Vincenzo Consolo e l’arte di dover scrivere di un’isola felice e maledetta
Vincenzo Consolo e l’arte di dover scrivere di un’isola felice e maledetta
Viaggio in Sicilia, a Sant’Agata di Militello, paese natio del grande narratore italiano Vincenzo Consolo
Una Prof. in AmericaFilomena Fuduli Sorrentino
Ogni volta che vado in Italia, una mia aspirazione è visitare la Sicilia. Attraversare lo stretto sul traghetto e arrivare sull’isola è un’esperienza bellissima, ancora più bella se si viaggia in auto e si visitano diverse città siciliane. Quest’anno in Sicilia ci sono stata due volte, la prima per passare una giornata a Taormina in compagnia di mio fratello e dei miei nipoti; la seconda invece per un obbiettivo culturale più specifico, arrivare a Sant’Agata di Militello, il paese natio di Vincenzo Consolo, considerato uno tra i maggiori narratori italiani contemporanei, e visitare la Casa Letteraria, inaugurata di recente. Volevo vedere di persona la collezione che include le opere dello scrittore, i suoi quadri, i premi ricevuti, e le sue cose personali.
Vincenzo Consolo oltre a scrittore e saggista, aveva lavorato come giornalista, insegnante, e consulente per la Einaudi. Il libro “La mia isola non è Las Vegas” contiene cinquantadue racconti, racconti di viaggio, d’infanzia, incontri con personaggi, e ricordi professionali pubblicati nell’arco di 50 anni su diversi giornali e periodici italiani come: L’Ora di Palermo, l’Unità, Il manifesto, Il Messaggero, La Stampa, Il Corriere della Sera, Giornale di Sicilia, La Sicilia; alcuni di questi quotidiani non esistono più. Leggendo i suoi saggi, i suoi romanzi, e ascoltando le sue video interviste, Consolo descrive “la sua isola” nei minimi dettagli, raccontandone le bellezze e i problemi. A me la Sicilia affascina moltissimo, la trovo veramente bellissima; una terra ricca di civiltà mediterranee, di storia, di cultura, di arte, con un mare da sogno, sole africano, e cibi gustosissimi. Non si finirebbe mai di girarla e di apprezzarne le sue bellezze, la sua storia, e il suo cibo, proprio come scrive Consolo in uno dei racconti di Le pietre di Pantalica, in cui il protagonista si chiede: “Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta di addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca”.
Ero in compagnia di mio marito, e quando siamo arrivati al Castello Dei Principi Gallego, nel centro storico della città, tra piazza Francesco Crispi e la storica piazza Vittorio Emanuele ribattezzata Piazza Vincenzo Consolo il 18 febbraio 2017, ci aspettava Claudio Masetta Milone, uno dei fondatori dell’Associazione “amici di Vincenzo Consolo”. Claudio, cortesemente ci ha fatto da guida del castello incominciando da “La casa letteraria di Vincenzo Consolo” dove sono custodite, a disposizione della cittadinanza, le opere dello scrittore e la sua biblioteca personale con oggetti preziosi e premi ricevuti nel corso della sua lunga carriera letteraria. La donazione voluta dalla signora Consolo, include ricordi e ricchezze culturali che Consolo collezionava durante i suoi viaggi, e tra questi ho notato modelli di piccolissimi libretti di ceramica o di ottone, e lumache di ceramica o di ottone (chiocciole, simbolo del castello Gallego e del romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio). Ci sono pezzi antichi che ricordano il lavoro fatto a mano della cultura contadina siciliana, come un telaio per tessere, dei birilli di legno, i suoi libri, i suoi quadri, le onorificenze ricevute da diversi Paesi esteri come la Francia, l’onorificenza del Presidente italiano, la macchina da scrivere che usava per il suo lavoro, e tante altre cose; troppe per essere elencate in questo pezzo, e tutto a disposizione degli studiosi e del pubblico. Ero contentissima di trovarmi li ed emozionata allo steso tempo guardando e toccando le cose personali di Vincenzo Consolo sullo scaffale; tra le sue cose c’era anche L’opera completa di Vincenzo Consolo, opera pubblicata nei Meridiani Mondadori grazie alla cura di Gianni Turchetta.
Nello studio c’erano anche molte foto, ma una foto datata 1968 aveva attratto la mia attenzione, erano fotografati: Consolo insieme allo scrittore Leonardo Sciascia e al poeta Lucio Piccolo nel giardino della villa Piccolo a Capo di Orlando. Mente guardavo la foto ho chiesto al signor Masetta Milone, amico intimo di Consolo e della signora Consolo, quanta importanza dava lo scrittore all’amicizia, Claudio mi rispose con una citazione dal libro La ferita dell’aprile di Vincenzo Consolo: “…E questa amicizia, che quando uno è solo contro tutti, l’altro gli dice ecco qua, siamo in due”. Lucio Piccolo era un poeta e viveva nella villa “Piccolo” a Capo d’Orlando, ma passava molto tempo anche a Palermo. Piccolo era conosciuto come il barone, ed era cugino di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, autore di un unico ma famosissimo romanzo, Il Gattopardo. Lucio Piccolo era un uomo molto solitario e chiuso in se stesso, amava la solitudine. Consolo da giovane lo andava a trovare spesso alla sua villa a Capo d’Orlando e ci restava per ore a parlare di poesie e di lingua. Per Consolo visitare Piccolo era come andare a lezione, lo stimava molto e lo riteneva un suo maestro.
Con Leonardo Sciascia Consolo aveva un rapporto diverso da quello con il poeta Lucio Piccolo. Consolo per Sciascia custodiva un’amicizia storica e un gran rispetto, e come Sciacca, egli era motivato a sconfiggere l’ignoranza che alimenta la cultura mafiosa in Sicilia. Leonardo Sciascia viveva a Recalmuto e Consolo doveva prendere il treno da Sant’Agata di Militello per andare a visitarlo, ma di solito lo faceva una volta la settimana. Prima di Sciascia, nessun scrittore aveva scritto di Mafia, egli fu il primo a scriverne nel suo grande successo Il giorno della civetta, terminato nel 1960 e pubblicato nel 1961. Al romanzo si ispirò il film, dello stesso nome, del regista Damiano Damiani uscito nel 1968. Con i suoi romanzi Sciascia dimostrò che l’esistenza pericolosa della Mafia si deve combattere con ogni mezzo disponibile, specialmente scrivendone e diffondendo la cultura e la legalità. Dopo Sciascia Consolo continuò la battaglia contro la Mafia e la criminalità organizzata usando anche lui come arnese la stressa arma, la letteratura. Il signor Masetta Milone, che ha sempre vissuto in Sicilia, dice che la letteratura insieme alla cultura e alla bellezza sono l’arma più potente da usare contro la criminalità organizzata e la Mafia.
Vincenzo Consolo è conosciuto come l’autore della pluralità di lingue e di toni, una caratteristica che afferma la sua identità di scrittore. Lo stile linguistico di Consolo non è dialetto ma nemmeno lingua nazionale. Egli usa vocaboli che esprimono emozioni ma non sono parole dialettali. Il suo stile si allontana dall’italiano comune che egli riteneva troppo tecnico. La pluralità di toni e di lingue comporta anche una pluralità di prospettive, Consolo nei suoi romanzi sceglie di raccontare secondo la prospettiva soggettiva e particolare dei personaggi. Riconoscibile in ogni sua frase è l’utilizzazione di lessici incrociati tra l’italiano antico (la lingua volgare o lingua del popolo) e il siciliano, quindi, la sua è una scrittura che narra una continua ricerca di originalità. Nei suoi romanzi racconta secondo la prospettiva soggettiva di chi è dentro la storia giocando con le parole, come possiamo notare in “Retablo”, nella ode a Rosalia: “Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha róso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia. […] Rosa che punto m’ha, ahi!, con la sua spina velenosa in su nel cuore”. In un’intervista curata da Marino Sinibaldi, giornalista, critico letterario, e conduttore radiofonico, Consolo aveva dichiarato: “Fin dal mio primo libro ho cominciato a non scrivere in italiano. Ho voluto creare una lingua che esprimesse una ribellione totale alla storia e ai suoi esiti. Ma non è dialetto. È l’immissione nel codice linguistico nazionale di un materiale che non era registrato, è l’innesto di vocaboli che sono stati espulsi e dimenticati. Io cerco di salvare le parole per salvare i sentimenti che le parole esprimono, per salvare una certa storia”.
Consolo amava la Sicilia, la lingua siciliana, la cultura dell’isola e la lingua italiana, ma era convinto che i giovani a scuola debbano studiare l’italiano e non il dialetto. Nel 2011 egli fu il più critico scrittore contro l’insegnamento del dialetto nelle scuole. Console vedeva la legge che regolava lezioni di dialetto in ogni istituto di ordine e grado come un’iniziativa leghista: “Ormai siamo alla stupidità”, aveva affermato Consolo. “Una bella regressione sulla scia dei ‘lumbard’. Che senso hanno i regionalismi e i localismi in un quadro politico e sociale già abbastanza sfilacciato? Abbiamo una grande lingua, l’italiano, che tra l’altro è nata in Sicilia: perché avvizzirci sui dialetti? Io sono per la lingua italiana, quella che ci hanno insegnato i nostri grandi scrittori, e tutto ciò che tende a sminuirla mi preoccupa”. Consolo usa anche l’arma dell’ironia, ma da quasi tutti i suoi scritti trapela una Sicilia amara per quanto sempre molto amata.
Tornando alla mia visita al Castello dei Principi Gallego, dopo aver ammirato “La casa letteraria di Vincenzo Consolo”, visito il resto del castello con il signor Masetta Milone, un tempo dimora dei Principi Gallego. Risalendo una scala a chiocciola – simbolo del castello e del nome Gallego – si raggiunge il piano superiore dove si trovava la residenza di Principi Gallego: i saloni di ricevimento, i soggiorni, le stanze da letto, il giardino, le cucine e le stanze più riservate del castello. Come ogni residenza nobile, il castello ha pure una cappella, anche questa con dei segreti: i Principi Gallego potevano assistere alle funzioni religiose senza essere visti, affacciandosi da una finestrella comunicante con alcune stanze dell’abitazione. Aprendo la finestrella Claudio dice: “Da questa finestra i principi guardavano se c’erano belle ragazze in chiesa senza che gli altri se ne accorgessero”. L’ingresso della chiesa si trova sulla piazza, e all’interno della cappella si possono ammirare tele, dipinti e statue di legno dei secoli XVIII e XIX. Visibile da lontano, il campanile della chiesa con il grande orologio.
Continuando il giro del castello arrivo sulle terrazze del palazzo: alcuni sono balconi che si affacciano sulle terrazze settentrionali, un tempo armati d’artiglierie per fermare gli attacchi dei pirati che arrivavano via mare. Da ognuna delle terrazze si poteva ammirare un panorama bellissimo e suggestivo del porto di Sant’Agata Di Militello, dove erano ancorate barche a vela e motoscafi. Si avvistava la curva della costa di Cefalù, e la punta di Capo d’ Orlando, e guardando in rettifilo si poteva riconoscere il bellissimo arcipelago delle isole Eolie. “Il castello domina le isole Eolie, dunque da qui il Mandralisca doveva passare navigando per recarsi a Cefalù – ci spiega Claudio Masetta Milone. E nelle prigioni del castello sono stati imprigionati molti rivoluzionari di Alcara Li Fusi. Consolo parla delle prigioni del castello con molta tristezza; attraverso la figura di Mandralisca, nel romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio, Consolo si fa portavoce del malessere delle genti siciliane tradite dalle strutture politiche.
I Principi Gallego ottennero la signoria della città nel 1573, Vincenzo Gallego e suo figlio Luigi costruirono il castello nel 1663. Il castello fu venduto nel 1820, insieme alle terre, dall’ultimo erede dei Gallego al Principe di Trabia. Nello stesso secolo i privilegi feudali declinarono. Il libro di Vincenzo Consolo Il sorriso dell’ignoto marinaio finisce con una descrizione precisa del castello-carcere di Sant’Agata di Militello, che per la sua forma a chiocciola divenne un simbolo architettonico per anime malvagie: “E siam persuasi che quell’insolito e capriccioso nome chiuso tra le parentesi che vien dopo Girolamo del principe marchese, Còcalo, sicuramente d’accademico versato in cose d’arte o di scienza, sennò sarìa stato eretico per paganità, abbia ispirato l’architetto. Essendo Còcalo il re di Sicilia che accolse Dedalo, il costruttore del Labirinto, dopo la fuga per il cielo da Creta e da Minosse, ed avendo il nome Còcalo dentro la radice l’idea della chiocciola, kokalìas nella lingua greca, còchlea nella latina, enigma soluto, falso labirinto, con inizio e fine, chiara la bocca e scuro il fondo chiuso, la grande entrata da cui si può uscire seguendo la curva sinuosa ma logica, come nella lumaca di Pascal, della sua spirale, l’architetto fece il castello sopra questo nome: approdo dopo il volo fortunoso dal grande labirinto senza scampo della Spagna, segreto sogno di divenire un giorno viceré di Sicilia, sforzo creativo in sfida alla Natura come l’ali di cera dell’inventore greco o solo capricciosa fantasia?” Vincenzo Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio.
Come la vita di ogni scrittore, anche quella di Vincenzo Consolo non fu facile. Terminate le scuole superiori si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza, dell’Università Cattolica di Milano. Consolo decise di fare l’università a Milano perché c’erano Vittorini, Quasimodo, e c’era stato Verga. Però, per far contenti i suoi genitori egli si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza e non a quella di lettere; la sua famiglia considerava l’insegnamento un lavoro da donne e non da uomini. Durante il tempo in cui si trovava a Milano fu costretto ad interrompere gli studi per far fronte alla leva obbligatoria, e in seguito si laureò in Giurisprudenza con una tesi in filosofia del diritto dall’Università di Messina, e ritornò a vivere in Sicilia dove si dedicò all’insegnamento nelle scuole agrarie. Nel 1963 debuttò con il suo primo romanzo, La ferita dell’aprile, una narrazione della vita di un paese siciliano straziato dalle lotte politiche del dopoguerra. Nel 1968, dopo aver vinto un concorso alla Rai, si trasferisce a Milano, dove vivrà e lavorerà fino alla sua morte svolgendo un’intensa attività giornalistica ed editoriale, e alternando alla vita milanese con lunghi soggiorni nel paese d’origine. Nel 2007 ricevette la laurea “honoris causa” in Filologia moderna dall’Università di Palermo.
Tra le opere di Vincenzo Consolo riordiamo: La ferita dell’aprile (1963), Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976, la sua opera più celebre), Retablo (1987, premio Grinzane), Le pietre di Pantalica (1988), Nottetempo, casa per casa (1992, premio Strega), L’olivo e l’olivastro (1994), Lo spasimo di Palermo (1998). Lunaria (1985, dialogo fiabesco di sapore leopardiano). Consolo ha scritto anche per il teatro (Catarsi, 1989) ed è stato autore di saggi dedicati alla sua terra, la Sicilia: La pesca del tonno in Sicilia (1986), Il Barocco in Sicilia (1991), Vedute dallo stretto di Messina (1993).
Concludo con una citazione di Vincenzo Consolo, tratta da una video intervista: “Perché molti siciliani scriviamo? Noi scrittori siciliani non è che non sapevamo che fare, ma abbiamo sentito il bisogno di spiegarci, di capire le ragioni di tanto malessere di quest’isola. Da sempre un’isola che potrebbe essere veramente un isola felice, l’Isola dei Feaci, perché abbiamo tutto; abbiamo la terra, le antichità. Eppure, per i mal Governi che si sono succeduti da sempre quest’isola e diventata un’isola maledetta, un’isola infelice”.
Filomena Fuduli Sorrentino
Calabrese e appassionata per l’insegnamento delle lingue, dal 1983 vivo nel Long Island, NY. Laureata alla SUNY con un AAS e in lingue alla NYU