa di governare la realtà e la storia. Il romanzo nasce mentre Consolo lavora a Milano e, come Verga, prova uno spaesamento iniziale per la nuova realtà urbana e industriale, la lontana Sicilia gli appare una pietra di paragone, un microcosmo nel quelle far riflettere temi e problemi di ordine universale. Il romanzo storico, e in specie il tema risorgimentale,passo obbligato di tutti gli scrittori siciliani,era l’unica forma narrativa possibile per rappresentare metaforicamente il presente,le sue istanze e le sue problematiche culturali(l’intellettuale di fronte alla storia,il valore della scrittura storiografica e letteraria,la “voce” di chi non ha il potere della scrittura,per accennarne solo alcune) . Il sorriso dell’ignoto marinaio, che Consolo considera un omaggio a Morte dell’inquisitore di Sciascia, nasce da tre fattori di base: il fascino esercitato dal quadro di Antonello da Messina Ritratto d’ignoto, che è conservato nel Museo Mandralisca di Cefalù;la rivolta di Alcàra nato nel 1933,Sant’ Agata di Militello, in provincia di Messina in una “isola linguistica” gallo-romanza, abitata da discendenti di popolazioni lombarda,trasferito a Milano dal 1968,dove diventa consulente editoriale 295Milano, P.,Un Gattopardo progressista,«L’Espresso»,4 luglio 1976 Consolo, Vincenzo,Il sorriso dell’ignoto marinaio,Milano:A.Mondadori,2006,p.53 In Lunaria vent’anni dopo,Valencia:Generalitat Valenciana-Universitat de Valencia,p.66 80 Li Fusi, avvenuta nel 1860, e un’inchiesta sui cavatori di pomice, che si ammalano di silicosi, che Consolo conduce per un settimanale. A questi si uniscono il dibattito politico e storico sul tema del “Risorgimento tradito”, sulla continuazione della secolare oppressione sotto una nuova veste, un dibattito che si stava ormai trasformando nella consapevolezza dell’esistenza di un secondo Risorgimento non compiuto e tradito: la Resistenza. I personaggi principali sono il barone Enrico Pirajno di Mandralisca, malacologo e collezionista d’arte, che era stato deputato nel 1848, un uomo che dovrà scendere nel carcere, labirintica chiocciola, per passare da un generico riformismo alla comprensione per le esigenze popolari, e l’avvocato Giovanni Interdonato, integerrimo rivoluzionario giacobino, esule dopo il ’48, impegnato a far da collegamento tra i vari gruppi di esuli e i patrioti dell’isola. I due si incontrano su una nave, nel 1852, dopo che il barone ha ricevuto in dono il Ritratto d’ignoto, attribuito ad Antonello da Messina, che la tradizione popolare chiama dell’Ignoto marinaio Mandralisca riconosce in Interdonato il sorriso ironico,pungente e amaro dell’uomo del dipinto, un sorriso che lo richiama continuamente all’azione politica, “il sorriso dell’intelligenza che si può rivolgere alla storia(e alla storia narrata nel romanzo).” I due personaggi si ritrovano in occasione della rivolta di Alcàra Li Fusi e del successivo processo, il barone prenderà le difese dei contadini insorti, che si sono mossi contro La proprietà,la più grossa,mostruosa,divoratrice lumaca che sempre s’è aggirata strisciando per il mondo  e chiederà di aver clemenza a l’Interdonato, che doveva giudicare i rivoltosi, e lui estenderà loro l’amnistia, ritenendo la rivolta un atto politico. Consolo mette al centro del romanzo un aristocratico intellettuale, che riflette e giudica con un certo distacco, che può essere paragonato al principe Salina, ed un giovane rivoluzionario, l’Interdonato, che potrebbe richiamare molto lontanamente la figura di Tancredi, ma il rapporto tra i due personaggi, che era in Lampedusa di contrasto anche generazionale, nel romanzo di Consolo diventa un rapporto dialettico, Interdonato nella seconda parte della storia cercherà di indurre l’altro all’impegno. Negli anni Settanta, oltre alle critiche al mito risorgimentale, vi era stata una riscoperta anche storica dei fatti rivoluzionari, Sciascia, lo ricordiamo,aveva promosso la riedizione del lavoro di Radice sui fatti di Bronte, Vincenzo Consolo dando spazio alle rivolte contadine duramente Fu segretario di Stato per l’interno con Garibaldi,poi Procuratore generale della Corte d’appello di Palermo e Senatore del Regno nel 1865. Roberto Longhi,storico dell’arte,polemizzava con la tradizione popolare perché i quadri era dipinti su commissione e quindi quello raffigurato non poteva che essere che un signore,un ricco. Segre, Cesare, Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino:Einaudi,1991,p.73 Consolo Vincenzo ,Il sorriso dell’ignoto marinaio,Milano:A.Mondadori,2006,p.118 81 represse, quella di Cefalù, del 1856 e quella di Alcàra, del 1860, segnala la differenza tra i moti borghesi di ispirazione carbonara e le sollevazioni contadine, in cui si rivendicava la terra, in cui ci si voleva liberare del peso dei balzelli e dell’usura, e che sfociavano in esplosioni di sangue. Ad Alcàra, dopo la rivolta e l’eccidio, sarà un Interdonato, generale garibaldino cugino dell’altro Giovanni Interdonato, a disarmare e imprigionare i rivoltosi, e sarà il castello di Sant’Agata di Militello, con i suoi sotterranei elicoidali, che li ospiterà. Il castello Immensa chiocciola con la bocca in alto e l’apice in fondo,nel buio e putridume La metafora della chiocciola,come ha notato Segre, attraversa tutto il romanzo e rappresenta l’ingiustizia, i privilegi della cultura, ed acquista una valenza di autocritica nei confronti di Mandralisca che se ne occupa, con amore, nelle sue ricerche. Vincenzo Consolo, rifiutandosi di narrare ciò che era stato già narrato, lascia spazio ai documenti, alle lettere, alle memorie attribuite a personaggi realmente esistiti ma inventate, che hanno il compito di sintetizzare gli avvenimenti, mentre il narratore deve soffermarsi sugli episodi, concedendosi il tempo della riflessione e della descrizione. La struttura del romanzo storico è quindi profondamente modificata, l’impasto linguistico è mirabile, l’effetto non è realistico. Nel 1968 era vivo il dibattito su quello che era il rapporto tra classi sociali e strumenti linguistici, si faceva sempre più evidente che gli oppressi non erano in grado di far sentire la propria voce, Vincenzo Consolo, in questo romanzo, tenta di dare voce a loro, ai braccianti, agli esclusi dalla Storia, che è “ una scrittura continua di privilegiati”, a chi ha visto la propria disperazione deformata da degli scrivani in “istruzioni,dichiarazioni,testimonianze”, la Storia infatti l’hanno scritta i potenti e non gli umili, i vincitori e non i vinti. L’impasto linguistico del romanzo mescola l’italiano sostenuto e barocco, dei primi capitoli, al dialetto siciliano, spesso sommariamente italianizzato, al sanfratellano, il poco noto idioma gallo-romanzo parlato da un brigante recluso, e al napoletano delle guardie o al latino. Mandralisca, poi, usa un siciliano che, con immagine dantesca si può chiamare “illustre” , letterariamente nobilitato e regolarizzato sul latino. In un’intervista Consolo ha affermato Ho voluto creare una lingua che esprimesse una ribellione totale alla storia e ai suoi miti. Ma non è il dialetto. E’ l’immissione nel codice linguistico nazionale di un materiale che non era registrato,è l’innesto di vocaboli che sono stati espulsi e dimenticati306 il suo quindi è “ un lavoro da archeologo”, che riporta alla luce ciò che è sepolto nelle Ibidem,p. Sono di questi anni gli studi di Tullio De Mauro e La lettera ad una professoressa di Don Milani Consolo, Vincenzo,Il sorriso dell’ignoto marinaio,Milano:A.Mondadori,2006,p.112 Lo nota G.Contini  La lingua ritrovata :Vincenzo Consolo,a cura di M.Sinibaldi,«Leggere»,2,1988,p.12 82 profondità linguistiche dell’italiano, non è una corruzione dell’italiano, non va “verso il dialettismo di colore”, proprio di autori come Camilleri. Il libro si conclude con il proclama del prodittatore Mordini “agli italiani di Sicilia”, in vista del plebiscito del 21 ottobre del 1860, per l’unificazione. Il barone Mandralisca abbandonerà la sua turris eburnea, brucerà i suoi libri e le sue carte e si darà all’azione, aprirà una biblioteca, un museo e una scuola in modo tale che la prossima volta la storia loro,la storia,la scriveran da sé .

Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo

Nicolò Messina Universitat de Girona



Il contributo tenta di delineare la storia del farsi dell’opera più studiata di Vincenzo Consolo sulla scorta dei testimoni già sottoposti a recensio (edizioni a stampa, dattiloscritti, manoscritti). Parole chiave: Consolo, Sorriso dell’ignoto marinaio, edizioni critico-genetiche, ecdotica di testi moderni e contemporanei. Abstract The contribution attempts to outline the history of the creation of Vincenzo Consolo’s most studied work, based on the supply of accounts already submitted to review (printed, typed and manuscript editions). Key words: Consolo, Sorriso dell’ignoto marinaio, critical-genetic editions, critical editions of modern and contemporaneous texts. 1. In limine Nella presentazione della nuova collana «Clásicos Modernos» di una delle più prestigiose case editrici spagnole, José Saramago, senz’altro nel suo castigliano deliziosamente lusitaneggiante e con il suo abituale tono deciso, asseriva pubblicamente: «Estamos hechos de pasado. El presente no existe y el futuro no sabemos lo que es». 1 La frase potrebbe ben costituire l’esergo di queste pagine, che hanno per oggetto-soggetto Il sorriso dell’ignoto marinaio, e l’aggancio è almeno doppio. 1. L’incontro pubblico, organizzato dalle edizioni Alfaguara, si è tenuto al Círculo de Bellas Artes di Madrid il 27 settembre 2004. L’idea della collana è dovuta — a detta della stessa direttrice editoriale di Alfaguara, Amaya Elezcano — a un suggerimento del Nobel portoghese. La collana, inaugurata da Jacques el fatalista di Denis Diderot, annovera tra i primi volumi, già in libreria, anche i manzoniani Los novios nella traduzione fattane da Esther Benítez. Cfr. El País (Martes 28 de septiembre de 2004): 42. 114  Da un lato, infatti, e non appaia aneddotico, il Sorriso è stato la scorsa primavera ripubblicato da Mondadori in una collana che curiosamente ricorre alla medesima etichetta: «Classici moderni»; 2 dall’altro, poi, l’affondo di Saramago — non a sproposito in un oggi affetto da multiformi amnesie — rivendica in sé e per sé il ruolo della memoria senza la quale non siamo, e non certo perché atteggiati a conservatori idolatri del vissuto umano, perché abbarbicate, irremovibili ostriche verghiane3 o stanchi e immalinconiti laudatores temporis acti. Al riguardo, quale migliore sintonia con Consolo? Il quale — è risaputo — da sempre s’oppone vigile all’appiattimento stritolante sull’unica dimensione temporale del presente, comodo, se non programmaticamente ricercato dagli autarchi che s’ispirano al pensiero unico. Ecco perché forse Consolo, da sempre, fa letteratura ricorrendo a metafore storiche. D’altra parte, come piú di uno ha sottolineato, è certo intorno alla funzione attiva, alla forza propulsiva della memoria che quaglia la metafora del Sorriso: un ieri, ottocentescamente databile, in dialettica con l’oggi del lettore (la metà degli anni Settanta del secolo breve appena concluso, ma anche la metà del primo decennio di questo nostro nuovo secolo).4 2. Cfr. piú avanti il riferimento bibliografico completo. 3. Per fugare ogni possibile dubbio sulla propulsività della memoria, da non intendere pertanto quale attaccamento […] allo scoglio di un rassegnato immobilismo, non è fuori luogo citare per esteso, il noto passo di Fantasticheria (1879), che, pur estrapolato dal suo contesto e con tutti i sottili distinguo dell’autore, sembra presago di un certo fatalismo misoneista, improntato piú all’inutilità che all’impossibilità di ogni reazione umana alle condizioni e ai ruoli assegnati; manifestazione, in breve, di una sorta di noluntas: «Insomma l’ideale dell’ostrica! direte voi. — Proprio l’ideale dell’ostrica, e noi non abbiamo altro motivo di trovarlo ridicolo che quello di non esser nati ostriche anche noi. Per altro il tenace attaccamento di quella povera gente allo scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere mentre seminava príncipi di qua e duchesse di là, questa rassegnazione coraggiosa ad una vita di stenti, questa religione della famiglia, che si riverbera sul mestiere, sulla casa, e sui sassi che la circondano, mi sembrano — forse pel quarto d’ora — cose serissime e rispettabilissime anch’esse. Parmi che le irrequietudini del pensiero vagabondo s’addormenterebbero dolcemente nella pace serena di quei sentimenti miti, semplici, che si succedono calmi e inalterati di generazione in generazione.» (G. VERGA, Tutte le novelle, ed. Carla RICCARDI, Milano: Mondadori, 1979; 19965, p. 135-136) 4. Per felici coincidenze, alle giornate sivigliane all’origine di queste note partecipava anche Maria Attanasio, fine autrice di poesie (Interni, Parma: Guanda, 1979; Nero barocco nero, Caltanissetta-Roma: Sciascia, 1985; Eros e mente, Milano: La Vita Felice, 1996; Amnesia del movimento delle nuvole, Milano: La Vita Felice, 2003; 20043), che si rivela scossa dall’identica volontà di resistenza all’oblio, a giudicare dai frutti delle ore da lei dedicate alla prosa: Correva l’anno 1698 e nella città avvenne il fatto memorabile, Palermo: Sellerio, 1994; Piccole cronache di un secolo, Palermo: Sellerio, 1997 (con Domenico AMOROSO); Di Concetta e le sue donne, Palermo: Sellerio, 1999. Proprio da quest’ultimo, commosso, bel libro testimonianza si estrapolano deliberatamente due brani assai eloquenti sull’etica dello scrivere: «Un tempo ogni città, piccola o grande, affidava la storia civile della comunità alla scrittura del cronista; insieme agli eventi civici e allo straordinario egli spesso registrava anche l’ordinario di essa […] sottraendone la memoria alle azzeranti generalizzazioni della storia, che per sua natura emargina in un’impenetrabile zona d’ombra l’alfa e l’omega costitutivi della sua trama» (p. 32); «Non restava che […] testimoniare direttamente questa piccola storia di ordinaria militanza, una tra le tante di quegli anni. || Senza però sottrarsi al Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo Quaderns d’Italià 10, 2005 115 2. De finibus terminisque constituendis Su Consolo e Il sorriso dell’ignoto marinaio, in particolare, l’interesse critico non è mai tramontato. Ingente è ormai la letteratura secondaria. Da un lato, ne fanno fede le bibliografie via via aggiornate e desumibili da volumi e riviste: dalla prima monografia di Flora Di Legami5 al numero omaggio di Nuove Effemeridi, 6 dal libro di Attilio Scuderi7 a quello recente di Giuseppe Traina,8 dal «ritratto» di Enzo Papa9 alla premessa editoriale dell’ultima ristampa dell’opera.10 Dall’altro, chiara eco se ne riceve anche da collectanea a seguito di convegni dedicati allo scrittore: si rammentino almeno quelli organizzati nel solo ultimo torno di tempo a Parigi, Siracusa, Siviglia.11 Anche i lettori, dilettanti e non solo professionisti della letteratura, compresi quanti si escludono dal novero degli estimatori più ferventi dell’opera consoliana, riconoscono unanimi nel libro, in questo libro, un classico: non sorprende perciò il suo inserimento in una collana ad hoc, né che qualcuno, come Sergio Pautasso, dichiari apertamente il piacere di rileggerlo o che qualche coinvolgimento emozionale, né fingere un’ipocrita oggettività: memoria emotivamente condivisa per i protagonisti che ancora camminano per le strade, gesticolano odiano amano, continuano a resistere come possono, e s’incazzano in questo smemorato Occidente dove la supponenza della mondializzata economia di nuovo si autocelebra, in nome del mercato e del profitto, universale essenza dell’uomo contro l’uomo. E la sua spregiudicata ancilla — la politica — l’asseconda, insieme a Marx e a Voltaire, gettando l’utopia, come un nastro smagnetizzato, nelle discariche della storia.» (p. 35) 5. F. DI LEGAMI, Vincenzo Consolo. La figura e l’opera, Marina di Patti (Messina): Pungitopo, 1990. 6. Nuove Effemeridi. rassegna trimestrale di cultura, 29, [Palermo: Guida] 1995. 7. A. SCUDERI, Scritture senza fine. Le metafore malinconiche di Vincenzo Consolo, Enna: Il Lunario, 1998. 8. G. TRAINA, Vincenzo Consolo, Fiesole (Firenze): Cadmo, 2001. 9. E. PAPA, «Ritratti critici di contemporanei: Vincenzo Consolo», Belfagor, LVIII 344, 2003, 179-198. 10. V. CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio, «Oscar classici moderni. 193», Milano: Mondadori, 2004, p. XIV-XVII. 11. Ancora in corso di stampa gli atti del convegno Vincenzo Consolo. Éthique et écriture, tenuto alla Sorbonne Nouvelle venerdì 25 e sabato 26 ottobre 2002, con interventi di Guido Davico Bonino, Maria Pia De Paulis, Denis Ferraris, Giulio Ferroni, Rosalba Galvagno, Walter Geerts, Valeria Giannetti, Claude Imberty, Jean-Paul Manganaro, Antonino Recupero, Marie-France Renard, Cesare Segre. Sono invece usciti quelli del convegno siracusano: Enzo PAPA (ed.), Per Vincenzo Consolo. Atti delle giornate di studio in onore di Vincenzo Consolo (Siracusa, 2-3 maggio 2003), San Cesario di Lecce: Manni, 2004, con contributi di Paolo CARILE, «Testimonianza» (p. 11-13); Maria Rosa CUTRUFELLI, «Un severo, familiare maestro» (p. 17-22); Rosalba GALVAGNO, «Destino di una metamorfosi nel romanzo Nottetempo, casa per casa di Vincenzo Consolo» (p. 23-58); Massimo ONOFRI, «Nel magma italiano: considerazioni su Consolo scrittore politico e sperimentale» (p. 59-67); Sergio PAUTASSO, «Il piacere di rileggere Il sorriso dell’ignoto marinaio, o dell’intelligenza narrativa» (p. 69-80); Carla RICCARDI, «Inganni e follie della storia: lo stile liricotragico della narrativa di Consolo» (p. 81-111); Giuseppe TRAINA, «Rilettura di Retablo» (p. 113-132). Le relazioni presentate alle giornate di studio sivigliane, Vincenzo Consolo. Per i suoi 70 (+1) anni (Universidad de Sevilla, Facultad de Filología, 15-16 ottobre 2004), costituiscono il nucleo di questo numero di Quaderns d’Italià. 116 Quaderns d’Italià 10, 2005 Nicolò Messina che altro, come Massimo Onofri, ammetta Consolo in un canone resistente allo stesso variare delle mode critiche.12 D’altronde, il ruolo principe rappresentato dal Sorriso nel corpus consoliano è a più riprese e in vari modi e gradazioni sottolineato dallo stesso autore: in interviste13 o anche in interventi sparsi, dalla postfazione all’edizione mondadoriana del ventennale14 alla lectio magistralis in occasione dell’investitura a doctor honoris causa dell’Università di Roma Tor Vergata (18 febbraio 2003). Delineato tale scenario, arduo intervenire su quest’opera. Per l’occasione, quindi, con formula ciceroniana, mihi fines terminosque constituam e sottoporrò al dibattito critico un qualcosa di forse più congeniale alla mia natura di manovale della filologia: un tentativo di tracciare una storia o, meno ambiziosamente, una cronaca del farsi del libro dalla sua «preistoria» in avanti, sistematizzando materiali sparsi, più o meno noti, e aggiungendovi, con cautela, alcuni elementi nuovi. Una certa prudente reticenza è peraltro consigliabile, dettata com’è dallo svolgimento in atto di una ricerca, ormai quasi in dirittura d’arrivo, intesa proprio all’allestimento di una edizione critico-genetica del Sorriso. Insomma, ricorrendo alle categorie di avantesto, paratesto e testo, le mie intenzioni saranno più perspicue e, ancor di più, se si preciseranno le coordinate di una prospettiva ecdotica in cui nulla va «ricostruito», perché niente è stato «distrutto»; e nemmeno si tende a restituire in via ipotetica un archetipo smarrito e forse mai tangibilmente esistito, per definizione optimus e via via degradatosi nelle sue imperfette, corrotte riproduzioni, giacché l’opera, nella lezione licenziata dall’autore, è a nostra portata di mano. È una prospettiva di contro più complessa e solo nominalmente, per così dire, capovolta: in essa, difatti, i testimoni recentiores, già dopo Giorgio Pasquali ammessi non deteriores, non sono però di necessità accettabili come senz’altro meliores — anzi meta raggiunta, immigliorabile e addirittura ottima dell’iter creativo — e pertanto suggellati dal definitivo ne varietur dell’autore. Essi semmai presuppongono, trovano giustificazione fondante nei testimoni antiquiores, o piuttosto antiquissimi (dalla nota sparsa allo scartafaccio, ai prodotti delle successive fasi e decantazioni scrittorie), i quali al cospetto dei recentiores o ultimi, espressione dell’optima voluntas dell’autore, sarebbero certo da considerare tout court 12. Cfr. rispettivamente i saggi accolti in E. PAPA, (ed.), Per Vincenzo Consolo, op. cit., p. 69-80 e 59-67. 13. Dalle lontane Mario FUSCO (ed.), «Questions à Vincenzo Consolo», La Quinzaine Littéraire, 321, 1980, 16-17; a Marino SINIBALDI (ed.), «La lingua ritrovata: Vincenzo Consolo», Leggere, 2, 1988, 8-15; dalla più organica uscita in volume dal titolo guttusiano (è la didascalia di un quadro [olio su tela, cm.147,2 x 256,5] del 1940, finito l’anno prima e conservato alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma), V. CONSOLO, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Roma: Donzelli, 1993, a quelle recentissime, l’una a cura di G. TRAINA, Vincenzo Consolo, op. cit., p. 123-138, o l’altra leggibile in internet, a cura di Dora MARRAFFA e Renato CORPACI, Italialibri, www.italialibri.net, 2001. 14. V. CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio. Romanzo, con «Nota dell’autore, vent’anni dopo», «Scrittori italiani», Milano: Mondadori, 1997, p. 173-183; poi in ID., Di qua dal faro, Milano: Mondadori, 1999, p. 276-282, ed anche nell’ultima riproposta del Sorriso, ed. 2004, p. 167-175. destituiti di tutti i valori loro attribuibili dalla stemmatica classica, in quanto — pur prossimi al codice x dell’opera — non si collocherebbero al di sotto di esso, non ne costituirebbero una fase cronologica più bassa, inferiore, bensì soltanto e nient’altro che il più alto, superiore e superato, perciò trascurabile, stadio magmatico embrionale. E tuttavia, per ciò stesso, tali reperti vanno sottoposti ad accurata recensio e collatio, e risultano necessari e imprescindibili per studiare il di-venire del testo dalla prima intelaiatura verso la tessitura rifinita, proprio perché nella genesi dell’opera rappresentano il caos primordiale, l’arché primigenia, non formata, l’impulso d’avvio e soprattutto la prova dei vari movimenti del testo fino al risolutivo colpo di timone dell’autore, insomma una sorta di illuminante pre-archetipo.15 3. L’emerso Per comodità converrà sin dall’inizio tracciare la mappa delle edizioni a stampa [in grassetto l’ulteriore precisazione cronologica], anche perché sono quelle consultabili ed accessibili, e ad esse si rimanderà spesso: 1969 «Il sorriso dell’ignoto marinaio», Nuovi Argomenti, Nuova Serie, n. 15 [luglio-settembre]: edizione parziale, cap. I, senza Antefatto né Appendici I e II; 1975 Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano: Gaetano Manusé, edizione numerata con un’incisione firmata di Renato GUTTUSO: edizione parziale, cap. I, con Antefatto e Appendici I e II; e cap. II, L’albero delle quattro arance, senza Appendici I e II [autunno]; 1976 Il sorriso dell’ignoto marinaio, Torino: Einaudi: editio princeps [finito di stampare 10 luglio, 1ª ed.; 18 settembre, 3ª ed.]; 1987 Il sorriso dell’ignoto marinaio, intr. Cesare SEGRE, «Oscar oro. 9», Milano: Mondadori [marzo]; 1992 Il sorriso dell’ignoto marinaio, «Nuovi Coralli. 464», Torino: Einaudi; 1995 Il sorriso dell’ignoto marinaio, ed. commentata a cura di Giovanni TESIO, intr. Cesare SEGRE, «Letteratura del Novecento», Milano: Elemond Scuola [dicembre]; 1997 Il sorriso dell’ignoto marinaio. Romanzo, con «Nota dell’autore, vent’anni dopo», «Scrittori italiani», Milano: Mondadori [febbraio]; 2002 Il sorriso dell’ignoto marinaio, «Oscar scrittori del Novecento», Milano: Mondadori [gennaio]; 2004 Il sorriso dell’ignoto marinaio, «Oscar classici moderni. 193», Milano: Mondadori [marzo]. Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo Quaderns d’Italià 10, 2005 117 15. Solo qualche riferimento bibliografico ormai canonico: Louis HAY (ed.), Essais de critique génétique, Paris: Flammarion, 1979; Amos SEGALA (ed.), Littérature Latino-américaine et des Caraïbes du XX siècle. Théorie et pratique de l’édition critique, Roma: Bulzoni, 1988; Almuth GRÉSILLON, Éléments de critique génétique. Lire les manuscrits modernes, Paris: P.U.F., 1994; Giuseppe TAVANI, «Filologia e genetica», Cuadernos de Filología Italiana, 3 (1996): 63-90; Michel CONTAT & Daniel FERRER (edd.), Pourquoi la critique génétique? Méthodes, théories, Paris: CNRS Éditions, 1998. 118 Quaderns d’Italià 10, 2005 Nicolò Messina Non è agevole fissare date precise di avvio di una scrittura, neanche — si sa — nel caso di scrittori ancora produttivi con cui poter dialogare. Nel caso del nostro libro, ad ogni modo, tutto il movimento del testo — è ovvio — sarà iniziato verosimilmente tra l’a quo di La Ferita dell’aprile, il «mese più crudele» di eliotiana memoria, cioè il 1963,16 e la prima «orditura» licenziata dall’autore: quel Il sorriso dell’ignoto marinaio apparso su Nuovi Argomenti (luglio-settembre 1969), che corrisponde grosso modo al futuro cap. I del libro, ma non è ancora corredato né dell’Antefatto, né delle due Appendici documentarie a firma del protagonista, il barone Enrico Pirajno di Mandralisca.17 È un dato accertato, comunque, che le pagine appena ricordate, già dotate evidentemente, all’avviso dell’autore, di una loro autonomia e compiutezza narrativa, erano state in precedenza mandate, ma senza esito, alla rivista Paragone di Roberto Longhi e Anna Banti. A motivare l’invio è appunto il Trittico siciliano di Longhi, scritto in occasione della grande mostra del 1953 a Messina su Antonello e la pittura del ‘400 in Sicilia, ma il critico, in un incontro pubblico a Milano nel 1969, all’autore che chiedeva notizie del suo racconto così rispondeva severamente: «Sì, sì, mi ricordo benissimo. Non discuto il valore letterario, però questa storia del ritratto di Antonello che rappresenta un marinaio deve finire!». 18 Rievocando l’episodio, Consolo cerca di giustificarlo così: Longhi, nel suo saggio, polemizzava con la tradizione popolare che chiamava il ritratto del museo di Cefalù «dell’ignoto marinaio», sostenendo, giustamente, che Antonello, come gli altri pittori allora, non faceva quadri di genere, ma su commissione, e si faceva ben pagare. Un marinaio mai avrebbe potuto pagare Antonello. Quello effigiato lí era un ricco, un signore. Lo sapevo, naturalmente, ma avevo voluto fargli «leggere» il quadro non in chiave scientifica, ma letteraria.19 Il testo veniva, allora, risolutamente spedito a Enzo Siciliano ed usciva finalmente su Nuovi Argomenti, la rivista di Alberto Carocci, Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini. La memoria personale dell’autore, corroborata dalla testimonianza di Caterina Pilenga, conosciuta subito dopo il trasferimento a Milano nel Capodanno del 1968, e da un certo punto in possesso di «ambo le chiavi | del cor» consoliano,20 questa doppia memoria fornisce altri dati di notevole interesse nella cronologia del farsi dell’opera. 16. Dal colophon si estraggono i seguenti dati più precisi: «[…] impresso nel mese di settembre dell’anno 1963 […] Il Tornasole — Pubblicazione periodica mensile — Registrazione Tribunale di Milano n. 6273 del 14-3-1963 […]». Dell’opera si attende l’imminente versione spagnola a cura di Miguel Ángel Cuevas. 17. La pubblicazione — sia concessa l’indiscrezione — avrebbe fruttato all’autore un compenso di Lit. 16.000. In una lettera della direzione della rivista del 12 dicembre 1969, infatti, si conferma l’avvenuta pubblicazione (nel «numero testé pubblicato») e si comunica l’emissione di un assegno di tale importo. 18. V. CONSOLO, Fuga dall’Etna, op. cit., p. 37-38. 19. Ibid., p. 38. 20. Così viene presentata la futura moglie: «una delle cinque o sei persone che avevano letto» con entusiasmo la Ferita su segnalazione di Raffaele Crovi (Ibid., p. 35). Il quale è tra l’altro fra In primo luogo, riporta la chiusura del racconto, con quelle verosimili fattezze, a quell’anno 1968 e informa dell’avvenuta stesura, a quella data, e prima dell’arrivo a Milano nel gennaio 1968, anche del futuro cap. II L’albero delle quattro arance; inoltre, conferma che, dopo il fisico manifestarsi in Nuovi Argomenti, il progetto narrativo, di cui il racconto pubblicato è la prima concretizzazione, viene momentaneamente accantonato, anche se l’autore è nel frattempo preso dalla stesura del futuro cap. III Morti sacrata, che nessuno ha letto, tranne la moglie Caterina, e di cui alcuni sono a conoscenza (Corrado Stajano); infine, aggiunge che nel 1975 Consolo ottiene dalla RAI, nella cui sede milanese lavorava,21 un permesso di sei mesi, lascia Milano e torna in Sicilia dove collabora al giornale L’Ora di Vittorio Nisticò22 ed è raggiunto quell’estate da Caterina. Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo Quaderns d’Italià 10, 2005 119 i pochi frequentati da Consolo, oltre al conterraneo Basilio Reale, sin dal tempo del primo soggiorno milanese (G. TRAINA, Vincenzo Consolo, op. cit., p. 11): sono i tre anni della frequenza della Cattolica (1952-56), che saranno poi seguiti dal servizio militare a Roma, dalla laurea a Messina, dal praticantato notarile, dall’inizio del lavoro d’insegnante nel 1958 (E. PAPA, art. cit., p. 194). 21. A sottolineare i difficili rapporti di lavoro, l’azienda viene definita, una «fabbrica di armi» (V. CONSOLO, Fuga dall’Etna, op. cit., p. 34). 22. Vale la pena di riportare sull’esperienza giornalistica consoliana un brano dello stesso V. NISTICÒ, Accadeva in Sicilia. Gli anni ruggenti dell’«Ora» di Palermo, I, Palermo: Sellerio, 2001, p. 113-114: «[…] Vincenzo Consolo, sebbene vivesse ormai a Milano, da inquieto esule qual era, non perdeva occasione per tornare in Sicilia, dai suoi a Sant’Agata, e far sosta, potendo, anche al giornale. In fondo, tra i nostri scrittori era quello che sentivamo più di casa, il più famigliare. Amavamo di lui il garbo, la modestia, il senso di amicizia, gli accenni di sorridente ironia, non meno di quanto ci affascinassero i ricami della sua scrittura, la sua totale mediterraneità, quei fuochi improvvisi della sua passione letteraria e civile. Tra il ‘68 e il ‘69 pubblicammo una sua rubrica di annotazioni, «Fuori casa», un piccolo gioiello di giornalismo che diventa letteratura. || Nei primi mesi del ‘75 Consolo si trasferì per un po’ di tempo a Palermo; glielo avevo chiesto perché ci desse una mano in vista delle importanti elezioni amministrative di giugno e di un evento che ci interessava direttamente: la candidatura di Leonardo Sciascia al consiglio comunale di Palermo. Era, la venuta di Consolo, un ritorno in redazione dopo l’esperienza di alcuni anni prima, quando si era trasferito da Sant’Agata per lavorare al giornale e impratichirsi del mestiere. Ma si era trattato di un’esperienza durata relativamente poco, interrotta dalla decisione di andarsene a Milano e dare, da allora in poi, la priorità assoluta alla letteratura; sarebbe stata lei la sua vita, il suo destino. || Tuttavia un desiderio di giornalismo, sebbene latente, rimase sempre vivo, e pronto a venir fuori quando si presentava l’occasione buona. Fu così in quei mesi del ‘75, quando facendo la spola tra la casa materna di Sant’Agata e la nostra redazione, si buttò con manifesta gioia in un intenso lavoro giornalistico. Partecipando dapprima con articoli e interviste alla campagna per il buon governo e la candidatura di Sciascia, poi nell’estate andando in giro col taccuino del cronista a seguire a Trapani il processo al «mostro di Marsala» (l’uomo che aveva fatto morire tre bimbe gettandole vive in un pozzo), o la vicenda del sequestro Corleo, il patriarca delle esattorie. In pieno agosto, si era persino spinto, e credo anche divertito, a fare un «viaggio» di osservazione tra gli uffici semideserti di Palermo capitale. Insomma, un bel bagno mediterraneo di umile giornalismo, mentre tra un servizio e l’altro trovava il luogo e il silenzio dove ripararsi per dare gli ultimi ritocchi a «Il sorriso dell’ignoto marinaio»: il capolavoro che da lí a qualche mese lo avrebbe consacrato tra gli eredi della grande letteratura che la Sicilia ha dato alla nazione. A dicembre ne pubblicammo in anteprima un capitolo: la festa in casa del barone Mandralisca.» 120 Siamo dunque, estate del 1975, alla vigilia dell’edizione numerata in 150 esemplari con incisione firmata di Renato Guttuso per i tipi di Gaetano Manusé, edizione nel cui colophon è dichiarata la data dell’«autunno MCMLXXV». Manusé, da Valguarnera Caropepe di Sicilia, titolare prima di una bancarella poi di una libreria antiquaria a Milano, si era dichiarato interessato a pubblicare qualcosa di Consolo e, saputo dalla moglie Caterina, sollecitata in tal senso, dell’esistenza di un prosieguo del racconto già apparso sulla rivista moraviana, propone la pubblicazione per bibliofili del Sorriso. Basta ricordare che della composizione e tiratura si occuperà Martino Mardersteig della Stamperia Valdonega di Verona, erede della prestigiosa Officina Bodoni di Verona fondata dal padre Giovanni Hans, e che per l’occasione Leonardo Sciascia coinvolgerà Renato Guttuso il quale, rileggendo il ritratto di Antonello, appresterà un’incisione in cui viene rovesciata l’angolazione dell’immagine rispetto all’attante: il trequarti del misterioso personaggio non è rivolto a sinistra, ma a destra.23 Domenica 30 novembre 1975, la pagina culturale di Il Giorno di Milano pubblica un lungo articolo di Corrado Stajano, dal titolo redazionale molto allettante.24 Al corrente delle alterne, combattute vicissitudini dello scriptorium di Consolo, conscio di quanto vi sta accadendo, Stajano fa una mossa a sorpresa: recensisce il libro appena uscito, ma ad un tempo, parlandone come della parte di un tutto imminente, sembra voler forzarne la definitiva confezione. Dopo aver presentato, difatti, le attività del libraio, così scrive: Adesso Manusé ha esaudito il gran sogno della vita, è diventato editore e c’è la possibilità, dicono gli uomini di penna, che questo primo libro che ha stampato, […] possa creare un nuovo caso letterario. Perché qui si sono incontrate due corde pazze siciliane, quella di Manusé e quella dello scrittore del libro, o meglio dei primi due capitoli del libro pubblicati in questo volume, che gli editori, quando il romanzo sarà finito, certo si contenderanno, perché «Il sorriso dell’ignoto marinaio» è un nuovo «Gattopardo», ma più sottile, più intenso del romanzo di Tomasi di Lampedusa, uno Sciascia poetico, di venosa lava sanguigna e insieme razionalmente freddo nei suoi teoremi dell’intelligenza. Uno scritto che arriva dentro l’impensata bottiglia di Manusé e che non ha nulla in comune con nessuno dei 17 mila libri che si pubblicano ogni anno in Italia. Gli articoli pubblicati nel 1975 sono: «Un moderno Ulisse fra Scilla e Cariddi. Sfogliando il Gran libro di Stefano D’Arrigo» (22 febbraio); «L’avventurosa vita di Emilio Isgrò» (4 aprile); «Il malgoverno e l’impegno politico di Sciascia. Conversazione con Alberto Moravia» (30 maggio), «Il malgoverno e l’Università. Conversando con il Rettore dell’Università di Palermo, Giuseppe La Grutta» (13 giugno); vari servizi per il «Processo al “Mostro di Marsala”» (20, 21, 25, 30 giugno; 5, 11 luglio) e sul sequestro dell’esattore Luigi Corleo (18, 19 luglio); «A colloquio con il tenore Di Stefano» (14 luglio); «Tanta scienza e un po’ di show» (26 luglio); «Che ne pensa Grassi, sovrintendente della Scala, del “caso Lanza Tomasi”?» (29 luglio); «In giro per gli uffici ad agosto» (9, 13 agosto); «Il giallo Majorana visto da Sciascia» (9 settembre). 23. L’incisione all’acquaforte viene eseguita a Palermo, in una stamperia vicina alla Galleria Arte al Borgo frequentata dallo scrittore di Racalmuto. 24. C. STAJANO, «Il sorriso dell’ignoto marinaio. Due siciliani pazzi per un libro “unico”», Il Giorno, Domenica 30 novembre 1975, 3. E più avanti, in chiusa, fornisce anticipazioni sulla fabula e sprona, quasi rimbrotta l’autore: Vincenzo Consolo, con tutte le sue contropoetiche, politicamente motivate, è troppo scrittore per rinunciare a scrivere, come avrebbe voluto. Gli è successa la sorte descritta da Roland Barthes ne «Il grado zero della scrittura»: «Partito per uccidere la letteratura, l’assassino si ritrova scrittore». […] ora sta lavorando ai capitoli finali del romanzo, la rivoluzione contadina di Alcara Li Fusi, la repressione dello Stato italiano dopo la speranza portata da Garibaldi. Interdonato è il procuratore generale del processo contro i contadini, violenti contro la violenza. Mandralisca gli scrive una lunga memoria, i contadini cercano di narrare loro, la loro storia. Ci riusciranno? «Il sorriso dell’ignoto marinaio» […] è l’ultima difesa di uno scrittore che non voleva scrivere più perché, quando il mondo s’incendia, la vita è meglio viverla che raccontarla. C’è da pensare che, sotto la forte pressione morale-psicologica delle tre colonne di Stajano, Consolo raccogliesse il guanto della sfida che vi era insita e che, nello scorcio del 1975 e il primo semestre del 1976, con un lavoro che non si fa fatica ad immaginare, con il Leopardi da lui tanto amato, «matto e disperatissimo», stendesse e organizzasse il resto dell’opera: gli attuali capitoli IV-IX. Einaudi finisce, infatti, di stampare la prima edizione del libro quale sarà conosciuto dal vasto pubblico, l’editio princeps, il 10 luglio 1976 e ne farà circolare altre due stampe identiche, la terza licenziata il 18 settembre dello stesso anno. 4. Tra emerso e sommerso Questi in buona sostanza i punti fermi del farsi del testo, i momenti fondanti della sua storia esterna. Se ne trae l’immediata idea di un progetto in crescendo, in progressione geometrica.25 Ma questi dati, relativi al merito e alle vicende dei soli testimoni a stampa, rappresentano solo l’emerso del testo e, in una prospettiva ecdotica critico-genetica, vanno naturalmente confrontati con quelli di quante altre fonti sia ancora possibile sottoporre a recensio e collatio. E qui, come anche per ogni altra opera di qualsivoglia altro scrittore, qualunque sforzo risulterebbe vano se l’autore volesse tutelare ad oltranza la legittima riservatezza della propria fucina, del proprio scriptorium. Il lavoro insomma Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo Quaderns d’Italià 10, 2005 121 25. Forzando la suggestiva immagine del fondamentale saggio di Cesare SEGRE, «La costruzione a chiocciola nel Sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo», in ID., Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino: Einaudi, 1991, p. 71-86 (trattasi dell’«Introduzione» dell’edizione 1987 del Sorriso, p. V-XVIII, ripubblicata in quella del 1995, p. V-XIX), è come se tessere autonome (dal racconto iniziale, cap. I e II, all’integrazione del resto) si siano andate collocando a formare il mosaico dei gradini della scala tortile, ad imbuto dantesco, che — se si vuole accogliere l’interpretazione dei simboli di G. TRAINA, Vincenzo Consolo, op. cit., p. 61-70 — avrebbe consentito la discesa agli inferi e l’ascesa salvifica del protagonista. 122 si bloccherebbe o potrebbe andare avanti solo con le carte di scrittori conservate in biblioteche, fondazioni, centri appositi (l’esempio più noto, Pavia) o variamente e comunque riscattate, come per gli oltre 40 volumi già pubblicati della Collection Archives, 26 il cui comitato scientifico è presieduto dal prestigioso romanista italiano Giuseppe Tavani.27 Nel caso del Sorriso, la generosa disponibilità dei coniugi Consolo, informati della necessità di queste esplorazioni per il mio studio, e in particolare l’amorevole scrupolosità di Caterina nel preservare materiali rivelatisi preziosi, hanno consentito di accumulare ingente informazione sulla scorta degli altri testimoni superstiti: tre bozze di stampa, di cui una eliminanda perché descripta, tre cartellette di dattiloscritti e un fascicolo dattiloscritto rilegato con l’opera intera; cinque manoscritti. Ma prima, per completare il quadro dell’emerso, bisognerà rendere conto anche della contemporanea attività scrittoria del Nostro, in qualche misura dialogante con il progetto non ancora ben definito in quel lasso di tempo. La preistoria del Sorriso, quei tredici anni di lunga gestazione, grosso modo dal 1963 al 1976, sono affiancati da altre scritture. Da una parte, le collaborazioni giornalistiche, tra cui spiccano: la rubrica Fuori casa, tenuta su L’Ora di Palermo;28 e vari reportages per Tempo illustrato. Ai fini dello studio del Sorriso sembrano importanti diversi di tali scritti. In primo luogo, il racconto Per un po’ d’erba ai limiti del feudo, uscito prima su 26. La collana, diretta da Amos Segala e posta sotto il patrocinio dell’UNESCO, è affidata a un Consiglio di firmatari europei e latino-americani del Protocollo Archivos — ALLCA XX (Association Archives de la Littérature Latino-américaine, des Caraïbes et Africaine du XXe siècle) e sottoposta alla valutazione di un Comitato scientifico internazionale. Le pubblicazioni seguono le indicazioni emerse dai seminari di Parigi (1984) e Oporto (1985), poi confluite nel volume di A. SEGALA (ed.), Littérature Latino-américaine et des Caraïbes du XXe siècle, op. cit. 27. Oltre all’art. cit., imprescindibili sono per equilibrio e dottrina: G. TAVANI, «Le Texte: son importance, son intangibilité»; «Teoría y metodología de la edición crítica», «Los textos del Siglo XX», «Metodología y práctica de la edición crítica de textos literarios contemporáneos»; «L’édition critique des auteurs contemporains: vérification méthodologique», tutti in A. SEGALA (ed.), Littérature Latino-américaine et des Caraïbes du XXe siècle, op. cit., rispettivamente: p. 23-34, 35-51, 53-63, 65-84, 133-141. Cfr. inoltre: G. TAVANI, «L’edizione critico-genetica dei testi letterari: problemi e metodi», in Venezia e le lingue e letterature straniere. Atti del Convegno, Università di Venezia, 15-17 aprile 1989, Roma: Bulzoni, 1991, p. 323-331; «L’apporto dell’edizione di testi moderni alla pratica ecdotica, ovvero: l’apporto della pratica ecdotica all’edizione di testi moderni», in Anna FERRARI (ed.), Filologia classica e filologia romanza: esperienze ecdotiche a confronto. Atti del Convegno di Roma, 25-27 maggio 1995, Spoleto: Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 1998, p. 545-554. 28. Cfr. l’elenco completo degli articoli firmati da Consolo per il giornale in V. NISTICÒ, Accadeva in Sicilia, op. cit. In particolare, la rubrica Fuori casa inizia il 7 dicembre 1968 e va avanti con cadenze irregolari per tutto il primo semestre del 1969 (11 gennaio, 24 febbraio, 10 marzo; 5, 24 e 25 maggio). Dello stesso anno sono: la recensione a Elio VITTORINI, Le città del mondo (27 settembre 1969) e un articolo sui rapporti tra mafia siciliana e americana (30 settembre 1969). L’Ora, 29 poi in un’autorevole silloge di narratori siciliani:30 un racconto strutturato come cronaca di una visita a Tusa alla famiglia di Carmine Battaglia, ucciso dalla mafia, in cui si innesta un breve brano documentario del 1860 sull’avversione dei nobili latifondisti al decreto garibaldino del 2 giugno 1860 lesivo dei propri privilegi. L’impianto rappresenterebbe quindi il primo, timido apparire, non più di un accenno, di un modo costruttivo esemplato su modelli tedeschi, sul quale, per sua stessa affermazione, Consolo scommette con forza nel Sorriso31 e anche in seguito.32 Poi, su Tempo illustrato, un’inchiesta sui cavatori di pietra pomice delle Eolie affetti da silicosi, come quello dell’incipit del Sorriso, in pellegrinaggio al santuario di Tindari,33 e un’altra su Cefalù e quell’Aleister Crowley che apparirà molto dopo in Nottetempo, casa per casa (1992), e di cui si ha traccia in un quaderno ms del Sorriso che così contribuisce a datare.34 Infine, ancora su L’Ora, il resoconto dell’inaugurazione di una mostra di Guttuso, i cui appunti iniziali e primo svolgimento si trovano in un altro quaderno ms alla cui datazione ci si potrà così approssimare.35 Dall’altra parte, si annoverano le presentazioni di vari cataloghi di mostre, di cui due soprattutto rilevanti per la costituzione testuale del Sorriso: l’una di un’esposizione di Luciano Gussoni (1971), l’altra di un’esposizione di Michele Spadaro (1972), rilevanti in quanto i cataloghi sono latori di due lacerti rifusi rispettivamente nei capitoli VII e I.36 Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo Quaderns d’Italià 10, 2005 123 29. L’Ora, 16 aprile 1966. All’assassinio sono dedicati sul giornale, sempre in prima linea contro la mafia, articoli di Mauro DE MAURO (in seguito vittima della cosiddetta lupara bianca) e Mario FARINELLA (24, 25, 26, 28 marzo 1966) e di Felice CHILANTI (9 aprile 1966). 30. Leonardo SCIASCIA & Salvatore GUGLIELMINO (edd.), Narratori di Sicilia, Milano: Mursia, 1967, p. 428-434. 31. V. CONSOLO, Fuga dall’Etna, op. cit., p. 49. 32. Se si guarda solo alle opere limitrofe al Sorriso, il metodo sarà applicato, per le appendici erudite, a Lunaria, Torino: Einaudi, 1985, p. 71-85 (Milano: Mondadori, 1996, p. 93- 129) e, per gli inserti documentari, al racconto lungo «Ratumemi», in Le pietre di Pantalica, Milano: Mondadori, 1988, p. 47-74, altra storia di feudi del secondo dopoguerra, tematicamente piú affine a Per un po’ d’erba… 33. «Così la pomice si mangia Lipari», Tempo illustrato, 17 ottobre 1970, di cui non si ha alcuna traccia nei mss. sottoposti a recensio. In Ms 2 si riscontra invece la prima attestazione di «Una Sicilia trapiantata nella nebbia», che uscirà sempre su Tempo illustrato. L’articolo è conservato nel Fondo personale Consolo con l’annotazione di Caterina Consolo: «1970», senza indicazione del giorno e del mese, ma nel corpo si ravvisa un post quem: «ottobre». 34. Ms 2, ff. 1-5. Cfr. «C’era Mussolini e il diavolo si fermò a Cefalù», Tempo illustrato, 2 ottobre 1971. 35. Ms 4, ff. 41v -33v . Cfr. «Guttuso torna nella “sua” Milano», L’Ora, 18 ottobre 1974. Sempre nell’ambito delle arti figurative, un altro articolo di alcuni mesi prima: «Bruno Caruso provoca Milano», L’Ora, 9 febbraio 1974. 36. V. CONSOLO, «Nottetempo, casa per casa», in Luciano Gussoni, Villa Reale di Monza, 10-30 novembre 1971; ID., «Marina a Tindari», in Michele Spadaro, Como, Galleria Giovio, 15-30 aprile 1972; poi anche in ID., Marina a Tindari, commento a cura di Sergio SPADARO, tiratura in cento esemplari numerati fuori commercio, Vercelli, Arti grafiche Cav. Piero De Marchi, 1972, p. 15-18. Quest’ultima presentazione è firmata e precisamente datata, com’è consuetudine dello scrittore: «Vincenzo Consolo || (27 febbraio 1972)». Nella fase preparatoria delle giornate di studio di Siviglia, ognuno in possesso e informato di un solo testimone, ci siamo scambiati i dati con il collega Miguel Ángel Cuevas. 124 5. Il sommerso Tornando ora ai testimoni manoscritti e dattiloscritti del Sorriso, non è questa la sede per proporne una descrizione esaustiva. Si cercherà invece di metterne in evidenza la portata facendo solo due esempi su versanti apparentemente diversi. Intanto, sulla loro scorta, sarà possibile qualche correzione di tiro cronologica. Tra i quaderni mss, gli antiquiores, numerati appunto Ms 1 e Ms 2, contengono frammenti confluiti nella lezione di Nuovi Argomenti. Tra il 1969 e il 1975 si collocherebbero gli altri due, denominati Ms 3 e Ms 4: sono latori, infatti, di lacerti non presenti nell’edizione 1969 e interpolati come due scatole cinesi in quella del 1975: l’uno, Ms 3, di un inciso avente per confini: «Lasciò la speronara […] alla sua casa a Cefalù» (ff. 31-30v ), l’altro, Ms 4, di un ulteriore innesto nel tronco dell’inciso precedente: «Dietro questi pezzi […] Caserta e di Versailles» (f. 18). Questi stessi due quaderni Mss 3 e 4 sono inoltre legati dal ricordo, presente in entrambi, del primo incontro tra Leonardo Sciascia e Lucio Piccolo avvenuto in un giorno segnalato, il primo in cui grazie a una disposizione del Concilio Vaticano II si celebrava la messa in lingua italiana: domenica 7 marzo 1965.37 L’appunto potrebbe essere trattato alla stregua di un indizio temporale e, per come e dove è tradito, una sorta di a quo / ad quem. 38 Il riuso da parte dell’autore di Ms 4, vergato capovolto, assicura poi la trasmissione dell’articolo giornalistico su Guttuso già ricordato e da datare perciò ante il 18 ottobre 1974. Se, infine, contestualmente ai dati appena forniti, consideriamo che Ms 3 tramanda varie stesure di Morti sacrata (futuro cap. III), le prime prove di Val Dèmone (futuro cap. IV), un appunto che rinvia a Il Vespro (futuro cap. V) e che Ms 4 tramanda brani di Val Dèmone e la Lettera di Enrico Pirajno all’avvocato Giovanni Interdonato (futuro cap. VI), si potrebbe inferire che, se non proprio intorno al 1965 (incontro Sciascia-Piccolo), già alla data del 1974 (articolo sulla mostra di Guttuso) o tutt’al più, in ultima istanza, nel 1975 prima dell’edizione Manusé, il Sorriso fosse per buona parte, quasi per intero in movimento. Allo stato attuale, mancherebbero attestazioni mss databili solo dei capitoli VII, VIII, IX. 37. Cfr. Ms 3, ff. 17v e 20; Ms 4, f. guardia 1v . 38. L’appunto sarà sviluppato in Le pietre di Pantalica, op. cit., p. 142 e ricordato in Fuga dall’Etna, op. cit., p. 23-24, dove viene ulteriormente esteso (testo in corsivo nostro): «Al congedo, sulla porta, Piccolo solennemente disse allo scrittore, indicando con la mano su per le colline: “Sciascia, la invito a scrivere di queste nostre terre, di questi paesi medievali”. “C’è qui Consolo”, rispose Sciascia. “Consolo è ancora giovinetto”, replicò Piccolo sarcasticamente (avevo trentatré anni!). Ma io presi quella frase come impegno verso Sciascia e come una sfida verso il barone». L’interesse per il poeta aveva già dato frutto in un’intera pagina del giornale di Nisticò con un articolo: «Il barone magico: Lucio Piccolo», L’Ora, 17 febbraio 1967, accompagnato da quattro canti inediti. Si noti che «Il barone magico» è il titolo scelto da Consolo per il trittico che costituisce la penultima parte della sezione Persone, seconda e centrale di Le pietre di Pantalica, op. cit., p. 133-135, 136-144, 145-149. Se andiamo ora, secondo esempio, alle tre cartellette di dattiloscritti, se ne potrà ricavare informazione sia dai fascicoli contenuti, sia anche dai bifogli di cartoncino colorato (rosa) che li raccolgono e conservano. Ed è informazione di peso circa il crescere del progetto di scrittura e la graduale definizione dell’architettura dell’opera. Solo qualche breve accenno. Si confronti ad es. la copertina della cartelletta denominata Ds 1, contenente prime stesure dei capp. I-VI, con annotazioni a mano di Caterina Consolo, con varie modifiche di titolo, con quella della cartelletta designata Ds 3, contenente tutta l’opera tranne il cap. VI (Lettera…), sulla quale appare già lo schema definitivo autografo con le date relative alla scansione del tempo interno dell’opera, in corrispondenza dei singoli capitoli: un’articolazione in tre parti (la prima: cap. I + App. I e II, cap. II + App. I e II; la seconda: capp. IIIV; la terza: capp. VI-IX) + Appendici finali, numerate «10)» e intitolate inizialmente «10) La fucilazione» e poi poste sotto l’epigrafe generica «10) Appendici»; e ancora qualche titubanza sulla collocazione di Morti sacrata (il capitolo prima segue «3) Val Dèmone» ed è quindi numerato «4)», ma poi entrambe le numerazioni vengono emendate ed invertite). Ancora più illuminante il fascicoletto numerato Ds 1.1, intitolato polisemicamente Carte per gioco e con l’eloquentissimo sottotitolo «(Racconti e cose da raccontare fin dal tempo di Garibaldi)», il quale sembra in tutto e per tutto lo schema strutturale di un’opera non nata, o piuttosto la crisalide che si trasformerà nella futura farfalla:39 le Carte sono articolate in tre tempi: «narrativo» (e sarebbe il Sorriso del 1969, quello di Nuovi Argomenti, preceduto però da un «Antefatto» scritto ex novo e seguito da un’appendice documentaria (Lettera di Enrico Pirajno barone di Mandralisca al barone Andrea Bivona),40 «storico» (con riportati brani documentari storici sulla strage di Alcara e un bollettino di guerra), «magico o poetico», dedicato a Lucio Piccolo, brano che con qualche variante vedrà la luce molto tempo dopo nelle Pietre di Pantalica. 41 È evidente, e non può non sorprendere, come in tempi insospettati ed alti nella cronologia del Sorriso, fossero già tutti presenti i principali semi, gli elementi lievitati nel futuro libro: l’invenzione diegetica, l’analitico storico d’influenza tedesca, il poetico; ci fossero i personaggi e i fatti: insomma, come scrive Enrico Pirajno di Mandralisca, per un momento alter ego dell’autore, «il timbro e il tono, e le parole» (Sorriso, ed. 2004, p. 119). Sembra pure chiaPer una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo, 2005 125 39. Il titolo è allusivo: nugae, carte da gioco (tre come i tempi), cartelle dss «per giocare», e verosimilmente anche nel senso traslato del jouer, del play, «da eseguire, interpretare, rappresentare». Ancor di più il sottotitolo, con l’accenno al già raccontato (la propria pièce iniziale) e alle cose o fatti otto-novecenteschi ancora in cerca d’autore, un autore che sappia come raccontarli, e in quale chiave: diversa dalla canonica, allora, da quella suggerita dagli auctores?, non alla Verga, Pirandello, Tomasi, Sciascia? 40. Sarebbe la prima attestazione della futura «Appendice prima» del cap. I. 41. È il primo dei tre capitoletti riuniti — come già detto — sotto il titolo «Il barone magico» nella sezione Persone di Le pietre di Pantalica, op. cit., p. 133-135. 126 come fosse già maturata la scelta del «romanzo storico-metaforico»42 con un occhio rivolto al Manzoni, ma superandone il paternalismo espressivo grazie all’insegnamento di Verga,43 e l’altro ai tedeschi del Gruppo 47, gli «analitici» Hans Magnus Enzensberger, Alexander Kluge ed altri, di cui aveva dovuto leggere pagine sul Menabò vittoriniano (9, 1966) e nelle traduzioni dei primi anni Settanta,44 e che lo riportavano forse al Manzoni che ritratta e, ormai spinto alla negazione dei suoi stessi precetti poetici, è capace solo di redigere la Storia della colonna infame45 che a tutti i costi vuol pubblicare in solido con I promessi sposi (1842).46 Scorgiamo già all’orizzonte, insomma, il Sorriso quale è arrivato a noi, e nella chiave e forma, scelte dall’autore, di «romanzo ideologico», cioè di romanzo «critico», di una ideologia che consiste «nell’opporsi al potere, qualsiasi potere, nel combattere con l’arma della scrittura, che è come la fionda di David, o meglio la lancia di Don Chisciotte, le ingiustizie, le sopraffazioni, le violenze, i mali e gli orrori del nostro tempo.»47 42. V. CONSOLO, Fuga dall’Etna, op. cit., p. 70; all’insegna della convinzione più volte manifestata, ed esplicitata dall’esergo di questo stesso libro-intervista (p. 1), che: «Il solo coerente sistema di segni da cui può essere colta la storia come realtà materiale sembra essere la letteratura (H. M. ENZENSBERGER, Letteratura come storiografia)». 43. C. RICCARDI, «Inganni e follie della storia », in E. PAPA (ed.), Per Vincenzo Consolo, op. cit., p. 91. 44. Ibid., p. 82 e p. 109, n. 3. E, prima, cfr. V. CONSOLO, Fuga dall’Etna, op. cit., p. 49. 45. Nell’a parte, quasi alla fine del cap. VII del Sorriso, viene alla fine omesso un brano dell’Introduzione della Storia manzoniana, che viene bensì riportato nella fonte di quel passo (in corsivo nostro il lacerto tradito da Luciano Gussoni, op. cit. e poi espunto): «Che vengano, vengano ad orde sferraglianti, con squilli lame della notte, perché il silenzio, la pausa ti morde. || Chi sparse quella peste? Nessuno. Nessuno con cuore d’uomo accese queste micce. «…La rabbia resa spietata da una lunga paura, e diventata odio e puntiglio contro gli sventurati che cercavan di sfuggirle di mano; o il timor di mancare a un’aspettativa generale…; il timor fors’anche di gravi pubblici mali che ne potessero avvenire». Ma già è tardi. Già sono state issate le colonne dell’infamia. || Ma tu aspetta, fa’ piano. […]» (Sorriso, ed. 2004, p. 130). 46. Un’incisiva descrizione della macerante riflessione manzoniana viene proposta da Giovanni ALBERTOCCHI, Alessandro Manzoni, Madrid: Síntesis, 2003, p. 106-116. 47. In questi termini viene esplicitata la definizione in V. CONSOLO, Fuga dall’Etna, op. cit., p. 70. Dalla facile accusa di ideologismo mette al riparo la pregnante valutazione di M. ONOFRI, «Nel magma italiano», in E. PAPA (ed.), Per Vincenzo Consolo, op. cit., p. 60: «Consolo, ecco il punto, è un miracoloso scrittore politico: laddove il miracolo sta nel fatto che la politica gli si eserciti sulla pagina per via di un’oltranza di stile.»

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