Vincenzo Consolo si racconta: un contributo autobiografico inedito

Il 18 febbraio 1933 ricorre la nascita di questo autore centrale nella storia della letteratura italiana del Novecento. Attraverso le sue stesse parole ne ripercorriamo la biografia e il senso della sua opera.
Un articolo di Giulia Mozzato

Vincenzo Consolo è stato un autore centrale nella storia letteraria italiana del Novecento. In modo particolare per lo studio sistematico della lingua e della sua evoluzione, per il recupero della forma narrativa poetica, per la raffinatezza della scrittura, per le tematiche sociali che sono state al centro del suo lavoro.
Un uomo fisicamente non alto, non imponente, ma che entrando in una stanza portava con sé una presenza carismatica molto forte, pur con un atteggiamento di estrema disponibilità.

Nel 2004 fu protagonista di una lezione nell’ambito del corso di scrittura creativa che organizzammo. Abbiamo sempre conservato la registrazione di quella lezione, sapendo che si trattava di un contenuto importante, unico.

In quelle parole ritroviamo oggi la sua biografia e il senso della sua opera.

Un contributo prezioso che in occasione dei 90 anni dalla nascita (era nato a Sant’Agata di Militello il 18 febbraio 1933 ed è purtroppo scomparso nel 2012) vogliamo condividere con i nostri lettori.

Non ho mai creduto all’innocenza, innocenza di chi intraprende una strada d’espressione, sia essa letteraria, musicale o pittorica… certo ci sono stati i naïf, i cosiddetti nativi, ma sono casi rarissimi di felicità innocente. Quando si intraprende un cammino espressivo bisogna essere consapevoli di quanto sia importante ciò che ci ha preceduto nel momento in cui abbiamo deciso di muovere i primi passi e di quello che si sta volgendo intorno a noi nel momento in cui ci accingiamo a scrivere. Questo è successo a me.

Sono nato in Sicilia, ma volevo vivere a Milano

Sono nato in Sicilia e ho fatto i miei studi a Milano, la Milano degli Anni ’50, una Milano con le ferite della guerra ma pure con un’anima popolare, direi “portiana”, che ancora si conservava in quegli anni.
In piazza Sant’Ambrogio ho frequentato l’Università Cattolica, non per convinzione religiosa, ma perché sono capitato lì per caso; in questa piazza vedevo arrivare la sera un tram, senza numero, pieno di migranti provenienti dal meridione. Lì c’era un grosso casermone, un ex-convento del Settecento, in parte destinato alla caserma della celere, e in parte a un “Centro orientamento immigrati”. Questi tram provenienti dalla stazione Centrale scaricavano gli emigranti che venivano sottoposti a visite mediche ed erano poi avviati in Belgio, nelle miniere di carbone, o in Svizzera o in Francia. Io, da studentello privilegiato, osservavo e non capivo cosa stesse succedendo; mi ricordo però queste persone già equipaggiate con la mantellina cerata, il casco e la lanterna.
Spesso erano miei conterranei che avevano lasciato le miniere dello zolfo perché la crisi ne aveva causato la chiusura, e quindi passavano a quelle di carbone; poi sapete che a Marcinelle ci fu quella grande tragedia con numerosi italiani morti… Osservavo questa realtà, mentre in quegli anni avevo maturato l’idea di fare lo scrittore pur frequentando la facoltà di giurisprudenza.
Milano per me era la città dove era stato Verga, dove c’erano Vittorini e Quasimodo, quindi per me era la città giusta dove approdare. Ho insistito coi miei per spostarmi a Milano, specie perché avevo il desiderio di incontrare Vittorini: Conversazione in Sicilia per me era una sorta di vangelo che mi accompagnava da tempo. Ma insieme a Conversazione in Sicilia, dal punto di vista essenzialmente letterario e narrativo, c’era stato tutto un bagaglio di letture che mi aveva formato in quegli anni, ed era tutta la letteratura meridionalista, come Gramsci o Salvemini sino a Carlo Doglio, a Carlo Levi con Cristo si è fermato a Eboli o con Le parole sono pietre, e Sciascia.

Tutte letture non propriamente letterarie ma di ordine storico-sociologico sulla questione meridionale.
Finita l’Università ho pensato di voler fare lo scrittore di tipo “testimoniale”, storico-sociologico sulla linea non di Vittorini ma di Carlo Levi, di Dolci, e del primo Sciascia.
Tornato in Sicilia dopo la laurea, mi sono rifiutato di fare il notaio o l’avvocato o il magistrato e ho insistito coi miei genitori per fare l’insegnante. Ho insegnato diritto, educazione civica e cultura generale in scuole agrarie, perché era questo il mondo che volevo conoscere: i paesi sperduti di montagna. La mia curiosità e la mia felice voracità di lettore – non c’era la televisione a quell’epoca e quindi il mondo lo si poteva conoscere solo attraverso i libri – mi portava verso letture di riviste, dibattiti culturali. Seguivo tutti i dibattiti culturali dell’epoca, come l’esperienza vittoriniana della collana dei “Gettoni”, una collana di ricerca dove sono usciti i maggiori scrittori dell’epoca come Bassani o lo stesso Sciascia; e poi la rivista letteraria che dirigevano allora Vittorini e Calvino, “Il Menabò”.

Non c’era l’affollamento che c’è oggi di un’enorme quantità di libri pubblicati, all’epoca i libri si potevano ancora memorizzare, si capiva come collocarli, l’importanza che potevano avere. Comunque, quando mi accinsi a scrivere il mio primo libro, l’intenzione era di restituire la realtà contadina in forma sociologica, mettendomi sul coté “leviano” di Sciascia, invece poi sia l’istinto sia la consapevolezza, mi portarono in una direzione letteraria e narrativa, narrativa però nel senso più ampio della parola.
Ho subito preso la decisione di praticare dei temi storico-sociali, che non erano dei temi assoluti, ma erano dei temi relativi. Questo mi permetteva di svolgere attraverso la scrittura quella che era la mia visione del mondo, quella che era la mia visione storico-sociale, non esistenziale, che era poi il bagaglio di cui mi ero nutrito.

Scrittura e tematiche

Il problema principale era scrivere sì del mondo che conoscevo, del mondo che avevo praticato, di cui avevo memoria, ma con quale stile, con quale linguaggio, con quale tipo di scrittura?
In quegli anni si esauriva una stagione letteraria che è andata sotto il nome di “neorealismo”, tutta la letteratura del secondo dopoguerra di tipo memorialistico, una scrittura nobilissima, certamente, ma una scrittura assolutamente referenziale, comunicativa.
Ho riflettuto: gli scrittori che mi avevano preceduto di una generazione, ma neanche, con lo scarto di dieci anni (e parlo di scrittori autentici, grandi, come per esempio Moravia, o Elsa Morante, o Calvino, o lo stesso SciasciaBassani e tanti altri) avevano vissuto il periodo del fascismo e della guerra, e avevano continuato a scrivere anche nel secondo dopoguerra in uno stile assolutamente comunicativo, in uno stile razionalista o illuminista che dir si voglia.
Non potevo scegliere quel registro stilistico, non potevo praticare quella lingua. Mi sono convinto che questi scrittori, avendo vissuto il periodo della guerra e del dopoguerra, avevano nutrito la speranza che con l’avvento della democrazia potesse nascere in questo paese una società più giusta, democratica, armonica con la quale poter comunicare.
Avevano un po’ lo schema della Francia dell’Illuminismo, la Francia del Razionalismo, dove una società si era già compiuta, già formata all’epoca di Luigi XIV, ma poi, con le istanze della rivoluzione, era avvenuta quella novità di riconoscimento di equità e giustizia nelle società civili. Ho chiamato il registro che avevano scelto quegli scrittori, il “registro della speranza”.
Pur avendo vissuto l’esperienza della guerra, ai tempi ero un bambino, mi sono formato nel secondo dopoguerra e ho visto che la speranza che questi scrittori avevano nutrito non c’era più. C’erano state le prime elezioni in Sicilia del ’47, con la vittoria del blocco del popolo, la sinistra aveva avuto la maggioranza assoluta in questa prima prova elettorale, ed erano seguite le intimidazioni. C’era stata la strage di Portella della Ginestra, e poi le elezioni del ’48 con la vittoria della DC; io osservavo, dal mio angolo di mondo, che quella società giusta, armonica, che si sperava e a cui si tendeva, non si era realizzata, ed erano rimaste disparità, ingiustizie e molti problemi ereditati dal passato.
Quindi per me la scelta di quella lingua, di quello stile comunicativo, era assolutamente impensabile, io non potevo praticare quel codice linguistico che era il codice linguistico “centrale”, quel toscano che poi, valicando le Alpi, attingeva a una specie di reticolo illuministico francese: la lingua di Calvino, di Sciascia o Moravia… anzi di Moravia si diceva che scrivesse con una lingua che pareva tradotta da una lingua straniera. A Moravia interessava restituire gli argomenti più che dare attenzione allo stile, un po’ come Pirandello che aveva inventato un tale mondo inesplorato nel quale la lingua era assolutamente funzionale a quello che voleva comunicare; e quindi la mia scelta fatalmente andò in un senso opposto, cioè in un contro-codice linguistico che non fosse quello centrale e che fosse un codice di tipo sperimentale-espressivo.
Naturalmente non avevo inventato niente, ma fatalmente mi collocavo in una linea stilistica che partiva nella letteratura moderna, che partiva da Verga, e arrivava agli ultimi epigoni: GaddaPasoliniMastronardiMeneghello. Sperimentatori o espressivi che dir si voglia, una linea che ha sempre convissuto nella letteratura italiana con l’altra.
Però le tecniche degli sperimentatori-espressivi naturalmente sono personali, variano da autore ad autore; per esempio Verga s’era opposto all’utopia linguistica del Manzoni. Manzoni voleva “sciacquare i panni in Arno”, cioè riteneva che l’Italia, dopo la sua unità, dovesse avere una lingua unica, e così, dopo aver scritto Fermo e Lucia  ha scritto I promessi sposi nella lingua “centrale” toscana, ma pure lui i panni li aveva già portati umidi dalla Senna, essendosi formato anche con l’illuminismo francese.

Verga è stato il primo che ha rivoluzionato questo assunto della centralità della lingua inventando una lingua che nella letteratura italiana non era mai stata scritta, un italiano che non era dialetto (Verga aborriva il dialetto) ed era una lingua appena tradotta dal siciliano all’italiano, in primo grado, diciamo, quella che Dante, nel De vulgari Eloquentia chiama “la lingua di primo grado”; Pasolini invece definisce la lingua di Verga “un italiano irradiato di italianità”.
Verga rappresenta i contadini di Vizzini oppure i pescatori di Aci Trezza che non avrebbero mai potuto parlare in toscano, sarebbe stata un’incongruenza.
Io mi inquadravo in questa grande ombra verghiana, che passava per gli scapigliati milanesi della prima rivoluzione industriale milanese del 1872, e arrivava, man mano negli anni, al polifonico Gadda e a Pasolini.
La tecnica di Pasolini e di Gadda era simile perché partivano dal codice centrale, dalla lingua toscana e poi, man mano, regredivano verso le forme dialettali, con l’immissione, l’irruzione dei dialetti nella lingua scritta, nella lingua italiana; sennonché in Gadda c’è una polifonia di dialetti, soprattutto in quel capolavoro che è Quel pasticciaccio brutto de via Merulana, dove sono orchestrati oltre al romanesco gli altri dialetti italiani; invece in Pasolini troviamo la digressione verso il romanesco del sottoproletariato romano; in Meneghello ci sono altre implicazioni, in Mastronardi altre, e potrei fare il nome di un altro scrittore siciliano come D’Arrigo autore di quell’opera enorme che si chiama Horcynus Orca.

La tecnica che mi sono imposto è stata la tecnica dell’innesto. Ho trovato a mia disposizione un giacimento linguistico ricchissimo, quello della mia terra, la Sicilia. Senza mitizzare, enfatizzare questa mia terribile terra, c’è in essa una stratificazione linguistica enorme. Oltre ai templi greci o arabo-normanni, vi sono pure giacimenti linguistici che hanno lasciato le diverse civilizzazioni, a partire dal greco, poi l’arabo o il latino, lo spagnolo, il francese… Ho pensato che bisognava reimmettere nel codice centrale questo glossario, queste forme sintattiche che erano state espunte e riprendere queste parole che avevano una loro dignità filologica, che avevano una loro storia, e inserirle nella scrittura, nel mio codice, nel mio modo di scrivere.
Non era il cammino inverso, cioè la corruzione dell’italiano che diviene dialetto, ma era l’opposto cioè la profondità di certi vocaboli, di certi modi di dire che venivano reimmessi da queste antichità nel codice centrale, ubbidendo a un’esigenza di significato, perché il vocabolo greco, il vocabolo arabo o spagnolo, mi dava una pregnanza maggiore del vocabolo italiano, era più pregno di significato e portatore di una storia più autentica.
Ecco: la ricerca era proprio in questo senso e poi l’organizzazione della frase e della prosa, in senso ritmico e prosodico.

Struttura e lingua

Dal primo libro – La ferita dell’Aprile -, ho cercato di dare una scansione ritmica alla frase, provando ad accostare quella che è la prosa illuministica, comunicativa, in cui l’autore “autorevole” alla Manzoni, interrompe di tempo in tempo la narrazione e riflette sulla storia che sta raccontando per dialogare con il lettore, per introdurre un ragionamento di tipo filosofico.
Nietzsche fa una divisione parlando della nascita della tragedia greca: il passaggio dalla tragedia antica, di Eschilo e di Sofocle, alla tragedia moderna di Euripide. Dice che nella tragedia di Euripide, che lui chiama la tragedia moderna, c’è l’irruzione dello spirito socratico: i personaggi iniziano a riflettere, a ragionare e non più a cantare come avveniva nella tragedia antica, dove usciva l’”anghelos”, che era il messaggero che si rivolgeva al pubblico e narrava l’antefatto, quello che era avvenuto in un altro momento e in un altro luogo; da quel momento poteva iniziare la tragedia, cioè i personaggi iniziavano ad agire, a parlare.. poi c’era il coro che commentava e lamentava la tragedia che si stava svolgendo. Nietzsche dice che nella tragedia antica c’è lo spirito dionisiaco, musicale, poetico, mentre nella tragedia moderna prevale lo spirito socratico, cioè la filosofia e la riflessione.


Può apparire eccessivo da parte mia ricorrere a paragoni talmente aulici, ma in questo nostro tempo, nella nostra civiltà di massa, con la rivoluzione tecnologica, sulla scena non può più apparire l’”anghelos”, il messaggero non può più usare quel linguaggio della comunicazione con cui fare iniziare la tragedia perché l’autore non sa più a chi si rivolge. Quindi ho spostato la prosa verso la forma del coro, del coro greco, dandole un ritmo di tipo poetico, eliminando la parte autorevole dell’autore e quella della riflessione. La prosa si presenta così come un poema narrativo, come quello che praticavano nel Mediterraneo i famosi Aedi di omerica memoria. Penso che la scrittura comunicativa non sia più praticabile, perché si è rotto il rapporto tra il testo letterario e il conteso, quello che si chiama il contesto “situazionale”. Non c’è più rapporto, a meno che non si vogliano praticare le forme mediatiche e quindi si scriva nell’italiano più corrente, più corrivo, quello che non denuncia la profondità della lingua, una lingua che è portatrice di storia, memoria anche collettiva.


La  mia ricerca è proseguita negli anni con gli altri libri, dal primo libro sino all’ultimo Lo spasimo di Palermo, in modo sempre più accentuato. Non solo ho organizzato la frase in forma metrica, ritmica, ma nel contesto della narrazione invece di inserire riflessioni di tipo filosofico, di immettere la scrittura saggistica dentro alla scrittura narrativa – come teorizzato da Kundera, il quale, nella sua teoria del romanzo, sostiene la necessità di interrompere la narrazione e d’inserire delle parti riflessive-saggistiche –  interrompo la narrazione per alzare il tono della scrittura in una forma ancora più alta, in una forma ancora più poetica, un po’ come se subentrasse il coro della tragedia greca: sono parti corali che fanno da commento all’azione che sto raccontando, alla narrazione che sto svolgendo, alle vicende che sto narrando.

Le opere

Torno al mio primo libro che parla del secondo dopoguerra in Sicilia, un libro scritto con un io-narrante adolescente, dove parlo della vita politica, della vita sociale, delle prime elezioni, del ’48. Lì ho scelto questo stile, usando anche nell’organizzazione della frase le rime e le assonanze, ma in senso comico-sarcastico, come parodia della società degli adulti che l’adolescente che scrive critica e non condivide.
Il mio primo libro è in prima persona, come spesso accade agli esordi perché si attinge a quelli che sono i ricordi: il primo libro è una sorta di libro di formazione, di iniziazione, di educazione sentimentale.
Credo che dopo il primo libro non si possa più praticare la prima persona, bisogna invece trattare quello che è il proprio progetto letterario, cioè cercare la propria identità: che cosa sono, dove voglio arrivare, chi voglio essere.

Il secondo mio libro si chiama Il sorriso dell’ignoto marinaio, e qui devo fare un‘altra digressione autobiografica: dal primo al secondo libro sono passati quasi 13 anni in cui venivo considerato quasi un latitante dalla scrittura letteraria. Ma questo lasso di tempo ha coinciso con la mia seconda venuta a Milano, nel 1968, dopo essermi reso conto che la mia attività di insegnante era assolutamente inutile perché il mondo contadino era finito, come aveva osservato Pasolini.
Milano mi sembrava la città più interessante -, che io tra l’altro già conoscevo – perché qui si svolgeva la storia più accesa, quella del ’68, con un grande dibattito culturale, politico, coi grandi conflitti tra il mondo del lavoro e quello del capitale, cioè tra gli imprenditori e gli operai. Mi sembrava importante e interessante approdare non a Roma o a Firenze ma a Milano, sollecitato, allora, dalla lettura dei “Menabò” di Vittorini e di Calvino che invitavano, proprio in questo momento storico importante e acuto, i giovani autori ad inurbarsi, studiando la grande trasformazione italiana perché il mondo contadino era finito sostituito da un nuovo paese che bisognava narrare, che bisognava rappresentare.

Così mi trovai qui nel ’68, ma spaesato e spiazzato perché di fronte a una realtà urbana e industriale che non conoscevo, di cui non avevo memoria e di cui mi mancava il linguaggio: se posso permettermi di fare un paragone, la stessa sorte l’ha avuta Verga, approdato a Milano nel 1872 nel momento della prima rivoluzione industriale, una città che si ingrandiva, aprendo nuove fabbriche: la Pirelli era nata proprio nel 1872 per la lavorazione della gomma… dove vi erano stati i primi scontri, i primi scioperi dei lavoratori per richiedere diritti. Pure il signor Verga rimase spiazzato e qui a Milano avvenne la sua famosa conversione: non riuscendo a capire questo nuovo mondo lui, come scrive Natalino Sapegno, ritornò con la memoria alla Sicilia “intatta e solida” della sua infanzia; iniziò il nuovo ciclo di Verga con Le novelle rusticane e poi con il suo capolavoro I Malavoglia.


Anch’io rimasi spiazzato, ma non feci la stessa scelta di Verga. Credo nella storia e credo che l’uomo possa intervenite nella storia; non ho avuto il ripiegamento ideologico che ha avuto Verga, ma ho pensato che per rappresentare l’Italia e soprattutto Milano di quegli anni, le grandi istanze, le grandi richieste di mutamento di questa nostra società, dovevo assolutamente ripartire dalla mia terra, dalla Sicilia, scegliendo un topos storico qual è il 1860 che mi pareva somigliante al 1968 in Italia, e non solo. Ho pensato appunto di scrivere un romanzo storico – Il sorriso dell’ignoto marinaio -, ambientato al momento della venuta di Garibaldi in Sicilia con le speranze che si erano accese negli strati contadini e popolari siciliani all’arrivo di Garibaldi, concependo il Risorgimento e l’unità d’Italia come un mutamento anche politico e sociale. Speranze deluse dell’unità che ha compiuto il progetto politico dell’unione ma senza mutare le condizioni degli strati popolari.

Da qui poi è nata tutta quella letteratura di tipo sociale di cui vi dicevo: la questione meridionalista trattata da Salvemini e Gramsci, ma anche una letteratura narrativa di riflessione sull’unità d’Italia, fatta da Verga, sia nei Malavoglia che in Mastro don Gesualdo, o da De Roberto con I ViceréPirandello con I vecchi e i giovani, fino ad arrivare a Lampedusa.
Naturalmente la letteratura sul Risorgimento è espressa in maniera diversa: in Lampedusa si trova una visione scettica e deterministica. Lui veniva da una classe nobile, Il Gattopardo è il libro di uno scettico che pensa che le classi sociali si avvicendano nella storia con una determinazione quasi fisica, come succede con il principe di Salina, uno studioso delle stelle: come accade alle stelle che prima si accendono e poi si spengono e finiscono, così le classi sociali. Però le classi alte, quelle nobiliari, vengono da lui assolte perché attraverso la ricchezza l’uomo si raffina e dà il meglio di sé, producendo poesia e bellezza. Per ciò che mi riguarda posso dire che me ne frego della poesia e della bellezza, mentre esigo più giustizia e più equità tra gli strati che formano una società.

Ho concepito partendo da Il sorriso dell’ignoto marinaio un ciclo di romanzi a sfondo storico, una trilogia. Il secondo è Notte tempo, casa per casa, che parla di un momento cruciale della storia italiana, gli anni venti con la nascita del fascismo, raccontato dall’angolazione di un piccolo paese della Sicilia che si chiama Cefalù, parlando delle crisi delle ideologie che sono succedute al primo dopoguerra, l’insorgere di nuove metafisiche, di istanze di tipo settario, le sette religiose, di segno bianco e di segno nero. L’ultimo della trilogia, è Lo spasimo di Palermo, che parla della contemporaneità, degli anni’90 e si svolge sempre in Sicilia però con flashback che partono dal secondo dopoguerra e arrivano al 1992 con la strage di via D’Amelio e la morte del giudice Borsellino. Naturalmente non faccio nomi, ma si capisce che il tema è la tragedia di questi magistrati che sono massacrati dalla mafia.
Poi sono usciti altri libri che potrei definire collaterali, per esempio Retablo oppure L’oliva e l’olivastrodove ho cercato di praticare la riflessione sulla realtàL’oliva e l’olivastro è un libro ambientato in Sicilia dove non c’è la finzione letteraria, ma un viaggio nell’isola degli anni ’80 e ’90, con tutte le perdite e sullo schema del viaggio di ritorno di Ulisse, che non ritrova più la sua Itaca, o meglio la ritrova ma non la riconosce perché è degradata, è devastata, soggiogata e dominata dai proci, gli uomini del potere politico mafioso, con tutti i disastri che ne sono susseguiti.

Giulia Mozzato, per MaremossoMagazine – La Feltrinelli
17 febbraio 2023



Consolo poeta. foto di Giovanna Borgese


“L’OGGETTO PERDUTO DEL DESIDERIO. ARCHEOLOGIE DI VINCENZO CONSOLO” DI ROSALBA GALVAGNO

Recensione di Ada Bellanova

Uno scavo nello scavo: la seduzione delle archeologie consoliane

Leggendo l’introduzione a L’oggetto perduto del desiderio. Archeologie di Vincenzo Consolo (Milella edizioni 2022), scopro che Rosalba Galvagno è approdata alla passione per l’opera di Consolo grazie alla lettura di Retablo. In particolare, è stata la musica magica e melodiosa dell’incipit a sedurla, a evocare in lei il profumo e l’incanto della Sicilia e a spingerla allo studio di una vita.

È forse questo dato, in consonanza con il mio vissuto – anche la mia scoperta di Consolo ha avuto inizio con la fascinazione delle prime pagine del romanzo –, a indurmi a una fruizione “amica”. La lettura non smentisce le attese e i saggi mi permettono, poi, di “ripassare” l’opera consoliana, regalandomi alcune sorprese attraverso una prosa piacevole anche nelle pagine più tecniche.

Nella scelta di ricordare il dato autobiografico della genesi dell’interesse letterario, la studiosa offre da subito un’indicazione importante al lettore, anche a quello meno esperto: a sedurre davvero è la Sicilia, o meglio la trasfigurazione letteraria che Consolo ne propone. È la Sicilia l’oggetto perduto (sempre), e la scrittura scava e tenta di approssimarvisi, nei resti archeologici, nelle pietre, per sublimarlo, e goderne, «ma denunciandone anche la faccia orrida senza veli o mistificazioni» (p. 18). Ecco giustificato, dunque, il titolo del volume: L’oggetto perduto del desiderio.

La prima parte contiene due testi che indagano soprattutto Il sorriso dell’ignoto marinaio. Nel primo in particolare, Galvagno va fino alle radici della scrittura di alcune pagine del romanzo e ne rintraccia ingredienti compositivi a volte molto nascosti, portando così alla luce interessanti allusioni, per esempio quelle a Los desastres de la guerra di Francisco Goya, che scandiscono, nella penna di Mandralisca, la descrizione dello spettacolo orrendo successivo alla rivolta di Alcara Li Fusi, e che contribuiscono anche a plasmare l’immagine di frate Nunzio, nel celebre Morti sacrata.

Galvagno evidenzia come corrispondenze e rimandi non siano fini a sé stessi ma funzionali alla «ricostruzione poetica di una verità più profonda e oscura che difficilmente si presenta allo sguardo del cronista o anche dello storico di professione» (p. 28): i riferimenti a Goya, in particolare le didascalie di chiara derivazione goyesca, permettono di «dare immagine alla spaventosa scena altrimenti non rappresentabile» (p. 22). La pagina palinsestica, insomma, viene giustificata dalla necessità di scrivere l’impossibile (La scrittura dell’impossibile è, opportunamente, il titolo del primo paragrafo del saggio). Dal desiderio della chiave perduta – quella logorata e per sempre persa al centro dell’arco del carcere, ovvero la possibilità della letteratura di dire «l’essere, il sentire e il risentire» (V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano, Mondadori, 1976, p. 216) degli umili – scaturisce allora il messaggio finale del romanzo, nelle scritte del carcere. Nell’interpretarle Galvagno riprende lo studio di Salvatore Trovato sulla presenza del sanfratellano e del Vasi (S. C. Trovato, Valori e funzioni del sanfratellano nel pastiche linguistico consoliano del “Sorriso dell’ignoto marinaio” e di “Lunaria”, in Dialetto e letteratura, a cura di G. Gulino e E. Scuderi, Pachino, Assessorato ai Beni Culturali – Biblioteca Comunale “Dante Alighieri”, 1989, pp. 113-144) per evidenziare che «la voce che emana dall’abisso […] è quella di una fanciulla innamorata e separata dal suo amato» (p. 36). Il desiderio amoroso viene dunque iscritto nell’ultima dichiarazione del carcere per esprimere, però, la distanza da un altro oggetto perduto e tanto desiderato, ovvero la libertà, verso la quale il sanfratellano prigioniero nutre come gli altri una fame senza fine. Come fame senza fine è quella dello scrittore per il senso profondo della realtà, il fondo della spirale.

Al primo saggio il successivo Il linguaggio del potere si collega per l’analisi della scelta consoliana di scavare e trovare la verità, soprattutto verità sul potere: unica possibilità di combattere mali e orrori del tempo presente. Se Consolo sceglie un linguaggio complesso e articolato, lo fa dunque per opporsi al linguaggio con cui si esprime il potere: un potere libidico che, con violenza inaudita, stupra la verità. Da qui il risalto che l’autore sceglie di riservare al goyesco Murió la verdad, dove per l’appunto la giovane donna morta e luminosa è circondata da una folla sconvolta e confusa.

La seconda sezione si concentra, invece, sulla rappresentazione della Sicilia e del Mediterraneo, e ruota dunque attorno al tema geografico. Trovo particolarmente utili, anche per i non esperti di Consolo, Abitare il confine, inedito, che si ricollega a un saggio del 2014, e Il mondo delle meraviglie e del contrasto, intervento al convegno milanese del 2019 (anche in “Questo luogo d’incrocio d’ogni vento e assalto”. Vincenzo Consolo e la cultura del Mediterraneo, fra conflitto e integrazione, a cura di G. Turchetta, Milano-Udine, Mimesis, 2021, pp. 77-98). Il primo insiste sulla radice geografica dell’ispirazione dello scrittore o, meglio, sulla «ricostruzione immaginaria» (p. 66) che egli fa delle sue origini; Galvagno si concentra sulla divisione tra le due Sicilie, sul valore del limes, del confine nella produzione di Consolo, per arrivare a presentare al lettore lo sconfinamento, la mescolanza – crogiolo – di Porta Venezia in cui l’autore ama stare con «lo sguardo solidale e compassionevole» (p. 73) di chi nell’altro, nello straniero, vede sé stesso.

Nel Mondo delle meraviglie e del contrasto, che si apre con una citazione da Di qua dal faro a proposito del viaggio di Ibn Giubayr, citazione da cui il saggio prende il titolo, l’attenzione si concentra sul ruolo centrale del Mediterraneo nella riflessione dello scrittore. L’opera di Consolo, infatti, pur trovando la propria radice nella Sicilia, comunica anche la necessità di un’apertura al di qua del faro, al mare, come ha già evidenziato Gianni Turchetta (in particolare nell’introduzione al volume Questo luogo d’incrocio d’ogni vento e assalto. Vincenzo Consolo e la cultura del Mediterraneo, fra conflitto e integrazione, cit., pp. 7-24). In questo, sostiene Galvagno, l’autore modifica il tradizionale ordine dello sguardo del lettore, invitandolo a riscoprire il Sud, quindi «la Sicilia nel e del Mediterraneo» (p. 88). Nel suo essere mare degli incanti e dei disastri, il Mediterraneo è espresso nelle pagine consoliane attraverso la figura dell’antitesi: attraverso l’analisi di alcuni testi paradigmatici – estremamente puntuale l’esegesi della descrizione della città di Milazzo –, la studiosa mette in evidenza la visione doppia antitetica, di bellezza e insieme di orrore, di alcuni spazi consoliani.

La terza parte riguarda la passione archeologica, ovvero l’attenzione per i reperti, i siti antichi. L’oggetto perduto del desiderio si identifica con le pietre, che recano in sé la memoria del passato. Interessante è il primo saggio che riguarda il “romanzo di Selinunte” nella vita e nella trasposizione letteraria di Consolo. Molte sono le occasioni in cui l’autore non fa solo riferimento al sito archeologico, ma lo mette al centro della propria riflessione letteraria. Alla ricostruzione attenta della biografia e delle fonti non sfugge l’errore di memoria di Consolo, che non ha scoperto Selinunte a 15 anni, come dichiara in La grande vacanza orientale-occidentale, bensì a 34. Prova ne è il testo poetico che l’autore compone per Sergio Spadaro che l’accompagnava in quell’occasione, testo che è proposto al lettore nel saggio. La ricollocazione nel tempo – consapevole o no, forse risultato della sovrapposizione con la visita a Siracusa effettivamente svoltasi nella prima adolescenza dell’autore – fa in ogni caso parte della mitopoiesi consoliana a proposito di Selinunte. D’altronde, Consolo in un articolo (In lettere d’oro il romanzo di Selinunte, in «L’Ora», 13 marzo 1984) scrive: «Ciascuno di noi forse non ricorda più il momento in cui ha visto per la prima volta le metope di Selinunte».

Della sezione intitolata Metamorfosi dell’oggetto del desiderio mi preme segnalare le pagine dedicate a Retablo. L’intero romanzo è letto come una preghiera, una supplica all’Altro: divinità (Asclepio, Demetra), ma soprattutto creatura femminile, nelle varie forme di donna, santa, antica divinità greca, ninfa. Questo giustifica la definizione di inno per il prologo, mentre Rosalia è riconosciuta come la vera protagonista del romanzo. Nel saggio compare un’attenta esegesi del passo da cui consegue la considerazione a proposito della natura assolutamente inedita di Rosalia, donna oggetto dello slancio d’amore: «Alle due donne – Venere celeste e Venere terrestre – celebrate da questa tradizione letteraria [italiana e europea] si sostituisce in Retablo una sola donna dalle molte sfaccettature, che è al contempo idealizzata e concupita (sogno o incubo di ciascun uomo forse)» (p. 154). Ma non basta: Galvagno evidenzia come si assista nel testo consoliano a un’ibridazione «attraverso la coalescenza della corrente tenera e della corrente sensuale dell’amore, che fa sì che i tratti ideali e i tratti erotici di questo oggetto femminile divengano interscambiabili» (p. 154).

Sull’antitesi ritorna anche l’ultima sezione. L’analisi puntuale della presenza della poesia bucolica del Meli in Retablo per esempio si chiude con alcune considerazioni interessanti a proposito della presenza nel romanzo sia della poesia bucolica, che «incarna un’etica pastorale basata innanzitutto sul canto amoroso e armonico, quindi sull’ospitalità, sull’arte medica coniugata con la poesia, sull’umiltà, sul lavoro ecc.» (p. 228), sia della figura del poeta libertino e lascivo sedotto dalla bellezza del corpo femminile. Il termine “chiarìa” invece, parola poetica ripresa proprio dal Meli, già in bocca al pastore Nino Alaimo in Retablo, divenuto parte dell’incipit di Nottetempo, casa per casa e in forza della memoria letteraria veicolata, esprime l’insanabile contrasto tra l’Arcadia utopica e armoniosa e il disforico paesaggio notturno e, proprio in questa contrapposizione, dice l’angoscia indicibile del personaggio.

Significativa è la scelta di porre in appendice il testo della Conferenza di Consolo, tenuta all’Accademia di Belle Arti di Perugia il 23 maggio 2003 (alle pp. 251-65), prezioso inedito dono di Caterina Pilenga a Rosalba Galvagno, in cui l’autore definisce il proprio lavoro di archeologo, che cerca di disseppellire parole da lingue dimenticate, in difesa della memoria, e parla di una «poesia delle rovine, delle vestigia del nostro passato che ci commuovono ogni volta che le vediamo» (p. 263).

Riposto il libro, dopo la bella postfazione di Sebastiano Burgaretta (Con Consolo per antiche pietre, pp. 269-79), in cui il racconto di alcuni episodi autobiografici di esperienze vissute con Consolo conferma la passione archeologica dell’autore – «sembra retorico, ma non lo è: sono emozionato a vedere tutto questo» (pp. 272-73), le sue parole davanti alle rovine di Eloro –, più forte mi sembra la traccia offerta dal titolo della raccolta: ciascuno di questi saggi, infatti, indaga l’oggetto perduto del desiderio consoliano. Ma ancora più significativa mi sembra l’espressione Archeologie di Vincenzo Consolo, accostata a L’oggetto perduto del desiderio. Essa infatti finisce con l’inquadrare, sì, la passione dello scrittore per le rovine e il suo scavo nelle pietre e nella lingua, ma anche la direzione e le modalità dello studio di Galvagno. Anche la studiosa, insomma, è impegnata in un lavoro “archeologico”, in uno scavo al quadrato, nelle pagine dense di strati – e di reperti non sempre facilmente identificabili – dell’opera di Consolo. L’esito è la testimonianza felice dei ritrovamenti. Vi persistono il profumo e la musica di quella prima lettura incantatrice.

(fasc. 47, 25 febbraio 2023)

Vincenzo Consolo e la metrica della memoria

Sara de Franchis

  1. La funzione testimoniale del linguaggio

    Da due grandi autori, Lucio Piccolo e Leonardo Sciascia, Vincenzo Consolo trae rispettivamente l’interesse per la poesia europea, a lungo studiata e consultata dall’uomo rinchiuso nella sua villa a Capo d’Orlando, e la volontà di una scrittura impegnata. Egli ricerca una svolta stilistica e contenutistica, d’impegno sociale e storico ma che abbia una forma poetica, ed è questa apparente contraddizione a
    rendere i suoi testi estremamente affascinanti, nonché unici e senza precedenti.
    Cesare Segre lo accosta anche a Giuseppe Tomasi di Lampedusa, indicandolo come la sua antitesi: «plurilingue Consolo quanto è monolingue Tomasi, espressionista l’uno quanto è elegantemente classico l’altro».1 Egli fa notare come l’autore abbia assimilato dalla cultura milanese l’ammirazione per Gadda, in cui vedeva un’esplosione polifonica del barocco e con cui ha in comune la tecnica del pastiche.2 Consolo stesso definisce la sua una «scrittura di tipo progressivo, nel senso che partivo da quelli che erano i giacimenti linguistici nel dialetto siciliano, di tutti i retaggi sepolti, mentre cercavo d’immetterli nella lingua centrale ma con un’organizzazione della frase in senso ritmico, poetico»3 e ne spiega anche il motivo: «in questo nostro tempo di cancellazione della memoria, in questo nostro contesto mi sembrava che la letteratura, che è memoria, doveva recuperare anche la memoria linguistica oltre che la memoria storica».4 Cesare Segre indica proprio questo come punto di forza della sua scrittura: L’espressionismo di Consolo si fonda sull’interferenza di registri e di strati idiomatici: e se l’apparenza è quella di un fulgore, di uno splendore barocco, è proprio sul piano, più profondo, della costruzione che si rifugia la «vera» storia, una volta sconfessata la storia degli storiografi. Consolo mostra infatti che tutta la vicenda della Sicilia può essere riportata alla luce tramite la lingua che i siciliani, secondo i momenti, hanno usato.5 Si è espresso a proposito anche Gianni Turchetta nell’introduzione a Le pietre di Pantalica, esplicitando un paio di interessanti passaggi interni alla poetica e più in generale alla scrittura dell’autore: La legge fondamentale della lingua consoliana sembra essere la tensione verso la differenziazione [una tensione che dipende anche da quanto Harold Bloom ha definito “l’angoscia dell’influenza” […] La pluralità di lingue e di toni implica poi, altra caratteristica fondamentale, pluralità di prospettive. […] Lo stesso tessuto verbale fatto di molte lingue sta proprio a significare il tentativo di dar voce a molte prospettive diverse, alla visione del mondo di chi parla o parlava in quel determinato linguaggio […] Consolo cerca di far sopravvivere le parole morte o morenti o marginalizzate, e con esse le visioni del mondo di uomini e culture altrimenti condannati al silenzio. Come egli stesso ha dichiarato in una bella intervista curata da Marino Sinibaldi: “Fin dal mio primo libro ho cominciato a non scrivere in italiano. (…) Ho voluto creare una lingua che esprimesse una ribellione totale alla storia e ai suoi esiti. Ma non è dialetto. È l’immissione nel codice linguistico nazionale di un materiale che non era registrato, è l’innesto di vocaboli che sono stati espulsi e dimenticati (…). Io cerco di salvare le parole per salvare i sentimenti che le parole esprimono, per salvare una certa storia.6 Vale la pena citare a riguardo anche Margherita Ganeri, che ha sintetizzato
    l’opera di Consolo in tal modo: «affronta la rievocazione del passato alla luce di una notevole tensione attualizzante che investe il rapporto tra la memoria e il linguaggio, con la sua sedimentazione e stratificazione altamente connotata»,7 e che ha mostrato in che modo egli sia riuscito nella ricerca di una forma poetica: «attraverso la mescolanza della più aulica ed erudita tradizione letteraria con il dialetto siciliano, la lingua di Consolo acquisisce una patina di barocca arcaicità straniata improntata alla ricerca di effetti lirici».8 Riporto infine un passo tratto da un articolo di Giulio Ferroni, intitolato Vincenzo Consolo, lo scrittore che ha saputo raccontare il respiro della Sicilia: Scrittore che è sceso fino in fondo nel cuore del presente, nei molteplici volti della realtà, nella loro densità sociale e antropologica; scrittore che ha insistentemente interrogato gli sforzi della vita nello spazio nel tempo, tutto ciò che la storia addensato e che, trasformato, continua a scorrerci davanti, si muove e vibra mentre lo consideriamo e lo tocchiamo. […] E naturalmente come scrittore non ha mai cessato di dialogare con tutti i grandi scrittori siciliani, con le forme diverse con cui essi hanno dato voce al carattere, al mistero, all’essere dell’isola. […] La sua è una sfida continuamente ai limiti del linguaggio, strenua ricerca della fisicità della parola, ostinata cura per un lessico legato all’evidenza delle cose, alla loro traccia concreta, alla loro consistenza biologica e materica. La sua prosa si avvolge sugli oggetti, sui nomi, sul muoversi stesso della realtà, sul ritmo e il respiro del tempo, come ad estrarne l’anima, la vibrazione, la traccia dello sforzo, del movimento umano, della passione e del dolore, del voler essere e di ciò che lo ostacola. La speranza e il desiderio, la resistenza e l’oppressione, l’aggressione e la difesa, tutto viene espresso attraverso la sofferta densità della parola, con un lessico tocca i livelli più diversi: forme dialettali più vicine all’espressione della vita materiale, alla realtà contadina o al lavoro artigianale, forme arcaiche o preziose, che fanno balenare echi di tempi lontani, di remota storicità, lingue straniere che rivelano strati nascosti dell’esperienza, rapporti, interferenze, intrecci e conflitti tra mondi. Nomi comuni e nomi propri si susseguono ritmicamente in questa prosa, che costeggia la poesia, come a catturare e a apprendere in sé lo spazio e il tempo, lo scorrere della vita, l’aspetto degli oggetti, i gesti degli esseri umani e di tutto ciò che è animato, l’immagine dell’arte […] L’originalità di consolo sta nel suo mirare, grazie al suo espressionismo, il cuore profondo della Sicilia, grande corpo brulicante di vita, esuberante, malsano, appassionato, lacerato. cerca di comprenderne il senso afferrandole ogni squarcio che ne riveli la densità, la fascinazione e la tremenda rovinosa disgregazione del tutto, di un insieme di corpi che vi annaspano, vi soffrono, vi si espandono, vi si mostrano. Di contro alle rovine cerca ritrova tante presenze vitali, appartata e figure umane che ostinatamente resisto, che continuano, nonostante tutto, a cercare una luce.9 Riflessioni metalinguistiche sono presenti anche all’interno dei testi stessi di Consolo, ne è un esempio il racconto Il linguaggio del bosco tratto da Le pietre 9 di Pantalica: «mi rivelava il nome di ogni cosa […] e appena li nominava, sembrava che da quel momento esistessero. Nominava una lingua di sua invenzione, una lingua unica e personale […] e salire con lei su una quercia, un faggio o un acero, restare a cavalcioni su un ramo e sentire immobile e muto il linguaggio del bosco».10 Nelle opere degli altri autori trattati, il nome ha una potente funzione evocatrice e, nel caso di Bufalino, addirittura esistenziale. Nel passo citato queste funzioni vengono confessate, rivelate attraverso la voce sincera e immediata – intesa nel senso di priva di mediazione – di un giovane ragazzino, conquistato dal semplice e naturale linguaggio inventato da Amalia. Si vedrà inoltre più avanti, in particolare durante la trattazione de Il sorriso dell’ignoto marinaio, come la natura stessa possieda un suo linguaggio. L’approccio filologico della letteratura nei confronti della storia Della filologia è detto che sia la scienza delle minuzie, poiché prende programmaticamente in considerazione ogni particolare; il suo studio concerne il confronto di numerosi testimoni, che si tratti di manoscritti o di descritti, ovvero di trascrizioni di testi perduti. È una disciplina che, attraverso la consultazione d’ogni traccia e verifica della sua attendibilità – dunque della sua verità – tenta di risalire all’origine, alla prima volontà. Un procedimento simile è quello attuato da Consolo, che ha portato alla titolazione di questo paragrafo e che può essere riassunto nella sua ricerca della memoria storica. Anche in quest’ambito sono importanti le parole di Ganeri: «la ricostruzione memoriale è vissuta come un’alternativa intellettuale alla violenta e sistematica uccisione del passato operata dal potere, un’alternativa che si compie perlustrando le crepe, gli interstizi della storia, alla ricerca di ciò che è stato nascosto o perduto».11 Nella prima opera di Consolo, La ferita dell’aprile, pubblicata nel 1963, si ritrovano già i motivi e gli elementi stilistici ricorrenti della produzione successiva: il citazionismo, la connotazione siciliana tramite non soltanto la descrizione estremamente caratteristica – «è tempo di scirocco e, s’egli attacca brucia gemme 54 di fiori di mandorlo e limone»12 – ma anche attraverso la sua iconologia,13 infine la coscienza della scrittura già come inscindibile dalla memoria – «e questa storia che m’intestardo a scrivere, questo fermarmi a pensare, a ricordare»14 e il tema della caduta della luna, trapassata dal faro di Cefalù e raccolta dal mare.15 Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio la memoria pervade l’opera, essa è ovunque ed espressa con ogni mezzo: è nella vicenda aspra e appassionata del Risorgimento siciliano vissuto nei piccoli paesi, nel riecheggio della tradizione letteraria antecedente16 e nei documenti citati che lo rendono a tutti gli effetti un metaromanzo e denunciano la storia richiamando le sue stesse parole dall’Archivio di Stato di Palermo del 1857.17 Sono significativi la messa in evidenza delle condizioni dei cavatori di pomice e l’incontro con un giovane prigioniero, passi che hanno la funzione di mettere in discussione il carattere della società. Nessun’opera presenta un tale studio e una così devota ricerca all’insegna della verità e della testimonianza. L’autore opera un salvataggio nei confronti delle piccole storie che hanno composto la storia di un dato tempo e di un dato luogo. Innumerevoli sono gli aspetti che tessono il romanzo, ruotando intorno alla figura del protagonista: l’arte richiamata dal celebre dipinto di Antonello da Messina come l’amore nei confronti delle Madonie dove «le facoltà dell’anima si rendono sommamente estese, vivaci, acute, e sublimi»18 e che possiedono un proprio linguaggio: E questo linguaggio, che pur è quello eloquente dello amore, ripercosso dalle cave rocce nelle buie foreste, riempiendo lo spirito di una dolce malinconia lo riconcentra e invitandolo a deporre ogni frivolezza dell’umana società, lo eleva all’idea di sublime.19
    16 Ne è un esempio l’espressione «Eccellenza sì» tre volte ripetuta all’inizio del romanzo, p. 11, e che ricorda la medesima ripetizione presente in Federico De Roberto, I Vicerè, Garzanti, Milano, 1976, p. 5. Riecheggiano inoltre versi petrarcheschi («all’aria sparsa», 55 Questo passaggio, che ricorda quello de Il Gattopardo durante l’allontanamento di Don Fabrizio dal palazzo, prova che ogni cosa che venga anche soltanto nominata all’interno del romanzo sia degna di parole che possano ricordarla, perché forse nemmeno la natura è eterna. Andrea Camilleri lamenta ne Il Gattopardo la rappresentazione della nobiltà come la forza frenante di un qualsiasi sviluppo, dovuta al fatto che l’autore fosse bloccato in una concezione astorica.20 In questo senso l’opera di Consolo sembra quasi un riscatto, grazie alla diversa caratterizzazione della figura del barone Enrico Pirajno di Mandralisca, veicolo delle più importanti riflessioni scaturite nell’opera: Nelle more del giudizio che dovrà emettere codesta Corte nei riguardi degli imputati, villani e pastori d’Alcàra […] quali in catene e quali latitanti, hanno la disgrazia di non possedere (oltre a tutto il resto) il mezzo del narrare, a voce o con la penna, com’io che scrivo, o Voi, Interdonato, o gli accusatori, o contro parte o giudici d’essi imputati abbiamo il privilegio. E cos’è stata la Storia sin qui, egregio amico? Una scrittura continua di privilegiati. A codesta riflessione sono giunto dopo d’aver assistito a’noti fatti. Or io invoco l’Essere Supremo, l’Intelletto o la Ragione o Chiunque Altro ci sovrasti, a che la mente non vacilli o s’offuschi e mi regga la memoria nel rasare que’fatti per come sono andati. E narrar li vorrei siccome narrati li averìa uno di quei rivoltosi protagonisti moschettati in Patti, non dico don Ignazio Cozzo, che già apparteneva alla classe dei civili e quindi sapientemente nel dire e nel vergare, ma d’uno zappatore analfabeta come Peppe Siena inteso Papa, come il più giovine e meno malizioso, ché troppe sono, e saranno, le arringhe e le memorie, le scritte su gazzette e libelli che pendono dalla parte contraria degli imputati: sarà possibile questo scarto di voce o persona? No, no! Che per quanto l’intenzione e il cuore sian disposti, troppi vizî ci nutriamo dentro, storture, magagne, per nascita, cultura e per il censo. Ed è impostura ma è sempre la scrittura di noi cosiddetti illuminati, maggiore forse di quella degli ottusi e oscurati da’ privilegi loro e passion di casta. Osserverete: ci sono le istruzioni, le dichiarazioni agli atti, le testimonianze… E bene: chi verga quelle scritte, chi piega quelle voci e le raggela dentro i codici, le leggi della lingua? Uno scriba, un trascrittore, un cancelliere. Quando un immaginario meccanico e strumento tornerebbe al caso, che fermasse que’ discorsi al naturale, siccome il dagherrotipo fissa di noi le sembianze. Se pure, siffatta operazione sarebbe ancora ingiusta. Poi che noi non possediam la chiave, il cifrario atto a interpretare quei discorsi. E cade acconcio in questo luogo riferire com’ io ebbi la ventura di sentire un carcerato, al castello dei Granza Maniforti, nel paese di Sant’Agata, dire le ragioni della parlata sua sanfratellana, lingua bellissima, romanza o mediolatina, rimasta intatta per un millennio sano, incomprensibile a me, a tutti, comecché dotati di un moderno codice volgare. S’ aggiunga ch’ oltre la lingua, teniamo noi la chiave, il cifrario dell’essere, del sentire e risentire di tutta questa gente? Teniamo per sicuro il nostro codice, del nostro modo d’ essere e parlare ch’abbiamo eletto a imperio a tutti quanti: il codice del diritto di proprietà e di possesso, il codice politico dell’acclamata libertà e unità d’Italia, il codice dell’eroismo come quello del condottiero Garibaldi e di tutti i suoi seguaci, il codice della poesia e della scienza, il codice della giustizia o quello d’un’utopia sublime e lontanissima… E dunque noi diciamo Rivoluzione, diciamo Libertà, Egualità, Democrazia, riempiamo d’esse parole fogli, gazzette, libri, lapidi, pandette, costituzioni, noi, che que’ valori abbiamo già conquisi e posseduti, se pure li abbiam veduti anche distrutti o minacciati dal Tiranno o dall’Imperatore, dall’Austria o dal Borbone. E gli altri, che mai hanno raggiunto i diritti più sacri elementari, la terra e il pane, la salute e l’amore, la pace, la gioia e l’istruzione, questi dico, e sono la più parte, perché devono intender quelle parole a modo nostro? Ah, tempo verrà in cui da soli conquisteranno que’ valori, ed essi allora li chiameranno con parole nuove, vere per loro, e giocoforza anche per noi e, vere perché i nomi saranno intieramente riempiti dalle cose. Che vale, allora, amico, lo scrivere e il parlare? La cosa più sensata che si possa fare è quella di gettare via le chine, i calamari, le penne d’oca, sotterrarle, smetter le chiacchiere, finirla d’ingannarci e d’ingannare.21 Questo passo, che sembra quasi essere il calco della conversazione tra il Principe di Salina e Chevalley, 22 non riflette soltanto la tensione civile del contenuto dell’opera ma si sofferma anche sulla lingua come strumento indispensabile all’uomo, materia d’ogni concetto. Anche Tano Grasso confronta le due opere, ricordando subito che i due protagonisti sono entrambi due studiosi, ma il primo osserva il cielo, il secondo conosce la terra.23 La lettera prosegue con 21 un’apparente rinuncia a tutto e il racconto – la cui drammaticità è incrementata dalla veste lirica – degli eventi cui ha assistito e in particolare della loro conclusione: Ho visto imprigionar costoro, le signorine Botta in uno con la madre veneranda, le cui gentili mani aveano intessuto i fili d’oro della speranza sopra quel drappo insegna della fede… Ho visto le palle soldatesche rompere il petto del povero Spinuzza, impassibile e fiero, biondo come un Manfredi di sveva discendenza… “Offri a Dio la tua vita” così il carnefice non potrà gloriarsi di avertela tolta”, gli suggeriva il prete corvo, restivo, dandogli da baciare il crocifisso. Respinse, il valoroso, il consiglio e il segno di Passione, “Offro all’Italia” dice “la mia vita”. E al silenzio che seguì alla sparatoria, lancinante, disumano echeggiò nell’aria, proveniente da un balcone sulla piazza, Giovanna Oddo, l’innamorata dell’uomo appena morto.24 Sono le sorti delle singole vite che muovono i pensieri del romanzo, poiché la storia è stata fatta per mano degli uomini, ma anche semplicemente attraverso di loro, e osservarli è il modo migliore per comprenderla e dunque per poterla raccontare. La fine della missiva non termina con una vile rassegnazione, «non è una dichiarazione di resa, ma una sfida inedita, un rilancio»:25 la donazione dei libri e delle opere d’arte al museo e alla scuola di Cefalù è una promessa per il futuro, poiché scrittura è memoria, ma spesso memoria falsificata, e questo è l’unico modo di cambiare davvero le cose: «si che, com’io spero, la storia loro, la storia, la scriveran da sé, non io, o voi».26 La differenza principale fra Il Gattopardo e quest’opera, da molti definita un’anti-Gattopardo, è che al finale del racconto è stata donata una speranza nata dalla compresenza di voci diverse, che si oppongono all’isolamento sentenzioso e altero del principe di Salina. La storia ricordata da Consolo riesce infatti a contenere ogni esistenza la cui umile origine ha condannato all’oblio, a spiegare come conoscenza sia comprensione e infine a superare moralmente e intellettualmente Il Gattopardo sovrapponendo ai monologhi moraleggianti le dubbiose tensioni: «la contraddizione infine nel ritrovarmi a dire, com’io dissi, dell’impossibilità di scrivere se non si vuol tradire, creare l’impostura, e la necessità insieme e l’impellenza a farlo».27 A concludere l’opera non sono le parole del barone ma quelle trascritte da un muro dove erano state tracciate con del carbone le «testimonianze personali de’ protagonisti, d’alcuni d’essi poscia moschettati».28 Vent’anni dopo l’uscita del libro, Vincenzo Consolo si esprime in uno scritto che confessa e spiega le ragioni dell’opera, parla a riguardo del confronto con Il Gattopardo e con la rilettura del Risorgimento da parte della letteratura siciliana, rivela le influenze e le ispirazioni ricevute: E passarono anni per definire il progetto, convincermi della sua consonanza con il tempo, con la realtà, con le nuove etiche e nuove estetiche che essa imponeva, assicurarmi della sua plausibilità. Assicurarmi anzitutto che il romanzo storico, in specie in tema risorgimentale, passo obbligato di tutti gli scrittori siciliani, era per me l’unica forma narrativa possibile per rappresentare metaforicamente il presente, le sue istanze e le sue problematiche culturali (l’intellettuale di fronte alla storia, il valore della scrittura storiografica e letteraria, la “voce” di chi non ha il potere della scrittura, per accennarne solo alcune) e insieme utilizzare la mia memoria, consolidare e sviluppare la mia scelta stilistica, linguisticamente originaria, che m’aveva posto e mi poneva, sotto la lunga ombra verghiana, nel filone dei più recenti sperimentatori, fra cui spiccavano Gadda e Pasolini. La struttura poi del romanzo, la cui organicità è spezzata, intervallata da inserti documentari o da allusive, ironiche citazioni, lo connotava come un metaromanzo o antiromanzo storico. “Antigattopardo” fu detto Il Sorriso con riferimento alla più vicina e ingombrante cifra, ma per me il suo linguaggio e la sua struttura volevano indicare il superamento, in senso etico, estetico, attraverso mimesi, parodia, fratture, sprezzature, oltranze immaginative, dei romanzi di intreccio dispiegati e dominati dall’autore, di tutti i linguaggi logici, illuministici, che, nella loro limpida, serena geometrizzazione, escludevano le “voci” dei margini […] E la risposta che posso ora darmi è che un senso il romanzo può ancora trovarlo nella sua metafora. Metafora che sempre, quando s’irradia da un libro di verità ideativa ed emozionale, allarga il suo spettro con l’allargarsi del tempo.29
  2. L’intuizione dell’antico Un’opera in cui si erge con maggior individualismo il protagonista, omonimo di quello de Il Gattopardo, è Retablo. Tatiana Bisanti ha fatto notare, facendo riferimento a quest’opera in particolare, il legame fra esperienza estetica ed estasi amorosa: È attraverso il procedimento dell’ekphrasis, familiare alla tradizione letteraria medievale, che si realizza nella scrittura di Consolo quel legame fra seduzione amorosa e seduzione artistica. Come hanno rilevato molti critici, in Consolo scrittura e arti figurative sono strettamente collegate fra loro.30 Sembra in effetti che Consolo perpetui una sfida nei confronti dell’arte e della sua capacità di rappresentazione e, aggiungerei, di fissazione nel tempo. Con ekphrasis s’intende infatti una descrizione in grado di rendere visivamente l’oggetto trattato. Il titolo stesso dell’opera rimanda ad una particolare forma d’arte spagnola, una pala d’altare spesso costituita da degli scompartimenti. I retablos raggiungono il periodo di maggior splendore durante il barocco, corrente con la quale la scrittura di Consolo è stata spesso comparata. L’obiettivo di Retablo è manifesto all’inizio del testo: Nel modo più piacevole e acconcio, giusto gli consente l’ingegno suo modesto, sì che spera voi possiate leggendolo vivere secolui il breve tempo del viaggio in quest’isola lontana, in questa terra antica degli dèi, delle arti, delle conquiste e disastrosi avanzi.31 Poco più avanti prosegue con la presentazione del reale contenuto del romanzo, reso attraverso una lunga e sentita lettera, e risponde alla principale domanda che sorge nell’accostarsi al libro: 30 Perché viaggiamo, perché veniamo fino in quest’isola remota, marginale? Diciamo per vedere le vestigia, i resti del passato, della cultura nostra e civiltate, ma la causa vera è lo scontento del tempo che viviamo, della nostra vita, di noi, e il bisogno di taccarsene, morirne, e vivere nel sogno d’ère trapassate, antiche, che nella lontananza ci figuriamo d’oro, poetiche, come sempre è nell’irrealtà dei sogni, sogni intendo come sostanza de’nostri desideri. Mai sempre tuttavia il viaggio, come distacco, come lontananza dalla realtà che ci appartiene, è un sognare. E sognare è vieppiù lo scrivere, lo scriver memorando del passato come sospensione del presente, del viver quotidiano. E un sognare infine, in suprema forma, è lo scriver d’un viaggio, e d’un viaggio nella terra del passato.32 In questo importante passo, in questa quasi dichiarazione poetica, Vincenzo Consolo concede una risposta diversa sulla ragione che lo spinge a scrivere del passato, rispetto a quella comunemente fornita, secondo cui l’approccio alla storia avviene sempre in modo metaforico. 33 Il viaggio è trasposizione, un distacco concreto che rispecchia quello interiore del protagonista. È un ambiente aperto dal quale non può difendersi o sottrarsi, che lo colpisce nei sensi e nell’intelletto. La memoria è «volontate»34 e «ragione»,35 la sua assenza comporta «l’abbandono completo del mio essere a ogni più varia istanza, dura inesistenza».36 Fra le righe di Retablo domina il sentimento acuto e prorompente attraverso cui l’attenta descrizione della vicenda, dalla parvenza di sogno, prosegue. Le parole s’inseguono freneticamente, come se l’autore non volesse trascurare nulla, come se si fermasse ad osservare per poter concedere alla memoria qualcosa in più. Il protagonista si reca in Sicilia per rinvenire la nobiltà dell’oggetto del suo amore, e vi trova l’arte e la storia, poiché questo luogo è «riflesso degli astri in cielo nella notte e nel contempo immagine di vita e di poesia»37 che sembra svelarsi a egli soltanto. Nelle tracce dei secoli passati ritrova la bellezza e in essa il profilo della sua donna, tratteggiato dai ricordi. Le percezioni intime e universali s’intrecciano, concedendogli d’innalzarsi dalla sua condizione umana, di liberarsene seguendo frammenti d’esistenza tangibili a lui che è «come richiamato da voci che solamente a me si rivelavano, voci antiche e sepolte». 38 È la memoria che giunge al protagonista, all’artista «sempre lontano dalla vita, dalla gente»,39 che grazie alla sua essenza, rinunciando a quanto altri anelano, raggiunge qualcosa di remoto, infinitamente distante ma presente «che ritornò d’allora, per la parola sua, al celeste raggio e alla memoria».40Allora perde se stesso «rapito e dimentico di tutto»41 e ritrova un sentimento antico ed eterno: O mia Medusa, mia Sfinge, mia Europa, mia Persefone, mio sogno e mio pensiero, cos’è mai questa terribile, maravigliosa e oscura vita, questo duro enigma che l’uomo sempre ha declinato in mito, in racconto favoloso, leggendario, per cercar di rispecchiarla, di decifrarla per allusione, per metafora? E qui tremo, pavento, perché mi pare di toccare il cuor della metafora, e qui come mai mi pare di veder la vita, di capirla e amarla, d’amare questa terra come fosse mia, la terra mia, la terra d’ogni uomo, d’amare voi, e disperatamente…Voi o la vita? O me medesimo che vivo? Com’è ambiguo, com’è incomprensivo questo molesto impulso, questo sentire intenso che chiamiamo amore!42
    Le parole si vestono d’arcaicità, la poesia diviene lo strumento del pensiero e il suo concretizzarsi: la metafora che cela la vita. In questo attimo di moment of being alla Woolf, di sublime leopardiano, dopo aver rinnegato il «secol nostro superbo di conquiste e di scienza, secolo illuso, sciocco e involuto»,43 giunge alla comprensione che si può ricevere soltanto se lungi da sé stessi. Il tempo dei morti e dei vivi, il loro ricordo che sopravvive quasi senza memoria, e l’arte e la poesia in cui s’abbandona e cerca ascolto, tutto riconduce all’amore. Alla fine l’esistenza si mostra nel suo significato più profondo ed egli pare vedere ogni cosa nella sua verità universale, così una fanciulla appena tolta alla vita diviene «il pudore, la trepidazione, il sentimento, la verità del mondo». 44 Don Fabrizio è quindi l’incarnazione della figura, cara alla tradizione, che riceve qualcosa del passato, che «voci udiva vagando di qua, di là, e grida, risa, urla di òmini di donne di vecchi di fanciulli, preghiere, canti, lamenti, frasi m’avvolgevano la testa in lingue sconosciute, parole greche, puniche, sicane o elìme, o ancora più antiche».45 Si fa egli stesso poesia, mediatore, ponendosi fra la coscienza degli uomini e ciò che essa ha obliato. Ogni sua percezione o sentimento appare distante, e il suo ritorno, il suo richiamo, giunge ineffabile, carico di una profonda nostalgia. Tutto contiene qualcos’altro, «viaggio si fa dentro il viaggio, ignoto nell’ignoto»46 ed è la fecondità della mente, l’eterno processo di significazione, che non concede uno sviluppo sistematico della trama o una divisione in capitoli, soltanto i luoghi emergono dal flusso prevalentemente descrittivo. La fuga dall’amore conduce ad un viaggio che porta all’esperienza di numerosi livelli d’esistenza, gravidi dell’unione inestricabile di pensiero e sensazione. In questo senso di perdizione e turbamento, di caos, vi è un punto fermo, il destinatario di tutto ciò che è contenuto nell’opera, e la fedeltà a questo è riassunta in queste umili parole: «e mi sembrano nella memoria un unico giardino, unico e sognato, tutti i giardini che ho conosciuto».47 Soltanto verso la fine dell’opera, il protagonista conferisce una definizione di sé stesso e del suo ruolo: Ma antichi e ricorrenti sono i naufraghi, sono d’ogni epoca, d’ogni avventura, sogno, d’ogni frontiera elusa, noi naufraghi d’ogni storia infranta, simboli d’un epilogo, involontarie comparse attoniti spettatori di questa metafisica. Di cui non conosciamo i confini, dimenticammo l’inizio, ignoriamo la fine, ma riferiamo incauti il vario apparire nelle luci e nei tempi irriferibili.48 La memoria è l’unica salvezza al silenzio e al vuoto e, in queste pagine del romanzo ambientate nella palude, essa si trascina a stento, priva di una connessione con il passato o con il futuro. Soltanto di fronte ai resti concreti di una civiltà perduta, impone una sofferta riflessione storica e antropologica. Qui s’intravede la differenza fra la memoria percepita dai sensi e quella cui le tracce dell’epoche passate concedono una base concreta. Il puro sentire della memoria porta amarezza e abbattimento, la consapevolezza di essa causa rabbia e lucida critica. Verso la fine dell’opera viene svelato il suo nesso, nel momento in cui la vita dell’uomo più miserevole supera d’importanza l’arte, «il fiore d’estrema civiltà»,49 otteniamo la prova di ciò che lentamente il testo ha cercato di farci comprendere: la poesia e la memoria sono gli strumenti per il rinvenimento della vita stessa, nella sua forma più sincera. Simile a Il sorriso e Retablo è la successiva Le pietre di Pantalica, una raccolta di racconti, di ritratti di personaggi ed epoche. Con quest’opera e con Lo spasimo di Palermo, Consolo ritorna alla complessa narrazione del ’900. Il fotografo tratta della permanenza in Sicilia di Robert Capa ed eleva il suo pensiero contro gli eventi della Guerra civile spagnola e della Seconda Guerra mondiale: «la guerra era quel ragazzo morto contro un muro a secco […] la guerra era la sua Garda, l’intrepida compagna, morta schiacciata sotto un carrarmato sul fronte di Brunete».50 Attraverso l’espediente di queste due guerre, Consolo si sofferma su una guerra eterna e universalmente sentita: Fotografava pastori e contadini […] indifferenti a questa guerra che si svolgeva accanto a loro. Indifferenti e fermi lì da secoli sembravano, spettatori di tutte le conquiste, riconquiste, invasioni e liberazioni che su quel teatro s’erano giocate. E sembrava che la loro vera guerra fosse un’altra, millenaria e senza fine, contro quella terra d’altri, feudi di baroni e soprastanti, avara ed avversaria, contro quel cielo impassibile e beffardo.51 Il principale motore di questa guerra viene discusso nei capitoli successivi e sintetizzato dalla seguente espressione: «la roba cc’è, ma è mala spartuta».52 Consolo s’insidia all’interno della storia, raccontando ad esempio le circostanze durante le quali fu scattato uno dei capolavori di Capa per poi restituirlo: Ecco, questa figurina densa di significato, figurina che d’ora in poi vedrai riprodotta dappertutto, su riviste e su libri, finanche sui testi di storia dei tuoi figli, io regalo a te, lettore, sperando che il fotografo ungherese, saltato su una mina a Thai Binh, in Indocina, un pomeriggio di maggio del ’54, approvi dal suo cielo, col suo sguardo ironico, il mio gesto. […] incomincia a terminare l’era della parola, a prendere l’avvio quella dell’immagine. Ma saranno poi, a poco a poco, immagini vuote di significato, uguali e impassibili, fissate senza comprensione e senza amore, senza pietà per le creature sofferenti. 53 Il capitolo intitolato Il barone magico racconta Lucio Piccolo, a partire dalla pubblicazione di 9 liriche fino alla morte, così come era stato per Robert Capa, attraverso un’attenta e quanto più possibile ricostruzione storica. Le parole espresse da Piccolo nel racconto sono infatti le stesse che vennero registrate da una videocamera durante una delle poche interviste concesse,54 la stessa Villa Piccolo è descritta nei suoi particolari, i fratelli nei modi e nelle attitudini che tuttora vengono ricordati. Lucio Piccolo viene riconosciuto, fin dal primo incontro, come incarnazione della figura del poeta: «capii che la nobiltà diversa del barone era la poesia, in lui doppiamente magica. E fastosa sognante maliosa, di preziosa favola, di canto mai sentito».55 Il rapporto fra il protagonista del capitolo e l’autore si basa su questa comunanza d’interessi: «ero rimasto lì incantato, quando Lucio Piccolo sorrise ancora, mi tese la mano e: «Ho un’intera biblioteca di questi vecchi libri. Venga, venga a trovarmi a Capo d’Orlando».56 Viene riportato in seguito l’incontro con Sciascia e il monito che gli mosse: «Sciascia, la invito a scrivere di queste nostre terre, di questi paesi medievali»;57 infine la morte dell’autore – «così appresi della morte di Lucio Piccolo, ch’era avvenuta durante la notte. Provai dolore, ma dolore anche per un mondo, un passato, una cultura, una civiltà che con lui se ne andavano»58 – e, quasi come ultimo omaggio al poeta, propone un’incantevole – poiché estremamente realistica – descrizione del paesaggio di Capo d’Orlando, così com’era un tempo. In Malophòros torna il motivo caro delle rovine: Mi chiedo cosa avranno provato questi viaggiatori di un’epoca ormai remota a trovarsi in mezzo a queste rovine, ai templi dell’acropoli, in vista di quel mare. E mi chiedo cosa avrà mai provato l’abate Fazello quando, a dorso del suo mulo o a cavallo, si trovò per primo a scoprire Selinunte, invasa d’erbe e di rovi, di serpi e uccelli, resa deserta dalla malaria, sepolta da secoli nell’oblìo. Quale terribile emozione, quale estraniamento, quale panico di fronte al titanico caos, all’affastellamento delle enormi rovine di quel tempo di Zeus nel cui centro restava diritta una sola colonna, sfida al tempo e alle furie telluriche […] Ci sono ormai posti remoti, intatti, non dissacrati, posti che smemorano del presente, che rapiscono nel passato? Io avevo provato questo rapimento a Tindari […] l’avevo provato a Segesta, seduto sui gradini del tempio […] mi ricordai del tempo – tempo remotissimo, arcaico – in cui per Omero, i tragici, per Erodoto, Diodoro, Tucidide, ero preso dalla passione per l’antico; del tempo dei miei viaggi alla scoperta dell’archeologia, in cui la Sicilia era un’isola surreale o metafisica, con solo città sepolte, necropoli, latomìe, ipogei pieni di sarcofagi di marmo luminoso, di neri lucidi crateri con dèi ed eroi graffiti, con templi teatri agorai di città morte in luoghi remoti, deserti, incontaminati.59 Le righe riportate condensano il fascino subìto dalle tracce dell’antichità, da quelli che potremmo chiamare i correlativi oggettivi, le metonimie delle epoche passate. La caduta nell’antro del tempo viene solitamente percepita in solitudine, come avviene nel capitolo Selinunte greca contenuto in Retablo. In questo caso invece la forza motrice e rammemoratrice è in grado di trascinare a sé ogni cosa: Persone reali, qui con me, su questa collina di Malophòros, in questo radioso mattino del primo giorno dell’anno, che pure a poco a poco svanivano, venivano prese in un vortice, precipitavano con me nel pozzo di Ecate, incontro alle divinità sotterranee, nel mistero e nell’oscurità invita del Tempo.60 Il capitolo più interessante e significativo è La casa di Icaro, il racconto di Uccello che s’impegna a salvare quanti più oggetti possibili e a custodirli nel suo museo etnologico a Palazzolo «che non era il solito museo morto, polveroso […] ο freddamente scientificizzato, sotto vetro, illuminato da faresti, didascalizzato […] ma una casa viva»:61 E non raccoglie solo cose, oggetti, ma canti, racconti, leggende, tradizioni popolari. Con frenesia, con forza, con accanimento, in lotta con gli speculatori, con i nuovi piccoloborghesi che, nelle case fresche di cemento […] volevano anche il pezzo di carretto, il pupo paladino, il vaso di terracotta, il dipinto su vetro, cose che il giorno prima avevano distrutto o dato al rigattiere. In lotta con il seppellimento e con l’oblio.62 La riflessione che attraversa il capitolo s’intreccia con la letteratura, quasi essa potesse rappresentare un mondo a parte, esistito in qualche tempo: Cominciano a spuntare le ciminiere col pennacchio di fuoco delle raffinerie lungo quel litorale di miti, quella costa tra Augusta e Siracusa, a ridosso di quel mare in cui il professor La Ciura incontra la sirena Lighea del Lampedusa. E Vittorini […] girava in quel periodo su per gli Iblei, Erei, Madonie, lungo itinerari lombardo-siculi, d’attivismo e industria per l’uomo, incontrando città belle, gente felice e bella, ragazzi e fanciulli allegri fuggiti da vecchi mondi statici, camionisti febbrili in viaggio per le costruzioni di speranze, contadini cavalieri in marcia per cospirazioni contro ingiustizie della storia.63 Il riferimento a Vittorini riconduce a due opere in particolare: Le città del mondo, nella quale è presente una riflessione secondo cui nei luoghi belli vi sia gente buona, 64 e Le donne di Messina, i cui protagonisti sono contadini che viaggiano su dei camion, ognuno nella ricerca di qualcosa. La conclusione del capitolo riporta quasi un’investitura poetica: E ora che sei migrato per sempre, caro Uccello, io rispondo a quella tua richiesta di fare tutto il possibile… E il possibile è questo, di ricordarti, dagli spazi chiusi di questa nostra frigida vita, con affetto e rimpianto, dolce e feroce, cantore e predatore di memorie, di reliquie del mondo trapassato di fatica e di dolore, vero, umano, per il quale non nutrivi nostalgia, ma desiderio, speranza di riscatto.65 L’opera si conclude con un viaggio, il tema del nostos in fondo attraversa l’intera produzione consoliana, dai viaggi per mare ne Il sorriso a Lo spasimo di Palermo: Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta d’addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca.66 L’autore si ferma nella Siracusa di Vittorini, deturpata e sconsacrata dalle raffinerie, nella Comiso di Bufalino e infine nella Palermo incrostata del sangue dei delitti di mafia. Lo squallore e il disincanto portano ad una condizione disperata che si risolve in un’unica promessa incorruttibile: Ah Ifigenia, ah Oreste, ah Pilade, ah ancelle della sacerdotessa d’Artemide, quale disinganno, quale altro dolore per voi che tanto avete bramato la patria lontana! V’auguro, mentre eleggiate felici verso la Grecia, che venti e tempeste vi sospingano altrove, che mai possiate vedere Argo, distrutta durante il vostro esilio, ridotta a rovine, a barbara terra, più barbara della Tauride che avete lasciato. Vi resti solo la parola, la parola d’Euripide, a mantenere intatta, nel ricordo, quella vostra città.67 Il rapporto fra scrittura e memoria è ribadito poco più avanti: «non resterà compagna, figlio o amico; ricordo, memoria; libro parola». 68 La particolarità dell’opera è il suo essere popolata di verità storiche: come era avvenuto per Il sorriso, Consolo riprende personaggi realmente esistiti e ne rievoca le storie, facendole proprie. La stessa vicenda della casa museo è tratta dall’attività di recupero e conservazione perpetuata da Antonio Uccello.69 L’olivo e l’olivastro si apre accostando sempre «sogno, ricordo e nostalgia»,70 invocando l’antichità, «tracce, prove d’una storia frantumata, d’una civiltà distrutta, d’uno stile umano cancellato»,71 «un mondo separato, remoto e ignoto»,72 e ricordando così la dipendenza fra storia, arte e umanità. Il personaggio di Ulisse, il particolare e sentito racconto non di un eroe ma di un naufrago – figura ricorrente nel testo – riporta un interessante riferimento: «rimorsi che lo spingono a varcare la soglia dell’umano, a spingersi, vivo, nel regno dei morti, a dialogare, per lenire le ferite del suo animo, con le ombre dei trapassati»,73 qui sembrano tornare le ragioni del viaggio espresse in Retablo. Come avviene in uest’ultima, l’autore definisce il suo ruolo: «io sono il messaggero, l’ànghelos, sono il vostro medium, a me è affidato il dovere del racconto: conosco i nessi, la sintassi, le ambiguità, le malizie della prosa, del linguaggio».74 Per la prima volta, rispetto alle opere trattate, viene riconosciuta l’importanza della scrittura e dei suoi metodi, svelando in un Consolo – riprendendo l’espressione usata da Elvira Sellerio nei confronti di Gesualdo Bufalino – un vero «padrone della lingua».75
    Soggetto del libro è il passato, storico e mitologico, della Sicilia, i cui autori si muovono come personaggi: Verga, Pirandello, De Roberto. Le riflessioni e gli atteggiamenti di questi risentono del tempo e dello spazio in cui si muovono e da cui provengono: Verga inforcò gli occhiali, spiegò i fogli e si mise a leggere. Pirandello lo osservò ancora e gli sembrò lontano, irraggiungibile, chiuso in un’epoca remota, irrimediabilmente tramontata. Temette che né il suo, né il saggio di Croce, né il vasto studio del giovane Russo avrebbero mai potuto cancellare l’offesa dell’insulsa critica, del mondo stupido e perduto, a quello scrittore grande, a quell’Eschilo e Leopardi della tragedia antica, del dolore, della condanna umana. Pensò che, al di là dell’esterna riconoscenza, delle formali onoranze, in quel tempo di lacerazioni, di violenza, di menzogna, in quel tramonto, in quella notte della pietà e dell’intelligenza, il paese, il mondo, avrebbe ancora e più ignorato, offeso la verità, la poesia dello scrittore.76 Sono citati anche Sciascia e Vittorini, il quale introduce l’ansia della fuga e del ritorno: «comincio a sentire una certa inquietudine, una certa insofferenza: mi sembra di essere imprigionato nella forma di “quello che resta in Sicilia”… E questo Vittorini mi prediceva».77 L’amara contraddizione tra bellezza e noncuranza, tra antichità e ignoranza, tra olivo e olivastro dunque tra colto e selvatico è fortemente sentita dagli autori siciliani, eppure sono loro, a volte dopo essere andati via, come nel caso di Consolo e Vittorini vissuti a Milano, a farvi fedelmente ritorno con la scrittura e a ricordarla: In Siracusa è scritta, come in ogni città d’antica gloria, la storia dell’umana civiltà e del suo tramonto. […] sciogliere un canto di nostalgia d’emigrato a questa città della memoria sua e collettiva, a questa patria d’ognuno ch’è Siracusa, ognuno che conserva cognizione dell’umano, della civiltà più vera, della cultura. Canto di nostalgia come quello delle compagne d’Ifigenìa, schiave nella Tauride di pietre e d’olivastri. Ché questa è oggi la condizione nostra, d’esiliati in una terra inospitale, cacciati da un’umana Siracusa, dalla città che continuamente si ritrae, scivola nel passato, si fa Atene e Argo, Costantinopoli e Alessandria, che ruota attorno alla storia, alla poesia, poesia che da essa muove ad essa va.78 E prosegue poco più avanti: «in un luogo di magherie, memorie, rimpianti, nostalgie viviamo, noi qui rimasti».79 Un senso simile si coglie in Nottetempo, casa per casa: «a volte sono inquieti i morti, si negano alla pace, s’impuntano alle soglie, dimoran nei paraggi, lamentano il distacco, dolorano come i vivi di memoria, di rimpianto».80 La trama del romanzo si muove su luoghi antichi e fa affiorare un livello di coscienza più profondo: In nuovi mondi o antichi, in luoghi ignoti risediamo. O ignote forme, presenze vaghe, febbrili assenze, noi aneliamo verso dimore perse, la fonte ove s’abbevera il passero, la quaglia, l’antica età sepolta, immemorabile.81
    Così le vicende narrate vengono interrotte da pensieri provenienti da troppo lontano perché possano essere identificati: «e il suo dolore sembrò a Petro sorto […] da qualcosa che aveva preceduto la sua, la nascita degli altri. Era così per lui, per la famiglia o pure per ogni uomo, per ogni casa? Di questo luogo, di questa terra in cui era caduto a vivere, di ogni terra?».82 Il sentimento che si fa universale ricorda
    le opere di Elio Vittorini, così come lo sguardo rivolto ai personaggi:
    E giù nel buio lieve, la mole della Rocca, le case del paese accovacciate sotto, strette fra la sua base e il mare, intorno al guardiano, il maniero, la grande cattedrale. Dal piano d’essa, da quel cuore partì con il pensiero a ripercorrere ogni strada vicolo cortile, a rivedere ogni chiesa convento palazzo casa, le famiglie dentro, padri figli, i visi loro, rievocarne i nomi, le vicende. Sentiva d’essere legato a quel paese, pieno di vita storia trame segni monumenti. Ma pien soprattutto, piena la sua gente, della capacità d’intendere e sostenere il vero, d’essere nel cuore del reale, in armonia con esso. Fino a ieri. Ora sembrava che un terremoto grande avesse creato una frattura, aperto un vallo fra gli uomini e il tempo, la realtà, che una smania, un assillo generale, spingesse ognuno nella sfasatura, nella confusione, nell’insania. E corrompeva il linguaggio, stracangiava le parole, il senso loro.83 L’accostamento fra l’umanità e il linguaggio testimonia ancora una volta il nesso inscindibile che li lega e che l’attenzione operata da Consolo nei confronti della lingua derivi da un profondo senso di appartenenza e dipendenza riconosciuto tra i due. Infine Lo spasimo di Palermo, ultimo romanzo, rappresenta cronologicamente la ripresa della conclusione de Le pietre di Pantalica, non si perde mai ma registra lucidamente gli scempi della seconda metà del secolo, di cui sono protagonisti i delitti di mafia e il cosiddetto “sacco di Palermo”, che fa riferimento al boom edilizio che stravolse il panorama architettonico e paesaggistico della città. L’opera disperata racconta la distruzione – «s’aprì subito il cantiere, sventrarono il giardino»84 – dopo molto tempo e con rammarico, poiché consapevole della funzione e delle possibilità della letteratura: «aveva tentato infinite volte la scrittura, lettere memorie resoconti, ma l’orrore nasceva puntuale per quell’ordine assurdo, quel raggelare la ferita, quella codificazione miserevole dell’assenza prima e poi assoluta, dell’improvviso vuoto, dello sgomento fisso».85 L’autore si svela protagonista, dal momento che riferisce, come frammento di un libro del protagonista, dello scrittore Gioacchino, una citazione da Le pietre di Pantalica, 86 e rivela così la veridicità delle immagini contenute nel romanzo, manifestandosi non più come ideatore di esse, ma semplicemente come testimone. L’ultima opera dell’autore, pubblicata due anni prima della morte, è Il teatro del sole, il titolo allude alla Piazza dei Quattro Canti di Palermo: «là era il libro di storia più chiaro, il nuovo libro che i viceré avevano scritto sopra un altro più antico e consunto».87 Si tratta di un vero e proprio teatro, nel quale è la storia ad andare in scena, con tutti i suoi protagonisti: Mezzogiorno, l’ora sacra, il tempo dell’arresto, della luce sospesa, delle apparizioni […] Non fauni e ninfe apparivano, ma fantasmi per via Toledo, invadevano il Teatro del Sole […] Che rimescolio di razze, di lingue, in questa turba vitale, invadente, in questi dominatori venuti dal mare, dai deserti lontani, in questi guerrieri audaci e sereni coltivatori di palme, d’ulivi, di cedri! Sono insieme arabi, persiani, egizi, libici, sudanesi, berberi, spagnoli, tutti uniti nella fede in Allah. Sono rudi, incolti, feroci e sapienti, dottissimi, cultori di numeri, astronomie, raffinati poeti […] Ruggeri e Guglielmi d’Altavilla seguivano, in ancor più sontuosa parata […] Svanisce lo screziato bagliore normanno ed è la volta dello Stupore del Mondo, del “Vento di Soave”, del rosso Federico, del grande imperatore. Viene al galoppo sul bianco destriero, in mantello di porpora, la mano del guanto di cuoio su cui affondano gli artigli del falco. Gli fanno corteggio vassalli, cancellieri, notari, poeti della nuova lingua volgare, Pier delle Vigne, Iacopo da Lentini […] vengono ora i cattolici potenti di Spagna.88 Tutto questo si mostra all’autore che si ferma ad osservare nel Teatro del sole e che al fine tenta di liberarsi da questa vertigine: «smuovo le mani nell’aria per frugare l’affanno, frantumare allucinazioni, fantasmi. Cerco di muovere i passi, fuggire dall’incantesimo, da quello spazio stregato, dalla lunga storia angosciosa di questa superba città, dell’incantevole isola, che in figure, in ossessione mi viene».89 Quest’ultima riga, che riecheggia il verso di Piccolo «la vita in figure mi viene»,90 riassume l’intera produzione consoliana, nella quale la narrazione si nutre di immagini giunte da lontano, da un tempo ricordato o semplicemente riconosciuto nelle tracce che ne sono sopravvissute.

    ***

    1 CESARE SEGRE, Un profilo di Vincenzo Consolo, in Consolo L’opera completa, Mondadori, Milano, 2015 p. XVI. 2 Cfr. ivi, p. XVII.
  3. 3 VINCENZO CONSOLO, Intervista di Isabella Donfrancesco, «Scrittori per un anno», 23 gennaio 2012, https://youtu.be/Yo7lllJ9Az0.
  4. 4 Ibidem 51 5 C. SEGRE, Un profilo di Vincenzo Consolo, cit., p. XX.
  5. 6 V. CONSOLO, Le pietre di Pantalica, cit., pp. VIII-X.
  6. 7 MARGHERITA GANERI, Postmodernismo, Editrice Bibliografica, Milano, 1998, p. 55. 8 Ivi, p. 56 52 GIULIO FERRONI, Vincenzo Consolo, lo scrittore che ha saputo raccontare il respiro della
  7. Sicilia, L’Espresso, 9 gennaio 2022, pp.68-69, ttp://vincenzoconsolo.it/?cat=4 53 10 Ivi, p. 56. 11 Ivi, p. 55. 12 Ivi, p. 66. 13 Cfr. ibidem
  8. 14 Ivi, p. 96. 15 VINCENZO CONSOLO, La ferita dell’aprile, Mondadori, Milano, 2013, p. 28. p. 107 cfr. F. Petrarca,
  9. Canzoniere, Mondadori, Milano, 2018, p. 443, v.1, «erano i capei d’oro a l’aura sparsi») e leopardiani. 17 Cfr. VINCENZO CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Mondadori, Milano, 2019, p. 55 18 Ivi, p. 55.
  10. 19 Ivi, p. 26. 20 Cfr. ANDREA CAMILLERI, Leonardo Sciascia, le opere raccontate da Pif e Andrea
  11. Camilleri, BIF&ST, 2014, https://youtu.be/MDYR9npqhnc.
    V. CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio, cit., pp. 98-100.
  12. 22 Cfr. G. TOMASI DI LAMPEDUSA, Il Gattopardo, cit., pp. 204-219.
  13. 23 TANO GRASSO, Dentro “Il sorriso dell’ignoto marinaio” e nel romanzo di Tomasi di Lampedusa due modi di essere siciliani. Opposti, in «L’Espresso», 9 gennaio 2022, p. 70
  14. http://vincenzoconsolo.it/?cat=4.
    24 V. CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio, cit., p. 101.
  15. 25 T. GRASSO, Dentro “Il sorriso dell’ignoto marinaio” e nel romanzo di Tomasi di Lampedusa
  16. due modi di essere siciliani. Opposti, cit., p. 71.
  17. 26 Ivi, p. 102. 27 Ivi, p. 105.
  18. 28 Ivi, p. 106.
  19. 29 VINCENZO CONSOLO, Nota dell’autore, vent’anni dopo, in Il sorriso dell’ignoto marinaio,
  20. Mondadori, Milano, 2019, pp. 153-154.
  21. TATIANA BISANTI, Seduzione amorosa e seduzione artistica in Retablo di Vincenzo Consolo, in «Open Edition Journal», Images littéraries de la societé contemporaine, 2006,
  22. https://doi.org/10.4000/cei.813.
  23. 31 V. CONSOLO, Retablo, cit., p. 19.
  24. 32 Ivi, p. 53
  25. 33 V. CONSOLO, Intervista di Isabella Donfrancesco, in «Scrittori per un anno», 23 gennaio 2012,
  26. https://youtu.be/Yo7lllJ9Az0.
  27. 34 V. CONSOLO, Retablo cit. p. 60.
  28. 35 Ibidem 36 Ibidem 37 Ivi, p. 68.
  29. 38 Ivi, p. 74. 39 Ivi, p. 72.
  30. 40 Ivi, p. 74. Il passo richiama Leopardi, La ginestra, «torna al celeste raggio / dopo l’antica
  31. obblivion», Canti, Mondadori, Milano, 2016, p. 231, vv. 269-270.
  32. 41 Ivi, p. 76. 42 Ivi, p. 77.
  33. 43 Ivi, p. 73. Altro riferimento a Leopardi, La ginestra, «secol superbo e sciocco», v. 53.
  34. 44 Ivi, p. 78. 45 Ivi, p. 76.
  35. 46 Ivi, p. 80. 47 Ivi, p. 68.
  36. 48 Ivi, p. 83. 49 Ivi, p. 94.
  37. 50 Le pietre di Pantalica, cit., p. 22.
  38. 51 Ibidem 52 Ivi, p. 52.
  39. 53 Ivi, p. 23. 54 Cfr. p. 109.
  40. 55 Ivi, p. 105. 56 Ivi, p. 109.
  41. 57 Ivi, p. 111. 58 Ivi, p. 112.
  42. 53 Ivi, p. 23. 54 Cfr. p. 109.
  43. 55 Ivi, p. 105. 56 Ivi, p. 109.
  44. 57 Ivi, p. 111. 58 Ivi, p. 112.
  45. 59 Ivi, pp. 88-9.1 60 Ivi, p 94. 61 Ivi, p 99.
  46. 62 Ivi, p 98. 63 Ivi, p 97.
  47. 64 Cfr. ELIO VITTORINI, Le città del mondo, Bompiani, Milano, 2021, p. 93. 65 Le pietre di Pantalica, cit., p 101.
  48. 66 Ivi, p. 139. 67 Ivi, p 130.
  49. 68 Ivi, p. 132. 69 Cfr. http://www.casa-museo.it/
  50. 70 V. CONSOLO, L’olivo e l’olivastro, cit., p. 6.
  51. 71 Ivi, p. 7. 72 Ivi, p. 25.
  52. 73 Ivi, p. 16. 74 Ivi, p. 33.
  53. 75 ELVIRA SELLERIO, Gesualdo Bufalino – L’altro 900 – Documentario, 2020,
  54. https://youtu.be/1ql9eG8wG3k.
  55. 76 V. CONSOLO, L’olivo e l’olivastro, cit., pp. 59-60.
  56. 77 Ivi, p. 11.
  57. 78 Ivi, cit. pp. 73-74.
  58. 79 Ivi, cit. p. 94.
  59. 80 V. CONSOLO, Nottetempo, casa per casa, cit., p. 17.
  60. 81 Ivi, p. 54.
  61. 85 Ivi, p. 44. 86 Cfr. V. CONSOLO, Lo spasimo di Palermo, cit., p. 97.
  62. 87 VINCENZO CONSOLO, Il teatro del sole, Interlinea, Novara, 1999, p. 7. 88 Ivi, pp. 9-11.
  63. 89 Ivi, p. 13.
  64. 90 L. PICCOLO, Gioco a nascondere, Canti barocchi e altre liriche, cit., p. 19.

Facoltà di Lettere e Filosofia
Dipartimento di Lettere e culture moderne
Corso di laurea in Lettere moderne
relatore Giorgio Nisini
A.A. 2021-2022

Leonardo Sciascia, Lucio Piccolo, Vincenzo Consolo.
Villa Piccolo

L’(IN)ATTUALITÀ DI VINCENZO CONSOLO, FRA SPERIMENTALISMO. ED ETICITÀ. LA RESISTENZA IN SICILIA. TRAVESTIMENTI E FUTURO NOTE SU CONSOLO

LA SCUOLA DELLE COSE
In questo numero hanno scritto:
GIANNI TURCHETTA, NICOLÒ MESSINA, DAVIDE DI MAGGIO, NINO SOTTILE ZUMBO, ALESSANDRO SECOMANDI, FABIO RODRÍGUEZ AMAYA L’(IN)ATTUALITÀ DI VINCENZO CONSOLO, FRA SPERIMENTALISMO. ED ETICITÀ. LA RESISTENZA IN SICILIA. TRAVESTIMENTI E FUTURO NOTE SU CONSOLO

E. ALEJO CARPENTIER CONSOLO, VOCE PLURIMA L’(IN)ATTUALITÀ DI VINCENZO CONSOLO, FRA SPERIMENTALISMO ED ETICITÀ

Gianni Turchetta
L’eccezionale spessore artistico e intellettuale di Vincenzo Consolo rende sempre più necessaria una sua più stabile e più percepibile “canonizzazione” – per usare un termine classico della storiografia e della teoria letteraria – che gli consenta di diventare parte integrante e ben riconosciuta del senso comune della letteratura. In prima approssimazione, Consolo è, un po’ paradossalmente, uno scrittore “attuale” anche e proprio per la sua “inattualità”: questa sua (in)attualità ha a che vedere con la sua idea di letteratura. Consolo è ossessionato, da un lato, dalla necessità di dire la storia – perché per lui bisogna parlare della storia, del passato, del presente, della storia tutta – ma dall’altro mostra anche la fine della fiducia nell’engagement, cioè proprio di un modo di essere intellettuale che Sartre ha reso poco meno che proverbiale. Anche questo è un paradosso, e apparentemente una contraddizione; ma nella scrittura di Consolo le contraddizioni sono vitali, e prendono avvio da un’irriducibile contraddizione di partenza: bisogna parlare, ma sapendo che le parole hanno limiti così severi che diventa quasi avere la tentazione di tacere. Proprio su questa irrisolvibile duplicità Consolo costruisce la sua originalissima unione di sperimentalismo ed eticità, che ne rappresenta la più acuta e flagrante specificità. Vi sono tanti scrittori sperimentali e tanti scrittori etici – per dirla in un modo un po’ rapido e sommario – ma è quasi impossibile trovare una così stretta congiunzione tra due atteggiamenti che non vanno molto d’accordo. Detto in modo ancora un po’ sommario: di solito lo sperimentatore sembra sempre proiettato soprattutto verso le forme, laddove lo scrittore etico, e tanto più lo scrittore “politico”, verso i contenuti. Consolo riesce sempre a far stare insieme queste due dimensioni. Tante volte è stato accusato di “formalismo”: ma si tratta di un’accusa davvero ingiusta e poco fondata. Come scrittore Consolo, da un lato, attinge alla tradizione meridionalistica, cioè agli scrittori, ai saggisti e agli studiosi, a volte anche ai politici, che hanno scritto del Meridione d’Italia, della sua storia, della sua miseria, dell’oppressione, della distanza tra l’Italia del Sud e le altre parti più ricche d’Italia: da Gramsci a Salvemini, a Guido Dorso, a Danilo Dolci, allo stesso Carlo Levi. Ma al tempo stesso è uno scrittore molto vicino a quello che possiamo chiamare il “modernismo”, cioè, in tre parole, allo sperimentalismo non avanguardistico: questo è un altro suo tratto forte, che serve anche a ricordarci quanto egli sia stato, nonostante la convergenza di date (il suo romanzo d’esordio, La ferita dell’aprile, è del 1963), lontano dalla neoavanguardia, con cui anzi polemizzava aspramente, in riconoscibile sintonia con le critiche a essa rivolte da Pier Paolo Pasolini. Non a caso tra gli autori di riferimento della scrittura di Consolo si collocano Eliot e Joyce. Vi proporrò ora un esempio molto caratteristico della forza di Consolo, della sua originalità e della sua irriducibile, e produttiva, duplicità. Tutti abbiamo presente ciò che sta succedendo in Europa e nel mondo: dove migliaia, centinaia di migliaia, milioni di persone migrano, si spostano e spesso muoiono nel tentativo di emigrare. Moltissimi, tragicamente, soccombono nel canale di Sicilia e al largo delle coste dell’Egeo, uccisi “dall’acqua”. Ecco, Consolo, in tempi molto lontani, ha cominciato a cogliere questo movimento che oggi è sotto gli occhi di tutti e che ha preso proporzioni così ampie da diventare uno degli argomenti centrali dell’agenda politica dell’Unione Europea. Se ne parla in continuazione, e ci si scontra su questo: i muri, le quote, i soldi alla Turchia e i ricatti di Erdogan, gli imbarazzi e le titubanze della UE. Consolo ha capito prestissimo la rilevanza assoluta del fenomeno incombente delle migrazioni nella tarda modernità, anche e proprio nell’area mediterranea: già negli anni ottanta infatti ha scritto spesso di migranti che morivano in acqua, specie nordafricani o più generalmente africani. Si pensi, fra gli altri, a un racconto esemplare come Il memoriale di Basilio Archita, scritto a caldo nel 1984. Ecco così che possiamo ben percepire il Consolo che guarda al presente, alla storia, al Meridione nostro e al Meridione del mondo, cogliendo con eccezionale profondità quello che sta succedendo, prima di tanti altri. Ma se guardiamo a questa sua percezione da un altro lato, ci accorgeremo che Consolo ha anche un’ossessione letteraria, che lo rincorre fin dai primissimi racconti (si veda Un sacco di magnolie, 1957) e poi ricorrerà per tutta la sua carriera di scrittore: l’immagine del morto in acqua e “per acqua”, non solo perché ha davanti una certa realtà, ma anche perché ha sempre in mente l’immagine della Death by Water della Waste Land di Thomas Stearns Eliot, sezione IV, con la figura di Phlebas il fenicio, morto nell’affondamento della sua nave. L’ossessione letteraria (formale, se volete) fa insomma tutt’uno con la profondità e la lucidità nello scandaglio del reale (dei “contenuti”): Consolo è anche questo, con un’intensità che ben pochi possono vantare. E ci sarebbe peraltro da insistere – la critica non l’ha fatto abbastanza – sulle radici propriamente modernistiche, in senso letterario, di Consolo, e quindi non solo su quelle meridionali, di cui si parla più spesso. Il suo primo romanzo, un Bildungsroman, La ferita dell’aprile, parla di un ragazzo che cresce in una scuola di preti del Nord della Sicilia, in un luogo mai nominato ma che assomiglia molto alla Barcellona Pozza di Gotto dove Consolo effettivamente frequentò le scuole medie, e in un mondo che parla una lingua che non gli appartiene. Il protagonista viene infatti da San Fratello, e ha come lingua madre il sanfratellano: egli impara il dialetto siciliano, l’italiano e anche un po’ di francese, che studia a scuola. Intravediamo quindi una questione della lingua, in cui prende corpo una questione d’identità. Ma anche – e questo certo non è stato sottolineato abbastanza dalla critica – in La ferita dell’aprile è evidente ancora una volta il richiamo alla letteratura modernista: non solo nel vistoso richiamo ancora a Eliot, al suo “April is the cruellest month” (celeberrimo attacco di The Burial of the Dead, sezione I di The Waste Land), attraverso la mediazione di Basilio Reale, ma anche e soprattutto a Joyce, il cui A Portrait of the Artist as a Young Man presenta non poche analogie tematiche e narrative, a cominciare proprio dal tema principale, l’educazione di un giovane in una scuola di preti. D’altra parte, già in questo primo Consolo c’è molto dialetto e, per farla breve, non è per lui possibile rinunciare a nessuna delle due componenti, ovvero il Meridione e la grande letteratura modernista europea, o limitarne il peso. Resta fra le altre cose ancora tutto da decifrare il ruolo di Cesare Pavese nella formazione di Consolo. Pavese, significativamente citato nell’epigrafe del capitolo finale, poi espunto, di La ferita dell’aprile, fa da mediatore, come traduttore e non solo, per molti scrittori italiani verso la letteratura di lingua inglese e americana. Sicuramente, ad esempio, ha un peso importante nell’avvicinare Consolo e tanti altri scrittori italiani a William Faulkner. Sono ancora tutti da approfondire i rapporti tra Faulkner e la letteratura italiana (ma anche di altre nazioni, a cominciare da quella sudamericana: si pensi, per esempio, a quanto di Faulkner arriva a García Márquez). Tutto ciò conferma l’eccezionalità della congiunzione, in Consolo, tra la dimensione meridionale costante, ossessiva, e una non meno costante, rigorosa prospettiva di sperimentalismo modernista, non avanguardistico. Per Consolo la “letteratura” è il linguaggio spinto sino alle sue estreme possibilità. Si ha “letteratura” quando, cioè solo quando vi è una pressione sul linguaggio, una tensione, un’aspirazione violenta, che è al tempo stesso formale e morale. Consolo cerca sempre di dare al linguaggio il massimo di densità formale, attraverso una sorta di pluralizzazione del linguaggio, cioè la moltiplicazione, esibita, dei suoi vari strati, ai quali si sforza di attribuire sistematicamente una speciale densità linguistico-retorica, e quindi una speciale intensità. Questo linguaggio preme verso una verità, una capacità di dire il reale che, unita alla densità formale, vorrebbe far sì che le parole fossero dense, al limite, come le cose. Quindi, da un lato, Consolo vuole che le parole siano come cose, magari addirittura, per citare ancora una volta Carlo Levi, che le parole siano come pietre. Le parole vorrebbero e dovrebbero essere pesanti. Ma le parole non sono cose, e tanto meno pietre: per questo Consolo ci dice continuamente e allo stesso tempo che la “letteratura” è per definizione una “missione impossibile”. Se è infatti necessario caricare le parole sino a farle diventare più che parole, azioni e cose, d’altro canto bisogna farlo sapendo che non sarà mai possibile, che le parole sono per definizione mancanti… Proprio qui, a ben vedere, sta la grandezza di Consolo: cioè sia in questo sforzo di caricare all’estremo le parole, ma anche nella costante, coesistente consapevolezza dei limiti invalicabili della parola. Sono pochi gli scrittori che, come lui, hanno saputo spingere verso un’idea fortissima di letteratura, che comunque resiste come ideale di riferimento: ma continuando al tempo stesso a rivelarci la miseria della letteratura stessa, anche della più alta. Scrivere non basta, ma bisogna continuare a scrivere, sfidando sempre l’oblio e la inesorabile durezza delle cose.


LA RESISTENZA IN SICILIA

Nicolò Messina
Universitat de València

Nell’autunno del 2017, a cinque anni dalla scomparsa di Vincenzo Consolo, usciva per i tipi di Bompiani Cosa loro. Mafie tra cronaca e riflessione 1970-2010. Il libro nasceva a mia cura (il braccio), anche per l’impegno collaborativo di Caterina Pilenga, vedova dello scrittore (la mente), personaggio straordinario che teneva “ambo le chiavi del cor” (Inferno XIII, 58-59) del marito, per il quale non fu solo compagna di tutta la vita, ma interlocutrice vicina, pungolo assiduo, segretaria e archivista, collaboratrice, conoscitrice profonda tanto della lettera compiuta della scrittura consoliana, quella consegnata per la stampa delle singole opere (era capace di recitarne a memoria intere pagine), quanto dei suoi meandri e retroscena. Negli usi di una certa Spagna si imponeva al penitente il sambenito, una sorta di scapolare che denunciava la colpa di cui fare ammenda, un ammennicolo che di per sé ti esponeva al pubblico ludibrio, agli insulti, al giudizio sommario, e che – Goya docet – l’Inquisizione completava nell’autodafé con la coroza, l’allungato copricapo conico che rendeva ancor più identificabile il malcapitato. Nel linguaggio comune permangono i relitti della trista usanza: cargar con el sambenito, llevar el sambenito, colgar/ poner el sambenito, che hanno a che vedere con la nomea che si ha o con il marchio infamante con cui bollare qualcuno. I siciliani avrebbero il sambenito della mafiosità. Da cui nessuno si libera fuori dalla Sicilia, soprattutto all’estero, benché con la mafia non abbia mai stretto patti di connivenza, né sia sceso a patti affollando l’ampia area grigia dell’omertà. Non dovette liberarsene neanche Consolo che dalla Sicilia si autoesiliò e da intellettuale impegnato si sentì in dovere di fare i conti con una mafia che ormai si declinava al plurale, anzi volle farci i conti, non volle sottrarsi guadagnandoci l’isolamento, l’ostracismo. Sarebbe rientrato – di fatto ci rientrò – in un nuovo elenco dei mali della Sicilia esemplato su quello della famigerata lettera del mantovano cardinale Ernesto Ruffini (1964), nel quale avrebbe trovato posto con Sciascia magari scalzando il Gattopardo, convinto com’era, Consolo, che fosse stata la classe sociale del suo autore a passare nell’Ottocento il testimone del potere agli “sciacalletti”, alle “iene”, e che fossero così proprio quei nobili, da dirigenti agonizzanti, a essere corresponsabili dell’infiltrazione mafiosa nelle istituzioni e nell’attività politica (Cosa loro, pp. 11, 45, 64; soprattutto pp. 251, 255, 296). Ricordiamoci della “resistibile ascesa” (B. Brecht) di don Calogero Sedara! Cosa loro lo dimostra e dimostra come e quanto Consolo si schierasse indefettibilmente contro l’olivastro mafioso, il cancro che infesta con le sue metastasi ormai immedicabili l’isola e l’Italia intera. Basta scorrere le pagine scritte sotto la spinta dei terribili fatti del 1982 e di dieci anni dopo, rileggere quelle finali, vibranti e sconsolate di Lo spasimo di Palermo (1998). Tra la quasi settantina di testi dell’arco temporale 1970-2010, confluiti in Cosa loro, ne vogliamo proporre uno dei primi, per motivi anche circostanziali, perché sembra attinente al momento attuale, alla presunta dormienza della mafia nel presente dell’Italia, della Sicilia: I nemici tra di noi (“L’Ora”, lunedì 6 settembre 1982; Cosa loro, pp. 49-50). Si badi intanto alla data. Venerdì 3 settembre: tre giorni prima era stato assassinato dalla mafia il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro. Ancor prima, il 30 aprile, era stato trucidato Pio La Torre insieme a Rosario Di Salvo (I nostri eroi di Sicilia, “L’Unità”, domenica 22 aprile 2007; Cosa loro, pp. 251-255). Audace – forse anche discutibile per alcuni, inclini ai cavilli come i dialoganti del racconto di Sciascia Filologia (Il mare colore del vino, 1973) – l’accostamento poco rituale alla Resistenza, ma certo in dissonanza con il trito e ritrito retoricismo di tanta antimafia di facciata. Allora, 1982, e oggi, a trent’anni dalle stragi di Capaci e Via D’Amelio. In una Palermo di svolta amministrativa in cui – in campagna elettorale – l’hanno fatta da padroni i nuovi vecchi, homines novi emersi da un’interminabile trasformistica querelle des anciens et des modernes (si parla difficile in certi colti salotti panormiti e no!). Chissà cosa avrebbe detto Consolo in occasione di questo trentennale. Non più di quanto scrisse a caldo dei due pluriomicidi in cui mafia e conniventi, in un’ottica bellicistica di guerra allo Stato, non ricorsero a tecniche chirurgiche per eliminare gli obiettivi principali (Giovanni Falcone, Paolo Borsellino), ma preferirono per così dire sparare nel mucchio, bombardarono a tappeto per non lasciare scampo né tracce, tranne quella dell’arroganza del proprio potere (Cosa loro, pp. 101-104, 105-108, 109-111, 113-115; 117-120). Né meno indignato sarebbe stato il suo atteggiamento di quando la seconda carica esplosiva di Via D’Amelio scavò più in profondità la voragine di Capaci, gli strappò definitivamente ogni speranza di riscatto. Quanto incisero quegli scoppi nell’afasia narrativa dello scrittore (Lo spasimo non fu seguito da Amor sacro, l’opera tanto annunciata e invano attesa)? Quanto, l’imbarbarimento dei tempi, dei comportamenti, dei linguaggi del nuovo ventennio di Mascelloni (La mia isola è Las Vegas, 2012, p. 178)? Quanto, i morti per acqua (T.S. Eliot) che cominciavano a trasformare il Mediterraneo da mare culla di civiltà in cimitero a cielo aperto? L’incipit dell’articolo è rivelatore: “Parecchi anni fa, quando dalla Sicilia emigrai a Milano – emigrazione imposta dal potere politico-mafioso – mi colpì subito la gran quantità di lapidi affisse sulle facciate delle case che ricordano i morti caduti nella guerra antifascista, nella Resistenza. Lapidi che diventano ogni anno, la sera del 25 aprile, stazioni di civili processioni con fiaccole e sotto cui vengono appesi mazzi di fiori, ghirlande di foglie. Sono riti del nostro Stato civile e democratico che non avevo mai visto, a cui non ero abituato, perché nel Sud, in Sicilia non c’era stata la Resistenza”. Il trasferimento definitivo a Milano, dove Consolo lavorerà alla RAI, è spiegato non come conseguenza del concorso vinto contro ogni previsione, ma di un autoesilio ritenuto inevitabile, rispondente alle sue inquietudini ideologiche, esistenziali, al disadattamento a una realtà d’origine in lento disfacimento, in balia di una mutazione antropologica inarrestabile in cui il nuovo dei fumaioli industriali che nessuno vuole altrove, i moderni mostri inquinanti, si somma al vecchio degli squilibri sociali medievali mai affrontati con serio senso della prospettiva dallo Stato unitario liberale monarchico, né da quello repubblicano seguito alla sconfitta dell’Italia fascista. Ultimo, Consolo, degli scrittori siciliani della diaspora milanese del tempo: Vittorini, Quasimodo, l’amico Basilio Silo Reale… È – afferma perentorio – una “emigrazione imposta dal potere politico-mafioso”, prolungamento del mai tramontato medioevo siciliano, non interrotto né dalla modernità né dall’Illuminismo (gran cruccio di Sciascia e dello stesso Consolo), né dal Risorgimento impostosi in una versione nemmeno timidamente antimoderata (S. Massimo Ganci, L’Italia antimoderata, Guanda, Parma 1968) e quindi occasione fallita di effettiva trasformazione e di reale superamento della questione meridionale (Il sorriso dell’ignoto marinaio è il contributo consoliano alla lettura di quella fase storica), né dal vento del Nord del secondo Risorgimento che fu la Resistenza (“nel Sud, in Sicilia non c’era stata la Resistenza”). Anche questa occasione di cambiamento fu negata alla Sicilia. Lo stesso sbarco degli Alleati a Gela (10 luglio 1943) è offuscato da complicità e da aiuti richiesti e indesiderabili. “Ma in Sicilia, subito dopo la guerra, dopo la formazione di questo Stato democratico, è cominciata una guerra contro un nemico interno, efferato e terribile come quello nazifascista: la mafia. E oggi sono tante, tante le lapidi che ricordano i caduti di questa lotta eroica e disperata, dai caduti di Portella della Ginestra al generale Dalla Chiesa. Oggi, dopo quarant’anni, Palermo è piena di queste lapidi. […] E se si scegliesse un giorno dell’anno per la commemorazione della lotta alla mafia [dal 1996 l’auspicio si è avverato su iniziativa di Libera, scegliendo il 21 marzo di ogni anno, data confermata dalla legge n. 20 dell’8 marzo 2017. NdE], ci sarebbe di che fare processioni con fiaccole, di che appendere fiori e corone” Sul filo coerente del ragionamento, però, Consolo il mondo che viene soppiantato dall’incedere della modernità. D’altra parte questi scatti non possono neanche essere considerati solo alla stregua di un reportage di documentazione sociale: quasi una classificazione gerarchica di immagini ad uso scientifico per qualche manuale etnologico o un corrispondente studio sul campo. Lo impediscono innanzitutto le regole compositive che Giuseppe Leone si è dato e che costituiscono la cornice di riferimento del suo progetto: concentrarsi sul travestimento, sull’emozione psicologica varia e variabile che di volta in volta affiora dalle sue fotografie. È così che emerge un’identità espressiva specifica che tiene insieme tutto il lavoro di Giuseppe Leone e gli conferisce forma e riconoscibilità: in altre parole, è la capacità del fotografo che trova il suo carattere e la sua distinzione tra rappresentazione condivisa e coagulo autonomo di senso, tra attenzione alla convenzione e deroga della norma. Per comprendere questo punto basterebbe confrontare le sue fotografie con le sequenze della festa di San Bruno scattate per illustrare Sud e magia di Ernesto De Martino, in cui il valore documentativo prevale su ogni altro aspetto, tralasciando quell’emblematicità espressiva e tecnica che è invece sempre ben presente. Nel caso di Leone si assiste infatti a una particolare programmazione visiva che vede convergere antropologia culturale e progetto artistico, sguardo narrativo partecipe e distacco documentario, evidenziando quei nessi sedimentati e stratificati nella memoria collettiva profonda quanto inconsapevole che si potrebbero ben definire “dimenticati a memoria”, secondo l’efficace definizione coniata in altro contesto da Vincenzo Agnetti. Queste donne e uomini sempre presenti nel suo lavoro si liberano dal consueto e dal quotidiano per spingersi oltre le colonne d’Ercole del genere e della categoria. È un modo che, seppure vissuto inconsciamente, affonda le sue radici in una selva di antichi miti e di riti transculturali che avevano lo scopo di riconnettere gli opposti; qui l’unità degli opposti significa far riaffiorare sulla superficie del corpo la possibilità di un dialogo effettivo tra le polarità maschile e femminile, ritualità magica per favorire la fertilità ed esorcizzare la morte; sono coincidenze che travalicano i confini geografici e che si riflettono in una modalità arcaica la quale rivive oggi e porta in sé la memoria di riti propiziatori che allontanano gli influssi negativi, che avevano la funzione di connettere con il sacro, il divino e il magico. Ecco dunque che la fotografia di Giuseppe Leone acquista una luce ben diversa che la strappa dalla cronaca per reinserirla nel tempo lungo della storia dell’umanità. Le sue immagini mostrano le tracce attualizzate di questo mondo archetipo e fortemente perturbante, tanto che lo straniamento che noi stessi proviamo guardando le sue fotografie è forse un’altra spia del riaffacciarsi alla coscienza dell’antico sogno della confluenza di terra, principio femminile, e di cielo, principio maschile. Dopo aver evidenziato questa complessa rete di coincidenze, le figure del fotografo siciliano dalle apparenze quasi sciamaniche qui appaiono come un fenomeno quasi asessuato. C’è senso di sfida in molti di questi volti, ma vi si legge anche una struggente malinconia, che alla fine prevale sulla buffoneria. Ci ricordano la sequenza di scatti a Ezra Pound di Lisetta Carmi, una serie di fotogrammi quasi rubati davanti alla sua casa a Rapallo. Rivediamo, attraverso questi volti, l’immensa anima di Pound, la sua grandezza interiore, il poeta infinito e disperato, la sua totale solitudine. La malinconia nei volti fotografati da Leone invece è congeniale perché diviene simbolo stesso sia della lontananza in cui affonda lo sguardo dei soggetti, sia dell’ambigua indefinizione di genere che traspare da queste figure. La malinconia è come il sorriso della Gioconda, una sfumatura al limite della percezione che sposta il piano dell’osservazione dalla biografia del soggetto al suo grado di fusione con la natura, fino alla sua capacità di riassorbirsi in essa. Nell’evento dedicato a Vincenzo Consolo, organizzato da Lyceum – La Scuola delle Cose nello spazio di Oliveri in provincia di Messina, sono esposte fotografie celebri di Giuseppe Leone. Soprattutto, una di esse ritrae Gesualdo Bufalino, Vincenzo Consolo e Leonardo Sciascia, grandi amici del fotografo siciliano, apparentati da un’insolita contentezza, immortalati in uno scatto che è diventato un simbolo. Tre scrittori isolani accomunati da un’incontenibile risata, consegnati per sempre alla memoria da Giuseppe Leone. La foto dei tre scrittori è un frammento dell’intensa intimità che si registrava in contrada Noce – spiega Leone –, la tenuta estiva di Sciascia. Lo scatto è del 1982 e sancisce non solo la fine del Novecento letterario, ma anche il tramonto di una meravigliosa cultura eccentrica. Tre intellettuali che hanno operato lontano dai centri di potere della cultura ufficiale. Sciascia, Consolo e Bufalino erano scrittori di provincia, ma non erano provinciali. Scrittori di levatura europea, nati in tre minuscoli paesi siciliani: Racalmuto, Sant’Agata di Militello e Comiso. Racconta Giuseppe Leone: “A scatenare la fragorosa risata fu il riferimento ad altri due grandi autori isolani: Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Lucio Piccolo. Leonardo Sciascia raccontò del loro arrivo a Milano, invitati dall’organizzatore del Premio San Pellegrino, Eugenio Montale. Il poeta aveva convocato i due cugini siciliani per renderli edotti sul da farsi. I due, accompagnati da un valletto, si presentarono infagottati in pesanti pastrani, bizzarri come Totò e Peppino nella celebre sequenza cinematografica di Totò, Peppino e la malafemmina. Mentre Sciascia raccontava l’episodio con la sua proverbiale vocina e si appalesò la scena dei due cugini a Milano intabarrati, scoppiò la fragorosa risata dei tre scrittori, eternizzata dal bianco e nero della sequenza fotografica”. I richiami transculturali che il lavoro di Giuseppe Leone innesca sono quindi sia iconografici che archetipici, in quanto sanno far emergere sofferenza e gioia, tragedia e riso, vita e morte, festa e carestia. Così Leone ha saputo cogliere quelle tracce con cui il soggetto appare più vicino alle modalità profonde, individuali dell’esistenza, a quell’essere “fusi con il mondo sensibile” di cui spesso scrive lo storico e filologo ungherese Károly Kerényi, coautore insieme a Jung nel 1941 dell’Introduzione all’essenza della mitologia, dove si legge che “il simbolo, nel suo significato funzionale, non indica tanto verso il passato, quanto verso il futuro, verso uno scopo che non è ancora stato raggiunto”. Anche Giuseppe Leone coglie un presente che irrimediabilmente collega al passato e coraggiosamente si rivolge al futuro. Viene rovesciata così la prospettiva di un mondo bloccato e si mostra la possibilità dello scambio e della fluidità del pensiero, contro l’anestetizzazione generale del presente. Il fotografo siciliano cerca di “vedere” l’anima delle società che cambiano, la solitudine e il disagio dell’uomo moderno. Sembra attirato dall’essere e non essere delle figure che fotografa, dalla non fissità del loro vivere “ai margini”, con coraggio e anche provocazione. Vede in loro una verità, un vivere “altro” che apre quella porta che la società convenzionale rifiuta di varcare. Di andare oltre gli schemi e le visioni correnti. Ed è da questa ricerca interiore, da questa radicale capacità di rimessa in discussione (che diventa alla fine insieme un’accettazione) di ogni punto di vista, da questa capacità di sovvertire il nostro sguardo, che bisogna partire per comprendere la
fotografia di Giuseppe Leone.


NOTE SU CONSOLO E ALEJO CARPENTIER

Alessandro Secomandi

Quando si parla delle influenze letterarie su Vincenzo Consolo, alcuni nomi sono da sempre imprescindibili. Si possono ricordare Manzoni, Pirandello, Piccolo e Sciascia, quest’ultimo da un punto di vista soprattutto etico e politico in senso lato. Ma pian piano comincia a farsi largo anche un altro punto di riferimento, più sorprendente e più defilato rispetto ai maestri di cui sopra. È il cubano Alejo Carpentier, figura centrale della letteratura ispanoamericana dall’uscita di Il regno di questa terra (o mondo, in traduzione Einaudi). Era il 1949, e questo breve romanzo sulla rivoluzione di Haiti avrebbe lasciato un segno indelebile prima nella narrativa del continente, poi al di fuori. Consolo conosceva bene l’opera di Carpentier. Lo testimoniano, per esempio, il saggio La pesca del tonno in Di qua dal faro (1999), l’articolo del 1989 sulla ghigliottina del Museo Pepoli a Trapani, per il “Corriere della Sera”, e ancora quello del 1997 dedicato a Il regno, per “Il Messaggero”. Ma è un dato che emerge pure in qualche intervista: Consolo lo reputava uno degli autori più affascinanti nel panorama latinoamericano, e forse il più affine. Sono singole immagini proposte da Carpentier a tornare in questi omaggi. Come i colori, profumi e sapori dei Caraibi e di quel mare, fonte di ispirazione anche per l’apertura di Il sorriso dell’ignoto marinaio, con lo sbarco di Mandralisca a Oliveri. Il cubano li descrive con straordinaria vividezza in Il regno e Il secolo dei lumi (1962), due romanzi del suo ciclo rivoluzionario. E poi appunto la ghigliottina, emblema quanto mai tangibile delle contraddizioni dell’Illuminismo, fra progresso scientifico e rinnovate barbarie: Consolo recupera da Il secolo la scena del suo arrivo nelle colonie francesi tra fine Settecento e inizio Ottocento, trasportata su una nave assieme al decreto per l’abolizione della schiavitù, e ne fa la chiave di volta delle proprie riflessioni sulla “Macchina”. Un ponte inedito fra Trapani e la Guadalupa che ovviamente guarda anche oltre, ampliando la prospettiva alla Storia universale e al suo costante intreccio di olivo e olivastro, ragione e follia, cultura e natura. Nella biblioteca personale di Consolo si trova pure Il regno edizione Longanesi del 1959. Consolo, che era solito annotare e sottolineare i suoi libri, ne mette in particolare risalto il finale. Qui lo si cita dall’edizione Einaudi: “l’uomo […] soffre e spera […] e lavora per individui che mai conoscerà, e che a loro volta soffriranno e spereranno e lavoreranno per altri che [non] saranno felici, perché l’uomo brama sempre una felicità sita oltre la porzione che gli è stata assegnata. Ma la grandezza dell’uomo consiste proprio nel voler migliorare quello che è. […] Nel Regno dei Cieli non c’è grandezza da conquistare, visto che là tutto è gerarchia fissa, […] impossibilità di sacrificio […]. Per questo, oppresso da pene e Doveri, bello nella sua miseria, capace di amare […], l’uomo può trovare la sua grandezza, la sua piena misura solo nel Regno di questo Mondo”. In questo brano c’è molto di quanto, a livello tematico, Consolo riprende anche da Carpentier. Lo si potrebbe definire pessimismo storico, che nei romanzi del cubano assume connotati più lievi e un andamento spiraliforme, ovvero con piccole ma decisive deviazioni dall’immutabilità del cerchio perfetto, e che invece in quelli di Consolo si fa più radicale e “gattopardesco”. Così, se ad esempio in Il regno e Il secolo ogni fallimento degli ideali porta comunque a un qualche piccolo passo avanti, in Il sorriso e Nottetempo, casa per casa tutto cambia per restare come prima. Nessuna differenza concreta, per la vita dei contadini nell’entroterra siciliano, con il passaggio solo e soltanto politico dai Borboni ai Savoia (Il sorriso); nessun progresso sociale e civile, anzi un imbarbarimento e una deriva autoritaria con l’arrivo dei fascisti sull’isola (Nottetempo). E la spirale, simbolo millenario e forma barocca presente pure in Il sorriso, assume i lugubri, materialissimi connotati del carcere dove finiscono i braccianti, i subalterni, gli ultimi della società. Sono i sotterranei del Castello Gallego di Sant’Agata di Militello, edificio dove oggi ha sede la Casa Letteraria Consolo. Sia detto di sfuggita, anche in Il regno compare un castello, a ulteriore parallelismo: è la Citadelle Laferrière voluta dal primo e unico re negro di Haiti, Henri Christophe, per i suoi labirinti degna erede delle carceri piranesiane. Non stupirà che i protagonisti di entrambi gli scrittori siano spesso intellettuali messi di fronte ad autentiche rivoluzioni, o comunque a cambiamenti epocali, dalle grandi speranze e dai rovinosi sviluppi. Lo sono Esteban e Sofía, i rampolli di una buona famiglia habanera che vivono sulla loro pelle tutta l’ambiguità della Rivoluzione francese nel Nuovo Mondo (Il secolo). Ancora di più lo è Enrico Pirajno, barone di Mandralisca, che all’alba dell’Unità d’Italia fa i conti con un massacro di notabili per mano dei contadini in rivolta ad Alcara Li Fusi, e con la conseguente fucilazione sommaria di alcuni degli insorti da parte dell’esercito garibaldino (Il sorriso). Lo è pure Pietro Marano, giovane maestro di scuola dalle simpatie socialiste che, nel cefaludese dei primi anni venti, finisce coinvolto negli scontri con le squadracce e si ritrova costretto a fuggire in esilio (Nottetempo). Su un piano diverso e più “metafisico”, ma non per questo imparagonabile, rientra nel novero anche Fabrizio Clerici, pittore lombardo che viaggia per una Sicilia settecentesca dai contorni quasi di fiaba, senza dubbio, e però non priva di piccoli quadri che accennano alle secolari ingiustizie dell’isola (Retablo). In aggiunta, durante il suo itinerario Clerici si imbatte in una ghigliottina, elemento già evidenziato da Salvatore Grassia: è un nuovo omaggio a Carpentier, oltre che all’esemplare della “Macchina” esposto a Trapani. Fra i due autori esiste poi un’intersezione nel richiamo ad altri mezzi artistici. Si potrebbe ricordare la presenza della musica, che ispira nell’andamento, nel ritmo o nella suddivisione dei capitoli almeno tre romanzi di Carpentier (il breve La fucilazione, Concerto barocco e La consacrazione della primavera), e che in Lo spasimo di Palermo fa da contrappunto pure visivo, con lo spartito dello Stabat Mater di Emanuele d’Astorga, al drammatico finale. Ma è soprattutto la pittura che rappresenta la più nitida forma di “intrusione” condivisa da Carpentier e Consolo. Basti pensare alle didascalie di I disastri della guerra di Goya, citate tanto in Il secolo quanto in Il sorriso come commento e compendio a scene di violentissima, sanguinosa devastazione. Inevitabile che le vere e proprie incisioni di Goya diventino un riferimento figurativo immediato, benché implicito. Vale la pena accennare anche al fatto che entrambi questi romanzi, di nuovo Il secolo e Il sorriso, sono scanditi nei loro intrecci dall’apparizione sistematica e significativa di un dipinto ripreso dalla realtà: in ordine, il primo è Esplosione in una cattedrale, o Il re Asa che distrugge gli idoli, del misterioso Monsù Desiderio, mentre il secondo è ovviamente il Ritratto d’ignoto di Antonello da Messina. Resta un ultimo punto di contatto da considerare, uno dei più lampanti e dei più difficili allo stesso tempo. Per il linguaggio, per le forme, per l’ispirazione in senso lato, sia Carpentier che Consolo si ritenevano scrittori barocchi. Ciascuno dei due reinterpreta questa categoria a proprio modo, e intendendola in maniera almeno parzialmente diversa da come la si concepiva nel Seicento. Il problema di un confronto approfondito tra i loro rispettivi e differenti “barocchismi”, operazione che in ogni caso qui risulterebbe impossibile, è a monte: Consolo conobbe Carpentier attraverso le traduzioni italiane, prima Longanesi, poi Einaudi e Sellerio, che quindi andrebbero scandagliate a loro volta in una sorta di complesso triangolo comparativo. Eppure, al di là di alcune caratteristiche generiche come la prosa molto densa, nel loro stile si può cogliere un elemento barocco che li accomuna e che, soprattutto, balza quasi subito all’occhio. Si tratta dell’archeologia linguistica. Da una parte, il recupero che Carpentier fa di vocaboli castigliani in disuso, ormai vivi solo in America Latina, con lo scopo dichiarato di rivendicare una specifica identità continentale, separata da quella della penisola iberica. Dall’altra, i tanti localismi che Consolo utilizza con l’obiettivo di salvare dialetti e varietà regionali dalla scomparsa. Con ogni probabilità è soltanto una coincidenza, questa sì, tra due autori che non si incontrarono mai di persona, ma che comunque intrattengono uno straordinario e sorprendente rapporto letterario.

CONSOLO, VOCE PLURIMA

Fabio Rodríguez Amaya

Radicato nell’Italia profonda, nauta nell’immensità delle lingue, maestro del barocco connaturato alla sua nativa Sicilia, Vincenzo Consolo (Sant’Àita di Militieddu 1933 – Milano 2012) si è impegnato come poeta – senza aureola né allori – a esplorare la storia e i suoi protagonisti: la natura, l’individuo, la società. Come ogni buon scrittore del Sud era memore, allo stesso tempo, dell’oscuro e del cristallino Siglo de Oro della Spagna imperiale e cattolica, così come dell’arte e delle letterature europee, di classici quali Omero, Virgilio, Dante, Rabelais, Montaigne, Cervantes e Manzoni, dei suoi contemporanei più vicini in quanto a ingegno e immaginazione come Joyce, Beckett e T.S. Eliot e, ovviamente, dei siciliani, tutti. Dal suo esordio come autore nel 1963, con La ferita dell’aprile, Consolo si è dedicato a indagare con gli strumenti della scrittura e in maniera iconoclasta la materia, la società e la cultura. Motivato, in principio, dall’urgenza di nominare le cose nelle loro minuzie e nei loro limiti immaginabili e impossibili, senza alcun indugio assumendo come propria eredità il crogiolo in cui convergono espressioni, popoli e idiomi di quella che una volta era la capitale del mondo e oggi patisce nella decadenza che imperversa. Consolo è stato una figura marginale per la sua condizione periferica rispetto al centro, e perché migrante dalla provincia marinara e contadina all’urbe industriale. Però non era marginale il suo sapere. Si è impegnato con la letteratura, l’arte e la società civile nell’ottica militante di esercitare il mestiere della lettura e della scrittura come migliore possibilità di conoscenza e di critica. L’ha fatto contrapponendosi a tutto ciò che uniforma, annulla e aliena nella società industriale e postindustriale, nella vertigine propria dell’epoca delle comunicazioni di massa, alla vigilia dell’avvento di Internet. Nomade quanto sedentario, l’ha fatto radicato alla terra siciliana, ancorato allo Ionio e al Tirreno come i suoi Antonio di Giovanni de Antonio, il Mandralisca, nobile erudito cefalutano, e Interdonato, democratico illuminista, tutti personaggi di Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976), vela di maestra della sua produzione. Consolo ha affrontato non poche sfide, distante da tutti e al contempo vicino a tutti, in primo luogo agli artisti (con testi oggi raccolti in L’ora sospesa). Così come al suo amico e maestro Lucio Carlo Francesco Piccolo di Calanovella, insieme alla moltitudine di personaggi immaginari e reali che popolano le sue finzioni. Ciò di cui si è occupato spazia dalla Sicilia e dal Mezzogiorno, teatro della “nobile” spedizione di Garibaldi e dei misfatti borbonici e sabaudi, all’Italia degli anni di piombo, passando per la repubblica, il compromesso storico e il ’68, oggetti sia di ripulsa che di fascino. L’ha fatto esplorando il morbo delle ideologie e le piaghe del fascismo, della mafia, della corruzione, del terrorismo e della politica. Senza mai dimenticare la propria cornice culturale, specie il Gruppo 63 e la sua ambiguità, la doppia morale mostrata da un buon numero dei suoi membri, rinserrati nel narcisismo, nel lassismo dell’“intelligenza liberamente oscillante” (Mannheim dixit), che per la sua collocazione equivoca si arroga il diritto di offrire una visione “oggettiva” della società con il fine apostolico di contribuire alla sua conoscenza, alla proliferazione di chimere, alla costruzione narrativa della Storia, anfiteatro di “menzogna e sconfitta”, a scapito di quella autentica. A differenza di molti suoi contemporanei, non è difficile pensare a Consolo nel discreto silenzio delle sue ricerche, del suo lavoro giornalistico e saggistico per poter sopravvivere. Lui, così simile e così diverso dall’amico e maestro Leonardo Sciascia (il racalmutese di L’ordine delle somiglianze e delle Epigrafi); simile e diverso dai non pochi siculi-isole, isolati, o dai peninsulari impossibilitati a emergere come un arcipelago che si oppone alle stoltezze e alle miserie della specie umana. Prigionieri, come lui, di quel fantasma del passato, ingombrante, che vede l’Italia intera come un territorio d’eccezione da circa tre millenni, nonostante il tramonto definitivo della Trinacria, la decadenza borbonica dei Salina (e dintorni), mirabilmente messa a fuoco da Giuseppe Tomasi di Lampedusa, e i contrastanti miti risorgimental – repubblicani, gli orrori dei conflitti, le promesse del secondo dopoguerra, la repressione statale e poliziesca, il sogno della ricostruzione, la deturpazione degli immaginari colonizzati dai dogmi monoteisti o dalle ottuse dottrine politiche, l’effimera “dolce vita”, la bolla del boom economico e la caduta abissale del Paese nell’ultimo ventennio (di cui Consolo è stato grande testimone). Si è preso questi oneri non per il riconoscimento ufficiale, non per ingraziarsi le frivole voci degli ideologismi, ma per la sua passione e per la decisa autonomia intellettuale, tradotta in una scrittura espressionista per nulla compiacente. Una scrittura, anzi, dalla più lucida eresia nei confronti del romanzo, soprattutto storico (e isterico). Con polso fermo, in uno stato naturale di alterazione della coscienza, unito al fardello della sua origine semiproletaria, Consolo travasa la sua esperienza vitale e culturale in narrazioni inedite, in palinsesti difficili, multiformi e proliferanti che riverberano nel sincretismo, nella sorpresa, nello straripamento, sempre a debita distanza dallo sperimentalismo, dalle postavanguardie, dall’antiromanzo o dalle mode effimere del mercato editoriale. La sua personale maniera di articolare gli eventi, di porsi e di collocare i lettori davanti all’entelechia della Cultura, davanti alla lingua (dai più poco o mal conosciuta), di andare intrecciando storie e aneddoti preferibilmente statici, ma pure itineranti, attraverso linguaggi che riecheggiano un’oralità stratificata, una testualità composita, a reminiscenza di autori e opere e voci e forme e stravaganze e invenzioni che le popolano; proprio questa personale maniera di raccontare innalza i suoi lavori a paradigmi della babele contemporanea. La sua narrativa, come un fiume in piena, è sfuggente, polimorfa, polifonica, plurilingue, plurivoca e, allo stesso tempo, multisonante, magmatica e leggera, intricata come un frattale, ardua come un dedalo, complessa come la struttura a forma di chiocciola del carcere del Castello Gallego a Sant’Agata, o come il limaçon, o come un prospetto spiraliforme e labirintico di Escher. Senza considerare i temi e gli argomenti che tratta con disinvoltura, ancorati alla conoscenza storica, all’etica e alla materia (Consolo è uno scrittore materialista), mi riferisco alla dedizione disciplinata e alla lucidità della distillazione linguistica, allo sguardo macroscopico, all’attenzione maniacale per la forma che, sempre frenetica, succulenta e ingegnosa, è capace non solo di fondere idee, immagini e metafore, ma pure di muovere per il testo i fatti, le voci narranti e pure i lettori con mille espedienti. E questo insieme diventa l’apice della sua narrativa. Un insieme corroborato dall’estro, dal volo immaginativo che si riversa nelle tante enumerazioni al limite del caotico, e che non vi sconfina solo grazie all’ordinata sapienza che timona la scrittura. E sono decisive per strutturare i suoi lavori molte varietà prospetta una correlazione fra antifascisti caduti e caduti di mafia. E la stabilisce sulla base del concetto di “nemico interno”, del parallelo nazifascismo – mafia: l’uno e l’altra accaniti contro ogni dinamica democratica circolare (D. Dolci), legati a una visione verticistica autoritaria escludente. In quest’ottica non mancherebbero, anzi purtroppo avanzerebbero, alla Sicilia, lapidi commemorative. Ma non sono certo gli omaggi floreali, i sermoni rituali, il modo migliore di onorare i vecchi resistenti, tra i quali furono anche alcuni siciliani e meridionali sorpresi al Nord dall’armistizio e dalla farsa tragica della Repubblica Sociale di Salò, o i nuovi resistenti antimafiosi. Il cui nuovo nemico – “loro e nostro” – è ben definito in una carrellata storica che ripassa i decenni dell’Italia repubblicana, dalla metà degli anni quaranta in poi, su uno sfondo che rimanda a L’olivo e l’olivastro (1994) e sembra quello disegnato dal racconto eponimo di La mia isola è Las Vegas (pp. 215-217): “Ma non è questo che vogliono i morti per un ideale, per una causa giusta, non vogliono riti e fiori: gli uni e gli altri si consumano e appassiscono, diventano presto stanchi e vuoti simboli, buoni solo per la nostra consolazione. Questi morti non vogliono mai perdere il valore del loro sacrificio: valore di lacerazione, di inquietudine, di furore e di lucidità delle nostre coscienze. Vogliono che non dimentichiamo per un attimo la orribile faccia del loro e nostro nemico. Di quello che ieri armava la mano del bandito Giuliano per uccidere inermi proletari e, con l’Indipendenza, voleva trasformare questa nostra terra in un’isola di bische e di bordelli, di traffico e consumo di droga, di vizio e degradazione, di assoluto sfruttamento di molti e assoluto privilegio di pochi. Di quello che in questi quarant’anni ha distrutto e imbarbarito quest’isola di umanità e di cultura, ha distrutto le nostre campagne, i nostri paesi, le nostre città, i nostri monumenti, ha fatto versare lacrime amare ai nostri emigrati in Germania o in Svizzera. Di quello che ha fatto della Sicilia, di Palermo la testa di ponte e una delle centrali più importanti delle multinazionali del traffico della droga, dei sequestri, del crimine di ogni sorta. Di quello che se ne sta tranquillo e beato nel suo palazzo, nella sua villa, scorrazza sul suo yacht, accumula miliardi che trasferisce in banche estere”. L’explicit dell’articolo non può essere – sia concesso il bisticcio di parole – più esplicito e spiega il gelo della Sicilia ufficiale su Consolo, la profonda antipatia nei suoi riguardi, perché Consolo aveva poco o nulla da compatire, simpatizzare, da sentire in sintonia con tale Sicilia, la vasta zona grigia (P. Levi), se non del consenso, del non dissenso mafioso. Ecco ancora un altro collegamento irrituale alla storia del Novecento europeo, alla più grande tragedia del secolo scorso: le deportazioni e l’annientamento dei Lager; e un ulteriore rimando alla grigia nebbia del consenso fascista miracolosamente dissoltasi nell’immediato secondo dopoguerra. Consolo punta il dito decisamente verso l’uomo della strada che non ha fatto il salto del divenire cittadino consapevole, compartecipe della casa comune, della cosa finalmente pubblica, di tutti. Ma ricorre al plurale (“tutti conosciamo […] sappiamo […] ha bisogno di noi, ognuno di noi”): fa appello agli altri e a sé, non si erge a giudice, è uno dei (si augura) tanti a volersi liberare di non metaforici sambenito e coroza, dei reali lacci e lacciuoli mafiosi, del “nostro nemico” comune. Antimafia non è il delegare la lotta ai martiri, agli eroi, l’abbandonarli a combattere da soli in prima linea e il piangerli e onorarli da morti; è l’orgoglioso prendere coscienza del proprio ruolo di cittadini, di soggetti politici avulsi dai condizionamenti, dalle manipolazioni. Ecco perché – per loro e per noi – non possiamo, non dobbiamo dimenticarci: “Della faccia di questo nemico invisibile ma che tutti conosciamo, anche delle facce a tutti note dei loro compari, protettori e protetti, che a Palermo e a Roma da tanti, tanti anni occupano le poltrone del potere politico e amministrativo. E vogliono quei morti che sappiamo che la lotta alla mafia non ha bisogno di eroi soli e isolati da immolare, che sono ingiusti i sacrifici dei sindacalisti, dei La Torre, dei Dalla Chiesa; che la lotta alla mafia ha bisogno di noi, di ognuno di noi, nella nostra limpida coscienza civile, della nostra ferma determinazione; che è lotta politica, lotta per la nostra civiltà”. València, 24 giugno 2022

TRAVESTIMENTI E FUTURO

Davide Di Maggio e Nino Sottile Zumbo

“Scattando, senza sosta, ha messo in salvo, condotto a riva i relitti di un naufragio culturale. Immagini che testimoniano una trasformazione sociale epocale, la fine della civiltà contadina”. (Vincenzo Consolo su Giuseppe Leone) Una fotografia non mostra soltanto qualcosa che appartiene a chi l’ha scattata, così come non riguarda esclusivamente quello che vi è stato colto in un particolare momento in un luogo specifico. Le immagini piuttosto vivono in mezzo a questi due poli, il loro creatore e il loro soggetto, e aggiungono qualcosa che non si trova né nell’uno né nell’altro. Questo avviene perché esse, oltre a significare, circolano in un sistema di relazioni, di riferimenti molteplici e di echi lontani. Anche le immagini che compongono le fotografie di Giuseppe Leone (Ragusa 1936), nell’ambito di un intenso lavoro portato avanti negli anni, superano con forza l’idea di una fotografia esclusivamente autoreferenziale e autobiografica, nonostante che anche questi elementi vi rientrino come una delle loro caratteristiche. Nel corso di quasi settant’anni di attività il fotografo siciliano ha percorso in lungo e largo la sua isola. Non c’è villaggio dell’entroterra o paesino della costa che non abbia fotografato, prima che uno dei due sparisse. L’incontro, all’inizio degli anni settanta, con l’antropologo Antonino Uccello lo spinge con maggiore decisione verso la fotografia antropologica, quella che indaga costumi, ma anche il duro lavoro, le condizioni sociali della Sicilia interna. Sebbene egli ami definire le sue immagini “neorealiste” perché legate al mondo operaio, contadino, alle miniere d’asfalto del ragusano. La sua fotografia però va oltre la poetica neorealista per avvolgere con una intensa pietas i soggetti, soprattutto quando rappresentano 9 Vincenzo Consolo a Noto, anni ottanta. Riproduzione riservata Vincenzo Consolo a Noto, anni ottanta. Riproduzione riservata dell’italiano: arcaico, classico, aulico, gergale, accademico, popolare e attuale, meticciato a dialetti come l’antico sanfratellano, gallo-italico, con tutte le loro sfumature fonetiche, lessicali e grafiche. Decisiva, pure, la contaminazione con il latino, il francese, l’inglese, lo spagnolo e il portoghese, oltre ai documenti e alle notizie minuziosamente trascritti come intermezzi, appendici e contrappunti alla finzione. Cosa dire della tensione tra lo spazio-tempo dell’Essere, la Sicilia e il Sud intero, e il tempo – spazio dello Stare, Milano e il Nord, tra meridionale e settentrionale, tra urbano e rurale di questa Italia unita a forza? Gli spazi senza tempo della gestazione e della devastazione, intensi nella sua isola circondata dall’onnipresente Mediterraneo, culla dell’Occidente, fucina di popoli e saperi dall’epoca preistorica. La Sicilia, “madre terra di uomini e dèi”, il centro dove si amalgamano sicani ed elimi, fenici e greci, latini e bizantini, arabi e normanni. La Sicilia è il luogo privilegiato della narrativa, della saggistica e della pubblicistica di Consolo, perché proprio lì prende vita, tra città, borghi, monumenti, processioni, resti di civiltà, vulcani, isole, spiagge, colline, botteghe, commerci e campi, nella contraddizione e nel dubbio, nel conforto, nella festa e nel lutto. È l’epicentro della memoria e dell’oblio: un passaggio obbligato per il viaggiatore e per il corsaro, per l’erudito e per l’analfabeta, per il militare, il togato e il prelato. I testi e le narrazioni di Consolo sono intrisi di nostos, di assenza; arricchiti da un limpido raziocinio e da un discorso prolisso in un continuo viavai fra mito e storia, archeologia e botanica, sapienza ed evidenza, teoria ed empirismo: tutti elementi che rendono la sua opera una geogonia dove confluiscono organico e inanimato, cromatismi e sapori, tonalità e aromi, oggetti materiali e immateriali che con prelibata precisione ne definiscono la scrittura. È l’imperante regno dei sensi siciliano, la Sikelia, con il suo retrogusto di terra nera e terra rossa, argilla gialla e argilla grigia, lava, zolfo, pomice, pietre, salnitro, sabbia, iodio, arancine, provola, canestrato, melanzana, sarde, totani, basilico, granite, vite, olio e grano, insomma di qualsiasi frutto di terra e di mare. Cosa dire del suo verbo torrenziale, nominale e a tratti estremo? Del costante contrappunto fra violenza e ordine, follia e razionalità, scienza e superstizione, armonia e disordine, conservazione e annichilimento, sempre in tensione tra loro, senza dialettiche improvvisate, e strutturate nelle unità indivisibili anteriori ai tempi del silenzio, del caos e del nulla che proprio Consolo rinnova e attualizza. Per me sono stati di grande fascino la sua apatia irriverente e timorata, il suo sorriso vigile e beffardo, identico a quello dell’Ignoto del Museo Mandralisca a Cefalù. E identico nei ritratti dei siciliani Giovanna Borgese, Giuseppe Leone, Ferdinando Scianna. È quel sorriso che tra rivolte e dissertazioni, viaggi e persecuzioni, incontri, deliri e verità, fa diventare lo studio dell’erudito malacologo Mandralisca come quello del San Girolamo di Antonio di Giovanni de Antonio, e ciò rinsalda la sapienza di Consolo e il suo piacere per la pittura. Fra la sua contenuta produzione narrativa (Consolo sapeva che pubblicare un libro all’anno è delirio, vanità e deriva), in particolare Il sorriso, Retablo (1987), Nottetempo, casa per casa (1992), L’olivo e l’olivastro (1994) e Lo spasimo di Palermo (1998) sono stati per me segnavia nell’impossibile compito di vivere e sognare in italiano. Ma pure il resto della Conca d’Oro che sono i suoi testi occupa un posto d’eccezione nella mia memoria e nelle mie letture di persona sradicata dal suolo colombiano, poi abbracciata dall’italiano, mia nuova patria. A lui come a Pirandello, Verga, Vittorini, Bufalino e Sciascia, e a pochi altri (Carlo Levi, i partenopei), devo la mia preferenza per il Sud, per il verosimile, per il possibile, per questo modo di trasformare il racconto, grande menzogna, in una grande verità. Ripercorrere i libri di Consolo dà poi ulteriore lustro ai miei connazionali, già giganti, che sono Borges, Carpentier, Lezama, Sarduy, García Márquez, Espinosa e Burgos Cantor. Perché, come loro, Consolo ha saputo amalgamare generi, modi, stili, saperi e linguaggi, fino a diventare una voce plurima: la propria e quella di tutti. La voce alta, media, bassa, aulica, triviale, gergale, personale, collettiva del pescatore, del contadino, del nobile, dell’intellettuale, del paria, del sognatore, del lacchè, del proletario, dell’ingenuo, dello scienziato, del corrotto, del politico, del rivoluzionario, del prete, dell’assassino. E così trasfigura il mondo circostante in parola diamantina, riscrivendolo e, al contempo, rifondandolo nel linguaggio sostantivo e mai aggettivo, fino all’estremo del barocco (come in Retablo). Il tutto nonostante un certo pausato e trasognato disincanto. D’altronde, per noi del Sud, “la nostra arte è sempre stata barocca: una costante dello spirito che si caratterizza per l’orrore del vuoto, della superficie nuda, dell’armonia lineare, della geometria; uno stile dove attorno all’asse centrale – non sempre palese o evidente – si moltiplicano quelli che potremmo chiamare nuclei proliferanti […]. Non dobbiamo temere il barocchismo, che è la nostra arte […], creata per la necessità di nominare le cose. Perché ogni simbiosi, ogni meticciato genera un barocchismo”. Sono parole del cubano Alejo Carpentier (insieme a Borges l’autore ispanoamericano preferito da Consolo, ben letto e conosciuto), che del barocco è maestro. A lui il santagatese rispondeva virtualmente: “La mia cifra è barocca. […] D’altra parte quasi tutti gli scrittori siciliani sono barocchi, anche quelli che sembrano scrittori logici come Sciascia, Lampedusa, Brancati […]. La Sicilia è un crogiolo di civiltà, babele delle razze e delle lingue”. Consolo ha saputo mettere in luce le ipocrisie e le cadute della storiografia, della propria attualità e del suo divenire, quelle della fragile, irresoluta e oscillante collocazione dell’intellettuale davanti all’urgenza di cambiamenti radicali, quelle dei sofismi rivoluzionari e dei cavilli del compromesso, e anche quelle della disperanza in un mondo di tenebre. È stato exemplum nel leggere e nel tradurre la condizione umana, miserabile o proba, eterea o concreta, tronfia o infelice, travasata in un crogiolo di semi, sememi, morfemi, stilemi, locuzioni e composti sintagmatici espatriati dalla lingua di oggi. Tuttavia feraci come le onde e le sartie gonfiate dal vento, oppure inariditi dalla violenza, dal fanatismo e dalle stragi (che aggrediscono la lingua, come avvertiva pure Pasolini). Modulati nel fraseggio, nell’armonia, nella cadenza, nel ritmo, nei contrasti e nella musica fatta parola. Musiche e polifonie sognate da un poeta della forma, che incarna la voce profonda dei senza voce, le grida e i silenzi del mare, del vento, del fuoco, della neve e dell’estio. Soprattutto, per Consolo, la voce dell’uomo e del suo astio per una società iniqua, che continuerà ad ammutolire e a violentare e a perseguitare e a cacciare e a fucilare e a seppellire i più umili e gli emarginati e i rifiutati e i paria e i condannati e gli esiliati dal Regno dell’Uomo che è il Regno di questo Mondo (il Sale della Terra). Però ci restano le voci; voci come la sua. Perché una cosa non c’è, ed è l’oblio, come insegnano Omero e Dante e Cervantes e Shakespeare e Borges e Saramago. Come Consolo anche loro maestri del barocco.

Anno II, n. 9,

luglio-agosto 2022

Figlio errante d’Ermocrate ricordo di Vincenzo Consolo

Il posizionamento di Consolo: per un’etica dell’iperletterario

foto Giovanna Borgese

Daniel Raffini

In una recensione del 5 maggio 1985 pubblicata su «Il Messaggero» alla favola teatrale Lunaria di Vin­cenzo Consolo il poeta Giovanni Raboni scriveva:
Ciò che il testo, nella realtà delle sue risultan­ze espressive, lascia affiorare, è piuttosto un’i­perletterarietà elusiva, elegante e malinconica, una stravaganza capace di conciliare liricità ed erudizione, un’ossessione verbale alleviata da una sorta di pietas ironico-illuministica1

1 G. Raboni, E nevicò con cocci lucenti di luna, «Il Messaggero», 5 maggio 1985, p. 5. .

Nel giro di una frase Raboni riesce a condensare alcune delle caratteristiche salienti della scrittura consoliana. Per iperletterarietà in questo contesto si intende una scrittura che si configura come spic­catamente letteraria. Tale risultato è raggiunto da Consolo principalmente attraverso due vie: da una parte una scelta linguistica caratterizzata dal plurilin­guismo, volta al recupero della ricchezza della lingua a livello geografico, temporale e diastratico; dall’altra c’è l’ipertestualità, definita da Gérard Genette come «ogni relazione che unisca un testo B (che chiamerò ipertesto) a un testo anteriore A (che chiamerò, natu­ralmente, ipotesto)»2

2 G. Genette, Palinsesti. La letteratura di secondo grado, Einaudi, Torino,

1997, pp. 7-8. . Nelle sue pagine Consolo riesce a incastonare tutta, o quasi, la tradizione letteraria: vi ritracciamo Omero, Dante, Eliot, Leopardi, Manzoni – l’elenco sarebbe davvero lungo. La pagina di Consolo è un distillato di letteratura: lo scrittore seleziona dal­le pagine degli altri scrittori e dalla storia linguistica ciò che gli sembra utile o degno di essere salvato e lo 4 passa attraverso un filtro che ci restituisce una scrit­tura pura, che a tratti si fa eterea, nella sua smania di nominare le cose e nella sua difficoltà di farlo.

I tre aggettivi scelti da Raboni per definire l’iperlet­terarietà consoliana appaiono quanto mai esatti: essa è elusiva, i rimandi alla tradizione infatti si inseriscono all’interno di un contesto in cui i riferimenti si confon­dono, si amalgamano con la scrittura, diventano allu­sione, tonalità di un racconto; è elegante, perché spes­so sceglie i registri alti della comunicazione e anche quando vira verso quelli più bassi (come il dialetto o il gergo), riesce a conferirgli un’aura di particolare ricer­catezza; infine, l’iperletterarietà di Consolo è malinco­nica, perché fa riferimento a qualcosa di perduto, che sia il distacco dalla terra natale, la fine del mondo con­tadino, il livellamento operato dalla lingua dei media.

La letteratura di Consolo è una letteratura dal li­mite, ci regala lo sguardo sulla cosa un secondo prima che essa decada nel non essere. È proprio questa ma­linconia ciò che collega l’iperletterarietà all’altro ele­mento centrale, e apparentemente discordante, della scrittura di Vincenzo Consolo: l’etica, la compromis­sione costante della scrittura con il contemporaneo e dunque l’impegno. Consolo affida ai suoi romanzi una funzione “metaforica”: parlare della storia per parlare del presente. In realtà c’è più di questo: attraverso il racconto degli eventi del passato Consolo scandaglia i mali imperituri della storia, la sopraffazione dell’uo­mo sull’uomo, il dolore e la tentazione dell’annienta­mento. «La storia è sempre uguale»3

3 V. Consolo, Lo spasimo di Palermo, Mondadori, Milano, 2013, p. 5. ,

scrive Consolo nella prima pagina de Lo spasimo di Palermo, roman­zo che fin dal titolo ci fa percepire lo strazio e che in epigrafe riporta significativamente una battuta di Prometeo dal Prometeo incatenato di Eschilo: «Il rac­conto è dolore, ma anche il silenzio è dolore». La lette­ratura di Consolo si fa carico di questo dolore, decide di rompere la barriera del silenzio per cercare una via di comunicazione che interrompa il male.

In un’intervista rilasciata a Irene Romera Pintor, Vincenzo Consolo ha parlato in questi termini delle ragioni profonde delle sue scelte narrative:

Credo di avere un progetto letterario che per­seguo da parecchi anni. Consiste nel cercare di raccontare quelli che sono i momenti critici della nostra storia: momenti critici in cui c’è stato uno scacco, una sconfitta, un’offesa dell’uomo.4

4 V. Consolo, Autobiografia della lingua. Conversazione con Irene Romera Pintor, Ogni uomo è tutti gli uomini, Bologna, 2016, p. 13.

In un’altra intervista, Consolo lega tale scelta al conferimento di una funzione alta ed etica alla letteratura:

Io credo che la letteratura debba […] impor­si appunto come contro-storia, come qualcosa di diverso rispetto alla cronaca ufficiale. In ogni epoca sono sempre esistite e continueranno ad esistere, oggi più che mai, le zone anonime della marginalità, le sacche di maggior dolore, umilia­zione e sfruttamento (isolate ed estranee al flus­so principale della storia). Supremo compito del­la letteratura è proprio quello di rappresentare e dar voce a questo perenne ghetto di esistenze.

In questa propensione verso gli offesi e gli sconfitti c’è la valenza etica della scrittura consoliana. Ancora nell’intervista rilasciata a Irene Romera Pintor, parlan­do del suo sguardo sul Risorgimento siciliano espres­so nel romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio, Consolo affermava di aver narrato «con gli occhi degli emargi­nati, dei contadini, autori di una rivolta popolare e di una strage, e poi condannati e fucilati» (p. 13). Il sorriso dell’ignoto marinaio racconta, tra le altre cose, la rivol­ta contadina di Alcara Li Fusi, terminata tragicamente con l’uccisione dei ricchi del paese e con una serie di altri crimini, che saranno poi condannati all’arrivo del­le truppe garibaldine. Da questa scelta notiamo come lo sguardo di Consolo sia più complesso di quanto po­trebbe sembrare: non è una difesa delle vittime, ma una condanna della storia, in cui meccanismi millenari di sopraffazione determinano un circolo vizioso di vio­lenza e dolore. In una delle pagine finali del romanzo, il barone Mandralisca si fa portatore di quello che pos­siamo considerare il pensiero dell’autore: «E cos’è stata la Storia sin qui, egregio amico? una scrittura continua di privilegiati»6

6 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano, Mondadori, 1987, p. 88. .

La scrittura di Consolo, allora, cerca di ridare voce a chi ne è stato privato. Il codice linguistico pare però inappropriato a questa restituzione, perché costruito dagli oppressori a loro uso e vantaggio. La

5 riflessione è ancora veicolata dal personaggio di Man­dralisca: «Ed è impostura sempre la scrittura di noi co­siddetti illuminati, maggiore forse di quella degli ottusi e oscurati da’ privilegi loro e passion di casta»7 7 Ibidem. .

Si nota insomma come la questione della lingua non sia per Consolo un fatto neutro; ma viene comun­que da chiedersi come si concili la scelta di una lingua iperletteraria con l’impegno professato dallo scrit­tore. A spiegarcelo è Consolo stesso, nell’intervista a Irene Romera Pintor (pp. 8-11). La scelta linguistica di Consolo pare connotata storicamente, è il risultato dell’epoca: scrittori come Sciascia, Moravia e Calvino – appartenenti a una generazione precedente, quella che aveva vissuto direttamente il fascismo e la guerra – scelgono «uno stile di tipo razionalistico, di assoluta comunicazione […] uno stile alla maniera illuministica di stile francese». Consolo si colloca cronologicamen­te e idealmente dopo di loro, quando «la speranza nei confronti di una nuova società che si sarebbe dovuta formare, di un nuovo assetto politico e di un maggiore equilibrio sociale, […] era caduta» a causa dell’instau­rarsi «di un potere politico che replicava esattamente quello che era crollato». La scelta stilistica di Consolo, dunque, non è più «nel segno della speranza», ma è «nel segno dell’opposizione» e rappresenta «la rottura con il comune codice linguistico, con l’adozione di un altro codice che rappresentasse anche le periferie della società». Le motivazioni della scelta linguistica di Con­solo non sono «solo di tipo estetico», ma anche «di tipo etico e politico». «Il grande deposito linguistico» lascia­to in Sicilia dallo stratificarsi di popoli diversi è così di­ventato il primo repertorio della scrittura di Consolo, uno stile di opposizione, contro l’appiattimento della lingua della comunicazione, che rappresentava un im­portante ingranaggio di quella macchina di integrazio­ne e asservimento che negli stessi anni Pasolini andava descrivendo, con concetti e parole assai simili a quelli consoliani. La consonanza con Pasolini si nota, d’al­tronde, anche nell’insistenza sul concetto di mutazione antropologica, sul racconto della fine del mondo con­tadino sopraffatto dalla nuova realtà industriale, che è una delle fonti di quella malinconia che pervade la scrittura consoliana. La perdita delle radici, la cancella­zione del passato, che sia storico o linguistico, è ciò che angoscia maggiormente Consolo. Se il mutamento non si può fermare, tuttavia ci si deve sforzare per conser­vare la memoria di ciò che era prima:

Credo che sia proprio questo il dovere della let­teratura, il dovere della memoria. Non perdere il contatto con le nostre matrici linguistiche, che era­no anche matrici etiche, matrici culturali profonde. Perdere questo contatto significa perdere identità e perdere anche la funzione della letteratura stessa, perché la letteratura è memoria e soprattutto me­moria linguistica. (Autobiografia della lingua, p. 12)

La trasmissione della memoria, fine ultimo della scrittura, che in essa trova il suo valore etico, non vuol dire per Consolo solamente raccontare i fatti del passato, ma vuol dire anche inglobare all’inter­no dell’opera la tradizione linguistica e letteraria, in protesta contro il livellamento della lingua italiana sul linguaggio dei media e la perdita dei valori che l’arte ha saputo esprimere nel corso dei secoli. Per questo possiamo affermare che l’iperletterarietà in Consolo è prima di tutto una missione etica, uno strumento per incidere sul presente, una voce di protesta. Consolo è insomma uno di coloro che me­glio hanno saputo inserirsi nell’etichetta di “scrit­tore impegnato”, riuscendo a rendere pienamente onore a entrambi i termini del sintagma. 6

Giugno 2022 Editora Comunità Rio de Janeiro – Brasil

Le figure femminili di Vincenzo Consolo

Rosalba Galvagno

Per quanto le pagine di Vincenzo Consolo siano disseminate di figure femminili, per alcune di esse non è facile delinearne i contorni o il profilo secondo i moduli tradizionali del ritratto o del personaggio a tutto tondo, anche perché spesso tali figure sono metaforizzazioni di oggetti naturali o culturali. La Sicilia ad esempio (e con essa il Mediterraneo tutto), nella sua complessità di «esistenza» e di «storia», di bellezza e di orrore, di attrazione e di repulsione, di natura e di cultura, di storia e di arte, di guerra e di pace, di mafia e di eroi, è sicuramente l’oggetto femminile più emblematico della scrittura di Consolo. Tutti gli altri non sono che degli avatars, dai più
orridi ai più teneri, di questo oggetto fondamentale che egli ha inseguito durante tutto il suo percorso di uomo e di artista, approssimandosi forse di più ad esso e perfino attingendolo (immaginariamente, s’intende) nei resti archeologici, nelle pietre antiche. I personaggi femminili consoliani consistono sovente in semplici nomi di figure mitologiche o di sante, in mere elencazioni caotiche di questi nomi, che si configurano come delle vere e proprie antonomasie. Nomi di divinità o ninfe mitologiche
talvolta accompagnati da un predicato (Afrodite, Artemide, Aretusa, Ciane, Demetra, Persefone, Hera, Athena, Venere celeste, Diana delle cacce, Cerere
delle messi siciliane, Malophòros, Ecate, Medusa, Core, Sfinge, Europa, Scilla, Antigone, Circe, Sirene ecc.); di sante o comunque di figure cristiane (Giovanna d’Arco, Santa Rosalia, Santa Lucia, la Madre, Annunziate, Maddalene, sante Caterine, Immacolate, sante Ninfe o Susanne ecc.).
Ora, queste semplici citazioni onomastiche non sono certo delle eccedenze barocche, dei meri ornamenti retorici, ma sono appunto delle antonomasie
che vanno lette come autentici significanti, cioè nomi. 1 Tutti i romanzi di Consolo sono citati da questa edizione. attraverso i quali il testo veicola ed evoca una pluralità, spesso contraddittoria, del femminile, come accade ad esempio col termine Malophòros al quale è accostato, tra gli altri, il termine mele (miele), che ricorre in altre due pagine dello stesso capitoletto (In Egesta degli Elìmi) del romanzo Retablo, in particolare nel contesto fortemente erotizzato della Confessione di Rosalia Granata: «come fa l’apa sopra la corolla dove al fine s’insinua e suscita il suo mele»1. Questo significante della dolcezza, specie quella erotica e materna, si riverbera anche nel capitoletto successivo (In Selinunte greca), nella mirabile descrizione della dea Malophòros, descrizione generata di fatto dalla prima parte del nome della dea: «e il tempio sacro in fondo e segretissimo in cui nel recesso più interno e proibito era Lei, la Molle, l’Umida, la dèa che porta la mela e che la dona, l’inconoscibile, insondabile padrona» (p. 437), dove a «Molle» si affianca qui il termine «mela», l’attributo proprio della dea, che designa il frutto e connota al contempo la fertilità. Accanto a questi nomi propri femminili appartenenti alla nostra tradizione mitologica e cristiana, incontriamo anche dei nomi comuni di parentela come madre, moglie, sorella, figlia, signora, fidanzata, i nomi cioè dei legami familiari più intimi spesso dolorosamente drammatici, come ad esempio il termine «sorella» riferito all’anonima fanciulla portata in corteo funebre sempre nel capitoletto intitolato In Selinunte greca del romanzo Retablo. O le sorelle di Petro Marano, Lucia e Serafina, intaccate anch’esse dal male catubbo (dalla melanconia) nel capitolo IV, La torre, del romanzo Nottetempo, casa per casa. D’altronde il capitolo VIII, la cui epigrafe è una citazione tratta dalla Nedda di Verga2, si intitola significativamente Le donne, mentre il capitolo X, Pasqua delle rose, introduce la tenera figura di Grazia la Piluchera, l’accogliente amante (prostituta?) di Petro (pag. 731 ss.). Da L’olivo e l’olivastro preme ricordare almeno la Lucia del Seppellimento di Santa Lucia del celebre dipinto di Michelangelo Merisi: Effigiò la santa come una luce che s’è spenta, una Lucia mutata in Euskìa, un puro corpo esanime di fanciulla trafitta o annegata, disposto a terra, riversa la testa, un braccio divergente […]. La luce su Lucia giunge da fuori il quadro, dalla pietà, dall’amore dei fedeli astanti, da quel corpo riverbera e si spande per la catacomba, a cerchi, a onde, parca come fiammella di cera dietro la pergamena. (pp. 828-829) E la stessa madre dello scrittore, toccante e indimenticabile «vecchia Euridice»:
La guardava, ne studiava la faccia, la pelle
sottile e bianca, le venuzze azzurre, il neo sulla
tempia, i capelli fini e lisci fermati dietro con la
crocchia, la bocca a grinze, le orecchie trasparenti,
i buchi allungati dei lobi da cui pendevano gli
orecchini. Ma presto provava imbarazzo, disto-
glieva lo sguardo, gli sembrava di violare l’intimità
indifesa di quella donna ch’era sempre stata
candida, innocente, il suo privato e lento allontanarsi.

[…]
Cosa credeva? Che quella donna, sua madre, fosse rimasta sempre lì, uguale, come il giardino, le barche, le isole, con il ricordo di lui sempre acceso? Il dolore per gli altri figli andati, scomparsi? Aveva mollato pure lei (ma come, quando?) e s’era messa a camminare per la sua strada. Voleva annullare quel tempo, ritornare, lui, al punto della partenza, far tornare lei, vecchia Euridice, di là dall’ombra dell’oblio? (pp. 848-849)
Accanto a queste due ultime figure (Santa Lucia e la madre) delle quali, a differenza delle precedenti antonomasie, lo scrittore ci consegna un ritratto rapido ed essenziale, sono anche presenti nei suoi testi delle metaforizzazioni del femminile, come quella, notissima, della «chiocciola» del Sorriso dell’ignoto marinaio (pp. 233-238), o in Retablo quella dell’«arancio » (p. 427) o del «corallo» (pp. 454 ss.) e persino del tempio: il tempio di Segesta all’occorrenza, nella cui descrizione insistono le «madri» e la gran «Madre» (p. 414). Ma, tra gli oggetti inanimati, o più precisamente cosmici, bisogna annoverare la luna disseminata ovunque nelle pagine consoliane, 20 al centro, segnatamente, della splendida favola teatrale
Lunaria. La luna come figura per eccellenza del femminile («Deh madre, sorella, sposa, guida della notte, méntore, virgilia, dimmi, parlami, insegnami la via») 3 ha una lunga tradizione nella nostra letteratura,
basti qui citare l’esempio massimo del Canto di un pastore errante dell’Asia, e anche delle altre numerose lune di Leopardi, come quella dell’Odi Melisso e del Tramonto della luna letteralmente evocate
in Lunaria. Dopo questa rapida rassegna di figure femminili,
vorrei soffermarmi sul capolavoro di Vincenzo Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, che si apre su una interessante figura di donna, Catena Carnevale, un personaggio dal nome altamente simbolico, per
quanto lo scrittore si sia ispirato a una donna reale di Lipari di nome Maria Maggiore. Se il nome proprio Catena rinvia immediatamente
alla scrittura, alla catena significante, il cognome Carnevale non può non evocare una straordinaria eroina popolare immortalata da Carlo Levi in Le parole sono pietre: Francesca Serio madre di Salvatore Carnevale, una donna che non aveva paura di pronunciare, per ottenere giustizia per il sacrificio del figlio ucciso dalla mafia, «parole di pietra»4. Il ritratto di Catena viene presentato dapprima nell’Antefatto del primo capitolo del Sorriso dell’ignoto marinaio, e quindi ripreso e arricchito di ulteriori
tratti, nel secondo capitolo intitolato L’albero delle quattro arance. Di Catena sappiamo che è bella e irraggiungibile, la sua bellezza però non s’incarna in un corpo reale di donna, piuttosto in una sorta di raggio luminoso che al tempo stesso la vela e la svela «al rapido saettar d’occhi traversi […] dei giovani che passano e ripassano per la strada di San Bartolomeo » (p. 127)5. Ricama e sa decifrare la scrittura barocca delle ricette, sicché torna utile al padre speziale in Lipari. È «un’intellettuale»6, nervosa, irritabile, meteoropatica, un mistero quanto all’amore. A tal punto furiosa, da infierire sul ritratto dell’Ignoto perché somigliante al suo fidanzato lontano, con 3 Lunaria, p. 315 4 Cfr. C. Levi, Le parole sono pietre, Einaudi, Torino, 1955, pp. 138-152. Consolo ha dedicato allo scrittore torinese un denso saggio raccolto nella settima e ultima sezione di Di qua dal faro (Milano, Mondadori, 1999, pp. 251-257) intitolata significativamente Le parole sono pietre. 5 Vincenzo Consolo ha svelato, nel corso di un Convegno a lui dedicato e tenutosi a Capo d’Orlando nell’ottobre del 2006, che l’immagine alla quale questa descrizione di Catena rinvia è quella di una Annunciazione. 6 V. Consolo, Fuga dall’Etna, Donzelli Editore, Roma, 1993, p. 43. 7 Ivi, p. 46. 8 «il povero esclama / al fondo di tanto abisso / terra pane / l’origine è là / la fame senza fine / di libertà» (pp. 250-251). quel sorriso che l’affascina tanto quanto la perseguita, un sorriso inafferrabile che potrà incatenare, lei già incatenata da quel sorriso, solo sfregiandolo
col punteruolo d’agave da ricamo, solo lasciandovi sopra, tale un’erinni, il segno della sua passione assoluta (p. 127). Vorrei ancora, prima di passare a Rosalia, forse la figura princeps della ricca galleria di figure femminili
consoliane, soffermarmi sull’ultimo capitolo (IX) del Sorriso dell’ignoto marinaio, che contiene le famose scritte graffite sui muri del carcere dai rinchiusi colpevoli dell’eccidio di Alcara Li Fusi. Paradossalmente e perfino scandalosamente, questo carcere a forma di chiocciola rappresenta
forse il luogo per eccellenza del ‘femminile’, della scrittura autentica, corale e acefala, «indipendente da un corpo o da una mente» (p. 222), una scrittura capace di tradurre in linguaggio il trauma originario del Soggetto e della Storia. Un trauma che, nel punto finale della riscrittura storico-metaforica degli eventi riportati nel romanzo, si mostra quasi allo stato
puro senza i «colori dell’affresco»7, graffito di carbone e messaggio poetico per chi può leggerlo e intenderlo. L’ultima strofe dell’ultima scritta sul muro è infatti in lingua sanfratellana, incomprensibile per lo stesso Mandralisca e per noi lettori:
U pauvr sclama
Suogn ‘nta u mar
Au Faun di tant abiss
Terra pan
L’originau è daa
La fam sanza fin
Di
Libirtaa
8
Di questa strofe in sanfratellano la prima edizione del romanzo non forniva alcuna traduzione. Ora, proprio gli ultimi cinque, poeticissimi versi rinviano ad una parola mancante (propriamente la parola muta del desiderio), una parola fondamentale perché generatrice dell’intero canto. Si tratta della parola ‘lontananza’ intesa come separazione dall’oggetto
d’amore, vera e propria parola ombelicale che si iscrive nell’ordine silenzioso della lettera, e che coincide con quello che Freud nell’Interpretazione dei sogni chiama ‘ombelico del sogno, kern-punkt, punto opaco e non più decifrabile del desiderio del sogno, ma anche punto di generazione plurima e sovradeterminata della scrittura del sogno. Ma c’è di più. Soggetto di questa ‘lontananza’ è una fanciulla, una figura femminile dunque. È stato possibile risalire a questa parola ombelicale grazie all’eccellente studio di Salvatore Trovato sulla presenza del sanfratellano nel Sorriso. Lo studioso afferma che il verso:
au faun di tant abiss, rigo 28 della scritta, è ripreso dall’ottava num. 19 (dal titolo La lontananza) della raccolta di Luigi Vasi (p. 286), un’ottava d’amore che tratta appunto il tema della lontananza (Suogn ‘nta u mar au faun di tant abiss ‘sono nel mare al fondo di tanto abisso’ piange la fanciulla per la lontananza dell’amato nell’ottava popolare) da cui Consolo sa trarre elementi per la costruzione di un testo che tratta il tema della rabbia sociale, dell’odio di classe e del desiderio di vendetta9. D’altronde l’intera strofe è costruita con versi presi da varie altre ottave del Vasi e abilmente intrecciati dallo Scripteur, al fine di trasmettere un messaggio innanzi tutto etico-sociale, rivoluzionario, rivendicativo. Ma, mi permetto di postillare, questo messaggio è strutturato poeticamente e per di più in una lingua ‘altra’. Inoltre la voce che emana dal fondo dell’abisso, frammento di corpo staccato dal soggetto che la enuncia, è quella di una fanciulla innamorata e separata dal suo amato, la stessa voce profonda, anonima ed enigmatica che modula il canto della strage, del trauma, della separazione, della lontananza.
E passiamo infine alla figura di Rosalia nel romanzo Retablo, un romanzo diviso, com’è noto, in tre parti: due portelli laterali Oratorio e Veritas, e
un portello centrale, Peregrinazione. Esso narra il 9 S. Trovato, Valori e funzioni del sanfratellano nel pastiche linguistico consoliano del «Sorriso dell’ignoto marinaio» e di «Lunaria», in Dialetto e letteratura a cura di Giuseppe Gulino ed Ermanno Scuderi, Pachino 1989 (Atti del 2° Convegno di studi sul dialetto siciliano – Pachino 28/30 aprile 1987), p. 135. 10 «Alzai gli occhi e vidi nel riquadro, ah, la mia sventura!, la donna che teneva la funicella del panaro e accanto una fanciulla di quindici o sedici anni, la
mantellina a lutto sulla testa che lei fermava con graziosa mano sotto il mento. E gli occhi tenea bassi per vergogna, ma da sotto il velario delle ciglia fuggivan lampi d’un fuoco di smeraldo. Mai m’ero immaginato, mai avevo visto in vita mia, in carne o pittato, un angelo, un serafino come lei» (p. 371). viaggio e le peripezie dell’artista milanese Fabrizio Clerici e della sua guida Isidoro, un monaco del convento della Gancia, nella Sicilia del XVIII secolo (1760-1761 circa). Fin dal celebre prologo di Retablo da me chiamato Inno a Rosalia, la figura femminile non si riduce a una mera rappresentazione realistica. Essa soggiace piuttosto a delle figurazioni metamorfiche, che vanno dal ritratto a tutto tondo della protagonista
Rosalia all’«ottuso vortice» (p. 422) del corpo del godimento. Non a caso Rosalia è esattamente definita in due luoghi, e fuori da ogni figurazione possibile, come «la causa di tutto, il motore primo» (p. 372) secondo le parole di Isidoro, e «il motore primo del miracolo» (p. 420) secondo le parole dell’altra Rosalia, perché di «Rosalia» ce ne sono almeno
due in Retablo. Il romanzo non farà che dispiegare dall’inizio alla
fine ciò che il prologo annuncia: la perdita e quindi la quête di Rosalia, cioè dell’oggetto del desiderio e dei suoi avatars, che si incarna nelle figure di Rosalia Guarnaccia, l’amata di Isidoro; Teresa Blasco, l’amata di Fabrizio Clerici; alle quali bisogna aggiungere Rosalia Granata, la donna sedotta da Frate Giacinto da Salemi e salvata da Vito Sammataro, un frate costretto a farsi brigante. O, infine, «solamente la Rosalia d’ognuno che si danna e soffre, e perde per amore» (p. 423). Accanto a queste vi sono altre importantissime figure femminili come quelle mitologiche e religiose
già citate all’inizio di questo saggio o altre figure minori come Luzìa o Lucia Barraja (p. 467), che fa parte anch’essa della galleria delle Rosalie.
E se si volesse delineare un ritratto fisico, esteriore (secondo la terminologia dei teorici del Rinascimento italiano) di Rosalia10, è vero che esso consiste soltanto di alcuni tratti quali l’età (ha 15-16 anni),
lo sguardo acceso da lampi d’un fuoco di smeraldo, i capelli colore del rame, i denti di cagnola, mentre il suo ritratto interiore è fissato dall’ossimoro angelo/ diavolo, permanendo inestricabili i tratti angelici e
diabolici. È anche fresca, odorosa, bella di sette bellezze ecc., ma soprattutto ha un bel nome, infatti l’inno inaugurale del romanzo è una variazione attorno 22 al nome di Rosalia. Isidoro, d’altronde, risponderà a
Fabrizio Clerici che Rosalia «È solamente il nome» (p. 386).
Ciò che sembra emergere dall’analisi testuale dell’Inno a Rosalia11 è la scrittura dello slancio di un desiderio verso un oggetto femminile forse del tutto inedito nella tradizione letteraria italiana ed europea. Alle due donne – Venere celeste e Venere terrestre – celebrate da questa tradizione si sostituisce in Retablo una sola donna dalle molte sfaccettature, che è al contempo idealizzata e concupita (sogno o incubo di ciascun uomo forse). Ciò che il lavoro dello stile, della prosodia specialmente, rivela grazie
all’accordo stabilito da un certo ritmo tra elementi verbali appartenenti a ordini linguistici differenti e perfino opposti, è l’ibridazione di queste due figure di donna, ottenuta attraverso la coalescenza della corrente tenera e della corrente sensuale dell’amore, che fa sì che i tratti ideali e i tratti erotici di questo oggetto femminile divengono interscambiabili.
Le figurazioni del corpo di Rosalia vanno dunque dal ritratto della giovane adolescente paragonata per la sua bellezza al corpo della statua di Santa Ro- 11 Per questa analisi dettagliata cfr. Rosalba Galvagno, «Hymne à Rosalia» dans «Le Retable» de Vincenzo Consolo, in «Revue des Études italiennes», dirigée par François Livi et Claudette Perrus, Varia, Tome 63, n. 3-4/2017, pp. 41-53. salia, all’allegoria della Veritas scolpita dal Serpotta,
ad una panòplia di metonimie del corpo (sguardo, capelli, denti, ossa, reliquie, voce), alla ‘lettera’ e, per finire, al corpo del godimento difficilmente rappresentabile: si tratta piuttosto di una figura senza
figura del reale, ma al quale Consolo riesce addirittura a dar voce e nella cui specifica e originalissima articolazione si situa la scrittura dell’eros. La mise en abyme di questa scrittura si situa nel bel mezzo del romanzo, in quell’eccentrico capitoletto intitolato Confessione, voluto in corsivo da Consolo. Ora, la grandezza e l’importanza letteraria di questa Confessione
risiede proprio nella scrittura, difficilissima, dell’estasi mistica e al contempo arditamente sensuale del corpo di Rosalia ridotto qui a puro strumento del godimento, pura voce, pura onomatopea di una «gioia grande e senza nome»: «O bona, o bella, o santa creatura!» dissemi
con quella sua voce flautata stringendo forte nelle sue le mani mie.

«O padre, o padre, per me pietate, vi chiedo abènto!…» riuscii a sospirare, e venni meno. Mi ritrovai, al risveglio, riversa su un giaciglio
dentro un casalino ov’erano gli attrezzi per la selva,
la testa sul grembo del mio frate, che la mano,
ora con forza e ora lievemente, passava sul mio
petto, mentre il core affannoso mi battea come
del coniglio stanato dal furetto. E dal petto quindi
in giuso si moveva, fin su la nicchia ove natura
pose il nocciolo del caldo, il seme, il fomento d’ogni
brama, godimento, levitando, sfiorando tratteggiando,
come fa l’apa sopra la corolla dove al fine
s’insinua e suscita il suo mele, mentre che l’origlier
crescendo s’impetrava. O foco, foco! Foco che in
segreto ardi su la lampa, fiamma che bruci e non
consumi! Foco che avvampi il core, l’ossa, ardi il
midollo, ogni fibra dell’anima, del corpo! […].
Ah il furore, il delirio, l’ottuso vortice, la danza,
da cui sortiva sempre inappagata, sempre anelante
all’amor di lui, di lui che a poco a poco si negava,
di Lui che m’appariva irraggiungibile!
E prona pecora belava, guaiva cagna cana, hau
hau, lamentava, ma’, ma, tata cicia caca, ohu ohu,
nerva rova urìca, ahi ahiahi, mala mele fima…
(pp.
416-422)
23

1 V. Consolo, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e con uno scritto di Cesare Segre, Mondadori («I Meridiani»), Milano, 2015, p. 418.
2«… faceva altri lavori più duri che da quelle parti stimavansi inferiori al compito dell’uomo» (p. 710).

La consolazione di Dante: Echi danteschi ne Il sorriso dell’ignoto marinaio

Ritratto di ignoto marinaio – Antonello Da Messina

Daragh O’Connell

E Virgilio…Ma che dico? Di echi parlavamo,1

1. “L’isola del foco”

La raccolta di saggi di Consolo del 1999 Di qua dal faro apre con un epigrafe dantesca: “E la bella Trinacria, che caliga / tra Pachino e Peloro, sopra ’l golfo / che riceve da Euro maggior briga / non per Tifeo, ma per nascente solfo” (Paradiso, VIII. 67-70). Dentro questo spazio insulare Consolo espone la propria produzione narrativa per delineare nuovi ed inesplorati territori letterari e arricchire il palinsesto che è la Sicilia, in tutte le sue manifestazioni, siano esse la “bella Trinacria” o l’altrettanto dantesca “isola del foco” (Paradiso, XIX.131). La tradizione letteraria è uno dei maggiori interessi di Consolo e, decisamente, lo è il ruolo che egli avrà in essa. L’interesse verso antenati e tradizioni letterarie è parte di ciò che contraddistingue la sua 7 particolare esperienza artistica. Avere una relazione profondamente sentita con la tradizione non implica necessariamente una subordinazione servile verso precursori e modelli. Piuttosto, nel caso di Consolo, implica un uso trasformativo e creativo della letteratura, e l’estensione dei suoi limiti: in pratica, l’accesso e la partecipazione a quella stessa tradizione. Nonostante le sue tematiche siano decisamente siciliane e dalla ricchezza della tradizione letteraria siciliana si possano estrarre grandi livelli di influenza, Consolo non ignora il contesto più ampio italiano all’interno del quale scrive. Il suo indebitamento verso Dante è altamente significativo, eppure, sorprendentemente, non è stata ancora fonte di molta discussione.2 Parte del problema risiede nella stessa scrittura di Consolo e nella vertiginosa serie di interessi presente nelle sue opere. La sua consuetudine ad arricchire i suoi testi con dialoghi intertestuali polifonici complessi rispecchia per certi versi la relazione di Dante con la sua tradizione. Occorre precisare che, nella poetica di Consolo, né Dante né qualsiasi altro autore è riconosciuto esplicitamente come modello autoriale: Dante è, nonostante questo, una delle tante “presenze” nella narrativa di Consolo. Sono echi, motivi, reminiscenze, modelli retorici, allusioni dirette, e modelli architettonici a segnalare il dantismo di Consolo. I secoli che separano le loro esperienze artistiche garantiscono lo specifico uso dialogico, e non conflittuale, delle allusioni dantesche da parte di Consolo. Per Consolo il poeta della Commedia è un deposito di lingua e di motivi, una presenza seducente in quello che George Steiner chiamava lo ‘shadow-theatre of encounters’, il teatro d’ombre di incontri3 . Come Dante, Consolo tematizza di continuo il rapporto dei propri testi con i loro precursori con delle citazioni esplicite (e a volte meno esplicite). In questo breve studio cercherò di localizzare i motivi danteschi e di cogliere alcune delle allusioni più risonanti nella narrativa di Consolo, limitando la 2 Questo saggio è basato sul mio Consolo’s ‘trista conca’: Dantean anagnorisis and echo in Il sorriso dell’ignoto marinaio, scritto in inglese e pubblicato in Echi danteschi / Dantean Echoes, a cura di R. Bertoni, Torino, Trauben, 2003, pp. 85-105. 3 G. Steiner, Grammars of Creation, Londra, Faber, 2001, p. 73. 4 C. Segre, Intrecci di voci: la polifonia nella letteratura del Novecento (Torino: Einaudi, 1991), p. 86. 5 S. A. Sanna, A colloquio con Vincenzo Consolo, “Italienisch: Zeitschrift für italienische Sprache und Literatur in Wissenschaft und Unterricht”, 17, 1987, p. 31. 6 G. Contini, Introduzione ai narratori della Scapigliatura piemontese, in Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino, Einaudi, 1979, p. 540. 7 C. Segre, op.cit., pp. 83-85. mia analisi a Il sorriso dell’ignoto marinaio per dimostrare che l’architettura e il linguaggio infernali, un’anagnorisi specificamente dantesca e l’epifania purgatoriale informano la riscrittura plurilingue della storia di Consolo nella camera d’eco che è il suo “romanzo-chiocciola”, per dirla con Segre.4 In un’intervista del 1987, in cui parlava del ruolo di Dante nelle sue opere, Consolo diceva: “credo che Dante faccia parte del nostro sangue, lo assorbiamo, in me c’è anche il gusto della citazione indiretta. Lo ripeto, l’endecasillabo e certe immagini e forme dantesche le ho dentro e mi piace citarle invisibilmente ed a volte scopertamente”.5 Esempi espliciti della presenza di Dante possono essere trovati ne L’olivo e l’olivastro (1994) e anche ne Lo Spasimo di Palermo (1998), e lì hanno la funzione della citazione diretta. Attraverso la lettura de Il sorriso dell’ignoto marinaio si vedrà come Dante è uno degli autori su cui si fonda la poetica di Consolo. 2.

“La favella di Satanasso”:
plurilinguismo e monolinguismo L’uso variegato della lingua in Consolo inevitabilmente lo pone in quella linea di “macaronici” che Contini definiva come “gli adepti delle scritture composite, [.,.] degli aristocratici per definizione”6 . Segre scrive che Consolo condivide con Gadda “la voracità linguistica, la capacità di organizzare un’orchestra di voci, il risultato espressionistico”, ma anche, seguendo Bachtin, che il plurilinguismo di Consolo dimostra “plurivocità”.7 Le scelte linguistiche di Consolo hanno anche un valore ideologico, non soltanto stilistico: Fin dal mio primo libro ho cominciato a non scrivere in italiano. Per me è stato un segnale, il simbolo di una ribellione alle norme, dell’uccisione del padre [.,.]. Ho volute creare una lingua che esprimesse una ribellione totale alla storia e ai suoi esiti. Ma non è dialetto. È l’immissione nel 8 codice linguistico nazionale di un materiale che non era registrato, è l’innesto dei vocaboli che sono stati espulsi e dimenticati.8 Le predilezioni linguistiche di Consolo sono altamente significative in quanto egli si pone in confronto diretto con il linguaggio standard dell’autorità dell’Italia moderna. Per certi versi sia lui che Dante, quindi, affrontano le rispettive autorità con trasformazioni radicali e deviazioni dalla norma attraverso forme estremamente ibride in cui la mescolanza di registri, l’uso di forme arcaiche, dialettali e scientifiche trovano facile dimora nei loro costrutti. Però è con l’uso metaforico del dialetto sicliano-lombardo – il sanfratellano – che possiamo intravedere l’intenzione ideologica di Consolo. Questo dialetto è proposto come “altro”, iscritto nel romanzo come una specie di antidoto ai codici del potere. Ma quel che mi interessa qui è la ricerca fatta da Consolo. Quando si parla di questo dialetto uno dei nomi spesso dimenticati è quello dell’erudita e poeta ottocentesco Lionardo Vigo. Vigo fu il primo linguista a cercare di classificare il parlato di queste colonie lombarde, precursore di indagini più dettagliate e professionali9 . Nel 1857 Vigo scrisse che il dialetto sanfratellano gli sembrava un “gergo inintelligibile” ed era, in fin dei conti, la “favella di Satanasso”10. Anni dopo nel 1868 ribadisce questi punti in una lettera pubblicata nel quotidiano La Sicilia: Dissi nel 1857 e ripeto inintelligibile più della favella di Satanasso il linguaggio di Piazza e vi aggiungo quello di San Fratello. […] è satanico tutto ciò che non si comprende, come il Papè Satan di Dante. Che dire poi di un linguaggio aspro di consonanti, aspirazioni e tronchi, misto allo strascio dei suoi dittonghi e trittonghi?11 Nell’arco del romanzo, Consolo conferisce dignità al dialetto e inoltre il romanzo stesso conclude con l’ultima delle “scritte” proprio in sanfratellano. Il primo incontro con questa parlata precaria è nel quarto capitolo, Val Dèmone. Mandralisca vede un prigioniero nelle segrete del castello di Maniforti e chiede informazioni su di lui. Uno dei servi gli risponde che il prigioniero è “un diavolo d’inferno, scatenato” (200), e più avanti esclama: “Ah. Sanfratellano, Dio ne scansi! Gente selvaggia, diversa, curiosa. E parlano ’na lingua stramba, forestiera” (202). Seguendo le suggestioni di Vigo nel proporre questa lingua in termini infernali, Consolo fa un’allusione alla lingua incomprensibile e bestiale della non-ragione. La configurazione di quella lingua con quella dantesca – “Pape Satàn, pape Satàn aleppe!” (Inferno, VII.1) – è molto significativa. La “voce chioccia” (Inferno, VII.2) di Plutone richiama il primo incontro che Dante-personaggio ha con la lingua dei dannati: “Diverse lingue, orribili favelle, / parole di dolore, accenti d’ira, / voci alte e fioche” (Inferno, III.25-27), e anticipa anche le emissioni illogiche dalla “fiera bocca” di Nembrot: “Raphèl maì amècche zabì almi” (Inferno, XXXI.67). Però alla fine del Sorri9 so, nonostante la sua difficoltà, al sanfratellano viene accordata una posizione privilegiata nel testo. Mandralisca scrive che è una “lingua bellissima, romanza o mediolatina, rimasta intatta per un millennio sano, incomprensibile a me, a tutti, comecché dotati d’un moderno codice volgare” (216). Sembra quasi una lingua adamica, un sopravvissuto fragile da una confusio linguarum italica. Consolo fornisce al lettore un esempio del parlato diabolico tramite la figura dell’“insano frate liconario” (222) – Frate Nunzio nel terzo capitolo Morti sacrata. La litania blasfema che declama prima di violentare e uccidere la ragazza catalettica è un esempio non solo del plurilinguismo di Consolo ma anche dell’inversione della ragione e l’abuso della lingua. La lingua, specialmente le oscillazioni tra le “orribili favelle” (Inferno, III.25), mediate tramite le “rime aspre e choicce” (Inferno, XXXII.1) e l’“angelica voce, in sua favella” (Inferno, II.57) è effettivamente la cosa che conferisce alla Commedia la sua novità formale. Il poema di Dante pluralizza la lingua, e in quello che è un cambiamento di posizione rispetto alla De vulgari eloquentia, nel Paradiso Adamo dice: La lingua ch’io parlai fu tutta spenta […] Opera naturale è ch’uom favella; ma così o così, natura lascia poi fare a voi secondo che v’abbella (Paradiso, XXVI.124-32). Ibridismo, pluralità e parodia caratterizzano l’uso non-totalizzante della lingua nel Sorriso. Questo romanzo storico-metaforico si confronta con un momento decisivo del nascente Stato italiano e mette in dubbio il monolinguismo opprimente dello stesso stato attraverso un richiamo alla pluralità delle lingue minacciate da questa fondazione. La pretesa di una lingua sola degrada e cancella le micro-storie degli emarginati e dei diseredati, quelli senza le chiavi del sistema linguistico dominante. Il desiderio, espresso da Mandralisca nel romanzo, è che “tempo verrà in cui da soli conquisteranno que’ valori, ed essi allora li chiameranno con parole nuove, vere per loro, e giocoforza anche per noi, vere perché i nomi saranno intieramente riempiti dalle cose” (217).

3. Dante nella “chiocciola”
L’ideale che un giorno i “nomi” saranno riempiti dalle cose è un sogno da linguista, non realizzabile. L’abisso fra “nomi” e “cose” era già stato annunciato nel primo capitolo in cui Mandralisca riflette che i nomi, allontanati dai loro significati originali diventano “sommamente vaghi, suoni, sogni” (129). La pochezza della lingua e l’incapacità di rappresentare in modo efficace e fedele la realtà sono temi centrali sia per Dante sia per Consolo. Dante tematizza quest’impasse nella Commedia, specialmente nell’ultima cantica in cui i limiti della lingua sono ben evidenti e la lingua stessa diventa un mezzo poco adatto per rappresentare l’esperienza del viator: “significar per verba / non si poria” (Paradiso, I.70-71); “l’essemplo / e l’essemplare non vanno d’un modo” (Paradiso, XXVIII.55-56). Nel Sorriso il problema è diverso. Mandralisca deve fungere da testimone della rivolta degli alcaresi e per raccontare gli eventi in modo fedele deve evitare qualsiasi forma di imposture. Scrive: 10 Oh descriver potrò mai quel teatro, la spaventosa scena paratasi davanti su per la strade, i piani di quel borgo? Il genio mi ci vorrìa dell’Alighieri, dell’Astigian la foga, del Foscolo o del Byron la vena, dell’anglo tragediante, dell’angelo britanno il foco o la fiammiante daga che scioglie d’in sul becco delle penne le chine raggelate per l’orrore, o del D’Azeglio o Vittor Hugo o del Guerrazzi almen la prosa larga… Di me, lasso!, che natura di fame, di fralezza e di baragli ha corredato, v’appagate? (223) Questa formulazione retorica contorta, al di là dell’appello al “genio” di Dante, indica e parodizza la natura offuscante della rappresentazione linguistica e l’inevitabile finzione dell’atto di scrittura. I limiti del linguaggio e il rischio dei suoi effetti distorsivi, sia attraverso l’abuso rappresentativo che la celebrazione letteraria, sono centrali nelle preoccupazioni del poema e del romanzo. Se consideriamo la seguente concezione retorica di Dante, emerge il suono di un’eco lontana. Chi poria mai pur con parole sciolte dicer del sangue e de le piaghe a pieno ch’i’ ora vidi, per narrar più volte? Ogne lingua per certo verria meno per lo nostro sermone e per la mente c’hanno a tanto comprender poco seno. (Inferno, XXVIII.1-6) Così come il protagonista di Consolo invoca ed elenca i nomi dei letterari del passato per evidenziare la propria incapacità di descrivere fedelmente le scene, così anche Dante invoca battaglie storiche significative per rendere l’idea del vasto numero di sofferenze dei dannati insanguinati di cui è testimone nella nona bolgia. Dante elenca queste battaglie e conclude il passo affermando: “e quel forato suo membro e qual mosso / mostrasse, d’aequar sarebbe nulla / il modo de la nona bolgia sozzo” (Inferno, XXVIII.19-21). L’invocazione al nome di Dante arriva in un momento significativo del testo. Consolo, utilizzando una forma molto stilizzata che comporta una complessa fusione tra una specie di via crucis e i prestiti ekfrastici da Los desastres de la guerra di 12 James Joyce, Finnegans Wake, Londra, Pengiun, 1992, p. 183. Goya, si accinge a descrivere le immagini e i suoni delle conseguenze della rivolta, e alcune allusioni dantesche vengono alla luce. In uno scenario prettamente infernale leggiamo: “D’ogni cosa, strazio: nebbia cenere terra vento e fumo” (224). Ulteriori reminiscenze dantesche vengono enumerate nella visione terribile dei cadaveri per terra circondati dagli avvoltoi: “Le ali aperte per tre metri e passa, stese le zampe con gli artigli curvi, grasso, enorme piomba a perpendicolo dall’alto come calasse dritto dall’empireo” (225). In un’altra particolare visione cifra dantesca diventa più marcata: Ma giungea fraditanto una carretta tirata da uno scheletro di mulo come quello famelico in galoppo sopra le teste di papi e principi e madame al palazzo Sclàfani in Palermo. Un carrettiere estrano con casacca rossa, all’impiedi sopra il legno, strappando redini e frustando, sguaiato vociava: ‘Uuh, uuh, broeuta bestia, marouchì poa te! (226-227) La narrazione di Consolo riverbera di echi danteschi per sostenere la visione infernale degli eventi. Il “carettiere estrano […] sopra il legno” certamente richiama il Caronte di Dante, e, più specificamente, Flegiàs dell’ottavo canto. Quel nocchiero arriva su “una nave piccioletta”, descritto poi come “legno”, per trasportare Dante e Virgilio sulla “morta gora”, mentre grida “Or se’ giunta, anima fella!” (Inferno, VIII.15-31). Poco più avanti nel romanzo Consolo scrive: “E in così dire riprese il suo fatale andare” (230) L’allusione è alle parole di Virgilio a Minosse: “Non impedir lo suo fatale andare” (Inferno, V.22). Questa forma di intertestualità ricorda una definizione coniata da Joyce nel Finneganz Wake: “quashed quotatoes”12, una sorta di tecnica di innesto in cui elementi del testo precursore si innestano sul nuovo, in quella che è sia una forma aperta di citazione che una forma di figurazione nascosta. Il capitolo VIII, Il carcere, fornisce al lettore il simbolo più complesso ed enigmatico di Consolo, la “chiocciola”. I rivoltosi sono incarcerati nella prigione che ha forma di chiocciola mentre aspettano le loro sentenze. Questa prigione sotterranea ha la 11 “forma precisa d’una chiocciola” (233) ed è descritta come un “segreto fosso” (232), e un “falso labirinto, con inizio e fine, chiara la bocca e scuro il fondo chiuso” (235). Tutto il castello è conforme alla forma a spirale discendente di un guscio di lumaca: Il fatto è che quel castello […] non possiede scale o scaloni in verticale, linee ritte, spigoli, angoli o quadrati, tutto si svolge in cerchio, in volute, in seni e avvolgimenti, scale saloni torri terrazzini corte magazzini. E la fantasia più fantastica di tutte si trova dispiegata in quel catojo profondo, ipogeo, sènia, imbuto torto, solfara a giravolta, che fa quasi da specchio, da faccia arrovesciata del corpo principale del castello sotto cui si spiega, il carcere: immensa chiocciola con la bocca in alto e l’apice in fondo, nel bujo e putridume”. (235) Questa prigione piranesiana presenta molte somiglianze con la concezione architettonica e la figurazione dello spazio dell’Inferno dantesco. Prima di descrivere il carcere, Consolo cita un passo dalla Ricreatione dell’Occhio e della Mente nell’Osservatione delle Chiocciole di Buonanni come se fosse “[…] una lapide murata sull’ingresso” (233), nello stesso modo in cui il Dante legge l’iscrizione sopra il portico dell’Inferno nel terzo canto (Inferno, III.1-9). La forma dell’Inferno di Dante è variamente descritta come “carcere cieco” (Purgatorio, XXII.103), “dolente ripa” (Inferno, VII.17), “cerchio tetro” (Inferno, VII. 31), e “tristo buco” (Inferno, XXXII.2). Un’ulteriore descrizione del carcere in Consolo ci viene dal giovane sanfratellano Michele Fano: “si trasi rintra ri / stu puzzu tortu / sappi comu chi fu / e statti mutu” (250). Questo “puzzu tortu” ha le sue equivalenti del poema dantesco. Infatti, “pozzo” è uno dei termini preferiti di Dante per rendere la nozione dello spazio infernale: “e son nel pozzo intorno da la ripa” (Inferno, XXXI.32); “così la proda che ‘l pozzo circonda” (Inferno, XXXI.42); “come noi fummo giù nel pozzo scuro” (Inferno, XXXII.16]; “vaneggia un pozzo assai largo e profondo” (Inferno, XVIII.5); “del bassissimo pozzo tutta pende” (Inferno, XXIV.38]. Il movimento attraverso questo spazio ristretto è altrettanto importante, la discesa a spirale è una delle caratteristiche più marcate della prima cantica di Dante. Virgilio spiega a Dante: “Tu sai che ‘l loco è tondo; / e tutto che tu sie venuto molto, / pur a sinistra, giù calando a fondo” (Inferno, XIV.124-126). Spessi durante il viaggio dei poeti viene annunciata la traiettoria a spirale: la rotazione e la discesa di Gerione (“rota e discende”; Inferno, XVII.116), e “lo scendere e ‘l girar per li gran mali” (Inferno, VII.125) sono particolarmente espliciti a questo proposito. In termini simili, e con un’esattezza di movimento, nel romanzo di Consolo leggiamo: “Prendemmo a camminare in giro declinando” (236). Una delle più significative descrizioni metaforiche dell’inferno di Dante, però, si collega direttamente al testo di Consolo sia nella forma che nella sostanza: troviamo Virgilio e Dante davanti alla città di Dite, Dante-personaggio chiede alla sua guida: “In questo fondo de la trista conca / discende mai alcun del primo grado, / che sol per pena ha la speranza cionca?” (Inferno, IX.16-18). La “trista conca” di Dante prefigura il “puzzu tortu” e fornisce a Consolo un modello architettonico per il suo contorto spazio colloidale di sofferenza e dolore. 4.

Anagnorisis/Agnitio
Gran parte della critica consoliana si è concentrata sui capitoli finali del Sorriso, ma poca attenzione è stata dedicata al capitolo iniziale, nonostante la sua peculiarità: esso è carico di sommersi paralleli danteschi, e in particolare sembra essere una rielaborazione e rifacimento di una agnitio specificamente dantesca. È in questo capitolo che il protagonista di Consolo, sulla falsariga dantesca, inizia un viaggio verso la conoscenza di sé: parte da una posizione di ignoranza, causata dalla sua classe sociale e dalla sua chiusura negli studi eruditi, e nel corso della narrazione arriva a una posizione di conoscenza 12 di sé e di riconoscimento della complessità della verità. Apparentemente, l’alba dei passaggi iniziali indica l’alba di una coscienza politica che si risveglia, l’alba del cambiamento, rappresentato dal Risorgimento. Questa fragile luce, tuttavia, rispecchia anche l’incertezza e l’ambiguità della confusa identità e visione del mondo di Mandralisca. Le difficoltà in questo processo verso l’autocoscienza, ma anche i miglioramenti in quella direzione, sono indicate dall’impiego di termini legati alla vista e alla visione. La visione è la componente primaria della conoscenza, o meglio dell’autocoscienza. Il primo verbo del romanzo – “si scorgeva” – dà un’idea di vista, ma la visione del protagonista è resa instabile da verbi come “languivano” e “riapparivano”. Ciò che vede non è chiaro: “Alla fioca luce della lanterna, il Mandralisca scorse un luccichio bianco che forse poteva essere di occhi” (128). La materializzazione degli occhi (organi di senso) è indicativa di una tendenza alla vista intesa metaforicamente come conoscenza di sé. Il “chiarore grande” della nuova giornata illumina pianamente la scena, e le luci distanti delle torri “impallidirono”, mentre le luci fragili delle stelle “svanirono”. Questa trasformazione naturale, tuttavia, ha poco effetto su Mandralisca, in quanto la luce maggiore è servita solo ad aumentare la sua cecità morale. La capacità del protagonista di vedere, di identificare chiaramente, e l’inganno dei suoi sensi ricordano di per sé il pellegrino di Dante nell’Inferno: Quiv’ era men che notte e men che giorno, sì che ‘l viso m’andava innanzi poco; ma io senti’ sonare un alto corno, tanto ch’avrebbe ogne tuon fatto fioco, che, contra sé la sua via seguitando, drizzò li occhi miei tutti ad un loco. […] Poco portäi in là volta la testa, che me parve veder molte alte torri; ond’io: ‘Maestro, dì, che terra è questa?’. Ed elli a me: ‘Però che tu trascorri per le tenebre troppo da la lungi, avvien che poi nel maginare abborri. Tu vedrai ben, se tu là ti congiungi, quanto ‘l senso s’inganna di lontano; però alquanto più te stesso pungi (Inferno, XXXI. 10-27) Questo “’l senso s’inganna di lontano” è in parte quello che succede a Mandralisca attraverso il senso dell’udito. Nei paragrafi iniziali de Il sorriso, la sua aura di visione difettosa è in parte compensata da un appello al senso “netto” dell’udito: “fragore d’acque, cigolii, vele sferzate e un rantolo che si avvicinava e allontanava a seconda del vento. E ora che il bastimento avanzava, […] udiva netto il rantolo, lungo e uguale, sorgere dal buio, dietro le sue spalle” (128). Tuttavia, scopriamo che, come la vista, anche l’udito è difettoso. I suoni sono percepiti male da lontano, sono distorti dell’immaginazione, e questo diventa chiaro quando più avanti nel brano Mandralisca si rende conto che “il rantolo s’era cangiato in tosse”. Questa mutazione dall’incertezza della percezione a una migliore definizione è facilitata da una migliore percezione visiva dovuta all’aumento della luce con l’espandersi dell’alba. È precisamente a questo punto che il verbo “vedere” è usato per la prima volta: “Il Mandralisca vide allora, al chiarore livido dell’alba, un uomo nudo, scuro e asciutto come un ulivo” (129). Il “chiarore livido” rivela un uomo nudo, un cavatore di pomice venuto da Lipari per andare alla Madonna Nera a Tindari. Nonostante questo chiarimento, l’inganno sensoriale sembra essere ancora l’aspetto dominante di questo passaggio. Importante per il tema trattato è la funzione di Interdonato ne Il sorriso e il confronto che si può istituire con la funzione di Virgilio nella Commedia. Nell’Inferno (come è evidente dal passaggio citato sopra), la visione confusa e legata ai 13 sensi di Dante ha bisogno di essere corretta da Virgilio. Allo stesso modo, nella narrazione di Consolo, la visione difettosa di Mandralisca richiede una guida “correttiva”, Interdonato. La descrizione di Interdonato sembra alludere a questo poiché introduce la metafora chiave del romanzo, quella del il sorriso: “Un sorriso ironico, pungente e nello stesso tempo amaro, di uno che molto sa e molto ha visto, sa del presente e intuisce del futuro; di uno che si difende dal dolore della conoscenza e da un moto continuo di pietà” (129). La reazione di Mandralisca al sorriso inquietante del marinaio camuffato è di curiosità sconcertata, e sotto “lo sguardo dell’uomo, acuto e scrutatore” (130) la sua mente torna alla sorte del cavatore malato: così Interdonato svolge subito la funzione di dirigere la coscienza di Mandralisca. Tuttavia, il pensiero di Mandralisca non è in grado, in questa fase iniziale, di scandagliare tali realtà sociali e si ritira nei propri studi eruditi. Quello che segue è uno dei paragrafi più sorprendenti di tutto il primo capitolo sia per la sua importanza semantica che per la sua brevità; infatti contiene una sola frase: “Il marinaio lesse, e sorrise, con ironica commiserazione” (131). “Lesse” intende dire che Interdonato legge la mente di Mandralisca, e questo ricorda una capacità simile nel Virgilio di Dante, come dice il viator a Virgilio: “sai quel che si tace” (Inferno, XIX.39). Prima, il pellegrino pensa tra sé e sé: ‘E’ pur convien che novità risponda’, dicea fra me medesmo, ‘al novo cenno che ‘l maestro con l’occhio sì seconda’. Ahi quanto cauti li uomini esser dienno presso a color che non veggion pur l’ovra, ma per entro i pensier miran col senno! (Inferno, XVI.115-120). Come figura dantesca della ragione umana, la capacità di Virgilio di leggere e anticipare i pensieri del pellegrino fa parte della sua funzione di guida. Nonostante il riconoscimento dantesco di Interdonato a Mandralisca come suo allievo, Interdonato stesso non è riconosciuto da Mandralisca come sua guida virgiliana. Tuttavia, è anche in questo senso che Consolo sembra mettere in atto una forma specificamente dantesca di agnizione. L’anagnorisis, o agnizione, è il termine usato per descrivere un momento di riconoscimento quando l’ignoranza lascia il posto alla conoscenza. Il mancato riconoscimento è una delle caratteristiche principali del viaggio di Dante-personaggio verso la conoscenza di sé. Le famose parole di Ciaccio “riconoscimi, se sai: / tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto” (Inferno, VI. 41-42) si incontrano con “L’angoscia che tu hai / forse ti tira fuor de la mia mente, / sì che non par ch’i’ ti vedessi mai” (Inferno, VI. 43-45). Man mano che il pellegrino, sotto la tutela di Virgilio, procede nel suo viaggio, la sua capacità di riconoscere aumenta notevolmente, come quando incontra Venedico Caccianemico. Nel Purgatorio, al contrario, il riconoscimento è ardentemente desiderato, e gli atti intellettivi concomitanti di guardare e sorridere abbondano all’interno della cantica. Forse la scena di riconoscimento più famosa della Commedia è quella tra Virgilio, Stazio e Dante. Qui il sorriso induce l’anagnorisis: Io pur sorrisi come l’uom ch’ammicca; per che l’ombra si tacque, e riguardommi ne li occhi ove ’l sembiante più si ficca; e ‘Se tanto labore in bene assommi’, disse, ‘perché la tua faccia testeso un lampeggiar di riso dimostrommi?’ (Purgatorio, XXI. 109-114) Il “lampeggiar di riso” (anagnorisis) di Consolo è ritardato e trattenuto. È solo quando Mandralisca svela il ritratto ai suoi ospiti alla fine del primo capitolo che si rende conto della somiglianza tra il ritratto e il marinaio, e così inizia la sua rivelazione, il suo viaggio nella conoscenza. Nel secondo capitolo Mandralisca incontra ancora una volta Interdonato e il riconoscimento è ulteriormente approfondito. Qui, è l’impiego del verbo “ritrattare” e il suo legame con “ritratto” che fa partire in Mandralisca una concatenazione di avvistamenti, ricordi e parallelismi. ‘Ma voi, ma voi…’ cominciò a fare il Mandralisca, sgranando gli occhi dietro le lunette del pince-nez, spostandoli meravigliato dal volto dell’Interdonato a quello, sopra, dell’ignoto d’Antonello. Quelle due facce, la viva e la dipinta, erano identiche: la stessa coloritura oliva della pelle, gli stessi occhi acuti e scrutatori, lo stesso naso terminante a punta e, soprattutto, lo stesso sorriso, ironico e pungente. (160-161) 14 La vera anagnorisi nel romanzo avverrà solo attraverso il riconoscimento del significato del ritratto, non della somiglianza di un individuo con esso. La visione così raggiunta coincide per Consolo con la consapevolezza esistenziale, la coscienza politica e l’allerta morale. Come il suo predecessore dantesco, Mandralisca alla fine del viaggio testimonierà, racconterà, anzi addirittura supererà la guida di Interdonato, e racconterà la sua esperienza da un punto di vista più profondo.

5. Risus / subrisus – verso l’epifania
Il testo di Consolo offre un’altra allusione interessante in questi momenti iniziali. Interdonato presenta una suggestiva somiglianza con un altro personaggio di Dante: Manfredi. Nell’antipurgatorio Dante è testimone di uno degli incontri più notevoli della letteratura mondiale: E un di loro incominciò: ‘Chiunque tu se’, così andando, volgi ‘l viso: pon mente se di là mi vedesti unque’. Io mi volsi ver’ lui e guardail fiso: biondo era e bello e di gentile aspetto, ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso. 13 Bruno Nardi, Il canto di Manfredi (Purgatorio, III), in ‘Lecturae’ e altri studi danteschi, Firenze, Le Lettere, 1990, p. 97. Quand’ io mi fui umilmente disdetto d’averlo visto mai, el disse: ‘Or vedi’; e mostrommi una piaga a somma ‘l petto. Poi sorridendo disse: ‘Io son Manfredi, nepote di Costanza imperadrice; ond’io ti priego che, quando tu riedi, vadi a mia bella figlia, genitrice de l’onor di Cicilia e d’Aragona, e dichi ‘l ver a lei, s’altro si dice (Purgatorio, III. 103-117). Ciò che è interessante qui è la descrizione fisica di Manfredi da parte di Dante. La maggior parte dei critici si è giustamente concentrata sui possibili significati metaforici delle “piaghe” di Manfredi. Nardi afferma che ciascuna di esse è un “tragico segno di valore” 13, mentre altri attribuiscono le piaghe all’impium foedus di Manfredi. Il dramma particolare di questo episodio, però, si riferisce al testo di Consolo in un certo numero di punti significativi. In primo luogo, Dante inizialmente sente e poi gli viene detto di girarsi e affrontare l’ombra parlante. Viene quindi data una descrizione fisica che rivela l’ideale imperiale incarnato in Manfredi, “biondo era e bello e di gentile aspetto”, che viene poi minato dal “ma” avversativo per introdurre il “colpo” sconcertante. Dante-personaggio afferma che non riesce a ricono15 scere l’ombra e così l’ombra mostra l’altro suo segno distintivo, la “piaga”, e “sorridendo” si rivela essere Manfredi. Manfredi non si rivela dichiarando i nomi dei suoi genitori, ma piuttosto attraverso sua nonna Costanza. Questo rifiuto di nominare suo padre, Federico II, ha portato Freccero a commentare che il corpo che Dante descrive è chiaramente un corpo fittizio “che porta ferite simboliche, segni diacritici tagliati sul volto del padre” 14. Questa lettura suggerisce che le ferite sono anche gli sfregi della storia controbilanciati dal sorriso. La lettura di Freccero sostiene che le ferite, oltre ad essere un segno opaco, sono contigue alla scrittura, in quanto entrambe partecipano alla deturpazione come atto di significazione. Anche Consolo deturpa, anche lui significa attraverso lo sfregio. Nella prima descrizione di Interdonato leggiamo che due “pieghe gli solcavano il viso duro” (129). Queste “pieghe” sono legate metaforicamente alle “piaghe” dantesche, non solo si dice che il volto di Interdonato assomigli in modo inquietante a quello del ritratto attraverso l’atto intellettivo del sorriso, ma anche che il ritratto stesso ha le sue “piaghe”, i suoi tagli diacritici parricidi che le pieghe di Interdonato suggeriscono sottilmente. Nell’antefatto leggiamo che il ritratto “risulta un poco stroppiato per due graffi a croce proprio sul pizzo delle labbra sorridenti del personaggio effigiato”. La figura che sfregia il ritratto è Catena Carnevale, la quale “gli inferse due colpi col punteruolo d’agave che teneva per i buchi sul lino teso del telaio da ricamo” (127). Il termine “colpi” ripete il “colpo” di Dante. L’atto dello sfregio di Catena è, in realtà, un atto creativo di significazione. Sfigura il ritratto perché il suo sorriso è insopportabile, ma è solo verso la conclusione del romanzo che si intravede un vero senso dell’atto apparentemente distruttivo di Catena. Mandralisca non è più l’allievo di Interdonato, semmai i ruoli si sono invertiti, e dopo aver assistito ai fatti di Alcara Li Fusi scrive da una posizione di conoscenza. Il ritratto di Antonello è stato posto a significare qualcosa di quasi perfetto, irraggiungibile, delicatamente equilibrato. Il rischio che possa mutare è segnalato nel primo capitolo: se non fosse stato per l’equilibrio del sorriso “quel volto sarebbe 14 . caduto nella distensione pesante della serietà e della cupezza, sull’orlo dell’astratta assenza per dolore”, o diversamente “si sarebbe scomposto, deformato nella risata aperta, sarcastica, impietosa o nella meccanica liberatrice risata comune a tutti gli uomini” (144). Alla fine del romanzo Mandralisca capisce vero significato del sorriso, e lo fa assistendo alla mutazione del “sorriso” in “riso” attraverso la luce tremolante della candela. Mandralisca afferma che “il riso dell’Ignoto, a me davanti, al tremolio del lume, da lieve e ironico mi parve si svolgesse in greve, sardonico, maligno” (221). Apprendendo improvvisamente gli aspetti negativi del sorriso, Mandralisca è finalmente in grado di interrogare i portatori del sorriso, incluso sé stesso, e di capire intuitivamente perché Catena ha sfregiato il ritratto: Ho capito perché la vostra fidanzata, Catena Carnevale, l’ha sfregiato, proprio sul labbro appena steso in quel sorriso lieve, ma pungente, ironico, fiore d’intelligenza e sapienza, di ragione, ma nel contempo fiore di distacco, lontananza, […] d’aristocrazia, dovuta a nascita, a ricchezza, a cultura o al potere che viene da una carica… Ho capito: lumaca, lumaca è anche quel sorriso! (219) Questo momento di epifania segnala la coscienza risvegliata del protagonista di Consolo. Il sorriso, al di là del suo appello alla ragione e all’ironia, al di là dell’etico e dell’intellettuale, è anche il sorriso di classe che si autoalimenta e si autoperpetua. La storia documentata è scritta dalla prospettiva dei privilegiati. In definitiva, è il sorriso che sorride al sorriso, un subrisus purus curiosamente beckettiano, chiuso e impassibile di fronte alle proprie responsabilità, alla propria incapacità di riconoscersi nei sorrisi compiaciuti degli altri.15 Consolo scrive: Ha un altro significato ancora quel ritratto, che molto bene ha colto Sciascia: ‘Questo sfregio è la storia di un parricidio’ ha detto, referendosi allo sfregio che il ritratto ha sulle labbra. Lo sfregio è fatto da un personaggio che muove tutto 16 il racconto, tutta l’azione. La ragazza, un’intellettuale, […] sfregia l’uomo del ritratto al quale perfettamente somiglia il fidanzato. Il gioco delle somiglianze, circolare e chiuso, col ritratto vuol dire che dalla ragione si può uscire dall’alto con il disordine e il furore della fantasia creatrice.16 6. Testi e tessili Tra le metafore che sono state utilizzate per designare l’attività linguistica, la tessitura occupa un posto di primaria importanza. Gorni scrive che “la metafora di testo, poetico o in prosa, principio istituzionale della nostra cultura scritta, […] è da considerare una gloriosa ex metafora”.17 Sia come sia, l’iscrizione di questa metafora nell’attività della scrittura è molto rilevante per Consolo e ha dei paralleli danteschi. Catena Carnevale rappresenta la forza creativa femminile che agisce come antidoto alla “ragione” maschile, simboleggiata dal ritratto. Il suo atto dello “sfregio” è infatti un atto di iscrizione sul palinsesto che è la mappa letteraria siciliana. La radice della parola scripta, come in manoscritto, è skeri, tagliare, separare, setacciare. Il verbo latino scribere significava incidere, scrivere. Lo sfregio di Catena è in realtà lo sfregio di Consolo. Ma Catena è anche intimamente legata all’idea di tessitura attraverso il ricamo. Il suo fidanzato Interdonato allude più direttamente alla relazione tra la sua attività tessile e quella della scrittura quando afferma che “quanto al ricamo poi, dice che le serve per rilassare la nervosità e tirare al contempo il succo delle parole lette” (165). La binomia Consolo/Catena è stata effettivamente suggerita nell’antefatto. La fretta dello speziale nel vendere il ritratto a Mandralisca deriva dal suo desiderio di vedere sua figlia “serena dietro il banco a ricamare, decifrare le ricette per cui aveva disposizione speciale (completava a batter d’occhio iniziali, dipanava rabeschi girigogoli svolazzi, smorfiava linee puntini sospensivi…)” (127). Il verbo “decifrare” segnala la metafora e la descrizione delle sue capacità allude allo stile di scrittura unico di Consolo. Ma è con la descrizione della “tovaglia di seta ricamata” raffigurante l’Italia che emerge una vera nozione di metapoetica consoliana: Aveva, sì, tutt’attorno una bordura di sfilato, ma il ricamo al centro era una mescolanza dei punti più disparati: il punto erba si mischiava col punto in croce, questo scivolava nel punto ombra e diradava fino al punto scritto. E i colori! Dalle tinte più tenue e sfumate, si passava d’improvviso ai verdi accesi e ai rossi sfacciati. Sembrava, quella tovaglia […] ricamata da una invasa dalla furia, che con intenzione ha trascurato regole numeri misure e armonia, fino a sembrare forse che la ragione le fosse andata a spasso. (167-168) È Consolo che si autolegge e si posiziona all’interno della narrazione attraverso una metafora tessile, con Catena come suo doppio testuale, liminale 17 e riconoscibile per la sua assenza dalla narrazione vera e propria. La descrizione mette in atto le procedure specificamente consoliane dell’innesto di intertesti sui propri, selezionando e affiancando lingue e dialetti diversi e spesso stridenti, e fondendo forme metriche nella sua prosa narrativa. L’uso che Dante fa della metafora è sia conservativo che radicale. Cacciaguida è descritto come “tacendo, si mostrò spedita / l’anima santa di metter la trama / in quella tela ch’io le porsi ordita” (Paradiso, XVII. 100-02). Tuttavia, è con la “sozza imagine di froda”, Gerione (Inferno, XVII. 7), il “ver ch’ha faccia di menzogna” (Inferno, XVI. 124) che l’accoppiamento tessile/testuale, attraverso le metafore nautiche, può essere interpretato per diventare il testo stesso. La descrizione fisica di Gerione è qui significativa: lo dosso e ‘l petto e ambedue le coste dipinti avea di nodi e di rotelle. Con più color, sommesse e sovraposte non fer mai drappi Tartari né Turchi, né fuor tai tele per Aragne imposte (Inferno, XVII.14-18) Ferrucci scrive che Gerione non rappresenta solo la frode quale categoria morale, ma anche come categoria estetica, ed è anche “la personificazione della menzogna poetica”.18 La fusione di metafore nautiche e aeronautiche per rendere il movimento prefigura certamente l’ulissiaco “de’ remi facemmo ali al folle volo” (Inferno, XXVI, 125), e suggerisce il viaggio poetico di Dante e il testo stesso. La descrizione di Gerione è un emblema della testualità, intimamente legata al tema del viaggio e dei rischi concomitanti della sua stessa impresa, incarnata nel “folle volo” di Ulisse. Tale auto-figurazione metapoetica nella Commedia è messa in atto attraverso il ripetuto ricorso alla metafora nautica di Dante per il poema: “Per correr miglior acque alza le vele / omai la navicella del mio ingegno, / che lascia dietro a sé mar sì crudele” (Purgatorio, I. 1-3). Il romanzo di Consolo inizia riguardando un mare altrettanto crudele, pieno di pericoli. I “verdi accesi” e i “rossi sfacciati” della tela ricamata di Catena richiamano i colori dei fani nella seconda fra18 F. Ferrucci, Il poema del desiderio, Milano, Leonardo, 1990, p. 99. se del romanzo: “I fani sulle torri della costa erano rossi e verdi” (129), e stanno quindi per il testo. I momenti esordiali del testo di Consolo contengono altri momenti danteschi. La stessa visione difettosa del protagonista è circoscritta dalla “fioca luce” della lanterna, ricordando il “fioco lume” (Inferno, III. 75) della visione di Dante e prefigurando l’arrivo della versione di Consolo di “chi per lungo silenzio parea fioco” (Inferno, I. 163). Ogni dubbio su questi echi danteschi è dissipato dal volo di Mandralisca nel regno pseudo-storico-fantastico. Qui l’elencazione dei toponimi fa sì che la mente del personaggio salti indietro nei secoli dove “Al castello de’ Lancia, sul verone, madonna Bianca sta nauseata. Sospira e sputa, guata l’orizzonte. Il vento di Soave la contorce. Federico confida al suo falcone” (128). Il passaggio si riferisce enigmaticamente all’imperatore Federico II e alla signora Bianca Lancia di Monserrato, i genitori di Manfredi. Il “vento di soave” è la più eclatante delle allusioni a Dante innestate da Consolo: “Quest’è la luce de la gran Costanza / che del secondo vento di soave / generò ‘l terzo e l’ultima possanza” (Paradiso, III.118-20). Inoltre, l’uso della forma arcaica “guata” ricorda certamente la prima similitudine della Commedia: E come quei che con lena affannata, uscito fuor del pelago a la riva, si volge a l’acqua perigliosa e guata, così l’animo mio, ch’ancor fuggiva, si volse a retro a rimirar lo passo che non lasciò già mai persona viva (Inferno, I. 22-27) Il dantismo di Consolo, quindi, mostra allusioni incorporate e citazioni aperte; Dante è una presenza sommersa e uno strumento significativo nella figurazione della sua narrazione. Questo “romanzo chiocciola” riverbera echi e motivi lontani. In definitiva, la presenza di Dante nella narrazione di Consolo è quella “voce di mare” che riemerge “dal profondo”, e “eco di eco che moltiplicandosi nel cammino tortuoso e ascendente per la bocca si sperdea sulla terra e per l’aere della corte, come la voce creduta prigioniera nelle chiocciole” (236).

Giugno 2022 Editora Comunità Rio de Janeiro – Brasil

***
1 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, in V. Consolo, L’opera completa, a cura di G. Turchetta, Milano, Mondadori, 2015, p. 236. Tutte le citazioni delle opere di Consolo sono tratte da quest’edizione. 8 M. Sinibaldi, La lingua ritrovata: Vincenzo Consolo, “Leggere”, 2, 1988, pp. 12. 9 Indubbiamente, Consolo consultò inoltre L. Vasi, Delle origini e vicende di San Fratello, in “Archivio Storico Siciliano”, Nuova serie, VI, 1881, pp. 239-331; B. Rubino, Folklore di San Fratello, Palermo, Libreria Inter A, Reber, 1914; F. Piazza, Le colonie e i dialetti lombardo-siculi: Saggio di studi neolatini Catania, Vincenzo Giannotta, 1921. 10 L. Vigo, Canti popolari siciliani, raccolti e illustrati, Catania, Tip. Accademia Gioenia di G. Galatola, 1857, p. 55. 11 L’enfasi nell’originale. L. Vigo, Sui canti Lombardi – Al Cav. Giovenale Vegezzi Ruscalla, “La Sicilia”, Aprile, 1868. Ristampato in L. Vigo, Raccolta amplissima di canti popolari siciliani (Ristampa anastatica dell’edizione di Catania, 1870-74), Bari, Arnaldo Formi, 1974, p. 126.
John Freccero, The Poetics of Conversion, p. 199. 15 Samuel Beckett, Watt, Londra, John Calder, 1963, p. 47 16 V. Consolo, Fuga dall’Etna: La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Roma, Donzelli, 1993, p. 58. 17 G. Gorni, La metafora del testo, in “Strumenti critici”, 38: 1979, pp. 18-32 (p. 18). Si veda inoltre P. Zumthor, Testo e testura: l’interpretazione delle poesie medievali, in “Strumenti critici”, 7: 1968, pp. 349-63.

Conversare su Consolo: per ricordare lo scrittore siciliano

University College Cork, Irlanda
Conversare su Consolo: quattro appuntamenti online per ricordare lo scrittore siciliano A cura di Daragh O’Connell

Organizzazione: Claudio Masetta Milone

1) Tradurre Consolo (venerdì 28 gennaio, 2022) con la partecipazione di
JOSEPH FARRELL
2) Curare Consolo (venerdì 4 febbraio, 2022) con la partecipazione di
GIANNI TURCHETTA
3) Studiare Consolo (venerdì 11 febbraio, 2022) con la partecipazione di
NICOLÒ MESSINA
4) Raccontare Consolo (venerdì 18 febbraio, 2022) con la partecipazione di
CLAUDIO MASETTA MILONE e IRENE ROMERA PINTOR

CONVERSARE SU CONSOLO
Il link per i quattro appuntamenti:

  1. Tradurre Consolo (Joseph Farrell)
     https://www.youtube.com/watch?v=vBZ3o4MXHP4&t=182s
  2. Curare Consolo (Gianni Turchetta)
     https://www.youtube.com/watch?v=SAMwA_oVEB4
  3. Studiare Consolo (Nicolò Messina)
     https://www.youtube.com/watch?v=m0Y46t_d0qI&t=9s
  4. Raccontare Consolo (Claudio Masetta Milone e Irene Romera Pintor)  https://www.youtube.com/watch?v=59QiB2QPzk8&t=7s


Ricordi di Vincenzo Consolo

Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori

A 10 anni dalla scomparsa di Vincenzo Consolo, FAAM ricorderà lo scrittore con “Reading – Ricordi di Vincenzo Consolo”, a cura di Paolo Di Stefano e Giovanni Turchetta, in collaborazione con Associazione Amici di Vincenzo Consolo.
Mercoledì 26 gennaio alle ore 18:30 al Laboratorio Formentini verrà data voce ai ricordi di chi ha conosciuto l’autore, con i testi di Maria Attanasio, Maria Rosa Cutrufelli, Nino De Vita, Paolo Di Paolo, Ernesto Ferrero, Corrado Stajano e Nadia Terranova.

***

MARIA ATTANASIO      

«Prima viene la vita»

Una fotografia, senza pretese d’arte.

Puramente testimoniale di uno dei tanti momenti di condiviso vissuto: presentazioni, incontri, lunghi conversari di politica, letteratura, o degli eventi del giorno, di cui Vincenzo era attentissimo e severo giudice.

Nel retro della foto, una data: agosto 1993. Sullo sfondo di un’altura di pietre e sterpaglie, una casamatta con due lunghe fessure orizzontali, da cui nel luglio del 1943 i cannoni tedeschi cercavano di fermare lo sbarco alleato. In primo piano Vincenzo e Melo; io tra loro.

Di fronte a noi – sotteso all’immagine – il maldestro fotografo, Giovanni mio marito; e il profilo di Gela in lontananza, la meta privilegiata dell’itinerario di quel giorno per ritrovarne il passato e leggerne il presente. Ma del tutto smemorata -la città di ciminiere e vocianti periferie- del suo costitutivo già stato: le mastodontiche mura di Capo Soprano, i resti archeologici, il Museo.

A concludere la visita fu una lunga sosta sulla tomba di Eschilo, che dal margine ovest della città si affaccia sulla raffineria. Avvolta dai fumi di anidride solforosa e dai malodori di catrame e benzene, la tomba del Grande Tragico apparve allo scrittore come il simbolo “della perdita d’ogni memoria e senso, del gelo della mente e dell’afasia” di una condizione umana, degradata e analfabeta nel consumo mediaticodell’istante.

La fine di un’Atene civile “che nessuno può liberare dall’oltraggio”, scriverà nel lamento-invettiva che conclude la straniante e drammatica scrittura de L’olivo e l’olivastro; l’amaro nostos di un contemporaneo Ulisse che, ritornando nell’Itaca-Sicilia, si ritrova un’isola di kalashnikof e omologazione, di tritolo e globalizzazione, senza scampo devastata dai proci.

Un viaggio, durante il quale, per un breve tratto, gli sono stata compagna.

Tante volte era venuto -e verrà- a Caltagirone, da solo o insieme a Caterina Pilenga, sua moglie.

Caterina è rimasta a Milano, mi disse invece, quando nell’agosto del 1993 – durante la fase compositiva di quel libro – mi telefonò per annunciarmi che sarebbe arrivato con suo fratello Melo: voleva rivisitare Caltagirone e i paesi vicini. E io fargli da guida.

Nonostante Vincenzo già conoscesse la medioevale topografia araba del centro storico della mia città, tornò a interrogare chiese, conventi, scalinate, proletari carruggi e nobili palazzi; i luoghi per lui non essendo pura definizione di spazi, ma verticalità di tempi, storie, linguaggi, oscuramente vibranti dietro ogni casa, ogni muro, ogni piazza.

Più forte di ogni altra cosa fu però il malioso richiamo dell’antica civiltà del tornio e dell’argilla; nelle botteghe dei vasai, nella scintillante bellezza di forme e smalti dei loro manufatti, ritrovando l’essenza connotativa di ogni esistenza: fusione di vivo presente e remoto vissuto.

E da Caltagirone in tanti altri luoghi – non visibili nel testo ma esperienzialmente costitutivi di esso – tra cui un piccolo villaggio rurale distante una ventina di chilometri. Una laboriosa comunità contadina lo abita, in prevalenza proprietari di piccoli fondi, che coltivano la terra in economia, o l’aiuto di immigrati: tunisini e -in quegli anni di bombe umanitarie- anche albanesi. Non era ancora arrivata in Occidente l’ondata subsahariana e medio-orientale, che oggi invece ne è respinto ed errante nucleo.

Ritenendo che non ci fosse nulla di interessante per il suo libro in fieri, cercai di dissuaderlo. Inutilmente.

Andammo.

Vigneti, serre, ortaggi, uliveti, e dignitose case a un piano con i catoi a pianoterra aperti sulla strada, nel cui buioso dentro si intravedevano botti, attrezzi agricoli, gente indaffarata. Da uno di essi uscì un uomo -il padre di un mio alunno- che ci invitò ad entrare, offrendoci vino e frutta secca; insieme a lui, Amedeo, in realtà l’italianizzato nome di Ahmed, un tunisino di pochissime parole.  

Seduti su cassette che facevano da improvvisate sedie, iniziò un’indolente conversazione su coltivazione e cicli produttivi di olio e vino, a cui Vincenzo, senza prosopopea di superiorità intellettuale, con vivo interesse partecipava: ascoltava, chiedeva, precisava, intervenendo con competenza su vigneti ad alberello o a spalliera, su frantoi a freddo o a caldo.

Durante la visita al Museo di Gela, mi aveva sbalordito la sua immediata individuazione di conii e figurazioni della ricchissima raccolta numismatica, ma mi lasciò senza parole il suo puntuale sapere di campagna e agricoltura; una sconfinata passione conoscitiva, senza soluzione di continuità tra esperienza di vita e scrittura, ne muoveva il passo e la parola, rispettosamente in ascolto di ogni fare umano, e del linguaggio di quel fare!

Ad un certo punto la conversazione sviò sulla scuola e sul figlio, che -disse il padre alludendo alle sue difficoltà scolastiche in latino e greco- andava male perché non aveva i p(i)ramenti (un termine dialettale per indicare l’invisibile basamento su cui poggia una casa, che altrimenti crolla) convenendo entrambi, Vincenzo e quell’uomo, sull’assoluta necessità dei p(i)ramenti, per costruire case e saperi.

E la scrittura, aggiunse durante il viaggio di ritorno, ripetendo, ilare e ammirato, quella parola: metafora e senso della sua ricerca espressiva.

Risalendo dal fondo del già scritto e del già vissuto, la metrica della memoria, in tutte le sue operesi fa infatti visionaria poesia in forma di narrazione; sovversiva scrittura della presenza per “dare ragione e nome” all’umano dolore; che ne è sempre presupposto ed essenza: “Prima viene la vita, scrive in Retablo – quella umana, sacra, inoffendibile, e quindi ogni altro: filosofia, scienza, arte, poesia, bellezza.”

In ogni tempo, in ogni spazio. Qui, adesso.

Continuo perciò a chiedermi oggi -a distanza di dieci anni dalla sua morte- quale sarebbe la sua reazione di fronte alla realpolitik di un’Europa, che finanzia spudorati sovranismi, per difendere i confini e respingere i migranti in fuga da guerre, fame, dittature; lasciandoli morire nel gelo della rotta balcanica, o annegare nel tentativo di attraversare la Manica, o il Canale di Sicilia.

Solitamente calmo nell’interloquire, Vincenzo però si accendeva di sdegno, esplodeva davanti a un’ingiustizia sociale o all’indifferenza dell’obeso Occidente, concludendo furente: “No. Tutta quest’ingiustizia non può durare.!

Hasta la vista, Vincenzo, poeta e profeta!

***

MARIA ROSA CUTRUFELLI

«Mai contro l’uomo»

“Siracusa, il tempio di Apollo è allagato e le idrovore non possono intervenire. Potrebbero distruggere i reperti.”

Il 30 ottobre scorso, quando ho letto questa notizia sui giornali, ho immediatamente, inevitabilmente, pensato a Vincenzo e al dolore che ne avrebbe avuto. Di colpo, mi è tornato in mente il piccolo appartamento che aveva comprato a Ortigia. Piccolo, ma con un grande terrazzo che si allungava proprio sul tempio dorico e le sue pietre millenarie: una visione estraniante, che ti faceva precipitare in un punto misterioso del tempo, là dove la storia incontra il mito. Era questa visione, era quel terrazzo ad affascinare Vincenzo. Non gli importava che l’appartamento fosse scomodo, con molte scale e pochi servizi. O che l’intero edificio fosse fatiscente. Caterina, con il suo buonsenso nordico, se ne lamentava, ma lui non le dava ascolto. Li ricordo così: lei pragmatica, adorante e critica nella stessa misura, lui tutto preso dalla nostalgia per l’isola e dal “dovere di scrivere in difesa dell’uomo, mai contro l’uomo” (come disse in una bella intervista che gli fece Rosaria Guacci per il nostro bimestrale, Tuttestorie).

Molto uniti e solidali, Caterina e Vincenzo si compensavano a vicenda. Lei ribelle, ma con un forte senso pratico. Lui convinto che, per recuperare la speranza, bisognasse abbandonare il codice razionalistico, cioè la Francia, e andare verso la Spagna, verso la “dolce follia,

simbolica e metaforica” di Don Chisciotte. Lei intransigente, lui mite. Ma se qualcuno peccava d’indifferenza sociale, Vincenzo sapeva essere molto duro nei suoi confronti, ed era lei, la ribelle pragmatica, a sgridarlo quando si mostrava troppo rigido. Cosa che gli capitava abbastanza di frequente. Una volta l’ho visto nascondere le mani dietro la schiena per non ricambiare il saluto di un assessore, reo di non so più quale sopruso.

E Caterina, sottovoce: “Smettila di fare il Pierino dispettoso!” La prima volta che l’ho incontrato di persona, è stato a Torino, a un salone del libro. Avevo appena pubblicato un romanzo ambientato in Sicilia, a Gela, la città del petrolchimico, e Vincenzo volle conoscermi: tutto ciò che riguardava la Sicilia lo riguardava personalmente. Era un uomo schivo e io, da parte mia, ero intimidita dalla sua presenza: lui non poteva saperlo, ma lo consideravo il ‘mio’ maestro. Non solo per ammirazione verso la sua scrittura (questo non basta, a mio parere, per fare di qualcuno un ‘maestro’). Ciò che mi entusiasmava era la sua concezione della lingua, così innovativa, straordinariamente moderna. Mi piaceva il suo interesse per le voci ‘altre’, voci che possiedono ritmi e accenti diversi dai nostri, e che tuttavia si mescolano alle nostre voci producendo un effetto che lui chiamava ‘mistilinguismo’.

Era più che un interesse, a dire il vero: era una ricerca letteraria e, al tempo stesso, una presa di posizione etica e politica. Che si concretizzava in un sostegno particolare a certi libri e a certe scritture. Per esempio, quando al premio Vittorini arrivò “Madre piccola”, il primo romanzo di Cristina Ali Farah, scrittrice italiana di padre somalo, ricordo che disse a noi della giuria: “Ecco un caso di mistilinguismo.” Ecco un romanzo degno della sua e della nostra attenzione.

Vincenzo era sedotto dalla commistione delle lingue, da quel loro sovrapporsi che produce scritture nuove. Tanto più nuove in quanto arrivano da paesi dove scrivere non è mai un ‘atto neutro’, perché la lingua stessa – lingua d’importazione, lingua nemica – ha bisogno di essere re-inventata per poter diventare strumento di speranza.

Più volte Vincenzo Consolo ha rivendicato la sua scelta, il suo situarsi “in una linea sperimentalista in cui è forte l’implicazione del mistilinguismo”. Implicazione evidente, sosteneva, fin dal suo primo libro, “La ferita dell’aprile”. Era il respiro ampio, era lo sguardo che andava oltre, superando confini e barriere, a dare senso morale alla sua narrazione, a unire la ricerca formale all’impegno etico in letteratura. Un azzardo che mi lasciava senza fiato.

Per farla breve, Vincenzo Consolo era il ‘mio’ maestro e quel giorno, a Torino, ero paralizzata dalla timidezza. Non rammento cosa gli dissi, come risposi alle sue domande, ma non devo essergli dispiaciuta, considerando che da quel primo incontro è poi nata una lunga amicizia.

Fu lui a volermi nella giuria del premio Vittorini (di cui era presidente) e gliene sono ancora grata per molti e svariati motivi. Ma soprattutto perché mi ha permesso di scoprire cosa si prova a stare sopra un palco millenario. Infatti, in quegli anni ormai lontani, il premio si teneva al teatro greco di Siracusa e la giuria, per l’appunto, prendeva posto sul palcoscenico. Be’, vi assicuro che vedere il panorama da lì, dal cuore del teatro, poter guardare la cavea da quella prospettiva e risalire su con lo sguardo, su lungo i gradini a semicerchio, è un’emozione indimenticabile. Invidio gli attori che possono godere di quello spettacolo quando vogliono. Finita la cerimonia, spesso prendevamo la stessa macchina per recarci in visita alle rispettive famiglie. Io mi fermavo a Graniti, lui proseguiva per Sant’Agata di Militello. Durante il viaggio, Vincenzo mi parlava di sua sorella, che aveva cresciuto lui e tutti gli altri fratelli. Io gli parlavo di mia madre, fiorentina trapiantata in Sicilia.

Mi dava anche consigli, naturalmente. Non è questo che fanno i maestri? Così quando, nel 2010, gli comunicai che me ne andavo per un anno in Africa, in Senegal, si affrettò a dirmi: “Scrivi un diario!” Un suggerimento che ho seguito solo in parte, dato che provo un’avversione invincibile nei confronti dei diari (dei ‘miei’ diari, quelli degli altri mi piacciono, li leggo avidamente e guai se non ci fossero!). Però, con quell’esortazione di Vincenzo che mi girava sempre per la testa, quella volta ho cercato un compromesso. E dunque ho preso appunti (talmente brevi, purtroppo, che a rileggerli oggi non capisco più a cosa si riferiscono) e ho fatto foto e raccolto ritagli di giornale. Ma temo che Vincenzo non intendesse questo… Comunque, al mio ritorno, lo trovai già malato. La malattia non aveva spento la sua voglia di conoscere il mondo, era curioso come sempre e dunque gli parlai dell’Africa e del mio lungo soggiorno a Dakar, città ricca di cultura, di musica e di gioventù. In ogni caso, evitai accuratamente l’argomento ‘diari’.

D’altronde le nostre telefonate erano sempre più brevi e, per me, sempre più tormentose. Per fortuna c’era Caterina, che, con la solita efficienza, gli organizzava la vita e gli incontri con gli amici. Dopo, quando Vincenzo non ha più avuto bisogno del suo aiuto per vivere, Caterina si è dedicata ai suoi scritti. Riordinava le carte, cercava in ogni modo possibile di curare la sua memoria. Un giorno mi disse: “Non m’importa di morire, ma non posso farlo finché le sue cose non sono a posto”.

E così è stato.



***

NINO DE VITA

Questo racconto in versi dialettali di Nino De Vita (avete il testo in fotocopia con traduzione) richiede una breve premessa che lo stesso poeta di Marsala ci ha pregato di lettere:  

Io e Vincenzo Consolo ci siamo incontrati per la prima volta in una stanza dell’Ospedale “Sant’Antonio Abate” di Trapani. Non ricordo di preciso in quale anno, di sicuro eravamo in uno dei primissimi anni Settanta. Era estate. Lui si trovava in quei giorni in vacanza a Pantelleria, lì si era sentito male (aveva contratto l’epatite) ed era stato trasferito a Trapani. Una sua cara amica che lo accompagnava mi aveva, su consiglio di Consolo, telefonato per avvisarmi e così io raggiunsi quella mattina Vincenzo. C’era stato fino ad allora solo uno scambio epistolare fra di noi. È tutto dentro il mio racconto in versi: non c’è di inventato, come si suol dire, nemmeno una virgola. Da quel giorno (e fino a qualche mese prima della sua scomparsa) io e Vincenzo non ci siamo più lasciati.

Trasu nno strurimentu

(Entro nel mio tormento)

I.

S’attrova sutta ô Munti, nno ’na timpa
– ed è rranni – ’u spitali
ri Sant’Antoniu Abbati.
Ri finistruna Trapani si gori
stinnigghiata, ch’allonga,
trasi, turciuta, rintra
ô mari.
Summu p’i scali, summu, allarmatizzu
pi stu ncontru, stu fattu
chi ntravinni a Vicenzu
Consulu. E comu fu,
com’èni chi successi.
A pperi summu, allentu,
cu ’a vuci ri sta fìmmina
chi chiamannu, vogghiardi,
mi fici sapituri.
Ora è mezziornu.
                             ’A luci,
nne strati, quasi, annorva.
’U ventu manca e cc’è
scarmazzu.

I. É sotto il monte, su un’altura/ – ed è grande – l’ospedale/ di Sant’Antonio Abate./ Dalle vetrate Trapani si ammira/ distesa, che si allunga,/ penetra, a falce, dentro/ il mare.// Salgo le scale, salgo, intimorito/ per questo incontro, questo fatto/ che è successo a Vincenzo/ Consolo. E come fu,/ com’è potuto accadere.// A piedi salgo, a lento,/ con  la voce di questa donna/ che chiamando, di mattina presto,/ mi fece sapere.// Ora è mezzogiorno./ La luce,/ nelle strade, quasi, acceca./ Il vento manca, stagna/ la calura.

II

É nno lettu, curcatu,
c’u cozzu nno chiumazzu
aisatu nna spaddera.
“Vicè” cci ricu, appena
m’apprisentu, nna porta,
e ’u canusciu. “Vicè…”
“Ninuzzu” rici “Ninu…”
E subbitaniu, aisannu
’u vrazzu “Arresta ddocu,
accura, ’un ti ncustari”.
Avi ’a facci ggiannuffa, comu ’u bbiancu
ri l’occhi, comu ’i manu.
“Vicè” cci fazzu “e cch’èni: nni ncuntramu
e ’unn’i putemu rari
’a manu!”.
Nno lettu allattu cc’èsti,
misu mpizzu, un bbonentu
mmicchiutu, allignamatu,
ch’assisti: s’arricogghi
tuttu, ciatìa, lampia
’i vavareddi.
’A fìmmina, chi mi
chiamau, èsti a tuccari
a mmia, additta, ’a viu
pigghiata ri cileri.
“Sta zzàfara m’a portu ri Milanu”
va cuntannu Vicenzu. “M’a sintia
sbissata sta pirsuna
mia…
’U tempu ri pusari
peri a Pantiddiria,
nzèmmula a idda” e cci
rriri nnamentri ch’a
talia “e sugnu cca…”
Ora talia a mmia.
Mi rici, rrisulenti:
 “Sì propriu propriu ntìficu
comu t’avia nnall’occhi”.
“A to’ fiura ammeci eu l’hâ vistu
nne libbra, nne ggiurnala,
Vicenzu”.
                  E trovu appoiu
cu ’a spadda nna facciola
ra porta.
               “Stu malannu” mi batti, cu ’a ncasciata
“parsi una puvirenzia:
nn’aviamu a canùsciri ô rritornu
ri l’ìsula e accurzamu”.
’A fìmmina è nnirvusa,
s’assistema i capiddi,
tira un’arricialata.
Rrutuliu cu Vicenzu
ri niatri, ra Sicilia,
l’amici chi cci avemu,
ri Sciascia, chi ora â gghiri
a truvari…
’U vecchiu nni talia,
senti, tistia, pari
ri sti cosi ntrissatu,
sta comu ’un alluccutu.
Trasi un nfirmeri, posa
nna culunnetta ’un sacciu
soccu, un agghiummareddu.
Sarrani chi ci sunnu
bbadduzzi ri pigghiari.
E sgangusu, nnamentri
chi nnesci:  “Chi facemu,
chi faciti, ah, ’un scuffamu?”.
“Penzu ch’è avura, Ninu,
ri jiritinni” mi rici
Vicenzu.
“Chi torni a Cutusìu?”
“ ’A Cutusìu. Poi vegnu
a truvàriri, arrè,
ddumani.
’A juta a Rracarmutu,
â Nuci, ddà, nni Sciascia,
’a straportu”.
“No” iddu rici “ ’un strapurtalla, vacci,
’un ddàriti pinzeri.
Ri Sant’Ágata agghica me’ niputi
Rrinu…Vacci, tu vacci,
va ttròvalu a Nanà.
E sai soccu ti rico: ti priparu
una littra e cci ’a porti”.
Nesci ra bbuzza, misa
ô capizzu, un mazzettu
ri fogghi, ’a pinna, mentri
ch’a fìmmina, pigghiànnumi p’un ùvitu,
mi tira nno passettu
e mi rici, appagnata:
“Talìami nna facci,
nnall’occhi: chi ti paru
ggiannuffa? M’a pigghiai,
sta zzàfara â pigghiai!”
’Un sacciu chi cci ’a ddiri…
“ Ti ricu ch’è accussia”
idda accorna. “ ’A pigghiai,
mi l’ammiscau”.
                           E trimannu
’a testa s’accummogghia
l’occhi.
’A luci, fora, a ppicu,
misi comu una negghia
nne casi e puru a mmari.
Si viri sulu ’u curmu
ri Favugnana e Lèvanzu.
Marèttimu ’un si viri…
Penzu a sti jorna mei,
a mmia, sta sulità
chi ci haiu, a cu è chi persi,
trasu nno strurimentu…
“Ninu” sentu Vincenzo
chi mi chiama. E arrisagghiu,
tornu nnarrè. “Cci ’a scrissi”
rici appena chi spuntu
“è pronta”.
                   M’avvicinu.
Mi poiu pi pigghiari
’a bbusta e s’arritira
’u vrazzu.
“ ’U sai chi staiu pinzannu?”
mi rici, cu ’a timenza
“sta littra a Sciascia tu
è megghiu ch’un cci ’a porti.
Mi scantu chi maniannula,
chi nni sacciu, a viatri, a tutti rui
v’ammisca”.

II. É nel letto, disteso,/ con la nuca sul cuscino/ poggiato alla testiera./ “Vicè” gli dico, appena/ mi affaccio sulla porta/ e lo riconosco. “Vicè…”/ “Ninuzzo” dice “Nino…” / E di colpo, alzando / il braccio “Resta lì,/ attento, non ti accostare”./ Ha la faccia giallastra, come il bianco/ degli occhi, come le mani./ “Vicè” gli faccio “ e ch’è: ci incontriamo/ e non possiamo darci/ la mano!”/ Nel letto accanto al suo c’è,/ in punta, sul bordo, seduto, un uomo/ vecchio, smagrito,/ che ci ascolta: si stringe/ nelle spalle, sospira, batte/ le palpebre./ La donna, che mi/ chiamò per avvisarmi, è accanto/ a me, all’impiedi, la vedo/ turbata./ “Quest’epatite me la porto da Milano”/ racconta Vincenzo. “La sentivo/ spossata questa persona/ mia…/  Il tempo di posare/ piede a Pantelleria,/ assieme a lei” e le/ sorride intanto che la/ guarda “e sono qua…”/ Ora guarda me./ Mi dice, sorridente:/ “Sei proprio proprio come / ti immaginavo”./ “Il tuo volto invece io l’ho visto/ nei libri, sui giornali,/ Vincenzo”./ E trovo appoggio/ con la spalla allo stipite/ della porta./ “Questo malanno”/ ribatte, ironico/ “ è parso una provvidenza:/ dovevamo conoscerci al mio ritorno/ dall’isola e accorciammo”./ La donna è nervosa,/ si aggiusta i capelli,/ tira un sospiro lungo.// Parlo con Vincenzo/ di noi, della Sicilia,/ degli amici che abbiamo,/ di Sciascia, che devo andare/ a trovare…/ Il vecchio ci guarda,/ ascolta, fa sì con la testa, sembra/ di queste cose interessato,/ sta come un allocchito./ Entra un infermiere, poggia/ sul comodino non so/ cosa, un involto piccolo./ Forse ci sono dentro/ le pillole da prendere./ E canzonante, mentre/ che sta per uscire: “Che facciamo,/ cosa fate, ah, non smammiamo?”./ “Penso che è l’ora, Nino,/ di dovere andare” mi dice/ Vincenzo./ “Che torni a Cutusìo?”./ “A Cutusìo. Poi vengo/ a trovarti, di nuovo,/ domani./ L’andata a Racalmuto,/ alla Noce, da Sciascia,/ la sposto”./ “No” lui dice “non rinviarla, vacci,/ di me non preoccuparti./ Da Sant’Agata arriva mio nipote/ Rino… Vacci, tu vacci,/ vai a trovarlo a Leonardo./ E sai cosa ti dico: preparo/ una lettera e gliela porti”./ Esce dalla borsa, che tiene/ vicino al letto, un mazzetto/ di fogli, la penna, mentre/ la donna, prendendomi per un gomito,/ mi tira nel corridoio/ e mi dice, spaventata:/ “Guardami la faccia,/ gli occhi: che ti sembro/ gialla? L’ho presa,/ l’ho presa st’epatite!”/ Non so che cosa dirle…/ “Ti dico che è così”/ insiste. “L’ho presa,/ mi ha infettato”./ E scuotendo/ la testa si nasconde/ gli occhi./ La luce, fuori, a picco,/ ha steso come una nebbia/ sopra le case e a mare./ Si scorge solo la punta/ di Favignana e Levanzo./ Marettimo non si vede…/ Penso a questi giorni miei,/ a me, questa solitudine/ che vivo, a chi è che ho perso,/ entro nel mio tormento…/ “Nino” sento Vincenzo/ chiamare. E mi riscuoto,/ torno indietro. “Gliel’ho scritta”/ dice appena mi affaccio/ “è pronta”./ Mi avvicino./ Mi sporgo per prendere/ la busta e ritrae/ il braccio./ “Lo sai cosa sto pensando?”/ mi dice, pieno di temenza/ “questa lettera a Sciascia tu/ è meglio che non la porti./ Ho paura che toccandola,/ che so, a voi, a tutti e due/ vi infetti”.



***

PAOLO DI PAOLO

Un immenso giacimento

È una mattina di novembre, è il 2001. Vincenzo Consolo si racconta agli studenti di un liceo non lontano da Roma. Io avevo diciott’anni: provai a invitarlo; lui fu cortese in un modo che non mi aspettavo. Subito paterno, curioso. Sono andato a ripescare la vecchia videocassetta in cui è rimasta traccia delle sue parole, della sobrietà con cui le pronunciava. “Sono uno dei pochi (o dei tanti?) che non predilige le memorie erotiche, gli schizzi di sangue, gli intrighi internazionali. La lettura è un mondo infinito dal quale trarre linfa vitale per l’immaginazione, per una continua ricerca di verità e di conoscenza”. Ne Lo Spasimo di Palermo appare uno scrittore di cui si dice che “aborriva il romanzo, questo genere scaduto, corrotto, impraticabile” e che ha scelto “una diversa lingua, dissonante, in una furia verbale ch’era finita in urlo, s’era dissolta nel silenzio”.

Non è un’opera facile, immediatamente accessibile la sua – con quell’affollarsi sulla pagina di parole remote, preziose, sonore come note di una musica distante –, e per gli studenti che lo ascoltavano provò a semplificare, a descrivere la sua scelta letteraria con estrema chiarezza. Ho provato a trascrivere parte del suo intervento, con maggiore fedeltà possibile, perché credo somigli a un tentativo di autodefinizione preciso e appunto trasparente. Disse tra l’altro:

«La tradizionale gerarchia mette in una posizione prevalente la parte comunicativa. Io ho cercato di rompere questa gerarchia, strutturando le frasi secondo un particolare ritmo, secondo un’autentica armonia sonora che avesse una valenza di significante forte quanto quella di significato; e attingendo all’immenso giacimento linguistico della mia terra, la Sicilia, attraversata da tutte le grandi civiltà, dalla fenicia alla greca, a quella romana, a quelle araba, francese e spagnola. Ho scavato in questo giacimento come un archeologo, trovandomi per le mani una ricchezza impensabile, con lo stesso stupore provato venendo qui stamattina e percorrendo un tratto di Appia antica: con tutta la meraviglia e il rapimento di passare in un istante dalla modernità a un passato remoto e viceversa. Ho innestato sulla lingua italiana i reperti di altre lingue, anche scomparse, e non l’ho fatto per via di un gioco formale. Per me è stato un bisogno, un’urgenza di allargare i significati della parola, sottraendola alla convenzione linguistica, che ci spinge ad accettare e fare nostro un solo significato. Ma le parole esistono davvero in una dimensione più complessa, che comprende il loro suono, la radice da cui nascono. Sono come biglie chiuse con un mistero dentro: bisogna aprirle».

Dietro alla gentilezza dello sguardo si notava come un allarme: per una realtà politica, civile – non solo italiana – in cui gli era difficile riconoscersi:

“Illusione infranta, amara realtà, scacco pubblico e privato, castello rovinato, sommerso dall’acque infette, dalla melma dell’olona, dei navigli, giambellino e lambro oppressi dal grigiore, dallo scontento, scala del corrotto melodramma, palazzo della vergogna, duomo del profitto, basilica del fanatismo e dell’intolleranza, banca dell’avventura e dell’assassinio, fiera della sartoria mortuaria, teatro della calligrafia, stadio della merce e del messaggio, video dell’idiozia e della volgarità” (ancora da Lo Spasimo di Palermo).

Quando già allora parlava di “potere economico che diventa potere politico” era profetico? No, era uno scrittore: capace di osservare, e di aspettare. Come nelle parole con cui si chiude il romanzo Nottetempo, casa per casa: “Pensò al suo quaderno. Pensò che ritrovata calma, trovate le parole, il tono, la cadenza, avrebbe raccontato, sciolto il grumo dentro. Avrebbe dato ragione, nome a tutto quel dolore”.

Una delle scene più belle e commoventi dell’intera opera narrativa di Consolo sta forse in un libro che, ancora più degli altri, si sottrae alle definizioni, L’olivo e l’olivastro, sospeso tra divagazione, saggio, racconto lirico. Ci appare a un tratto un Verga ormai vecchio e distante da tutto, chiuso in un impenetrabile e risentito silenzio. È investito da continue richieste di presenza a pubbliche onoranze e le rifiuta una a una. Ma il primo giorno di settembre del 1920 – ottantesimo compleanno dell’autore dei Malavoglia – a Catania è arrivato Luigi Pirandello. Che osserva lo scrittore più anziano, si specchia in quel volto più vecchio del suo di quasi trent’anni riconoscendolo padre, “superbo e ostinato come il padre suo”, e in qualche modo sente di ricevere un’eredità.

Ma voglio lasciare ancora la parola a Consolo, che a sua volta immagina e dà voce al sentire di Pirandello, in una giornata di un secolo fa:

«Pensò che, al di là dell’esterna ricorrenza, delle formali onoranze, in quel tempo di lacerazioni, di violenza, di menzogna, in quel tramonto, in quella notte della pietà e dell’intelligenza, il paese, il mondo, avrebbe ancora e più ignorato, offeso la verità, la poesia dello scrittore. Pensò che quel presente burrascoso e incerto, sordo alla ritrazione, alla castità della parola, ebbro d’eloquio osceno, poteva essere rappresentato solo col sorriso desolato, con l’umorismo straziante, con la parola che incalza e che tortura, la rottura delle forme, delle strutture, la frantumazione delle coscienze, con l’angoscioso smarrimento, il naufragio, la perdita dell’io. Pensò che la sua Antonietta, la suor Agata della Capinera, la povera madre, il fratello suicida di San Secondo, ogni pura fragile creatura che s’allontana, che sparisce, non è che barlume persistente, segno di un’estrema sanità nella malattia generale, nella follia del presente». 



***

ERNESTO FERRERO

«L’oscuro segreto delle parole»

Nel 1963 Vincenzo Consolo pubblica da Mondadori il suo primo libro, La ferita dell’aprile, un romanzo di formazione che racconta un’educazione cattolica. Ha scelto per il titolo un verso di un amico fraterno, il poeta Basilio Reale.  L’aprile vuole simboleggiare la stagione dell’adolescenza, quella scontentezza di sé che i romanzi di Cesare Pavese, una delle letture fondative del giovane Consolo, hanno raccontato così bene. Ma molte sono le ferite che l’esordiente si porta dietro, tutte dissimulate e risolte nella scrittura.

È nato nel 1933 a Sant’Agata di Militello, a metà strada tra Messina e Palermo, da una famiglia che gestisce un commercio di olio e granaglie. È un bambino gracile e biondiccio. Molti anni dopo, a Milano, in presenza della gran mole di Riccardo Bacchelli dice a se stesso che lui, così piccolo, non potrà mai diventare uno scrittore, gli manca il physique du rôle. Il padre ripeteva scherzosamente che, diverso com’era dagli altri figli, era un trovatello. Lo aveva ritrovato sulla vicina strada per San Fratello, antica colonia d’origine lombarda, in cui si parlava un dialetto incomprensibile, che per i siciliani della zona, raccontava Vincenzo, era diventato la cifra stessa della diversità, dunque motivo di scherno, di dileggio. Lui invece si sentiva a proprio agio, in quell’identità di sanfratellano. Lo faceva sentire in battaglia contro ogni autorità costituita, contro il codice linguistico dominante.

Cresce in una casa senza libri, ma a scuola è bravissimo. Quando dopo la licenza liceale si lascia scappare che vorrebbe fare lettere classiche, i suoi gli dicono che per carità, quella è materia da femmine. Per compiacerli, si laurea in Legge e si adatta persino a fare l’apprendista nello studio notarile di un cognato, a Lipari. Poi insegna diritto in un istituto superiore, ma si sente mancare l’aria.

È afflitto da una timidezza patologica. Scrivere per lui è una ragione di vita, ma si chiede se rifugiarsi nella letteratura non sia un “segno di babbìa”, di sciocca ingenuità, un modo per evadere dalla realtà. Ama la sua terra, tra le colline e il mare, con una adesione panica, e tuttavia avverte l’isola come una gabbia. Si chiede se “uscendo da questo pozzo scuro di Sicilia, riuscirei a sbloccare ogni cosa”. La ferita dell’aprile passa quasi inosservato, apre una stagione di crisi e dubbi crescenti. Cerca e trova maestri, come Leonardo Sciascia, avvolto nel fumo delle sue Chesterfield, e il poeta Lucio Piccolo, cugino di Tomasi di Lampedusa, “il barone magico” che lo invita spesso nella sua villa di Capo d’Orlando, dove lo gratifica di monologhi ammalianti. Intanto matura una coscienza politica che resterà sempre vigile e risentita perché offesa. Ha sperimentato le prepotenze mafiose, assistito alle lotte contadine e alle repressioni poliziesche, è rimasto sconvolto dalla strage di Portella della Ginestra.

Nel 1967 la grande occasione: vince un affollatissimo concorso in Rai. Viene assunto come funzionario addetto ai programmi culturali e si trasferisce a Milano. Non è un’esperienza felice. Non sopporta le regole troppo rigide, le gabbie burocratiche, le imposizioni dall’alto. Ha duri scontri con la Direzione centrale, sperimenta sulla sua pelle quello che oggi si chiama mobbing.

Lo salva il giornalismo. Vittorio Nisticò lo invita a collaborare al battagliero quotidiano palermitano che dirige, “L’Ora”, che ha già al suo attivo tante battaglie civili, in primis contro la mafia trionfante di quegli anni. Nel 1975 si trasferisce a Palermo, fa il cronista con umiltà e dedizione, convinto che quello sarà il suo vero mestiere. Intanto fermenta, lentamente e tortuosamente, il progetto di romanzo che diventerà Il sorriso dell’ignoto marinaio: una rilettura delle vicende risorgimentali in una Sicilia squassata da tentativi rivoluzionari e rivolte contadine, molto lontana dall’agiografia tradizionale, che si interroga sull’uso mistificatorio della Storia, scritta troppo spesso dalle classi dominanti.

Ne è protagonista Enrico Pirajno, barone di Mandralisca, liberale illuminato, erudito, collezionista, appassionato studioso di scienze naturali, cultore di chiocciole e molluschi, che ha reso pubbliche le sue raccolte trasformando la sua casa di Cefalù in museo, quello stesso dove ancora oggi si conserva il meraviglioso ritratto di ignoto di Antonello da Messina da lui acquistato a Lipari.

A superare le incertezze di una stesura tanto travagliata è la moglie di Consolo, Caterina, che di nascosto da lui porta al libraio-editore Gaetano Manusé i primi due capitoli del romanzo, per una edizione d’arte arricchita da un’acquaforte di Renato Guttuso. Corrado Stajano ne scrive entusiasta su “il Giorno”: è più sottile e intenso del Gattopardo, è uno Sciascia poetico. Da Einaudi ci precipitiamo a scrivere a Consolo che ci interessa molto.

A questo punto l’uomo dei dubbi è obbligato a vincere le sue titubanze. In tre mesi finisce il lavoro, di getto. Stajano ha visto giusto. Il sorriso dell’ignoto marinaio si rivela un romanzo stupefacente, un poema in prosa sostenuto da una scrittura potente, musicale, fortemente ritmata, che fonde in una polifonia di voci un italiano “alto” e i dialetti, tradizione colta e materiali popolari. Ne nasce una vertiginosa pluralità di lessici, registri e toni, dove la parola è spinta verso un massimo di sonorità e splendore. Consolo ha lo stesso vorace enciclopedismo del suo amato Gadda, incrocia invenzione e documenti autentici, si abbandona alla vertigine della lista. Gode nel nominare le cose, la natura di casa che conosce così bene. Così avverrà negli altri suoi libri, come la malinconica favola teatrale Lunaria, in cui la Luna cade su una contrada di una Palermo settecentesca, a simboleggiare la fine di tante cose. O in un altro romanzo corale e musicale, Nottetempo, casa per casa, Premio Strega 1992, in cui l’avvento del fascismo in Sicilia è colto attraverso l’arrivo a Cefalù di una stravagante comunità di cultori di riti esoterici, capeggiata da un moderno superuomo, l’inglese Aleister Crowley, profeta di una religione satanica, tra sesso e droga.

L’uomo che nel 1976 arriva nella redazione di Einaudi ha lo stesso mezzo sorriso dell’ignoto di Antonello: “ironico, pungente e nello stesso tempo amaro, di uno che molto sa e molto ha visto, sa del presente e intuisce del futuro; di uno che si difende dal dolore della conoscenza e da un moto continuo di pietà”. Lo scrittore che vuole dare voce agli oppressi e ai diseredati non ha nulla del tribuno, non è uomo di invettive. Al contrario, racconta a bassa voce, senza scatti o soprassalti, senza aiutarsi con i gesti, con una sorta di doloroso stupore, tra orgoglio e lampi di sarcasmo, come se raccogliesse le conferme di qualcosa che ha sempre saputo. Parla di sé solo per quello che può coincidere con il “noi” di una collettività offesa e in cerca di riscatto. La sua apparente mitezza nasconde la tensione di un continuo sospetto. Sta sempre sulla difensiva, come i suoi contadini e i suoi pescatori. Bisogna quasi insistere per cavargli qualche avara notizia sul suo privato. Non ama gli aneddoti personali. Gli sembrano futili.

In una delle sue ultime pagine, Vincenzo Consolo si dice figlio di una terra flagellata, oltreché dalle violenze della Storia, da eruzioni di vulcani e terremoti distruttivi. “E allora, – scrive – di fronte alle macerie, alla polvere dell’esistenza e della storia, privi come siamo di speranze e conforti di ordine metafisico, non resterebbe che lo sconforto, il pianto. Ma solamente i poeti, ancora, posseggono l’oscuro segreto delle parole per dire, con la più alta dignità e più alta bellezza, della grande avventura dell’esistere, della vita; dei suoi dolori, delle malattie, della morte; dire delle sue consolazioni; dell’amore, dell’arte, di un fiore (sia pure una ginestra), del sorgere del sole, del tramonto della luna, della grazia di una donna”.



***

CORRADO STAJANO

Eterno migrante del ritorno

Questo ricordo dedicato da Corrado Stajano all’amico Vincenzo uscì sul «Corriere della sera» il 22 gennaio 2012, il giorno dopo la morte di Consolo.

Che dolore grande vederlo sdraiato su quel divano del soggiorno di casa, con un plaid addosso, il volto sempre più segnato, la voce sempre più flebile. Agitare il braccio smagrito e la mano, addio, addio. Chissà se quel gesto era l’ultimo saluto, il segno amorevole della vita che si stava allontanando.

Il vecchio sofferente era il ragazzetto che nel suo primo libro — autobiografico — La ferita dell’aprile, sprizzava allegria beffarda, un grillo saltellante dalla marina alla montagna siciliana, tra le piazze, i vicoletti, i bagli, l’oratorio, in mezzo ai carusi, ai bastasi, ai preti, alle vocianti donne di paese, alla baronessa secca e bianca, narrazione di un vivere che non può finire mai?

Vincenzo Consolo è morto in corso Plebisciti a Milano, dove abitava, dopo un travaglio di mesi. «Mi sto riprendendo», diceva immancabilmente, e non si capiva se in quelle parole c’era soltanto la sua antica ironia o anche un pizzico di speranza. Perché Vincenzo ha intensamente amato la vita, anche nei momenti più difficili di dramma e sofferenza. E Caterina, sua moglie, come quelle solide figure della mitologia greca che gli piaceva tanto, gli ha sempre dato la forza e il coraggio di cui aveva bisogno.

È nato a Sant’Agata di Militello, nella piazza del paese, non lontano dal mare, tra San Fratello e Capo d’Orlando. Da bambino, ricorda, era piccolo e magro, «con un toracino d’uccello. Zigaga era il soprannome che mi avevano appioppato i fratelli: zirlo, pìspola». La sua è una famiglia di commercianti, la ditta vendeva olio, zucchero, lenticchie, fave, cereali. Suo padre, su un camion Fiat 6211, consegnava la merce ai grossisti. Qualche volta il piccolo Vincenzo lo accompagnava. Studi in paese, il liceo Valla a Barcellona Pozzo di Gotto: dopo la maturità, è Milano ad attirarlo. La cultura industriale, in quegli anni Cinquanta, gli sembra tutto ciò che c’è di nuovo. Elio Vittorini e Vittorio Sereni stanno riscoprendo il rapporto tra letteratura e industria, Ottiero Ottieri e Paolo Volponi lavorano in fabbrica, i nomi delle grandi aziende, la Pirelli, l’Alfa Romeo, la Breda, affascinano, la città è ricca di energie intellettuali, vi abitano Quasimodo, Montale, gli scrittori, gli scienziati, gli editori.

Consolo studia legge all’Università Cattolica, non per ragioni religiose o ideologiche, semplicemente perché l’aveva preceduto un compaesano. Entra nel convitto universitario di via Necchi, vicino a Sant’Ambrogio, capisce in fretta. Ricorda padre Gemelli, il frate fondatore e rettore della Cattolica, già vicino ai fascisti e avversario accanito del Modernismo e di tutto ciò che è nuovo: aveva la testa grossa e gli occhi fulminanti.

Ricorda anche il cardinale Schuster, «etereo e magico come una figura onirica, con il suo viso gotico e diafano ricamato di venuzze». Ricorda soprattutto i poliziotti del suo paese, nella vicina caserma della Celere, e gli zolfatari siciliani che al Centro orientamento immigrati venivano equipaggiati di casco, lanterna e mantelline e fatti partire per le miniere del Belgio dove molti di loro, a Marcinelle e altrove, troveranno la morte.

Vincenzo ha deciso di diventare scrittore.

Ma Milano non è il suo mondo, non ne possiede la lingua, per lui essenziale, non ha memoria dell’immaginato mondo industriale. Come raccontarlo? Torna in Sicilia, pensa di diventare uno scrittore di realtà viste e vissute, di tipo sociologico. Ma non fa i conti con la sua natura fantastica da archeologo delle parole. La ferita dell’aprile esce nel 1963 in una bella collana, «Il Tornasole», diretta da Niccolò Gallo e da Vittorio Sereni. Con i «Gettoni» di Vittorini è l’iniziativa editoriale più coraggiosa e aperta al futuro. Vincenzo è affascinato dal mondo visionario del coltissimo Lucio Piccolo, il barone di Calanovella, poeta scoperto da Montale, che viveva in una villa di Capo d’Orlando come un uomo del Settecento. Nel salone della villa — con il cimitero dei cani accanto — nel buio più assoluto recitava urlando le sue poesie esoteriche, tra vasi Ming, statuette orientali, cassettoni Luigi XVI, ritratti di viceré e di capitani dell’Inquisizione.

Ma è Leonardo Sciascia il vero maestro. È lui a far da contrappeso al fantasioso mondo di Lucio Piccolo. Consolo ritrova con la sua razionalità e i suoi saperi storici, critici, politici, quella strada civile annusata nella prima avventura milanese. La Sicilia contadina così amata si è nel frattempo disgregata, la mafia ha riconquistato un potere assoluto, il candore dell’isola è stato macchiato dalla corruzione, dall’ossessione del denaro, più sporco che pulito, dagli assassini. Il lavoro manca.

Quando decide di partire di nuovo, nel ’68, Milano è incandescente, ricca di fervori. Dal ’63 al ’76 Consolo non pubblica nulla, sta rimuginando, pensando, studiando. È convinto che la letteratura deve essere nemica del potere. Vuole legare la Sicilia alle idee di progresso sociale e civile della Milano di allora. Ma il linguaggio, come trovare il linguaggio adatto che sente gorgogliare nella testa? Legge Gadda, ma il suo amore per la metafora non lo accomuna allo scrittore dell’Adalgisa. È Manzoni, piuttosto: trova paternità e sostegno «nel Manzoni dei Promessi sposi e della Colonna infame, quello della necessità della metafora. (…) L’Italia del Manzoni – scrive – sembra davvero eterna, inestinguibile».

Come spunta l’idea di un libro nella mente di uno scrittore? Il Ritratto di ignoto di Antonello da Messina, del museo di Cefalù, fa da scintilla. Ma sono il fallimento del Risorgimento, la speranza tradita dei contadini di avere le terre dei feudatari, la povertà dei cavatori di pomice ammalati di silicosi — storia e società — ad accumularsi informi nella testa di Vincenzo. Nel 1976, con Il sorriso dell’ignoto marinaio, capolavoro di folgorante bellezza, nasce, si può dire, Vincenzo Consolo, il Vicè dei compagni di giochi, uno dei più grandi scrittori del Novecento, tradotto in quasi tutte le lingue del mondo, conosciuto forse più in Europa che in Italia.

Vincenzo non era mai in pace, inquieto, sempre. Nel 1993 disse pubblicamente che se alle elezioni di quell’anno avesse vinto a Milano la Lega Nord, come poi accadde, se ne sarebbe andato dalla città per protesta contro la barbarie della «padania» inesistente. Non partì, fu criticato, accusato di esibizionismo, di presunzione. Un provocatore. La Sicilia nel sangue. Consolo non ha di certo avuto bisogno di quella nota di diario che Goethe scrisse nel suo Viaggio in Italia, il 13 aprile 1787: «L’Italia, senza la Sicilia, non lascia alcuna immagine nell’anima: è qui la chiave di tutto».

Appena poteva, eterno migrante del ritorno, partiva. Non ha mai tradito la sua isola. Andava per vedere un’altra volta quel che aveva nel cuore. Non lo ritrovava. Ferito tornava al Nord, a Parigi, a Madrid. E poco dopo riprendeva la strada dell’eterno viaggio, riandava in Sicilia. È morto nella Milano della sua giovinezza. Nella grande stanza foderata dai libri degli scrittori amati di laggiù. Alle pareti un dipinto con una smisurata macchia arancione, il disegno di due ragazzi di Casarsa, di Pasolini, l’Ignoto marinaio di Guttuso, incisioni secentesche, ritratti, carte geografiche dell’isola stampate all’insù e all’ingiù. Tutto qui sa di Sicilia.



***

NADIA TERRANOVA

L’uomo dello Stretto

La prima volta che ho visto Vincenzo Consolo me lo sono andato a cercare. Fu a Torino, al Salone del libro, però forse, siccome sono messinese come lui, vi aspetterete che il nostro legame risalga a prima della mia età adulta, alle mie origini.

Sarebbe bello oggi poter raccontare un’amicizia atavica, un comune legame che viene da qualcosa di diverso dall’esser nati entrambi sulla sponda più a sud dello Stretto, nella stessa provincia della Sicilia, la meno narrata e tuttavia la più ricca di narrazioni, quella, per intenderci, che compare per la prima volta nel dodicesimo canto dell’Odissea, quando Omero canta di Scilla e Cariddi e della distruzione della nave di Ulisse per via della loro furia. Mi piacerebbe dire che quella storia fu proprio lui a raccontarmela, magari quando ero piccola, e che da lui venne la contezza di potere, anzi dovere, raccontare quella lingua di mare che bagna città e paesi per poi allargarsi e perdersi nel Mediterraneo. Perché, in effetti, è così che è andata: non solo tutto questo io, messinese, l’ho imparato anche da Vincenzo Consolo, ma è stato lui a sussurrarmi all’orecchio tutto ciò che serve per scrivere, ovvero: guarda il mare e fallo, tu puoi. Ovviamente, non sa di averlo detto, perché la sua voce mi è arrivata nel modo più nobile e giusto in cui deve arrivare la voce di uno scrittore: attraverso i suoi libri.

Per primo fu un suo romanzo a dirmi della nostra Messina, che soffre la ferita dell’identità perché i terremoti ne hanno distrutto la forza e la potenza, soprattutto l’ultimo,  quello del 1908. Con una pagina mormorò a me, solo a me, che Messina, non esistendo più, continuava a esistere.

Città di luce e d’acqua, aerea e fuggente, riflessione e inganno, fatamorgana e sogno, ricordo e nostalgia. Messina non esiste. Esistono miti e leggende, Saturno, Orione, Cariddi, Mata e Grifone, Colapesce. Ma forse vi fu una città con questo nome perché disegni e piante riportano la falce di un porto con dentro velieri che si dondolano, e mura, colli scanditi da torrenti e coronati da forti, e case palazzi chiese orti… “

Queste parole di Vincenzo Consolo, tratte da L’olivo e l’olivastro, costituiscono la radice dei miei tre romanzi e del mio libro Omero è stato qui, in cui ho raccolto le storie e le leggende dello Stretto. Messina, ho pensato spesso, è viva solo per i messinesi, per chi ci è nato e cresciuto. Oppure no: è viva solo per chi ne ha letto, perché i luoghi esistono solo se c’è qualcuno che li sa raccontare, anzi a volte penso che esistano solo dentro un racconto, dentro le parole che li salvano e li traghettano da una storia all’altra.

Solo dopo averne divorato i libri ho scoperto che, in realtà, un legame originario tra me e Vincenzo Consolo esisteva, e riguardava in effetti Messina. La sorella di mia madre, la poetessa Marietta Salvo, per qualche tempo aveva collaborato alle pagine culturali dello storico giornale siciliano L’Ora. Solo dopo la pubblicazione del mio primo romanzo scoprii che lo aveva intervistato: mi mostrò la doppia pagina dell’articolo e mi raccontò delle loro conversazioni, degli scambi che avevano avuto, delle lunghe conversazioni su poesia e letteratura.

Il mio incontro dal vivo con lui, invece, avvenne in una città aliena a entrambi: Torino. E forse solo nella capitale del libro potevano incontrarsi una messinese che aveva scelto Roma e un messinese che aveva scelto Milano.

Erano i primi anni duemila e Vincenzo Consolo teneva un incontro al Lingotto, nei giorni del Salone. Io ero lì da lettrice, non avevo ancora pubblicato nulla se non dei racconti in qualche antologia e rivista, stavo lavorando al mio primo romanzo ma l’editoria mi incuteva timore, non sapevo se qualcuno mi avrebbe presa in considerazione e, nel frattempo, mi rifugiavo in ciò che non mi ha mai tradito: le pagine degli scrittori che amo. Insieme a un’amica che avevo contagiato con la mia “consolite”, la febbre dei suoi libri, aspettammo Vincenzo Consolo per poter avere con lui un contatto diretto poco prima dell’incontro. Lui si sorprese di trovare due lettrici entusiaste e così giovani, e allora mi sorpresi io: per me la letteratura è sempre stata androgina, senza età, senza tempo. Gli dicemmo che i suoi libri ci piacevano tantissimo anche se qualche volta erano difficili da trovare, e si incupì: ditelo al mio editore, rispose, e in quella sola frase, in quell’espressione di disappunto previdi quello che poi sarebbe toccato a me come a tutti gli scrittori, il difficile rapporto tra chi scrive e chi pubblica, una forma di poliamore fatta anche di incomprensioni e delusioni. Allora fu un lampo, ma adesso lo so bene, lo so per esperienza. Con la sua lingua magnifica, ricercata ed elegante, Vincenzo Consolo mi ha insegnato vocaboli e rime, musicalità della prosa e accuratezza storica, ma soprattutto mi ha insegnato due cose su cui ho imparato a piangere e sorridere, una altissima e una quotidiana: che lo Stretto è un luogo mitico da raccontare, e che gli editori sono sempre un po’ canaglie.

foto Giovanna Borgese