Rilanciare l’impegno civile di Vincenzo Consolo
Testo donato al Centro, che lo ha pubblicato e che oggi viene recitato nelle scuole italiane collegate alle attività educative antimafiose del Centro. Quell’atto unico servì all’autore, come ebbe modo di dirmi, per colmare un vuoto che gli pesava. Fino ad allora non aveva avuto modo di scrivere nulla su Pio, suo amico, perciò avvertiva un personale debito morale verso l’amico ucciso dalla mafia. L’omaggio reso alle vittime di mafia servì a Consolo a ripercorrere il filo del suo impegno antimafia dal dopoguerra sino alle stragi degli anni ’90. Infatti nell’atto unico, dalla Strage di Portella al Sacco di Palermo, cioè dalla storia del movimento contadino alla mafia urbana del boom edilizio, descritti drammaticamente da una voce narrante, Consolo richiama la sua visione storica e democratica della Sicilia contrapposta a quella meccanicistica di Tomasi di Lampedusa, autore de “Il Gattopardo” che ignorava il ruolo della mafia nella difesa del feudo e a quella fatalista di Giovanni Verga.
L’atto unico si chiude infatti nel modo seguente: “I veri nobili non sono, no, i Leoni e i Gattopardi, questi parassiti della storia, ma veri nobili sono stati e sono tutti quelli che hanno lottato e lottano in Sicilia, pagando spesso con la vita il rispetto della democrazia, dei diritti e della dignità umana. I veri nobili sono i Pio La Torre, i Rosario Di Salvo, i Giovanni Falcone e i Paolo Borsellino e tutti coloro che hanno lottato e sacrificato la loro vita per la libertà, la giustizia e il rispetto dei diritti di tutti”. Nel corso della sua vita e dei suoi scritti, Consolo ha affrontato il tema della mafia. Il tema si rintraccia quando riferisce del soldato italo-americano delle truppe Alleate sbarcate in Sicilia nel luglio 1943 che si presenta a casa dei Consolo presentandosi come fidanzato di una figlia di una loro cugina emigrata negli Usa.
La parente, avuta notizia del fatto, scrive allarmata per avvertire i suoi parenti che è tutto falso perché quel soldato è un gregario della “Mano nera”. Sempre nel 1943, alla fine dell’estate, Consolo ragazzino segue il padre commerciante che va alla ricerca di derrate alimentari sino a Villalba dove potrebbe comprare le lenticchie, pagando il pizzo, solo con il consenso di un signore grasso e ben vestito (Don Calò?). Il padre rifiutò di pagare, perse la possibilità di guadagno ma diede un esempio di rifiuto della mafia la cui presenza è avvertita da Vincenzo per la prima volta. Successivamente ne sentirà parlare, ancora giovinetto, dal grande capo dei comunisti siciliani, Girolamo Li Causi, in un comizio qualche anno dopo a Sant’Agata.
Ricordando il suo esser nato in un luogo poco segnato dalla storia, invaso dalla natura, dove non c’è stata una forte presenza arabo-normanna con tracce greco-bizantina più leggibili che sicuramente ha influito sulla identità di scrittore che per tutta la vita è impegnato a conciliare i due poli – quello logico illuminista di Leonardo Sciascia e quello lirico puro di Lucio Piccolo. Sciascia era un illuminista liberale, dice Consolo, mentre di sé stesso parla come di uno che aveva creduto nel cambiamento radicale della società, secondo un orientamento marxista. Stimolato dalla lettura di Sciascia, Carlo Levi, Danilo Dolci, Rocco Scotellaro, degli altri scrittori meridionalisti, Consolo entra in conflitto sia con i codici linguistici imposti sia con il “Potere”.
Vincenzo appare un moderno Odisseo in continua ricerca di sé stesso, vive la crisi della propria identità e vede i propri miti sfaldarsi, da quello della società contadina a quello della civiltà industriale, in quella Milano, del boom del dopoguerra dove si è trasferito attratto dagli inviti dei Vittorini, dei Calvino a esplorare la nuova società industriale. Il filo conduttore dello scrittore è l’ininterrotta riflessione sulla società siciliana e le sue ingiustizie, le ferite, le umiliazioni subìte dalla sua terra.. La narrazione del passato, serve a Consolo per leggere e interpretare il presente.
La Sicilia contadina e umana di una volta è rievocata in Retablo e nelle Pietre di Pantalica, mentre nel suo primo libro “La Ferita dell’Aprile” descrive il viaggio simbolico linguistico del giovane sanfratellano, Scavone, che viene sulla costa dove impara il siciliano e poi, con gli studi, l’italiano. L’olivo e l’olivastro tratteggia la tragedia dell’emigrazione dopo il terremoto del Belice, che richiama quella che stiamo vivendo in questi anni nel Mediterraneo. In tutti i suoi scritti Consolo esplora il mondo degli umili, perché la sua letteratura è uno strumento di ragionamento sulla realtà concreta interrogandosi alla maniera di Bertolt Brecht, su chi “paga le spese del nostro progresso”, visto che l’Occidente prospera sulle miserie dei tre quarti del mondo.
Quell’esule errante che cerca la sua Itaca si trova di fronte la grande minaccia della cancellazione della sua identità di cittadino della globalizzazione, “grande bottega del mondo”. Queste riflessioni esistenziali hanno accompagnato per tutta la vita Vincenzo Consolo, sino alla fine, sino al suo ultimo scritto che il Centro Studi La Torre ha avuto l’onore di pubblicare per espresso suo desiderio, rimanendogli per sempre grato.
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