«Il volto di un uomo misteriosamente invecchiato di
colpo. Questo è l’ultimo ricordo di Consolo che conservo nella memoria». Il
fotografo Giuseppe Leone, 85 anni, sta ultimando i preparativi per la mostra che
ha dedicato al celebre scrittore di Sant’Agata di Militello. In occasione del
decennale della scomparsa dell’autore di Retablo,
l’università di Catania rende omaggio alla memoria di Vincenzo Consolo con una
serie di eventi. La mostra di Giuseppe Leone si inaugurerà il 24 gennaio, alle
ore 17.00, nei locali del Centro universitario teatrale di palazzo Sangiuliano
a Catania. Il fotografo ragusano presenterà settanta ritratti, molti dei quali
inediti.
Quando
ha conosciuto Vincenzo Consolo?
«Nel 1980, ovviamente in contrada Noce, a casa di
Leonardo Sciascia a Racalmuto. Dico ovviamente, perché quel luogo raccolto,
modesto, lontano da ogni dove, è stato per anni l’ambasciata della cultura
siciliana. Tutti gli artisti che operavano in Sicilia finivano per incrociare
il loro cammino con la contrada Noce. Una mattina, mentre conversavo
placidamente con Sciascia, giunse un’autovettura con a bordo una signora e un
uomo. Vidi scendere e avanzare un uomo piccolo di statura. La prima impressione
fu quella di avere di fronte un funzionario di una qualche casa editrice.
Leonardo ci presentò e, nel corso del pranzo, ho avuto il piacere di scoprire
l’eleganza dell’eloquio di Consolo e la sua grande cultura. Rimanemmo tutti
incantati dalla sua personalità magnetica».
Come
si è evoluto il vostro rapporto di collaborazione?
«Il primo lavoro nacque da un’intuizione proprio di
Leonardo Sciascia. Il Sole 24 ore gli
aveva conferito l’incarico di curare cinque pubblicazioni dedicate alla
Sicilia. Affidò a me e a Vincenzo Consolo il volume sul barocco siciliano. Consolo
venne a trovarmi e ci inoltrammo in una lunga perlustrazione tra le città di
Ragusa, Noto e Palazzolo Acreide. Si instaurò subito una grande intesa che
presto maturò in una grande e lunga amicizia. Era un uomo che amava e apprezzava
la bellezza della vita in ogni sua forma. A dispetto dell’immagine stereotipata
che si ha di lui, non era affatto un uomo ombroso. Certo, aveva le sue asperità
e quando necessario attaccava a testa bassa, anche ferocemente. Ma era un
artista autentico. Trovammo subito un’intesa. Lui scrisse “Anarchia equilibrata” uno dei testi più intensi che abbiamo mai
accompagnato una mia pubblicazione. Nel corso degli anni, il rapporto di
collaborazione si intensificò. Pubblicammo subito dopo un libro dedicato a Cefalù,
la città che fa da naturale fondale a tre dei suoi più bei romanzi. Devo a lui
la scoperta di angoli misteriosi di quella città. La stessa cosa avvenne quando
decidemmo di pubblicare un libro fotografico dedicato ai Nebrodi, i luoghi dove
era nato. Anche in quel caso, gli devo la scoperta di feste religiose, spazi
sacrali, paesini affascinanti. Seguì poi un libro dedicato a Ortigia e
Siracusa, città che lui amava e dove aveva comprato casa. Con lui ho firmato
due dei libri più belli della mia produzione. Il primo, edito da Bompiani,
ancora una volta dedicato al barocco siciliano, grazie al coinvolgimento del
direttore editoriale Mario Andreose. Il secondo, decisamente un autentico
capolavoro fu “Sicilia teatro del mondo”, commissionato dalle edizioni Eri, con
un suo testo magistrale. Libro che è stato ripubblicato dalla casa editrice “Mimesis” proprio in occasione del
decennale della sua scomparsa. Ma in verità, il nostro ultimo lavoro insieme è
stata la copertina del suo ultimo libro, pubblicato postumo. La moglie,
Caterina Pilenga, mi chiamò dopo la sua scomparsa per scegliere l’immagine che
campeggia in copertina di “Al di qua del
faro” pubblicato da Mondadori».
Ci
racconta cosa c’è di vero della contrapposizione tra Consolo e Bufalino?
«Io li ho fotografati sorridenti e gioviali nella mia
foto più celebre, quella che li ritrae in compagnia di Leonardo Sciascia. Ma
diciamo la verità, senza infingimenti, tra i due non correva buon sangue. Erano
due uomini totalmente diversi, con due modi opposti di intendere il ruolo dello
scrittore. Senza partigianerie, bisogna riconoscere che Consolo ha incarnato,
coraggiosamente e per tutta la vita, la figura dell’intellettuale contro, non è
stato mai cortigiano. Una singolarità che ha duramente pagato, anche con la
continua esclusione. Se posso azzardare un confronto, onestamente, bisogna
riconoscere che il vero erede della scrittura civile e di impegno di Leonardo
Sciascia è stato proprio Vincenzo Consolo. Una figura di artista e
intellettuale contro che in Sicilia non abbiamo più. In questi anni è emersa
una schiera di narratori che sembra vogliano accontentarsi di intrattenere il
pubblico. Licenziano storie ben confezionate, pronte per essere consegnate alla
successiva riduzione televisiva. Producono libri gradevoli, materni, avvolgenti.
Mai però un impeto di denuncia civile come osava fare frequentemente Consolo
dalle pagine dei giornali. Ecco siamo passati da Consolo ai consolatori».
Il
suo ultimo ricordo?
«Pochi mesi prima della sua scomparsa a Ragusa Ibla. Era
stato invitato dagli studenti della facoltà di Lingue. Fu un incontro
misterioso. Appariva stanco. Ricordo l’ultimo scatto, guardava fisso l’obiettivo
con un’espressione di totale disillusione. Era il volto di un uomo che,
misteriosamente, era invecchiato di colpo».
Concetto Prestifilippo
La repubblica Sabato, 15 gennaio 2022 ediz. Palermo
Questo saggio intende analizzare il romanzo di Vincenzo
Consolo Nottetempo, casa per casa (1992) utilizzando il motivo della fine del
mondo come chiave interpretativa dell’opera ed elemento unificante i diversi
piani su cui la narrativa si sviluppa. Se da una parte La nascita della
tragedia di Friedrich Nietzsche costituisce un modello intellettuale di
riferimento e di confronto per il romanzo consoliano, dall’altra le
considerazioni dell’antropologo Ernesto De Martino sull’apocalisse ci
permetteranno di proporre Nottetempo come una risposta psicologica, culturale e
letteraria al rischio della “fine” esperito in questi tre diversi ambiti. Nel volume postumo che raccoglie gli appunti
preparatori all’opera rimasta incompiuta La fine del mondo, De Martino
approccia il tema dell’apocalisse derivando una connessione tra il senso di
fine del mondo vissuto nel disagio psicologico individuale e le grandi
apocalissi culturali elaborate dalle società o da singoli attori collettivi
operanti in esse. Anticipando i temi di questa ricerca in un articolo comparso
un anno prima della morte dell’antropologo su Nuovi argomenti, egli chiariva il
nesso tra apocalisse individuale e apocalisse collettiva nei seguenti termini:
“i caratteri esterni delle apocalissi psicologiche sembrano riprodursi anche in
quelle culturali, dato che anche le apocalissi culturali racchiudono l’annunzio
di catastrofi imminenti, il rifiuto radicale dell’ordine mondano attuale, la
tensione estrema dell’attesa angosciosa e l’euforico abbandono alle
immaginazioni di qualche privatissimo paradiso irrompente nel mondo” (De
Martino, 1964:111). Il compito delle apocalissi culturali sarà allora proprio
quello di scongiurare la fine, costituendosi come difesa e reintegrazione del
rischio della fine esperito nell’apocalisse psicopatologica: esse, cioè, hanno
il compito di rivalorizzare a livello collettivo e condiviso ciò che nella
crisi personale diventa perdita di senso, incapacità di dare valore e incapacità
di operare nel mondo quotidiano, decretandone così la sua fine. Tuttavia,
avverte De Martino, “se il dramma delle apocalissi culturali acquista rilievo
come esorcismo solenne, sempre rinnovato, contro l’estrema insidia delle
apocalissi psicopatologiche, è anche vero che questo esorcismo può riuscire in
varia misura, e di fatto può sbilanciarsi sempre di nuovo verso la crisi
radicale” (De Martino, 1964:113). Anche le apocalissi culturali, dunque,
possono incorrere nel rischio di essere “nuda crisi” senza possibilità di
rinnovamento, “senza escaton”, rischio che De Martino intravedeva
nell’apocalisse dell’occidente contemporaneo che “conosce il tema della fine al
di fuori di qualsiasi ordine religioso di salvezza, e cioè come disperata
catastrofe del mondano, del domestico, dell’appaesato, del significante e
dell’operabile” (De Martino, 2002:470). Il doppio piano della crisi
psicopatologica individuale e della crisi esperita dalla società nel suo
insieme è colta da Consolo in Nottetempo attraverso il dispiegamento di una
fantasmagoria di personaggi reali e fittizi e attraverso l’ambientazione
storica. Il contesto storico nel quale tali personaggi operano (i primordi del
Fascismo), infatti, è rappresentato e
interpretato secondo i modi di una apocalisse storica che rischia di essere
“nuda crisi”, catastrofe senza rinnovamento. Essa, inoltre, fa eco e diventa
metafora per il presente: l’inizio del Ventennio fascista, infatti, diventa
anche il mezzo per parlare dell’inizio della Seconda Repubblica1 – l’anno
di
*
1 Lo stesso autore, chiarendo come il passato
sia una metafora per il presente, evidenzia il carattere “apocalittico” di tale
passato e tale presente: “Dopo il Sorriso, ho continuato a scrivere romanzi
storici […]. L’ultimo, Nottetempo, casa per casa, è ambientato negli anni
**
pubblicazione del libro si colloca proprio nel passaggio tra la fine di un mondo e l’inizio di una nuova era per la società italiana, nonché pare profeticamente avvertire la crisi culturale che sarà presto inaugurata dall’ascesa di Berlusconi al potere. Come De Martino, Consolo avverte nel presente il senso di una fine che non prevede un nuovo inizio, mentre individua nel passato eventi apocalittici che hanno segnato un rinnovamento: ne è esempio concreto la rinascita della Val di Noto attraverso il barocco dopo il terremoto del 16932. Con Nottetempo siamo, dunque, nella Cefalù dei primi anni Venti e un uomo corre forsennatamente nella notte, in preda al “male catubbo”, una forma di depressione in cui l’interpretazione popolare riconosce il licantropismo 3, o “male di luna”, come aveva già mirabilmente descritto Pirandello in una sua omonima novella. Veniamo in seguito a sapere che egli è il padre di una famiglia tormentata dal male interiore, per cui il licantropismo cui è soggetto non può essere spiegato solamente con una diagnosi scientifica, ma ha ragioni ben più profonde. La moglie (“troppo presto assente”) è morta e le due figlie sono affette da problemi psicologici: l’una, Lucia (“che sola e orgogliosa se n’andava per altra strada”), è mentalmente instabile e verrà rinchiusa in una clinica, l’altra, Serafina (“torbida, di pietra”, 106), vive in uno stato catatonico. Petro, il figlio eventi,
, che mi sembrano terribilmente somiglianti a questi che
stiamo vivendo, anni di crisi ideologica e politica, di neo-metafisiche, di
chiusure particolaristiche, di scontri etnici, di teocrazie, integralismi […]
Il Sorriso e Nottetempo formano un dittico. […] Nel primo ho voluto insomma
raccontare la nascita di un’utopia politica, della speranza di un nuovo assetto
sociale; nel secondo, il crollo di quella speranza, la follia degli uomini e la
follia della storia, il dolore e la fuga” (Consolo, 1993:47-48). 2 Nel capitoletto La rinascita del Val di Noto
compreso in Di qua del faro, Consolo descrive il terremoto che distrusse la Sicilia
orientale alla fine del ’600 proprio usando il termine “apocalisse” e
riconoscendo nell’arte barocca un valore escatologico: “E però il Barocco non è
stato solamente il frutto di una coincidenza storica. Quello stile fantasioso e
affollato, tortuoso e abbondante è, nella Sicilia dei continui terremoti della
natura, degli infiniti rivolgimenti storici, del rischio quotidiano della
perdita d’identità, come un’esigenza dell’anima contro lo smarrimento della
solitudine, dell’indistinto, del deserto, contro la vertigine del nulla”
(Consolo, 2001a:99). 3 Spiega Consolo:
“Il padre si ammala di depressione, che nel mondo contadino arcaico viene
chiamata licantropia. Questo fenomeno è stato studiato dalla principessa di
Lampedusa, che era una psicanalista che ha associato la licantropia alla depressione:
nel mondo rurale questi poveretti che soffrivano terribilmente, uscivano fuori
di casa, magari urlavano e venivano scambiati per lupi mannari” (Consolo,
2001b). protagonista del romanzo, è affetto dalla malinconia, da una tristezza
le cui origini egli stesso rintraccia in un tempo primordiale, un tempo perso
nel tempo, di cui il nome della famiglia, Marano4, ne è spia: “‘Da quale
offesa, sacrilegio viene questa sentenza atroce, questa malasorte?’ si chiedeva
Petro. Forse, pensava, da una colpa antica, immemorabile. Da quel cognome suo
forse di rinnegato, di marrano di Spagna o di Sicilia, che significava eredità
di ànsime, malinconie, rimorsi dentro nelle vene” (42). E più oltre riflette
ancora che quel dolore sembra essere sorto “da qualcosa che aveva preceduto la
sua, la nascita degli altri” (106). La famiglia del protagonista e Petro stesso
rappresentano così un articolato inventario dell’apocalisse psicopatologica:
ognuno, chiuso nella propria incomunicabile individualità, esperisce solitariamente
il “delirio di fine del mondo”, cioè la perdita della “normalità” del mondo e
della possibilità dell’intersoggettività
dei valori che lo rendono un mondo possibile e umano. Del male che affligge la famiglia, tuttavia,
si intravede anche una motivazione più contingente e precisa in quel
cambiamento di status, peraltro non giustificato dalle convenzioni sociali, che
verghianamente aleggia sulla famiglia come una rovina: il padre ha ricevuto
infatti l’eredità di un signore locale che ha preferito beneficiare la famiglia
Marano piuttosto che suo nipote, il barone Don Nenè, legittimo erede. La
menzione di questo avanzamento sociale, all’origine anche dell’inimicizia fra
Petro e Don Nenè, viene lasciata cadere qua e là nel romanzo come fosse la
colpa da cui discende tutto il male che gravita sulla famiglia. La ragione
dell’impossibilità del matrimonio fra Lucia e Janu è quella verghiana5 che
impedisce
*
4 “Ho adottato questo nome perché ha due
significati per me. Marano significa marrano, cioè è l’ebreo costretto a
rinnegare la sua religione e a cristianizzarsi, perché in Sicilia con la
cacciata degli Ebrei nel 1492 – così come in Spagna, – ci furono quelli che
andarono via ma anche quelli che rimasero e furono costretti a convertirsi. È
stata una forma di violenza. Ho dato il nome di Marano a questa famiglia con
questa memoria di violenza iniziale e poi per rendere omaggio allo scrittore
Jovine che chiama il suo personaggio principale Marano ne Le terre del
sacramento, quindi è un omaggio a una certa letteratura” (Consolo, 2001b).
5 E Verga, non a caso, costituisce
modello forte e necessario per Consolo, non solo a livello tematico in quanto
“cantore” degli umili e ultimi, ma anche a livello stilistico in quanto
sperimentatore: “La mia opzione è stata sulla scrittura espressiva che aveva
come archetipo un mio conterraneo, Giovanni Verga, che è stato il primo grande
rivoluzionario stilistico nella letteratura moderna. Da lui si passava,
attraverso altri scrittori, come Gadda e
**
inizialmente ad Alfio Mosca di prendere in moglie la Mena.
Lucia si innamorerà poi di un uomo il cui mancato ritorno dalla guerra le
procurerà la ferita fondamentale che la porterà alla pazzia; Petro riflette
allora che Janu “quell’uomo buono, schietto, avrebbe forse rasserenato la
sorella […], cambiato la sua sorte, e provò pena per lui, per Lucia, rabbia
per quell’assurdo vallone che s’era aperto fra loro due” (63). Ma su questo
motivo verghiano della condizione di classe si innesta quello della roba inteso
come voracità di accumulo sconsiderato di beni; si instaura il dubbio che la
vera causa della perdita della ragione, il dolore che porta alla
pietrificazione, possa trovarsi in quell’accumulo, in quella roba: “Petro si diceva
come sarebbe stato meglio per Serafina, per Lucia, non aver avuto nulla, essere
incerte nella roba, ma salde nella persona, nel volere, coscienti e attive”
(114). Si intravede qui, solo accennata, anche una critica al capitalismo
sfrenato e al consumismo, che è in definitiva accumulo di roba per la roba,
senza altra finalità. La condizione psicopatologica individuale, dunque, prende
forma e mette radice anche in una condizione di “malattia” più generale della
società feticizzata, che per questa ragione non è più in grado di generare
valori umani ma si accascia su se stessa senza rinnovamento e nuovo
significato. Accanto ai Marano, compare poi tutta una sfilza di personaggi che
ruotano attorno all’arrivo a Cefalù di un individuo alquanto eccentrico e realmente
esistito, il satanista inglese Alastair Crowley, il quale si insedia in una
villa poco fuori paese e lì celebra i propri riti coinvolgendo diverse persone.
Le proteste contadine e le azioni degli squadristi fascisti, infine, connotano
il clima storico e sociale all’interno del quale le vicende si muovono.
Pasolini” (Consolo,
2001b). Lo stesso concetto è ribadito qualche anno dopo in un’altra intervista:
“in generale mi sono sempre mosso nel solco gaddiano (solco tracciato per
primo, nella letteratura italiana moderna, da Verga)” (Ciccarelli, 2006:96). Si
veda anche il commento di Ferroni: “Il suo espressionismo tutto siciliano parte
da Verga, dal serrato confronto con lo scrittore verista con il parlato e con
la tradizione letteraria, e giunge come a rendere più densa e aggrovigliata la
miscela verghiana” (Adamo, 2007:7). Infine, si legga anche il capitolo
“Verghiana” in Di qua dal faro.
I tempi dell’apocalisse consoliana: moto e impetramento
Il senso della fine del mondo, cioè la caduta o perdita di
questo mondo possibile, si manifesta nel romanzo attraverso due movimenti tra
loro opposti che si estremizzano senza armonia: da una parte un moto vano e
dall’altra una stasi pietrificata. De Martino individua in questi due poli due
segni uguali e contrari della fine del mondo:
Il mondo che diventa “immobile”, il divenire che perde la
sua “fluidità”, la vita che si devalorizza costituiscono un momento vissuto
dell’ethos del trascendimento che muta di segno: l’altro momento è l’universo
in tensione, la onniallusività dei vari ambiti in cerca di semanticità, la
forza che travaglia questi ambiti e li sospinge ad andare oltre i loro limiti
in modo irrelato, e che li fa partecipare caoticamente a tutto il reale e a
tutto il possibile, senza sosta e senza offrire mai un appiglio operativo
efficace. La polarità di immobilità e tensione, di rigidezza e forza
onniallusiva, di crollo degli appigli operativi e di irrelata scarica
psicomotoria, porta il segno dell’alterità radicale e dell’essere-agito-da,
cioè il segno dell’alienazione nel senso patologico del termine: in tutti i
vissuti cui dà luogo, si manifesta infatti il diventar altro proprio di ciò che
sta alla radice dell’io e del mondo, l’annientarsi dell’energia valorizzante
delle presenza, il non poter emergere come presenza al mondo e l’esperire la
catastrofica demondanizzazione del mondo, il suo “finire”. (De Martino,
2002:631)
Tutti i personaggi di Nottetempo sono tesi ora verso un polo
ora verso l’altro, manifestando e vivendo in maniera diversa il disagio della
catastrofe imminente. Il movimento cui si abbandonano alcuni personaggi, tra
cui in primo luogo il satanista inglese – e che a livello sociale richiama
anche l’imperativo all’azione degli squadristi fascisti – diventa un’agitarsi
vano e inconcludente, un muoversi legato al caos e irrelato al mondo degli
oggetti, dunque privo di significato e incapace di crearne. Questo agitarsi
vano è anche un modo per nascondere e non dover fermarsi a fissare il dolore
che permea l’esistenza umana; infatti, fissare questo dolore può portare alla
pietrificazione, alla stasi completa, se non si riesce ad elaborare tale
sofferenza in maniera produttiva. Osservare questa profonda realtà in un
momento in cui l’individuo o la società nella sua interezza non riescono a
creare valore e significato per tale sofferenza può essere tanto rischioso
quanto guardare negli occhi la Gorgone: è un atto che conduce alla
pietrificazione, la stasi, che racchiude in sé tutto ciò che è mancante di
movimento, ma anche assenza di parola, impossibilità del dire, del
rappresentare e del comunicare. A questa condizione dell’esistenza umana
corrisponde in Consolo quella narrativa, sospesa tra il rischio di dire troppo
dicendo nulla – il vuoto della retorica6 – e la pagina bianca, il non scrivere
e il non dire. Nei poli dell’apocalisse
consoliana possiamo riconoscere una degenerazione dei due impulsi che concorrono
a formare la tragedia greca così come è descritta dal filosofo tedesco
Friedrich Nietzsche in La nascita della tragedia greca: il dionisiaco e
l’apollineo. Il dionisiaco, che dà origine al coro della tragedia, è l’ebbrezza
estatica in cui grazie all’annullamento della soggettività l’uomo può entrare
in contatto con l’“unità originaria” del tutto e riconciliarsi con la natura; è
movimento, danza, musica, scatenamento degli istinti e delle pulsioni vitali.
L’apollineo, invece, è contemplazione, sogno, creazione di immagini,
rappresentazione; nella tragedia è l’“oggettivazione dello stato dionisiaco”
(Nietzsche, 2003:122) del coro, dunque la scena, il dramma. Nell’apollineo si
intravede la qualità statica della contemplazione, di immagini nelle quali si
riduce l’azione; una staticità che Nietzsche definisce come “silenziosa
bonaccia della contemplazione apollinea” (Nietzsche, 2003:103). L’interazione e
l’equilibrio tra l’apollineo e il dionisiaco è ciò che dona forma alla tragedia
greca; Consolo, tuttavia, vede nella modernità la perdita di questo equilibrio
e la perdita della forza creatrice dei due impulsi nietzschiani: il dionisiaco
diventa disumanità, movimento falso, scatenamento di istinti bestiali che
invece di connettere l’uomo con una supposta unità originaria, lo
*
6 “La rottura del rapporto tra intellettuale e
società ha lasciato un vuoto di cui si è impadronita una comunicazione che è
sempre impostura; è la voce del più forte, la verità falsata del potere”
(Consolo in Papa, 2003:193).
**
disconnette dall’umano, dalla comunità e non lo lega né alla
dimensione del divino, né alla dimensione di una realtà o verità profonda; e
l’apollineo è pura stasi, è l’essere intrappolati nella contemplazione di
immagini di dolore. Questi due impulsi generano in Consolo un presente
caratterizzato da una tragedia degenerata, priva di catarsi, priva di
conclusione; egli stesso lo spiega a commento della propria opera: “l’anghelos,
il narratore, non appare più sulla scena poiché ormai la cavea è vuota,
deserta. Sulla scena è rimasto solo il coro, il poeta, che in tono alto,
lirico, in una lingua non più comunicabile, commenta e lamenta la tragedia
senza soluzione, la colpa, il dolore senza catarsi” (Consolo 1996:258). In un’opera successiva, L’olivo e l’olivastro
(1994), lo scrittore individuerà nella metafora dell’“olivo”, l’albero
innestato, l’albero che nasce dalla cultura e dalla civiltà, e
dell’“olivastro”, l’albero selvatico, un’altra metafora per esprimere il senso
di perdita dell’armonia di due opposti impulsi che, come l’apollineo e il
dionisiaco, dovrebbero formare il senso e il valore della civiltà, di un mondo
umanamente abitabile: “spuntano da uno stesso tronco questi due simboli del
selvatico e del coltivato, del bestiale e dell’umano, spuntano come presagio di
una biforcazione di sentiero o di destino, della perdita di sé,
dell’annientamento dentro la natura e della salvezza in seno a un consorzio
civile, una cultura” (Consolo, 2012a:13-14). Essi “non si combattono: al
contrario, si completano. Essi si uniscono in lui [in Ulisse] armoniosamente
come il ceppo materno e il ceppo paterno” (Consolo, 1999:25). Ma il dramma
della modernità, ciò che porta la civiltà occidentale a vivere la propria
apocalisse, è il sopravvento dell’olivastro sull’olivo: “Ecco, nell’odissea
moderna è avvenuta la separazione tra il selvatico e il coltivato. L’olivastro
ha invaso il campo” (Consolo, 1999:25). Come l’apollineo e il dionisiaco hanno
perso la loro forma rendendo la tragedia moderna priva di catarsi, così l’olivo
e l’olivastro non coesistono più armonicamente nel tronco della civiltà
portando questa verso il suo tramonto.
Primo tempo: il movimento artificioso
In Nottetempo, come già accennato, il polo del movimento è
rappresentato in primo luogo dall’inglese satanista e reso con particolare
efficacia in un capitolo, La Grande Bestia 666, che reca significativamente in
esergo una citazione dall’apocalisse di Giovanni. Aleister Crowley inscena un
allucinante e allucinato rito orgiastico che dovrebbe in qualche modo rifarsi
all’Arcadia greca, riproporne i miti, riconnettersi con un mondo antico e
aureo, ma che nella realtà non è che una degradata imitazione di forme vuote e,
soprattutto, una degradata riproduzione di un rito dionisiaco in cui l’ebrezza,
la musica, la danza dovrebbero portare alla visione estatica. Il capitolo
principia, infatti, con la descrizione di un ballo, che ci immette subito nella
sfera del movimento senza arresto, nonché nel regno dionisiaco. È Aleister,
immedesimato in una ballerina, a compiere prodezze sostenuto “nella felice
trascendenza dai vapori d’oppio, d’etere, di hashish, di cocaina” (85). Il
ritmo diventa sempre più incalzante, i lunghi elenchi che riempiono la pagina
riproducono il “suono della vibrante cetra, dei cembali tinnanti,
dell’acciarino acuto, del timpano profondo” (83) con cui si apre il capitolo;
si veda, a titolo di esempio, questa lista di nomi che connotano l’essenza
fittizia di Aleister, senza sosta, in un ritmo incalzante che toglie il fiato
alla lettura: In lui c’era stato il tebano Ankh-f-n-Khonsu, Ko Hsuan discepolo
di Lao-Tze, Alessandro VI Borgia, Cagliostoro, un giovane morto impiccato, il
mago nero Heinrich Van Dorn, Padre Ivan il bibliotecario, un ermafrodita
deforme, il medium dalle orecchie mozze Edward Kelley, il dottor John Dee,
l’evocatore d’Apollonio di Tyana, il gran cabalista Eliphas Levi, in lui, il
gentiluomo di Cambridge, Aleister MacGregor, Laird di Boleskine, principe Chioa
Khan, conte Vladimir Svareff, Sir Alastor de Kerval, in lui, la Grande Bestia
Selvaggia, To Mega Thérion 666, Il Vagabondo della Desolazione, Aleister
Crowley (dàttilo e trochèo). (84)
È un elenco dal ritmo vorticoso, che confonde in una sorta
di ubriacatura di parole: Consolo rende in tal modo, con un linguaggio che si
fa nietzscheanamente metafora del suono7, il senso di un vano agitarsi. Questo
moto, sostenuto dall’uso delle droghe, si connota come anormale e nella
collezione di identità in cui di volta in volta Aleister Crowley si identifica
possiamo vedere un sintomo di schizofrenia e psicopatologia connessa a uno
stato epilettico, analizzando il quale De Martino individua il principio del
moto distorto come una delle sue caratteristiche: “in tutto sta in primo piano
l’elemento del moto: l’alterazione del movimento, la perdita dell’equilibrio,
lo scuotimento della sicurezza e della tranquillità nel mondo delle cose,
conducono alla conclusione: il mondo crolla, sprofonda” (De Martino 2002:38). Ma quando Janu, “this sicilian caprone” (80)
– il satiro – rifiuta di prendere parte al rito, di consumare l’orgia, e
scappa, il movimento vorticoso si arresta; il cielo di carta pirandellianamente
si squarcia e la messa in scena rivela il proprio carattere fittizio, scoprendo
per un attimo la falsità della vita stessa che il rito attraverso il vortice
del ballo cercava di occultare: “Declamò ancora più forte la danzatrice in
terra. Restò immobile. Attese. S’era interrotta ogni musica, ogni nota, sospeso
ogni sussurro, fiato, il silenzio freddo era calato nella sala” (88). È
l’assenza di movimento e di parola a rivelare la realtà, a svelarla:
Sentì ch’era sopraggiunto quel momento, quell’attimo
tremendo in cui cadeva dal mondo ogni velario, illusione, inganno, si
frantumava ogni finzione, fantasia, s’inceneriva ogni estro, entusiasmo,
desiderio, la realtà si rivelava nuda, in tutta l’insopportabile evidenza, cava
si faceva la testa, arido il cuore. […] Guardava il mondo in quello stato, si
guardava intorno, e ogni cosa gli appariva squallida, perduta. (89)
7 Il linguaggio, secondo il filosofo tedesco,
nasce da un impulso nervoso che si trasferisce in immagine e poi in suono. Il
linguaggio della poesia del canto popolare è quello che meglio di qualunque
altro riesce “nella imitazione della musica” (Nietzsche, 2003:101).
È il momento drammatico della rivelazione. Il rischio è la
stasi, ma Aleister la scongiura chiedendo che gli venga data altra droga per
ridiscendere nella condizione di trance e ricreare un mondo fittizio. Il
capitolo, tuttavia, si chiude bruscamente con un altro svelamento, un altro
squarcio che irrompe in questa realtà: l’annuncio che l’infante, il figlio di
Aleister, è morto. Segue “tutto un trambusto, un irrompere all’aperto, un
correre nella notte” (99), ma ovviamente invano, perché la stasi suprema, la
morte, si è già impossessata della piccola Poupée. Nella scomparsa dell’infante è da leggersi,
metaforicamente, la morte di ogni speranza e del futuro. È anche presagio della
futura “apocalisse” che si abbatterà un ventennio dopo su tutta l’Europa nella
forma della Seconda Guerra Mondiale causata dai fascismi. Aleister, infatti,
rappresenta anche l’irrazionalità e la bestialità del fascismo, se è vero che
intorno a lui si convogliano personaggi simpatizzanti e legati al fascismo,
come il barone Nenè e la sua cricca, e che lo stesso inglese viene nominato
come Superuomo, “colui che aveva varcato ogni confine, violato ogni legge, che
aveva osato l’inosabile, lui, la Grande Bestia dell’Apocalisse” (90). Ed egli,
nel tentativo di ricreare un mondo antico attraverso una messa in scena
irrazionale, si fa simulacro del progetto di Mussolini e del Duce stesso, di
colui che ha “varcato ogni confine” umano, reale e metaforico. Per Consolo
apocalisse è anche questa: l’andar oltre il limite, il troppo, il movimento che
travalica il confine, come l’ultimo viaggio dell’Ulisse dantesco oltre le
colonne d’Ercole. In molti, infatti, hanno riconosciuto nei personaggi dello
scrittore siciliano dei moderni Ulisse condannati a una continua peregrinazione
dove non esiste l’Itaca a cui tornare8 – tema d’altronde, quello della perdita
di Itaca, comune a molta letteratura moderna italiana, per cui il ritorno è
sempre impossibile, a iniziare dal ‘Ntoni verghiano. E proprio i personaggi del
romanzo di Aci Trezza sono descritti da Consolo in
8 Si veda su tutti l’articolo di Massimo
Lollini “La testimonianza di Vincenzo Consolo, moderno Odisseo.” Italica 82.1
(Spring 2005), in cui l’autore analizza le varie figure ulissiache di Consolo,
tra cui il personaggio inglese Alastair, il barone Nenè e Petro di Nottetempo.
Lollini arriva a far coincidere la figura di Ulisse con quella di Consolo
stesso, testimone dello spaesamento e del peregrinamento dell’uomo moderno,
descritto “in toni che a tratti si fanno apocalittici” (38), soprattutto quando
lo sguardo cade sulle odierne devastazioni che occorrono lungo il Mediterraneo.
L’olivo e l’olivastro come in continua preda di un
movimento, una frenesia che ha esplicitamente i caratteri dell’apocalisse: “[il
popolo di formiche] visse in quell’apocalisse del movimento rapido, nella
vitalità guizzante, nella ferocia del possesso, nel tetro accumulo, nel tumore
divorante” (Consolo, 2012a:40). L’Ulisse consoliano è privo di connotazioni
romantiche ed eroiche, divenendo anzi spesso simbolo non solo dello spaesamento
dell’uomo moderno ma anche della sua folle ricerca di un superamento dell’umano
e dei suoi limiti contingenti: “Il soggetto etico di cui i romanzi di Consolo
si fanno portavoce […] insiste sull’importanza di una riflessione sui limiti
stessi della scrittura, che poi sono i limiti della civiltà, del tentativo di
apprezzare e definire i contorni di una cultura della finitudine umana”
(Lollini, 2005:34). Il movimento e il
dionisiaco degenerato si connotano, perciò, in termini distruttivi e
apocalittici quando significano tentativo di superamento dell’umano, che è
anche sempre violenza disumana, bestiale. Il varcare le colonne d’Ercole si
pone dunque per Consolo entro una dimensione etica che non riguarda più
solamente l’individuo e il suo singolare confronto con la divinità, con
l’oltre, ma riguarda l’individuo in quanto parte di una comunità9: questo
Ulisse moderno senza possibilità di ritorno non è un eroe solitario in lotta
contro forze superiori, ma è uomo le cui scelte e le cui azioni sono e si
iscrivono sempre entro una dimensione etica che riguarda tutta la comunità
circostante. In questo vediamo delinearsi la responsabilità del satanista
inglese Alaister che non può essere circoscritta geograficamente e
temporalmente all’interno di ciò che avviene nella villa a Santa Barbara, la
villa appartata che egli sceglie come dimora. Alaister diventa emblema e
portavoce di un modello di ricerca che sfocia nel disumano e che ha come
vittima il più piccolo, nonché futuro, della comunità. La vittima, tuttavia,
non è prevista dal rito e perciò non è sacrificale; essa, rimanendo legati al significato
etimologico del termine, non entra nel regno del sacro e non si connette con
una spiritualità superiore, ma rimane ancorata al senso profano, alla
materialità terrena, non assume nessun valore superiore.
9 Così, d’altra parte, lo intende anche Dante,
collocando Ulisse nell’inferno non già perché ha sfidato gli dei, quanto
piuttosto perché si è allontanato dalla comunità degli uomini, trascinando alla
rovina anche i suoi compagni.
Diventa una morte disumana, legata al superamento del
limite, e non una morte sacra, una morte che può trascendere nel significato.
Secondo tempo: l’incedere umano
È, dunque, attraverso il recupero del senso dell’umano che
il movimento può ritrovare il suo giusto ritmo, la sua misura, e non eccedere
verso il limite dell’apocalittico, che è superamento dell’umano. Un passo del
capitolo successivo a La Grande Bestia 666 collega le tematiche del movimento
apocalittico e della stasi con la ricerca di una dimensione umana che possa
scongiurare i due estremi. La riflessione avviene in occasione dell’incontro
tra Petro e Janu, che per tanti mesi era scomparso e ora appare cambiato:
Pensò Petro a come si può cangiare in poco tempo, al tempo
che scorre, precipita e niente lascia uguale. Che solo la disgrazia, la pena
grave blocca il movimento, il cuore la memoria, come una bufera immota, un
terremoto fermo, una paura assidua che rode, dissecca, spegne volere gioia. E
sbianca e invecchia, mentre che dentro la ferita è aperta, ferma a quel
momento, nella sfasatura, nella disarmonia mostruosa. Una suprema forza
misericordia immensa potrebbe forse sciogliere lo scempio, far procedere il
tempo umanamente. (105, corsivo mio)
Petro, dunque, minacciato costantemente come i suoi
familiari dal pericolo dell’arresto del tempo, dell’immobilità, scorge dentro
sé una via diversa da quella del satanista inglese o del fascismo: movimento
sì, movimento che significa vita, ma che “proceda umanamente”. Appare evidente
il contrasto con il movimento vorticoso, ossessivo, ritmico e in definitiva
artificiale che ha animato il rito delle pagine precedenti. Solo nel tempo
umano c’è la possibilità di salvarsi dall’apocalisse. È questo il tempo della
memoria, il tempo che può essere articolato dalla coscienza umana, il tempo
entro cui può risiedere l’umano. È perciò anche progetto di scavo, archeologia del tempo, del passato da
cui recuperare frantumi, frammenti di umanità, come nota Bouchard: “Consolo
allows the ruins of the past to haunt the surface of his narratives with the
intent of making current the wounds and the lacerations of history. Since these
are wounds and lacerations that can no longer be abreacted by a successful work
of mourning, they give rise to an interminable writing of melancholy that
displaces the ontological certainty of our reality while pointing towards a
better future that can only be built out of the memory traces of the past”
(Bouchard, 2005:17).
Terzo tempo: “il male di pietra”
Il tempo che scorre umanamente è costantemente minacciato
dall’altra possibilità: dall’arresto. È questa la metafora più efficace e
pregnante in Consolo, poiché è il rischio che egli stesso in quanto scrittore –
e in quanto uomo – corre, è il pericolo che costantemente gravita sulla sua
scrittura e che ritorna quasi ossessivamente da una pagina all’altra: è il
pericolo che incombe su chi acquista la consapevolezza della realtà, chi sente
la sofferenza declinata sia come male di vivere dell’uomo sia nella sua
contingenza come male dell’epoca contemporanea. Consolo, rifiutando l’uso di un
linguaggio comune troppo abusato e vuoto, cioè la parola che danza ma non dice,
cede inevitabilmente il passo alla pietrificazione, alla stasi della parola. Ed
è dunque su questo punto che si arrovella, è questo il cruccio della sua
scrittura nonché quasi il paradosso dell’urgenza del dire in un mondo dove non
è più possibile dire. È questa la degenerazione apollinea di una
rappresentazione, qui propriamente intesa come drama, che si pietrifica in
un’unica immagine di sofferenza. Ben giustamente Arqués cita Calvino e il suo
saggio sulla leggerezza a proposito di Consolo, ma lo fa per stabilire un
parallelo tra la narrazione storica dello scrittore siciliano e Perseo, o,
meglio, tra la realtà presente e la Gorgone, che non può essere guardata negli
occhi, pena la pietrificazione. La metafora, tuttavia, acquista maggior
pertinenza se nella figura della Gorgone non proiettiamo semplicemente il
presente, ma il dolore, la realtà profonda che soggiace a ogni esistenza, quel
male di vivere che non può essere nominato se non con una descrizione e che a
seconda di chi parla e del momento può assumere forme diverse, ma che è anche
sostrato universale che accomuna l’uomo di tutte le epoche e i luoghi. È quel
senso di verità e dolore che, appunto, se viene fissato direttamente, scoperto
e guardato nella sua cruda interezza pietrifica, proprio come il mostro
mitologico. Calvino userà allora la leggerezza come specchio per guardare
quella pesantezza dell’esistere; Consolo, invece, sa che anche il linguaggio è
costantemente minacciato dal vano agitarsi di parole e perciò sente di non
poter più praticare una lingua troppo tarata da forme vuote; correrà perciò
sempre il rischio, come i suoi personaggi, di pietrificarsi fissando la medusa.
In Nottetempo il personaggio cui è assegnata la sfida di trovare la giusta
misura, il tempo umano, è Petro, che nel nome porta chiaramente il significato
di quel cadere nella contemplazione del male d’esistere. Il primo capitolo, nel
quale si svolge l’inseguimento notturno di Petro nei confronti del padre
affetto dal “male catubbo”, stabilisce il campo semantico entro cui ci dobbiamo
confrontare: il licantropismo, fenomeno dell’uomo tramutato in lupo, ci pone
nel regno delle metamorfosi. Qui il riferimento classico è ovviamente Ovidio10,
di cui la studiosa Galvagno riconosce una caratteristica fondamentale: “La
métamorphose ovidienne, soit humaine, animale, végétale, liquide ou minérale (y
compris les catastérismes), présuppose comme son moyau le plus intime une
pétrification, une immebolité, une fixité de l’être métamorphosé” (Galvagno,
2007:179). Ora tale tratto della pietrificazione dell’essere sarebbe presente,
secondo la studiosa, nella scrittura di Consolo – e abbiamo già citato, non
casualmente, il mito di Perseo. Tutto in
Nottetempo sembra essere sull’orlo della pietrificazione: personaggi, azioni,
eventi, il tempo, la scrittura. Pietrificazione
10 Esistono differenti possibilità di
interpretazione e stratificazioni di significato nella figura dell’uomo
trasformato in lupo, nonché naturalmente differenti storie e tradizioni e
appropriazioni di tali tradizioni da parte della letteratura, ma vale forse qui la pena ricordare il
racconto che fa Ovidio di Licàone, trasformato in lupo da Giove perché
progettava di uccidere il dio. Giove
racconta: “[…] io con fuoco vendicatore faccio crollare quella casa
indegna del suo padrone. Lui fugge, atterrito, e raggiunti i silenzi della
campagna si mette a ululare: invano si sforza di emettere parole” (Ovidio,
1994:15). E dopo Giove invocherà l’apocalisse: la distruzione del genere umano,
perché indegno, corrotto e criminale. Si legga, per confronto, il passo di
Consolo: “Si spalancò la porta d’una casa e un ululare profondo, come di dolore
crudo e senza scampo, il dolore del tempo, squarciò il silenzio di tutta la
campagna” (6). E subito dopo l’episodio del lupo mannaro, comparirà sulla scena
il satanista Aleister. richiama sia la stasi, l’assenza di movimento, di
parola, sia il senso del peso, come aveva rilevato Calvino: la pesantezza
dell’essere. E infatti chi si pietrifica è chi fissa, immobile, e contempla
tale pesantezza, diventando egli stesso o ella stessa di pietra, avvertendo su
di sé tutta la pesantezza del male e sprofondando nel silenzio. Il silenzio e
l’impossibilità dell’esprimersi si associano all’assenza di movimento, alla
pietrificazione, divenendo l’uno spia dell’altro. Fanno da contraltare le urla
disumane, suoni che spesso non si articolano in parole intellegibili (come gli
ululati del lupo mannaro) e che esprimono al pari del silenzio il dolore umano;
molte volte l’urlo e il silenzio si ritrovano insieme come due espressioni
dello stesso concetto di sofferenza. Molti sono gli esempi sparsi nel testo che
esprimono il senso della stasi e/o del silenzio; si leggano questi: “il confine
del dolore fermo, del vuoto immoto” (9), “ma là era silenzio e stasi, era
riposo” (9), “Guardava il silenzio sulle case, ad ogni strada, piano, baglio,
il silenzio al meriggio” (13), “nella sublime assenza, nella carenza di
ragione” (37), “‘Uuuhhh…’ ululò prostrato a terra ‘uuhh… uhm… um…
mmm… mmm… mmm…’” (38, e questa volta è Petro che emette suoni
incomprensibili), “nell’attasso del cuore, canto del pendolo bloccato” (42),
“nella segreta sua torre d’urla, di lamento” (51), “Siamo un ribollìo celato
d’emozioni, un rattenuto pianto” (66), “E tu, e noi chi siamo? Figure
emergenti, palpiti, graffi indecifrati. Parola, sussurro, accenno, passo nel
silenzio” (67), “la pena grave blocca il movimento” (103), “Serafina torbida,
di pietra” (106), “la pietra del dolore” (135). Sono tutte espressioni di
sofferenza e legate alla consapevolezza della sofferenza, alla sua contemplazione
che sottrae l’azione e la parola. Già nel Sorriso dell’ignoto marinaio (1976)
era presente l’idea della pietrificazione come espressione del male, essa però
era legata a una contingenza – i cavatori di pomice – che diventava metafora per una sofferenza
più generale, quella degli ultimi: “‘Male di pietra’ continuò il marinaio ‘È un
cavatore di pomice di Lipari. Ce ne sono a centinaia come lui in quell’isola.
Non arrivano neanche ai quarant’anni’” (Consolo, 2010:8). Ma successivamente in
L’olivo e l’olivastro la metafora “male di pietra” si approfondisce e diventa
l’ossessione costante con cui dire la sofferenza umana. Nelle pagine iniziali
ritornano i cavatori come a stabilire quel paragone, fondare quella metafora
della pietra che poi diventa il nucleo lessicale fondamentale per esprimere il
dolore: “[…] entrò nelle caverne della pomice, parlò con i cavatori
silicotici […] Erano secchi e grigi i cavatori, avevano denti corrosi dalla
polvere, prendevano anelettici, cardiotonici: cresceva dentro loro poco a poco
una corazza di pietra, il cuore s’ingrossava, si smorzava il fiato, si
spegneva” (Consolo, 2012a:26-27). E qui in questo testo allora abbondano non
tanto – o non solo – espressioni diverse che indicano l’impossibilità del dire
e del fare, quanto piuttosto in maniera più specifica lemmi legati alla radice
“pietra”: “Che arrestò al suo accadere, pietrificò illusioni, speranze, rese di
lava la vita” (34), “un vecchio poeta afasico, irrigidito nel giovanile errore,
pietrificato nella follia ribelle” (36), “Una barca di pietra, la pietra in cui
si mutò la barca feacica che aveva portato in patria l’eroe punito, l’eroe
assolto dopo il lungo racconto–che in pietra si muti la barca, si saldi al
fondale prima d’ogni ritorno, poiché nel ritorno, così nel racconto, consiste
lo strazio” (39), “si pietrifica per il dolore, perde vigore e ragione” (41),
“la Catania pietrosa e inospitale” (52), “la ferma maschera, quasi impietrita
del nobile vegliardo” (59), “la loro tragedia s’è svolta in un attimo lasciando
impietriti” (125). La pietrificazione è legata all’esperienza personale, alla
scrittura, ma anche alla società. In un articolo pubblicato sul Corriere della
Sera nel 1977, Paesaggio metafisico di una folla pietrificata, e che O’Connell
riconosce come uno degli avantesti di Nottetempo per quell’incipit del tutto
simile, Consolo attribuisce alla Sicilia, che sta sempre in rapporto
sineddotico con la società, quell’impulso alla pietrificazione come forma
generale e risposta alla consapevolezza del male: “c’è una depressione più
inclemente e disumana di questa, ed è quella che non arriva all’estremo
livello, ma si ferma al di qua, a un passo dall’insopportabilità. È lo stadio
che blocca la vita, la congela, la pietrifica” (Consolo 1977:1). E la Sicilia
sembra, per lo scrittore, bloccata “in questo limbo, in questa metafisica
paralisi”, unica reazione con cui ha controbattuto il movimento artificiale,
del quale ne diviene simbolo l’autostrada, “moderno feticcio dell’accelerazione
spasmodica”. E pure qui la contrapposizione si ritrova anche sul piano della
comunicazione, poiché in questa Sicilia “sequestrata e pietrificata” chi ha
cercato “di fare e di dire”, cioè di cambiare la situazione, è stato costretto
al silenzio e sulla lunga tradizione letteraria isolana, da Verga a Sciascia,
ora domina “la parola vuota, l’inutile incanto, la retorica” (Consolo, 1977:1).
In questo precedente di Nottetempo c’è dunque l’esplicitazione di come la
metafora dell’impetramento e del movimento, del silenzio e della “vuota parola”,
che permea il romanzo sia da leggersi anche sempre come condizione sociale
oltreché intellettuale ed esistenziale. Queste considerazioni ci riportano a De
Martino e all’associazione tra l’apocalisse psicopatologica e quella culturale.
Se gli stati epilettici e la schizofrenia sono caratterizzati da un senso di
moto che in ultima analisi veicola il senso della fine del mondo, lo stato
catatonico è l’insania che al contrario si lega all’assenza di movimento e
diventa negazione del tempo e della storia, cioè ancora del mondo: “Tutte le
cose sono diventate immobili, in uno stato senza tempo. Il corpo risponde a
questo mondo non muovendosi più: il catatonico sta fermo e dritto come una
statua in un museo di curiosità, mentre per noi, non catatonici, il mondo parla
così chiaramente di movimento, è così visibilmente in “moto”, che possiamo
rispondere al suo appello solo con i movimenti del nostro corpo” (De Martino,
2002:57). Se per il non catatonico il mondo può procedere secondo un tempo che
è umano, il catatonico bloccandosi come una statua rifiuta tale tempo e porta
il mondo al suo precipitare. In Petro e nella famiglia Marano l’arresto e la
catatonia concretizzano la metafora di “folla pietrificata” in una società
sull’orlo dell’apocalisse.
La torre dell’urlo e del silenzio
Le sorelle di Petro, come abbiamo già accennato, sono chiuse
e sprofondate nell’impetramento dell’anima e del corpo. Serafina, col nome
programmatico di chi non appartiene a questo mondo e di chi ha una pace che non
è terrestre, è immobile in uno stato quasi catatonico, persa in vagheggiamenti
religiosi che non hanno più alcun referente nel contingente: “E Serafina,
ch’aveva preso prima il ruolo della madre e poi s’era seduta, fatta muta ogni
giorno, immobile, di pietra, dentro nella scranna, il solo movimento delle dita
che sgranano il rosario di poste innumerevoli, di meccaniche preghiere senza
sosta” (42). Serafina nella storia non c’è, è personaggio serrato in questa impossibilità
di essere e di comunicare; è solamente evocata e l’unica volta che compare è
un’immagine di chiusa pazzia: “Era prona la sorella, ai piedi del comò
acconciato come altare, pieno il marmo di fiori ceri avanti a quadri,
immaginette, duplicati nello specchio. Faceva un canto mesto, come un lamento”
(158); ma naturalmente le sue parole sono inintelligibili. L’altra sorella, invece, Lucia, cade in una
pazzia che prima ancora di essere assenza e distanza è urlo innaturale, parole
sconclusionate11, perse in un passato disordinato e non recuperabile. In Lucia,
infatti, si racchiude anche il tema fondamentale del recupero del passato, ma
un recupero che fallisce, poiché il disordine dei frammenti rimane un disordine
che non è in grado di tracciare nessuna via, per quanto precaria e labile. Il
ricordo delle ferite che riemerge in lei è un ricordo che riproduce
meccanicamente il trauma ma non lo supera mai; si legga la scena fondamentale
dove, dopo l’“oltraggio” subìto dalla famiglia Marano a causa dell’antagonismo
fra Petro e Don Nenè, Lucia farnetica pezzi di frasi che riportano alla luce un
passato non attinente all’evento appena accaduto e incapaci di produrre
conoscenza, comunicazione o presa sulla realtà: “‘Ah, tana di cani corsi, di
mastini […]’ riprese a dire la sorella ‘Ah, quanto piangere di madri,
d’innocenti […] Attento, Petro, non uscire!’ […] ‘Che fa Janu, non viene?
Dobbiamo andare o no alla mandra, a mangiare la ricotta? […] Si fece tardi
ormai […] No, no, aiuto! […]’ e indietreggiò, si portò le mani alle
orecchie” (158). Lucia, in un certo
senso, è andata oltre il limite umano, ha varcato un confine oltre il quale
l’uomo non può accedere rimanendo uomo, tanto che Petro osserva parlando all’amico
Janu: “Né io né tu possiamo più raggiungerla” (68). Ella rappresenta attraverso
l’urlo e il movimento irragionevole ciò che Serafina rappresenta attraverso la
stasi e il silenzio. Lucia, al contrario della sorella, è visibile, agisce, ha
una personalità forte e inquieta, va per la campagna con il fratello Petro e
l’amico Janu, è promessa sposa; ma il giovane che ha chiesto la sua mano non
torna dalla guerra. In quel dolore Lucia si chiude, si
*
11 Ancora con De Martino possiamo leggere: “In
generale il dominio della follia diventa comprensibile come caduta dell’ethos
del trascendimento, della presentificazione valorizzante, e come costruzione di
difesa fittizia che accentuano il recedere verso l’incomunicabile, il privato,
il senza-valore-intersoggettivo” (De Martino, 2002:85).
**
pietrifica, ma esplode in urlo piuttosto che cadere nel
silenzio, esplode in suoni che non possono articolare e razionalizzare quel
dolore: “Finché un giorno, un mezzogiorno che Petro tornava dalla scuola, non
si mise a urlare disperata dal balcone, a dire che dappertutto, dietro gli
ulivi le rocce il muro la torre la sipale, c’erano uomini nascosti che volevano
rapirla, farla perdere, rovinare” (46). E poco oltre: “Lanciò improvviso un
urlo e scappò via, si mise a correre, correre per il sentiero, come presa da
frenesia, da tormenti” (47). È la fuga di Lucia oltre il limite dell’umano,
eppure anch’ella è figura statica, immobile, figura che s’impetra nel dolore e
lo fissa perdendo la capacità di vedere altro e cioè anche la capacità di
creare e vedere altre visioni apollinee: rimane una sola visione senza drama e
in essa Lucia si ferma. Così ecco che anche il suo nome acquista pregnanza, nel
momento in cui il testo ci ripete insistentemente nello stretto volgere di un
paragrafo che Lucia – che vuol dire luce ma che è anche patrona dei non vedenti
e degli oculisti – non vede più, è diventata cieca nella fissità: “La portò via
da casa […] perché si dissolvesse in lei l’idea fissa. […] Ma era come lei
non vedesse […] era come se avesse gli occhi sempre altrove, fissi dentro un
pozzo” (47) – dove quel “pozzo” sta per la profondità del dolore. Lucia è anche
figura pietrificata in quel suo guardarsi continuamente allo specchio, atto
autoriflessivo che non comunica con il mondo esterno ma ricade sulla persona
medesima; ella fissa se stessa e la sofferenza che ha guardato con i propri
occhi ora riflessi allo specchio. Atto solipsistico e chiuso, come chiusa è lei
nella propria camera: “E stava ore e ore chiusa nella stanza, avanti alla
toletta a pettinarsi, in incantesimo, il guardo trasognato, perso nel guardo
suo di fronte dentro lo specchio” (46).
La sofferenza familiare si racchiude metaforicamente nella concretezza
della “torre”, ovviamente fatta in pietra (“la sua voce roca sembrava vorticare
per le pietre della torre” 37), che assurge a simbolo di chiusura e solitudine
– torre è quel tipo di edificio caratterizzato da una dimensione in altezza
nettamente maggiore rispetto alla dimensione della base e che dunque si isola
rispetto alle costruzioni circostanti; torre per antonomasia è quella di
Babele, dove regna il caos, il disordine e la confusione, principio delle
lingue diverse che impedirono all’uomo di comunicare l’uno con l’altro12. Nella
torre dove sono chiusi i membri della famiglia Marano la comunicazione non è
possibile, le parole non assumono un significato che possa essere compreso
dagli altri, decifrato: “‘Pietà, pietà’ implorò in quella solitudine sicura,
dentro quel rifugio della torre, quel segreto oratorio d’urla, pianto, sfogo”
(38). L’urlo è il simbolo di questo dolore, sfogo inarticolato, contraltare del
silenzio: “nella segreta sua torre d’urla” (51), “E nella torre ora, dopo le
urla, il pianto”. L’urlo, come il
silenzio, è una comunicazione bloccata. Petro allora si rende conto che è
necessario recuperare le parole per uscire dalla torre. È questo un momento
fondamentale del testo, che è sia riflessione sulla sofferenza umana sia sulla
scrittura cui è affidato il compito di esprimere tale sofferenza. Nottetempo è
allora anche e “innanzitutto la storia di una vocazione alla scrittura”
(Traina, 2001:92). Il tentativo di uscire dalla torre di pietra e scongiurare
l’afasia si pone come uno dei temi centrali del testo. Attraverso questo percorso
del protagonista, si assiste anche alla lotta che lo stesso Consolo conduce per
non cadere nell’impetramento della scrittura, nell’impossibilità del dire, del
parlare, nell’apocalisse della parola.
Afasia
Nottetempo è anche romanzo autobiografico, non tanto perché
ci siano elementi biografici dello scrittore che possano essere riconosciuti
nella vicenda di Petro, quanto piuttosto perché la storia di Petro, la sua
uscita dalla torre, è anche il viaggio intellettuale dello scrittore Consolo.
Riconosciuta l’oppressione del silenzio familiare e dell’esilio dalla ragione e
dalla parola delle due sorelle, nel protagonista del romanzo nasce il desiderio
di uscire dalla torre ricomponendo un linguaggio attraverso cui poter di nuovo
comunicare una realtà, riconnettersi con essa:
*
12 “Ma il Signore scese a vedere la città e la
torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: ‘Ecco, essi sono un
solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e
ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo
dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua
dell’altro’” (Genesi 11:5-7).
**
Sentì come ogni volta di giungere a un limite, a una soglia
estrema. Ove gli era dato ancora d’arrestarsi, ritornare indietro, di tenere
vivo nella notte il lume, nella bufera. E s’aggrappò alle parole, ai nomi di
cose vere, visibili, concrete. Scandì a voce alta: “Terra. Pietra. Sènia. Casa.
Forno. Pane. Ulivo. Carrubo. Sommacco. Capra. Sale. Asino. Rocca. Tempio.
Cisterna. Mura. Ficodindia. Pino. Palma. Castello. Cielo. Corvo. Gazza.
Colomba. Fringuello. Nuvola. Sole. Arcobaleno […]” scandì come a voler
rinominare il mondo, ricreare il mondo. (38-39)
Questo elenco precede quello che poi ritroveremo nelle
pagine dedicate al rito satanico di Alaister e si pone su uno stesso piano di
complementarietà: come quello nasceva dal movimento artificioso del dionisiaco
degenerato, questo nasce dall’impetramento afasico dell’apollineo degenerato.
In entrambi la parola è mimesi del gesto: lì c’è la ricreazione del movimento,
in cui il segno della virgola dà il senso del ritmo della danza e della musica,
qui c’è la riproduzione della stasi, marcata dal punto che segue ogni parola e
che indica la pausa, una cesura di tempo e di spazio, la difficoltà
dell’esprimere una parola dietro l’altra, l’inarticolazione di un discorso. E
se là il vortice delle parole serviva a confondere, ad allontanare dalla
realtà, qui c’è l’avvicinamento, o per lo meno il tentativo di avvicinarsi a
qualcosa che si è perso da tempo – o mai avuto. È un elenco di parole semplici,
in cui tuttavia si può riconoscere una catena logica di riferimenti che dalla
terra vanno al cielo, dalla “pietra” al senso di libertà del volo degli uccelli
e alla luce del sole. Attraverso questo “rinominare il mondo” Petro cerca di
riattivare un legame con la realtà, o, per dirla ancora con Nietzsche, cerca
parole che non esprimono altro che “relazioni delle cose con gli uomini”
(Nietzsche, 1964:359); cerca dunque di ritrovare questa relazione con le
cose. Nel processo dell’elencare
riemerge una realtà frantumata, che si dà appunto solo in frammenti; ed è solo
così, in quei frantumi testimoniati dall’accumulo di lemmi che si può cogliere
una realtà la cui unità, come il discorso, come il narrare, non può essere (ri)composta. Anche la scrittura, infatti, si
arresta, si blocca sull’orlo dell’impossibilità di esprimere, di connettere
parole con realtà; così fallisce il tentativo di Petro: “cercò di scrivere nel
suo quaderno – ma intinge la penna nell’inchiostro secco, nel catrame del
vetro, nei pori della lava, nei grumi dell’ossidiana, cosparge il foglio di
polvere, di cenere, un soffio, e si rivela il nulla, l’assenza di ogni segno,
rivela l’impotenza, l’incapacità di dire, di raccontare la vita, il patimento”
(53). Petro è come l’uomo dionisiaco
descritto da Nietzsche: simile a lui cerca la salvezza nell’arte, cerca
un’“illusione” che lo salvi dallo sguardo che ha gettato sull’orrore delle
cose; egli ha la conoscenza del dolore e rischia per via di essa di rimanere
pietrificato, di perdere la volontà dell’azione e dire “no” alla vita. “In
questo senso” dice Nietzsche “l’uomo dionisiaco è simile ad Amleto: entrambi
una volta hanno gettato uno sguardo vero nell’essenza delle cose, hanno
conosciuto, e agire li nausea; poiché la loro azione non può cambiare niente
nell’essenza eterna delle cose, essi sentono come ridicolo o infame che venga
loro chiesto di rimettere in sesto il mondo uscito fuori dai cardini” (113).
Consolo, attraverso il personaggio di Petro, ci descrive allora il viaggio
verso l’esaltazione dionisiaca, che qui altro non è che volontà e capacità di
esserci ancora, di agire in questo mondo – e di scrivere, di dire. Assistiamo
così all’uscita metaforica di Petro dalla torre, alla sua presa di coscienza
politica (che passa tramite lo sputo al barone, l’amicizia con il Miceli, la
partecipazione alle manifestazioni di piazza, l’“oltraggio” subito e infine
l’attentato perpetrato) e alla promessa, a fine romanzo, di una nuova scrittura
attraverso cui sciogliere il grumo del dolore: “Pensò al suo quaderno. Pensò
che ritrovata calma, trovate le parole, il tono, la cadenza, avrebbe racconto,
sciolto il grumo dentro. Avrebbe dato ragione, nome a tutto quel dolore”
(171). Questa scrittura, sappiamo, sarà
il rifiuto delle parole cerimoniose e della falsa retorica, si distanzierà
tanto dal libro dell’anarchico lasciato cadere in mare quanto dalle “parole
rare e abbaglianti” di D’annunzio o quelle “roboanti” (112) di Rapisardi. La
vicenda di Petro si conclude perciò in quella dei satiri del coro, nel recupero
attraverso la scrittura di un dionisiaco non degenerato: Nella coscienza di una
verità, ormai contemplata, l’uomo adesso vede dappertutto soltanto l’orrore o
l’assurdità dell’essere […]. Qui, in questo supremo pericolo della volontà,
si avvicina, come maga che salva e risana, l’arte: soltanto essa può piegare
quei pensieri nauseati per l’orrore o l’assurdità dell’esistenza in
rappresentazioni con cui si possa vivere. (Nietzsche, 2003:114)
Questo è anche il percorso intrapreso dal Consolo scrittore,
che approda alla tragedia di Catarsi (1989) come simbolo di un modo di
scrivere; dice nel saggio Per una metrica della parola: “La tragedia
rappresenta l’esito ultimo della mia ideologia letteraria, l’espressione
estrema della mia ricerca stilistica. Un esito, come si vede, in forma teatrale
e poetica, in cui si ipotizza che la scrittura, la parola, tramite il gesto
estremo del personaggio, si ponga al limite dell’intellegibilità, tenda al
suono, al silenzio” (Consolo, 2002:250).
Come ultima possibilità in una società dalla lingua corrotta e
degradata, dallo sfaldamento della comunicazione, dalla rottura del rapporto
tra scrittore e suo pubblico, suo referente in tale società, come ultima
risorsa prima di cadere nell’afasia, nel silenzio, c’è il recupero dello
spirito dionisiaco (e apollineo) che si esprime più compiutamente nel coro
della tragedia, come si verifica nel Prologo a Catarsi:
La tragedia è la meno convenzionale, la meno compromessa delle arti, la parola
poetica e teatrale, la parola in gloria
raddoppiata, la parola scritta e pronunciata. Al di là è la musica. E al di là
è il silenzio. Il silenzio tra uno strepito e l’altro del vento, tra un boato e
l’altro del vulcano. Al di là è il gesto. O il grigio scoramento, il crepuscolo, il brivido del freddo, l’ala
del pipistrello; è il dolore nero, senza
scampo, l’abisso smisurato; è l’arresto oppositivo, l’impietrimento. (Consolo,
2002:13)
Allora in Nottetempo dobbiamo leggere questo approdo al
canto del coro della tragedia, approdo di Petro dietro cui non sarà difficile
riconoscere il percorso della scrittura e della poetica di Consolo stesso, teso
tra il rifiuto della parola vuota e l’attrazione per quel silenzio che
racchiude tutto il dolore. Petro è
dunque il personaggio che incrocia tutti e tre i piani tematici su cui si
dispone il romanzo e su cui si dispiega il senso dell’apocalisse: quello esistenziale,
quello storico-culturale e quello della scrittura. A livello narrativo egli
funziona come elemento unificatore di questi piani e, a livello contenutistico,
si configura come chiave per trascendere il pericolo dell’apocalisse nel valore
che possa rinnovare i mondi (quello interiore, quello sociale e quello
letterario) infondendo loro nuovo significato. Più che romanzo “apocalittico”,
dunque, Nottetempo è romanzo del “rischio della fine” e dell’inserimento di
tale rischio in un’ottica che ne accenni e ne indichi il superamento e la reintegrazione.
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Abstract This essay aims to analyse the novel, Nottetempo, casa per casa (1992), by Vincenzo Consolo, considering the motif of the end of the world as a central and unifying element of the different levels on which the narrative unfolds. While The Birth of Tragedy by Friedrich Nietzsche is the intellectual reference for the novel, the considerations by the anthropologist Ernesto De Martino on the apocalypse allows us to interpret Nottetempo as a response to the psychological, cultural and literary risk of the “end” experienced in these three different areas.
Italian Studies in Southern Africa/Studi d’Italianistica nell’Africa Australe Vol 27 No 2 (2014)
Non più, non più “caliga” la Sicilia per i vapori di zolfo, ché negli anni Sessanta del Novecento si sono chiuse tutte le zolfare, ma caliga oggi l’Isola e potrà ancor più essere asfissiata da mefitici, micidiali vapori domani per i progetti di trivellazioni di pozzi petrolifici nel Val di Noto. Val di Noto o Contea di Modica, la parte della Sicilia orientale che il torrente Salso divide dalla Sicilia occidentale. Questo Vallo, dominato dai Normanni e quindi dagli Aragonesi non era contrassegnato dall’arcaico sistema feudale del latifondo come nella parte Occidentale, nel cui contesto, con i gabelloti, i soprastanti e campieri è nata la mafia. Ma vi era la divisione della terra, della piccola proprietà contadina. L’economista Paolo Balsamo compie nel 1808 un viaggio nel Val di Noto o Contea di Modica e annota, sulla esistenza della piccola proprietà contadina: “Questa sorta di equità sociale nella Contea era forse dovuta ai normanni Chiaramonte e quindi all’aragonese ribelle Bernardo Cabrera, i quali non avevano instaurato lo stesso arcaico sistema feudale del latifondo, come nell’occidente siciliano…”. Ebbene in questa Val di noto o Contea di Modica ora il colosso Texano del petrolio Panther Oil (un nome, un programma!) vuole qui trivellare per cercare petrolio. Nel 2004, sotto il governo regionale di Totò Cuffaro( Totò vasa vasa), la Panther ottiene le autorizzazioni per trivellare. Trivellare là, nella patria del barocco in un territorio tutelato dall’Unesco come patrimonio dell’umanità. Ma a Totò bastavano due cannoli e concedeva tutto. Non solo trivelle in terra, ma anche piattaforme in mare come quella già esistente al largo di Pozzallo. Una storia, quella delle trivellazioni in Val di Noto, che sembrava chiusa, ma che una sentenza del Consiglio di giustizia amministrativa(Cga) riapre dando via libera alle trivellazioni. Manifestazioni nei paesi del Val di Noto ci sono state, nel paese di Vittoria soprattutto, appelli di intellettuali. E la questione è aperta. Trivellazioni, petrolio da una parte, cemento da un altra parte.
Cemento a Siracusa, nelle antiche Siracuse. Siracusa la greca, la Pentapoli, con i suoi straordinari siti archeologici, i suoi templi, i suoi teatri, le sue latomie. Siracusa, patrimonio dell’umanità, rischia oggi di essere coperta da una coltre, da un sudario di cemento. Già in anni passati la nobile città aveva avuto il suo primo oltraggio. A pochi chilometri dalla città, tra Priolo e Melilli era sorto il petrolchimico dell’ENI che con i suoi velenosi miasmi ha provocato un disastro ambientale. Chi lavora e abita in quei luoghi si ammala di cancro; lì nascono bambini malformati.
E oggi il disastro minaccia proprio Siracusa, una città che per la sua profondità storica e per la sua bellezza dovrebbe essere inviolabile e invece sono in programma progetti devastanti. Sul porto grande della città, il porto dell’isola di Ortigia, dove abita la nostra cara ministra dell’ambiente Prestigiacomo, l’Ortigia che ha di fronte i monti Iblei e la penisola del Plemmirio, su questo porto sono in programma due progetti, due approdi di cemento che coprano l’acqua del mare. Il primo, già in costruzione è approvato nel 2007 da Regione, Comune, Genio Civile, Capitaneria di Porto. 50.000 mq di superficie vengono sottratti al mare e sulla superficie di cemento sono previste costruzioni di uffici, negozi, ristoranti, hotel, centri benessere, eliporto…e ancora nella penisola del Plemmirio sono previste costruzioni di ville; nel castello di Urialo, fra le torri e le mura antiche, sequele di casette a schiera. Siamo allo scempio, all’oltraggio. Il secondo porto in progetto dentro il Porto Grande, con il suo cemento dovrebbe coprire ancora 50.000 mq di mare. Ma chi li ferma, chi ferma questi cementificatoriu?
Si, si sono formati dei comitati per scongiurare il pericolo di devastazione: attorno al siracusano Enzo Maiorca, il campione d’immersione in apnea; si sono fatti esposti all’Unesco; si muove Italia-Nostra di Siracusa; si è creato il movimento SOS Siracusa. Si riuscirà a fermare la colata di cemento sopra la luminosa Siracusa?
Conoscendo le amministrazioni, comunali, regionali e nazionali italiche, da vergognoso basso impero, diffidiamo.
E tuttavia speriamo. Se no, dobbiamo solo recitare i versi di Ungaretti:
PINO VENEZIANO E LA CANZONE POPOLARE VINCENZO CONSOLO
Milano, 19 luglio 2004
Si sono perse le voci, e per sempre, dei poeti e dei cantori popolari di Sicilia, così come d’ogni altra regione o plaga di questo nostro paese, di questo nostro mondo d’oggi, assordato dai clamori imperiosi della violenza e della stupidità.
Voci, quelle, umane e melodiose che davano voce ai sentimenti e ai pensieri di un popolo, un popolo che gioiva soffriva dell’esistenza, soffriva della storia. Una catena sonora, quella popolare della Sicilia, che affondava l’origine sua nel più remoto tempo, nel tempo greco degli aedi e dei lirici. “La discendenza del canto popolare Siciliano dalla musica greca dell’epoca classica è una proposizione indiscutibile” scrive il musicologo Ottavio Tiby. Greco, si, il canto popolare siciliano, su cui però è passata la nenia lenta e profonda del deserto, del canto arabo vogliamo dire. Il “borghese” Alessio Di Giovanni, di Cianciana, per aver sentito una notte un carrettiere cantare il malioso canto che iniziava con il distico “Lu sunnu di la notti m’arrubbasti: / ti lu purtasti a dòrmiri cu tia”, si convertì al radicalismo dialettale, a scrivere tutte le sue opere, poesie romanzi, in siciliano. Canto arabo dunque, andaluso e gitano, che dall’Andalusia moresca passò in Sicilia e nel Napoletano, parole e suoni, quelli del canto popolare siciliano, che di generazione in generazione si tramandavano e si ricreavano, una musica popolare che fecondava e rinnovava la musica dotta. Abbiamo avuto per la prima volta cognizione di questo prezioso patrimonio culturale grazie all’opera del musicista e storico della musica Alberto Favara che, percorrendo paesi e villaggi dell’isola, trascrisse parole e note dei canti popolari, pubblicò, tra il 1898 e il 1923, il Corpus dei Canti delle terre e del mare di Sicilia, raccolta che completava, arricchiva anzi, le raccolte di soli versi dei folkloristi Vigo, Pitrè, Salomone Marino, Avolio, Amabile Guastella. Un lavoro in qualche modo simile a quello del Favara, ma già in epoca delle registrazioni meccaniche, ha fatto il poeta ed etnologo Antonino Uccello, il quale, nel momento della grande mutazione antropologica, vale a dire della fine della civiltà contadina, riuscì a registrare, dalle ultime voci superstiti, antichi canti popolari, e pubblicò, a cavallo degli anni sessanta, Canti del Val di Noto, Risorgimento e società nei canti popolari siciliani, Carcere e Mafia nei canti popolari siciliani.
Il Corpus del Favara trovava, quasi contemporaneamente, specularità nel Corpus di musiche popolari ungheresi di Bèla Bartòk e di Zoltan Kodàli. E intorno a quegli anni Federico Garcia Lorca pubblicava i “suoi” Canti gitani e andalusi. Il lavoro invece di Antonino Uccello si specchiava in quello svolto in Puglia da Ernesto De Martino, se non nell’Academiuta di lenga furlana, Poesia dialettale del novecento e Canzoniere italiano: antologia della poesia popolare di Pier Paolo Pasolini. Il quale, già nel 1972, così scriveva: “Non sussiste dubbio, comunque, che, salve le aree depresse, la tendenza del canto popolare nella nazione è a scomparire”. Aree depresse come la siciliana. E dunque le voci ultime e straordinarie di poeti e di cantori popolari: di Ignazio Buttitta, di Ciccio Busacca, di Rosa Balistreri, di Pino Veneziano. Autenticamente popolano, il Veneziano, picaro e gitano, dalla vita tormentata come quella di Rosa Balistreri. Ma, per ironia del caso, Pino portava lo stesso cognome del colto e grande poeta dialettale cinquecentesco Antonio Veneziano, l’autore de La Celia, dalla vita tormentata anch’egli, che ebbe la ventura di essere stato compagno di prigionia in Algeri di don Miguel de Cervantes.
Di povera famiglia, Pino, ancora fanciullo, è guardiano di capre nelle campagne di Sciacca, poi garzone di fornaio e quindi di bar, uno di quei lavoratori minorenni che a Palermo chiamavano “vaporta”, vai e porta. Agli inizi degli anni Sessanta, fa il cameriere in un ristorante di Selinunte. E a Marinella di Selinunte, in quella breve striscia di terra ai piedi della collina da cui s’alzano le colonne dei portentosi templi greci, si fa imprenditore, gestore di un ristorante insieme agli amici Jojò e Giacomino. E nel 1972, l’anno in cui Pasolini decretava la scomparsa del canto popolare in Italia, Veneziano impara a suonare la chitarra dal maestro zu’ Vicenzu Fasulu, detto Piricuddu. E nel suono della chitarra sgorgano i primi versi, la prima canzone: Lu Sicilianu, Il siciliano,”ca a tutti i banni chiamanu gitanu”, come nell’atroce Italia di oggi, piccolo borghese e neo-capitalistica, vengono chiamati spregiativamente marocchini tutti gli immigrati, maghrebini e no.
Non meliano e non arcadico, Pino Veneziano, ma nella linea buttittiana della consapevolezza storica dell’impegno civile. Da qui i suoi canti quali Lu patruni è suvecchiu, Nivuri su li bummi, La festa ddi li porci, Piazza di la Loggia, Allende, La Maffìa. Mentre Buttitta, e la stessa Balistreri, cantavano una Sicilia e un’Italia del Secondo dopoguerra, delle lotte contadine e dei sindacalisti uccisi dalla mafia, della seconda grande emigrazione nel centro Europa di masse di braccianti, Pino Veneziano cantava l’atroce Italia dei roventi anni Settanta, del regime democristiano, della corruzione e delle stragi perpetrate dai fascisti.
Ma c’era anche un Veneziano rapito cantore della bellezza della natura (Settembri), la natura forse ancora, là a Selinunte, delle lucciole pasoliniane. E un Veneziano cantore del rapinoso dei sentimenti umani, dell’amore: L’amuri, Ma dunni si tu?, Si tu nun veni, Non ti pozzu scurdà.
E forse un grande amore, travolgente, portò il povero Veneziano all’autodistruzione, alla rapida fine.
Ma rimangono, in questa plaga della più classica Sicilia, ancora vivi i tratti gitaneschi, le parole e la musica del Veneziano.
Di quel Veneziano che un giorno dell’84, là al Lido Azzurro, cantò per il vecchio e cieco poeta Jorge Luis Borges e lo commosse, il Borges che aveva cantato la milonga e il quartiere Palermo di Buenos Aires, la Palermo di Evaristo Carriego. Nella musica stanno, nelle corde / Della chitarra dal suono ostinato / Che trama nella milonga felice / La festa e l’innocenza del coraggio.
Vincenzo Consolo Di questa terra facciamone un giardino
Coppola Editore agosto 2009
In una Finisterre, una periferia, un luogo dove i segni della storia – segni bizantini: chiese, conventi, romitori arroccati su picchi inaccessibili – s’erano fatti labili, sfuggenti, dove la natura, placata – immemore qui dei ricorrenti terremoti dello Stretto, delle eruzioni dell’Etna -, s’era fatta materna, benigna – nelle piane, nelle valli, sopra i monti erano oliveti agrumeti noccioleti, erano fitti boschi di querce elci cerri faggi -, ai piedi dei Nebrodi, sulla costa tirrenica di Sicilia, in vista delle Eolie celesti e trasparenti mi capitò di nascere. Nascere dov’erano soltanto echi d’antiche città scomparse, Alunzio Alesa Agatirno Apollonia, che con la loro iniziale in A facevano pensare agli inizi della civiltà.
In tanta quiete, in tanto idillio, o nel rovesciamento d’essi – ritrazione, malinconia -, nella misura parca dei rapporti, nei sommessi accenti di parole, gesti – erano qui pescatori di alici e sarde liberi da condanne del fato, alieni da disastrosi negozi di lupini; erano piccoli proprietari terrieri, affittuari, contadini, ortolani, innestatori e potatori, carbonai; erano lungo le strade carretti disadorni, monocromi, giallognoli o verdastri -, in tanta sospensione o iato di natura e di storia, il rischio era di scivolare nel sonno, perdersi, perdere il bisogno e il desiderio di cercare le tracce intorno più significanti per capire l’approdo casuale, immaginare il mondo oltre i confini di quel limbo.
E poiché, sappiamo, nulla è sciolto da cause o legami, nulla è isola, né quella astratta d’Utopia, né quella felice del Tesoro, nella viva necessità che mi assali di viaggiare, uscire da quella stasi ammaliante, potevo muovere verso Oriente, verso il luogo tremendo del disastro, il cuore del marasma empedocleo, muovere verso la natura più profonda, l’esistenza.
Ma per paura di assoluti e infiniti, di stupefazioni e gorgoneschi impietrimenti, verghiani immobilismi, scelsi di viaggiare verso Occidente, verso un Maghreb dai forti accenti, verso i luoghi della storia, i segni più incisi e affastellati muovere verso la Palermo fenicia e saracena, verso Panormo, Bahlarm, verso le moschee, i suq e le giudecche, le tombe di porfido di Ruggeri, di Guglielmi e di Costanze, le cube, le zise e le favare, la reggia mosaicata del “Vento Soave”, del grande Federico, il divano dei poeti, il trono vicereale di corone aragonesi e castigliane; muovere verso l’incrocio ai Quattro Canti d’ogni raggio del mondo, delle culture e delle favelle più diverse. Andando, mi trovai così al preludio, all’epifania, alla porta magnifica e splendente che lasciava immaginare ogni Palermo o Cordova, Granata, Bisanzio o Bagdad. Mi trovai a Cefalù.
Era prima soltanto questo paese un faro che lampeggiava nelle notti il-luni, incrociava col suo fascio luminoso i fari opposti di Capo D’Orlando e di Vulcano; era, nei limpidi tramonti d’aprile o di settembre, la sagoma dorata del capo, la Rocca sopra il mare. Oltre Santo Stefano delle fornaci, delle giare maronali, oltre Torremuzza, Tusa, Finale, Pollina, per innumeri tornanti sopra precipizi, lungo una costa di scogliere e cale, di torri di guardie e di foci di fiumare, s’arrivava prossimi alla Rocca. Ed erano prima la cala scoscesa e il promontorio della Calura, lo sconquasso primordiale dei massi che, come precipitati dall’alto, da Testardita, dalla Ferla, sul mare s’erano arrestati. Meravigliava, nell’appressarmi a Cefalù, l’alzarsi del tono in ogni cosa, nel paesaggio, negli oggetti, nella gente. Adorni di nastri, specchi, piume, bubbole erano i muli aggiogati ai carretti variopinti, i retabli sulle sponde delle gesta d’Orlando e di Rinaldo. Piccola, scura, riccioluta era la gente, o alta, chiara, i capelli colore del frumento, come se, dopo secoli, ancor distinti, uno accanto all’altro scorressero i due fiumi, l’arabo e il normanno. E fui alla radice della Kefa o Kefalé, la grande rocca di calcare che dal tempo più remoto aveva dato il nome alla città.
“Grande rocca di quasi rotonda forma parrebbe posata presso alla riva dalle braccia di cento Polifemi. Arido n’è il suolo, brusco, tagliente il contorno; le pietre lavate da secoli e secoli dall’acqua, bruciate perennemente dal sole, han preso or rancia, or verdastra pei licheni la tinta (…) Si aprono in cima alla rocca tali fenditure che finiscono di sotto in forma di grotte: poterono un giorno esser dimora delle prische famiglie, mentre oggi vi fabbricano i nidi gli sparvieri e i nibbi e vi belano le capre…”
Così, con prosa elegante, descrive la rocca lo storico dell’Ottocento
Salvo di Pietraganzili. Quella massa imponente di pietra era lo sprofondo buio del tempo in cui fioriva il mito, la favola. Si favoleggiava di Giganti, Ciclopi che sulla Rocca, nelle sue caverne erano vissuti. Il misterioso tempio megalitico poi, detto di Diana, dedicato certo ad arcaiche divinità ctonie, dava adito alle congetture più varie, ad accese dispute fra eruditi. Fra i quali da sempre era aperta anche le disputa se la primitiva città fosse posta sulla riva del mare. Non era questa Cefalù di ere remote che cercavo, ma la città della storia, dell’inizio di quella storia che può dirsi siciliana, in cui si è formato il modo d’essere dei siciliani. Cercavo la Cefalù “narrabile”, quella città che, con la dominazione musulmana, incominciava a stendere i suoi segni più vivaci e duraturi. Davanti al gran baluardo, incoronato da mura lungo tutto il suo tondo fianco, sormontato dal castello, la strada si biforcava. Andava da una parte verso la costa del mare, toccava il Faro, la Tonnara, le mura megalitiche sopra gli scogli sferzati dalle onde, giungeva alla Giudecca, alla Candelora. Dall’altra, serpeggiando, oltrepassando il torrente Sant’Oliva, la contrada Santa Barbara, il bivio per Gibilmanna, scendendo per la strada Carruba, giungeva a Porta di Terra. Qui ero all’inizio dell’avventura, del viaggio, ero sulla porta del mondo denso, ricco di Cefalù, davanti al palinsesto in cui ogni lettera, parola spiccava chiaramente, al prezioso codice, breve ma profondo, che doveva esser letto, la trama solida su cui poteva nascere il racconto. “Ad una giornata leggera da Sahrat’ al hadid giace nella spiaggia del mare Gafludi, fortezza simile a città, coi suoi mercati, bagni e molini, piantati dentro lo stesso paese, sopra un’acqua che erompe dalla roccia, dolce e fresca e dà da bere agli abitanti. La fortezza di Cefalù è fabbricata sopra scogli contigui alla riva del mare. Essa ha un bel porto al quale vengono delle navi da ogni parte. Il paese è molto popolato. Gli sovrasta una rocca dalla cime di un erto monte, assai malagevole a salire per cagione della costa alta e scoscesa”.
Questa è la Cefalù vista da Edrisi, il geografo alla corte di Ruggero, la Cefalù ancora araba sotto la dominazione normanna. E così la vede il viaggiatore Ibn-Giubayr, musulmano di Granada: “Questa città marittima abbonda di produzioni agrarie, gode grande prosperità economica; è circondata di vigne e di altre piantagioni, fornita di ben disposti mercati. Vi dimora un certo numero di Musulmani. La sovrasta una rupe vasta e rotonda, sulla quale sorge una rocca che non se ne vide altra più formidabile, e l’hanno munita ottimamente contro qualsiasi armata navale, che improvvisamente l’assalisse venendo da parte dei Musulmani, che Iddio sempre li aiuti”.
Musulmana dunque Cefalù ancora sotto i Normanni, con le sue varie razze e lingue, araba, berbera, africana, spagnola; musulmana e insieme bizantina, e insieme ebrea, e ora anche nordica, normanna. Immaginarla prima, la città, prima della calata dei conquistatori normanni, era certo Cefalù una piccola Sousse, Tunisi o Granada. Un paese di contadini e pescatori, di artigiani, di mercanti, brulicante nel fitto intrico di strade, vanelle, piani, bagli, nei mercati odorosi di spezie, nel porto, nella tonnara, su cui all’alba, nel giorno, al tramonto, dai minareti delle moschee calava la voce cantilenante del muezzin che invitava alla preghiera ad Allah. Questa vita, questo vitalismo maghrebino scorgevo ancora nei visi, nei gesti, varcata la soglia di Porta di Terra, nei quartieri sopra il fianco della Rocca, le Falde, il Borgo, Francavilla, Saraceni, nelle strade che, scendendo come torrentelli, sfociavano in via Fiume, alla Porta a Mare, al Porto. E venne quindi il segno più forte, più sconvolgente, l’impressione sulla trama umile, quotidiana, dell’impronta guerriera dei biondi normanni, dei crociati della Riconquista. Come un San Giorgio in corazza d’argento, su bianco destriero, sbarcato qui per prodigio, miracolo, in questa naturale fortezza, ai piedi della Rocca possente, Ruggero immagina che qui sarebbe stata la sua dimora ideale, il suo baluardo concreto e simbolico contro ogni minaccia, ogni assalto, ogni tentativo di ritorno da parte dei fedeli di Allah. Nel punto più eminente, contro la Rocca, dov’era già forse un tempio greco e quindi una moschea, realizza il suo sogno, il suo audace progetto d’un tempio-castello che parlasse con voce forte la lingua latina, imponesse il rito di Roma. Capaci i suoi architetti di concepire un castello normanno, un Duomo-fortezza, ma ignari, loro, d’ogni ulteriore disegno che un tempio reclama. E allora, quel re, non poté fare a meno d’introdurre nel tempio altre lingue che nel paese ancora correvano. Che grande epopea sarà stata la costruzione del duomo! Le maestranze più varie per memoria, esperienza, ispirazione, murifabbri, manovalanza di diversa razza, fede, costume, tutti insieme per innalzare quel monumento superbo, quella meraviglia del mondo. Gli urbanisti poi ridisegnavano sull’intrico, sul labirinto della vecchia medina, dell’araba Glafundi, una nuova città razionale, geometrica, un incrocio di strade diritte, una sequenza ordinata di case. Era ancora una metamorfosi dentro il breve cerchio delle arcaiche mura, a ridosso della Rocca possente. Percorro allora la strada maestra, il corso Ruggero, che da Porta Reale, dalla chiesa della Catena, da meridione a settentrione, taglia in due questa città. E’ un teatro, la strada, è una via Atenea d’Agrigento, in cui sono fiorite le novelle di Pirandello, o una via Toledo di Palermo, da cui s’è levato il canto infiammato di Lucio Piccolo. Ogni casa, palazzo, ogni muro, pietra di questa strada è documento, memoria. Ed è, il corso stretto e diritto, affollato di gente come le antiche agorà, di gente che s’incontra, parla, dibatte, testimonia la propria esistenza. Andando, tra un cantone e un altro, si aprono strade, su un verso le Falde, giù verso il mare. Si aprono vicoli, cortili, di case basse, finestre, balconi impavesati di panni, edicole infiorate, donne davanti alle porte, artigiani, bambini che razzolano, saltano sul geometrico acciottolato, su per rampe di scale. Ed emergo come da un cunicolo, da un antro di Sibilla, al vasto respiro, alla luce, alla meraviglia del piano del Duomo. Entro nel cuore di questa città nell’ora sua giusta, quando il sole volge al tramonto e dalla punta opposta di Santa Lucia incendia ogni cosa, il mare, la terra, dà ai palazzi, al castello ardito del Duomo, alla Rocca che lo sovrasta il colore suo proprio, arancio e oro, d’una Bagdad o d’una Bisanzio mediterranee, il tono di una suprema, compiuta civiltà. “L’ora classica della bellezza di Cefalù è l’ultima parte del giorno”, scrive Steno Vazzana. A tanta bellezza che rapisce, blocca il pensiero, sento il bisogno di opporre una logica, una prosa pacata che chiarisca tanta clamorosa apparenza, guidi per gradi alle sue profonde radici. Volevo capire insomma la ragione del mio viaggio, trovare l’appiglio del racconto, lo spunto della metafora, lasciando la piazza, andando giù per la strada Badia, m’imbatto nel Museo, nel suo fondatore, quel cefaludese che molto prima di me, nel modo più simbolico e più alto, aveva compiuto quel mio viaggio dal mare alla terra, dalla natura alla cultura, dall’esistenza alla storia: Enrico Piraino barone di Mandralisca. Sposata la cugina di Lipari, Maria Francesca Parisi, fa la spola, lo studioso, fra il cuore della “storica” Cefalù e il cuore della “naturale” Lipari, scava in quest’isola, in quest’onfalo profondo, scopre e trasporta nella sua casa della strada Badia statuette, lucerne, vasi, monete, maschere, arule, conchiglie. Rinviene il cratere attico del Venditore di tonno che sembra riprodurre, nella scena dipinta sulla sua superficie, un mimo del siracusano Sofrone. Una scena di vita reale, quotidiana, deformata in comico teatro. Recupera in una spezieria di Lipari il Ritratto di ignoto di Antonello da Messina. Il viaggio di quel ritratto sul tracciato di un simbolico triangolo avente per vertici Messina, Lipari e Cefalù, si caricava allora per me di vari sensi, fra cui questo: un’altissima espressione di cultura, di arte, sbocciata per la mano del magnifico Antonello, in una città fortemente strutturata dal punto di vista storico qual era Messina nel XV secolo, cacciata per una catastrofe naturale che si sarebbe abbattuta su quella città distruggendola, cacciata in quel regno della natura che è l’isola vulcanica, viene salvata da Mandralisca e riportata in un contesto storico, dentro le salde mura, sotto la rocca protettiva di Cefalù. E non è questo poi, fra terremoti, maremoti, eruzioni di vulcani, perdite, regressioni, follie, passaggi perigliosi fra Scilla e Cariddi, il viaggio, il cammino tormentoso della civiltà? Il simbolico viaggio poi dalla natura alla cultura si svolgeva anche verticalmente grazie a un simbolo offerto ancora dal malacologo Mandralisca, quello della conchiglia, del suo movimento a spirale (archetipo biologico e origine di percezione, conoscenza e costruzione, com’è nella Spirale delle calviniane Cosmicomiche; arcaico segno centrifugo e centripeto di monocentrico labirinto, com’è in Kerényi e in Eliade). Quest’uomo, questo erudito, spettatore e partecipe del grande evento risorgimentale, mecenate illuminato, sagace architetto del risorgimento sociale e culturale della sua patria cefaludese, appassionato conservatore di memorie, Mandralisca, il suo Museo, la sua Biblioteca furono il felice approdo del mio viaggio, la guida del viaggio dentro Cefalù, la sua storia, la sua bellezza, le sue strade, i suoi monumenti, la sua gente, i suoi personaggi, le sue vicende; mi permisero, la sua conoscenza e il possesso della sua singolare realtà, di muovere il racconto. Racconto in due tempi, di due sfondi storici cruciali – il 1860 e il 1920 – che interpretava metaforicamente il presente, leggeva in Cefalù i segni riflessi di questo nostro mondo. Questa, in alcune parti, la mia restituzione narrativa di Cefalù. “Mentre ancora gli invitati sorseggiavano cherry di Salaparuta e malvasia, il barone fece cenno a Sasà d’accendere le dodici candele dei moretti. S’accostò al leggio e, nel silenzio generale, tolse il panno che copriva il dipinto. Apparve la figura d’un uomo a mezzo busto. Da un fondo verde cupo, notturno, di lunga notte di paura e incomprensione, balzava avanti il viso luminoso. Un indumento scuro staccava il chiaro del forte collo dal busto e un copricapo a calotta, del colore del vestito, tagliava a mezzo la fronte. L’uomo era in quella giusta età in cui la ragione, uscita salva dal naufragio della giovinezza, s’è fatta lama d’acciaio, che diverrà sempre più lucida e tagliente nell’uso ininterrotto. L’ombra sul volto di una barba di due giorni faceva risaltare gli zigomi larghi, la perfetta, snella linea del naso terminante a punta, le labbra, lo sguardo. Le piccole, nere pupille scrutavano dagli angoli degli occhi e le labbra appena si stendevano in un sorriso. Tutta l’espressione di quel volto era fissato, per sempre, nell’increspatura sottile, mobile, fuggevole dell’ironia, velo sublime d’aspro pudore con cui gli esseri intelligenti coprono la pietà. Al di qua del lieve sorriso, quel volto sarebbe caduto nella distensione pesante della serietà e della cupezza, sull’orlo dell’astratta assenza per dolore, al di là, si sarebbe scomposto, deformato nella risata aperta, sarcastica, impietosa o nella meccanica liberatrice risata comune a tutti gli uomini”.
“Il San Cristoforo entrava dentro il porto mentre che ne uscivano le barche, caicchi e gozzi, coi pescatori ai remi alle corde vele reti lampe sego stoppa feccia, trafficanti, con voci e urla e con richiami, dentro la barca, tra barca e barca, tra barca e la banchina, affollata di vecchi, di donne e di bambini, urlanti parimenti e agitati; altra folla alle case saracene sopra il porto: finestrelle balconi altane terrazzini tetti muriccioli bastioni archi, acuti e tondi, fori che s’aprivano impensati, a caso, con tende panni robe tovaglie moccichini svolazzanti. Sopra il subbuglio basso, il brulicame chiassoso dello sbarcatoio e delle case, per contrasto, la calma maestosa della rocca, pietra viva, rosa, con la polveriera, il Tempio di Diana, le cisterne e col castello in cima. E sopra la bassa file delle case, contro il fondale della rocca, si stagliavano le due torri possenti del gran duomo, con cuspidi e piramidi, bifore e monofore, soffuse anch’esse d’una luce rosa sì da parere dalla rocca generate, create per distacco di tremuoto o lavorì sapiente e millenario di buriane, venti, acque dolci di cielo e acque salse corrosive di marosi”.
“Lo studio del barone sembrava quello d’un sant’Agostino o un san Girolamo, confuso e divenuto un poco squinternato nell’affanno della ricerca della verità, ma anche la cella del monaco Fazello e insieme il laboratorio di Paracelso. Per tutte le pareti v’erano armadi colmi di libri nuovi e vecchi, codici, incunaboli, che da lì straripavano e invadevano, a pile e sparsi, la scrivania, le poltrone, il pavimento. Sopra gli armadi, con una zampa, due, sopra tasselli o rami, fissi nelle pose più bizzarre, occhio di vetro pazzo, uccelli impagliati di Sicilia, delle Eolie e di Malta. Il cannocchiale e la sfera armillare. Dentro vetrine e teche, sul piano di tavolini e consolle le cose più svariate: teste di marmo, mani, piedi e braccia; terre cotte, oboli, lucerne, piramidette, fuseruole, maschere, olle e scifi sani e smozzicati; medaglie e monete a profusione; conchiglie e gusci di lumache e chioccioline. Nei pochi spazi vuoti alle pareti, diplomi e quadri. In faccia alla scrivania, nel vuoto tra due armadi, era appeso il quadro del ritratto d’ignoto d’Antonello; sulla parete opposta, sopra la scrivania, dominava un grande quadro che era la copia, ingrandita e colorata, eseguita su commissione del barone al pittore Bevelacqua, della pianta di Cefalù del Passafiume, che risale al tempo del Seicento. La città era vista come dall’alto, dall’occhio di un uccello che vi plani, murata tutt’attorno verso il mare con quattro bastioni alle sue porte sormontati da bandiere sventolanti. Le piccole case, uguali e fitte come pecore dentro lo stazzo formato dal semicerchio delle mura e dalla rocca dietro che chiudeva, erano tagliati a blocchi ben squadrati dalla strada Regale in trasversale e dalle strade verticali che dalle falde scendevano sul mare. Dominavano il gregge delle case come grandi pastori guardiani il Duomo e il Vescovado, l’Ostèrio Magno, la badia di Santa Caterina e il Convento dei Domenicani. Nel porto fatto rizzo per il vento, si dondolavano galee feluche brigantini. Sul cielo si spiegava a onde, come orifiamma o controfiocco, un cartiglione, con sopra scritto COEPHALEDUM SICILIAE URBS PLACENTISSIMA. E sopra il cartiglio lo stemma ovale, in cornice a volute, tagliato per metà, in cui di sopra si vede il re Ruggero che offre al Salvatore la fabbrica del Duomo e nella mezzania di sotto tre cefali lunghi disposti a stella che addentano al contempo una pagnotta”. (Il sorriso dell’ignoto marinaio – Milano, 1976)
“Sbucato al piano Duomo, Petro si trovò davanti a tanta gente inaspettata, disposta contro le mura per tutti i quattro lati della piazza, le porte chiuse dei caffe, dell’Associazione Combattenti, Mutilati e Invalidi di Guerra, della Cooperativa Riscatto, del Partito Socialista e di quello Popolare, dal lato di palazzo Legambi, dell’Oratorio del Sacramento, di palazzo Maria e Piraino, al lato opposto di palazzo Attanasio, del Seminario, del Vescovado, dal Distretto fino alla scalinata in fondo, le cui tre rampe formavano una piramide di lutto per le vesti, per gli scialli delle donne sedute fittamente sui gradini…- sopra era il cancello sormontato da volute reggenti la cascata dei fiocchi d’un galèro, l’inferriata ai bordi del sagrato tra pilastri ch’erano i piedistalli di santi bianchi vescovi papi patriarchi avvolti in gonfi manti, con lunghe barbe mitrie triregni, con libri pastorali bozze di cattedrali, sopra erano le chiome delle palme contro gli archi del portico, il portale in penombra, la Porta dei Re, sopra, la loggia ad archi intersecati fra le possenti torri quadre con monofore e bifore delle celle campanarie, sopra, le torrette e le cuspidi a poliedro a piramide del Vescovo e del Conte, sopra, le banderuole contro la viva roccia, la tonda Rocca a picco murata e merlata lungo il ciglio, la gran croce di ferro sorgente da ginestre spini, i bracci il puntale contro il cielo a chiazze, a nuvole vaganti”.
“Oltre la caserma Botta e il teatro, al piano Arena, presso porta d’Ossuna, Petro discese alla spiaggia. Camminò fin dove si stringeva, cominciava la scogliera, la cortina delle case saracene sulle mura, le torri, i propugnacoli, sfociava da sotto l’arco acuto dei Martino, l’acqua del Lavatoio, la vena sotterranea. Era affollata d’uomini che spingevano gli almali, con urla pungoli bastoni, dentro il mare. Sopra la Rocca dominante, dietro per le campagne, Sant’ Elia Pacenzia Giardinello Carbonara, giù fino alla punta opposta Santa Lucia, erano i fuochi svampanti di vigilia. Suonarono le campane per la festa del domani, al Duomo al Carmine all’Annunziata, uscirono dal porto in quello scuro le barche con l’acetilene pei tòtani polpi calamari”. “Guardò il cielo perciato dalle stelle, l’infinità di esse, brillanti più del giusto, e le masse lucescenti, le scie, le Pleiadi, le Orse. E giù, nel buio lieve, la mole della Rocca, le case del paese accovacciate sotto, strette fra la sua base e il mare, intorno al guardiano, il maniero, la grande cattedrale. Dal piano d’essa, da quel cuore partì con il pensiero a ripercorrere ogni strada vicolo cortile, a rivedere ogni chiesa convento palazzo casa, con le famiglie dentro, padri fi-gli, i visi loro, rievocarne i nomi, le vicende. Sentiva d’esser legato a quel paese, pieno di vita storia trame segni monumenti. Ma pieno soprattutto, piena la sua gente, della capacità di intendere e sostenere il vero, d’essere nel cuore del reale, in armonia con esso”.
“Gli appariva quel monumento inondato di luce in su quell’ora, familiare insieme estraneo, lontano, avamposto com’era di conquista nordica in questa porta, introito di Barberia, innaturale innesto, imposizione d’una religione e d’un potere trascendenti in una civiltà di sensi, di immanenze. Ma gli andava incontro come fascinato, tirato da un richiamo. Salì la scalinata e gli sembrò a ogni grado d’ascendere a un monte dove poteva compiersi il mira-colo, trascolorare il mondo, trasfigurarsi. Traversò il sagrato, la penombra del prònao e si trovò avanti alla Porta dei Re, sotto il portale di marmo spiegato sull’arco come un flabello, festoni segni zodiacali l’Agnello trafitto dallo stendardo. Varcò la soglia. Un suono grave d’organo, un odore untuoso di fiori ceri incensi lo coinvolse. E lampe delle ninfe, miriadi di fiamme d’olio, di candele che stellavano navate presbiterio, e il raggio portentoso che dall’ogiva al fondo sgorgando apriva nel mezzo un cammino luminoso, schiarava nell’abside, nella conca nelle vele del cielo nelle ali, preziose tessere, faceva apparir figure, suscitare un regno di riflessi, cristalli di colore. Luceva di luce d’oro nel suo superno albergo, nel suo nimbo, nell’alto e al centro di ogni altro, un dio trasfigurante, un Pantocratore sibillino e aperto nell’abbraccio, nel libro dei messaggi, EGO SUM LUX…” “Guardava i registri bassi, nella curvatura del coro, nelle ali, ai lati della fonte abbagliante, delle cornici, delle strombature infiorate, incluse fra le bande, le colonne di serpentino, di porfido, la chioma dei capitelli mosaicati, le teorie dei Teologi di Roma e di Bisanzio, dei Santi Guerrieri, dei Pontefici, dei Diaconi, dei Profeti, dei Re, dei Prototipi nei festoni tondi. E ancora, meraviglia!, i Santi Testimoni, gli Apostoli Celebranti. Sopra, e quasi non osava, fra giovani principi in dalmatica, diadema stola pantofole gemmati, labaro e pane nelle mani, ali spiegate, Arcangeli in corteo, in ali diafane e vibranti per Lei, l’Orante, la Platitera, Colei che contiene l’Incontenibile, Signora, Panaghia, Madre della Madre dei Santi, Immagine dell’Immagine della Città di Dio (…) Dopo solamente osò guardare in alto, al lago d’oro, alla cuna sfavillante, perdersi nella figura coinvolgente, nel severo volto e consolante, nel tremendo sguardo e protettivo dell’Uomo che trascolora, si scioglie nella luce, nell’abbaglio. Sopra, al cielo dei Cherubini e Serafini, librati nell’ali di pavoni, di tortore, cardelli.
Oltre, oltre ogni splendida parvenza, velario di gemme, specchio d’oro, parete di zaffiro, arazzo di contemplazione, tappeto di preghiera, rapimento, estasi, oblio, iconostasi allusiva, schermo del Mistero, dell’Amore infinito, della Luce incandescente” (Nottetempo, casa per casa – Milano, 1992) Si concludeva così il racconto del mio approdo a Cefalù. Da cui, come l’Ulisse dall’isola di Circe, non potevo più ripartire. Sarei rimasto per sempre in questo paese della memoria ritrovata, in questo scrigno d’ogni segno, in questo porto della conoscenza da cui solo salpa il naviglio della fantasia.
Altro viaggio a Cefalù, altro racconto straordinario è quello di Giuseppe Leone fissato nelle bellissime immagini di questo libro. Viaggiatore frenetico e instancabile per tutte le contrade di Sicilia è il grande fotografo, è un vittoriniano personaggio de Le città del mondo alla ricerca incessante d’ogni scintillio di bellezza, sopravvivenza, nell’Isola che svanisce, sprofonda ogni momento nell’oblio di sé, nell’insignificanza; alla ricerca dell’umanità più vera, della sua dimora, del suo paesaggio sempre più violato. E ci ha dato, Leone, la sconfinata nudità della Sicilia interna, il profondo silenzio e l’armonia dell’altopiano ibleo, il barocco ardito e malioso del Val di Noto, l’esplosione vitale delle feste in città e paesi, il lavoro, le fiere, le cavalcate di contadini sopra i Nebrodi. Il commosso e lirico ritratto d’oggi di Cefalù è una ulteriore tappa del lungo suo viaggio. In cui di Cefalù ha colto l’essenza sua profonda, l’espressione unica, incomparabile con ogni altra. L’ha colta nelle strade, nella gente, nei movimenti, negli umili angoli, nei sublimi monumenti.
Vincenzo Consolo
Sant’Agata Militello, 31 ottobre 1998 Foto di Giuseppe Leone