L’iniziativa è realizzata in occasione della pubblicazione de L’opera completa di Vincenzo Consolo nella collana I Meridiani di Mondadori a cura di Gianni Turchetta.
Con il patrocinio del Dipartimento di Scienze della Mediazione Linguistica
e di Studi Interculturali dell’Università degli Studi di Milano.
Biglietto TFP cortesia € 3,50
Informazioni e prenotazioni
Teatro Franco Parenti, via Pier Lombardo 14 – Milano
Rosalba Galvagno (a cura di),«Diverso è lo scrivere». Scrittura poetica dell’impegno in Vincenzo
Consolo, introduzione di Antonio Di Grado, Biblioteca di Sinestesie, Avellino 2015.
«Giravo e giravo, per strade, vicoli, piazze dentro la città nera, nell’intrico dell’ossidiana, nella
spirale d’onice, giravo nella scacchiera di lava e marmo folgorata da una luce incandescente»: così
Vincenzo Consolo descrive il capoluogo etneo in un suo breve e rarissimo scritto, intitolato “I libri
di Catania”, ora pubblicato in appendice a un pregevole volume dal titolo “Diverso è lo scrivere.
Scrittura poetica dell’impegno in Vincenzo Consolo”, recentemente edito per la collana “Biblioteca
di Sinestesie” (Avellino 2015) per le cure di Rosalba Galvagno, docente di Letterature Comparate e
di Teoria della Letteratura presso l’Ateneo catanese, e prefato da Antonio Di Grado.
Il libro riunisce gli interventi di una giornata di studi dedicata a Consolo tenutasi nel marzo del
2013 presso il Monastero dei Benedettini, nell’ambito delle iniziative culturali promosse dal
Dipartimento di Scienze Umanistiche: in quell’occasione alcuni tra i più validi studiosi dell’opera
consoliana (Nigro, Cuevas, Galvagno, Trovato, Messina, Stazzone), si sono confrontati intorno al
tema della “scrittura”, declinandolo da prospettive differenti.
Nella sua introduzione Di Grado si sofferma su “Catarsi”, definendolo “un testo di alta e
impervia poesia, memore addirittura dei tragici greci, di Hölderlin e di Pasolini”, composto per una
produzione del Teatro Stabile di Catania di grande spessore culturale, quel “Trittico” del 1989 (che
tanto successo riscosse), costituito da tre atti scritti dai tre maggiori letterati siciliani allora viventi:
Sciascia, Bufalino e appunto Consolo.
Nel contributo di Salvatore Silvano Nigro è rintracciata, nella prosa di Consolo, una fonte
secentesca, il “Récit du sol” di Bartoli; Cuevas si sofferma sapientemente sui riferimenti ecfrastici
presenti in un libro ancora inedito, “L’ora sospesa”, interpretando il senso delle “strategie di
ambiguazione della scrittura consoliana”, ad esempio nel caso dell’“escamotage dell’ecfrasi
nascosta”. Il saggio di Rosalba Galvagno individua le “figure della verità” presenti in quattro testi
dello scrittore siciliano: due articoli di cronaca degli anni Settanta da cui emerge “l’ambiguità della
verità effettiva, così diversa da quella processuale” e dai romanzi “Il sorriso dell’ignoto marinaio” e
“Retablo”, con un interessante riferimento all’iconografia dei “Disastri” di Goya.
Salvatore C. Trovato analizza le “Scritte” presenti nel capitolo IX del “Sorriso”, mettendone in
evidenza “i caratteri regionalmente marcati verso il basso” con opportuni rilievi sulla realtà
linguistica sanfratellana; Messina ripercorre il percorso editoriale e di scrittura del libro “La mia
isola è Las Vegas”; Stazzone dimostra come l’opera di Consolo sia attraversata dal tema del
silenzio e dell’afasia, insistendo sulla “volontà di alternare spazialità e temporalità dosando
citazioni letterarie e iconiche” nei romanzi consoliani fin dalla soglia paratestuale dei titoli.
In Appendice vi è anche un sentito saluto e ricordo dell’autore di Cetti Cavallotto unitamente a
un corredo iconografico e fotografico.
I vari saggi che compongono il volume ci mostrano, quindi, come la scrittura consoliana sia
un’immensa tessitura nella quale si mescolano gli elementi più diversi: la corposità della frase, la
trasfigurazione lirica della realtà, l’engagement, l’ecfrasi, la visione della storia e della letteratura
come combinazione e stratificazione “palincestuosa”, amalgama di elementi che producono infinite
sottoscritture e infiniti richiami.
Novella Primo
Ma che fai, voli? – diceva Vincenzo aprendomi la porta e provocando la mia reazione. Allora sollevavo e agitavo goffamente i gomiti fischiettando il cinguettìo di un canarino. Un reciproco gioco infantile che alludeva al settecentesco carillon con gabbietta e due uccellini sgargianti che in gioventù aveva acquistato in un mercatino di Palermo. Mostrarlo, azionarne il gioioso meccanismo che animava i due uccellini in effusioni a scatti e in canterini richiami d’amore, lo rallegrava.
Dopo averlo conosciuto, furono frequenti le sue telefonate per invitarmi a trascorrere una mattinata o un pomeriggio insieme, ed io, emozionato e lusingato mettevo le ali alla bicicletta ed ero già lì a far squillare il campanello di casa sua .
Mattinate e pomeriggi indimenticabili, durante i quali l’uomo Vincenzo -che mi schiudeva l’intimità del suo mondo privato- e lo scrittore Consolo, -che mi aveva ammaliato con il prodigioso libro “Retablo” – si lasciavano conoscere sempre più in profondità, consegnandomi dei suoi due volti un’unica immagine coerente di sé..
Nel 2001 a Catania, al termine di una sua conferenza, mi ero presentato per conoscerlo, infervorato com’ero dalla convinzione, che il suo “Retablo” e il mio “Pellegrinaggio d’amore: dalla Passione alla Coscienza” seppure nella differenza dei reciproci destini e dei rispettivi linguaggi, presentavano somiglianze significative e lusinghiere: la Sicilia che faceva da sfondo, il tema dell’amore impossibile in Isidoro e Rosalia profuso anche in altri personaggi, il viaggio del pittore Clerici simile a un pellegrinaggio passionale la cui meta sarà l’accettazione, la Coscienza. E non costituiva forse un ideale Retablo di ispanica tradizione l’insieme dei miei 32 Altari laici costruiti con i legni delle vecchie barche dei pescatori e dei migranti?
Metterlo a conoscenza della mia ricerca artistica nella quale si intrecciavano pittura, scultura e scrittura, era l’inevitabile premessa per osare di confessargli il desiderio di un suo breve commento scritto.
Fra le trenta righe battute a macchina e corrette a mano che mi consegnò, trovai una pietruzza che da allora considero preziosa, un’espressione sintetica e limpida, una ritmata combinazione di tre aggettivi e un sostantivo : “un materico e poetico poema narrativo”, parole che in me producevano lo stesso effetto della vernice lucida spennellata sopra la pittura opaca, o della cera spalmata che disvela le venature del legno.
Con quell’ illuminante frammento di scrittura, Vincenzo mi aveva istruito su me stesso; e non dimentico l’intento a lui esposto di cimentarmi un giorno nell’omaggio di un grande Retablo per illustrare e onorare il suo Retablo di parole.
Non più, non più “caliga” la Sicilia per i vapori di zolfo, ché negli anni Sessanta del Novecento si sono chiuse tutte le zolfare, ma caliga oggi l’Isola e potrà ancor più essere asfissiata da mefitici, micidiali vapori domani per i progetti di trivellazioni di pozzi petrolifici nel Val di Noto. Val di Noto o Contea di Modica, la parte della Sicilia orientale che il torrente Salso divide dalla Sicilia occidentale. Questo Vallo, dominato dai Normanni e quindi dagli Aragonesi non era contrassegnato dall’arcaico sistema feudale del latifondo come nella parte Occidentale, nel cui contesto, con i gabelloti, i soprastanti e campieri è nata la mafia. Ma vi era la divisione della terra, della piccola proprietà contadina. L’economista Paolo Balsamo compie nel 1808 un viaggio nel Val di Noto o Contea di Modica e annota, sulla esistenza della piccola proprietà contadina: “Questa sorta di equità sociale nella Contea era forse dovuta ai normanni Chiaramonte e quindi all’aragonese ribelle Bernardo Cabrera, i quali non avevano instaurato lo stesso arcaico sistema feudale del latifondo, come nell’occidente siciliano…”. Ebbene in questa Val di noto o Contea di Modica ora il colosso Texano del petrolio Panther Oil (un nome, un programma!) vuole qui trivellare per cercare petrolio. Nel 2004, sotto il governo regionale di Totò Cuffaro( Totò vasa vasa), la Panther ottiene le autorizzazioni per trivellare. Trivellare là, nella patria del barocco in un territorio tutelato dall’Unesco come patrimonio dell’umanità. Ma a Totò bastavano due cannoli e concedeva tutto. Non solo trivelle in terra, ma anche piattaforme in mare come quella già esistente al largo di Pozzallo. Una storia, quella delle trivellazioni in Val di Noto, che sembrava chiusa, ma che una sentenza del Consiglio di giustizia amministrativa(Cga) riapre dando via libera alle trivellazioni. Manifestazioni nei paesi del Val di Noto ci sono state, nel paese di Vittoria soprattutto, appelli di intellettuali. E la questione è aperta. Trivellazioni, petrolio da una parte, cemento da un altra parte.
Cemento a Siracusa, nelle antiche Siracuse. Siracusa la greca, la Pentapoli, con i suoi straordinari siti archeologici, i suoi templi, i suoi teatri, le sue latomie. Siracusa, patrimonio dell’umanità, rischia oggi di essere coperta da una coltre, da un sudario di cemento. Già in anni passati la nobile città aveva avuto il suo primo oltraggio. A pochi chilometri dalla città, tra Priolo e Melilli era sorto il petrolchimico dell’ENI che con i suoi velenosi miasmi ha provocato un disastro ambientale. Chi lavora e abita in quei luoghi si ammala di cancro; lì nascono bambini malformati.
E oggi il disastro minaccia proprio Siracusa, una città che per la sua profondità storica e per la sua bellezza dovrebbe essere inviolabile e invece sono in programma progetti devastanti. Sul porto grande della città, il porto dell’isola di Ortigia, dove abita la nostra cara ministra dell’ambiente Prestigiacomo, l’Ortigia che ha di fronte i monti Iblei e la penisola del Plemmirio, su questo porto sono in programma due progetti, due approdi di cemento che coprano l’acqua del mare. Il primo, già in costruzione è approvato nel 2007 da Regione, Comune, Genio Civile, Capitaneria di Porto. 50.000 mq di superficie vengono sottratti al mare e sulla superficie di cemento sono previste costruzioni di uffici, negozi, ristoranti, hotel, centri benessere, eliporto…e ancora nella penisola del Plemmirio sono previste costruzioni di ville; nel castello di Urialo, fra le torri e le mura antiche, sequele di casette a schiera. Siamo allo scempio, all’oltraggio. Il secondo porto in progetto dentro il Porto Grande, con il suo cemento dovrebbe coprire ancora 50.000 mq di mare. Ma chi li ferma, chi ferma questi cementificatoriu?
Si, si sono formati dei comitati per scongiurare il pericolo di devastazione: attorno al siracusano Enzo Maiorca, il campione d’immersione in apnea; si sono fatti esposti all’Unesco; si muove Italia-Nostra di Siracusa; si è creato il movimento SOS Siracusa. Si riuscirà a fermare la colata di cemento sopra la luminosa Siracusa?
Conoscendo le amministrazioni, comunali, regionali e nazionali italiche, da vergognoso basso impero, diffidiamo.
E tuttavia speriamo. Se no, dobbiamo solo recitare i versi di Ungaretti:
Pubblicato dal Centro studi e documentazione Isola di Ustica – Le ossidiane 4 – 2009
“Oltre Lipari, verso Occidente, v’è un’isola in alto mare, piccola di dimensioni, deserta, chiamata Osteode per un caso singolare che vi si verificò” ci racconta Diodoro Siculo. E Vincenzo Tusa, attraverso Diodoro, ci spiega quel “caso singolare”, che fu dei mercenari ribelli, relegati in Ustica dai Cartaginesi, e là morti di fame,ridotti a cumuli di ossa. Ma“Oltre Lipari, verso Occidente, v’è un’isola in alto mare…”sembra riecheggiare i versi di Omero, le parole di Ulisse che rivela al re Alcinoo la sua patria, Itaca. “Bassa nel mare essa giace, ultima/ verso occidente – le altre a parte, verso l’aurora e il sole -,/ irta di sassi, ma brava nutrice di giovani.” Ma Itaca, certo, è la patria sospirata del ritorno, del nòstos, mentre Ustica, se pure anche un’Itaca, è stata l’isola della relegazione, del confino, della coazione. Come lo sono state del resto, nel tempo, le Eolie o le Egadi, come è stata Ponza e Ventotene. E ad Ustica è stato confinato il messinese Pietro Minneci, perché rivoluzionario risorgimentale, partecipe dei moti del ’48 e redattore del giornale patriottico “Procida”. E là, ad Ustica, dopo, vi saranno confinati famosi intellettuali antifascisti: Nello Rosselli, Antonio Gramsci, Bordiga, Berti, Romita.. Sul soggiorno e sull’esperienza di Ustica, dove è stato relegato dal marzo del 1854, il Minneci scrive il racconto Ustica, stampato a Messina nel 1858. E già aveva pubblicato, nel 1851, la raccolta Fiori poetici .
“Quello che ci interessa, egli è il discorrere sui suoi dieci miglia di circonferenza, o per meglio dire, sul miglio di circuito che abbraccia tutti i piccoli casolari che compongono il paese.” scrive il Minneci nell’Introduzione al racconto o, meglio, romanzo Ustica. E definisce l’isola un grande “alveare d’uno sciame d’uomini”, uomini che sono Fratelli dell’Umiltà opochi tuttochè la sventura li ha gettati in questa melma, essi sen vivono come tanti raggi di luce su di un letamaio, essi sen vivono ammaestrando, soccorrendo, purificando gli altri”. Parla di questi uomini di eccezione nell’isola, il Minneci, ma non li qualifica, non dice chi sono. Essi sono i confinati politici, costretti a convivere con i coatti. Sono i rivoluzionari risorgimentali, gli eroi della rivoluzione del ’48, di cui fa parte lo stesso Minneci. C’è qui dunque, nella Introduzione e in tutto il racconto, una sorta di autocensura per non incorrere in più penose condanne da parte del restaurato potere borbonico. Racconta lo storico Raffaele De Cesare nel suo, La fine di un regno, che dopo la rivoluzione del ’48, con la restaurazione, Ferdinando II visitò i capoluoghi del suo regno, convocò i rivoltosi, obbligandoli a ritrattare, e i recalcitranti minacciava con le parole :”Cu vui facimmi i cunti.”
Reticenza dunque o autocensura di Minneci nel definire i confinati politici a Ustica, ma di essi ce ne dà la più luminosa immagine. Della loro solidarietà, della loro umanità, dei sentimenti, soprattutto amorosi, verso le donne dell’isola, verso le loro donne lontane, dell’attesa ansiosa della posta che giungeva, quando giungeva, col paranzello, delle case,del quartigliamento in cui vivevano.
I capitoli per noi più interessanti sono poi quelli intitolati I fratelli dell’umiltà, Il criminale, La società, La tirata. Un vero studio antropologico o rappresentazione sociologica di quella che si chiamava Società dell’umiltà, che era l’antenata della camorra e di quella che dopo l’Unità Leopoldo Franchetti chiamò per la prima volta, nella sua inchiesta in Sicilia, mafia. Minneci ci dice di rituali di quella organizzazione e soprattutto del loro linguaggio, un ragguaglio preciso di quel sottolinguaggio, metaforico, allusivo, che si chiama Baccàgghiu , il gergo mafioso che il Calvaruso ha registrato e che ci dice essere poi penetrato nei bassifondi palermitani.
E ci commuove ancora, in questo romanzo del Minneci, la sua attenzione nei confronti delle donne, soprattutto verso le creature sofferenti, malate per dolore, come l’indimenticabile figura di Lucietta, impazzita per amore. E del resto anche nelle sue poesie, esprimeva questo sentimento e questa attenzione nei confronti delle donne.
Interessante romanzo, questo di Minneci, che ci fa conoscere e amare un luogo, Ustica e un tempo, il Risorgimento, poco conosciuti e oggi più che mai poco frequentati.
De la ciudad moruna
tras la murallas viejas,
yo contemplo la tarde silenciosa,
a solas con mi sombra y con mi pena.
(A. Machado, Campos de Costilla)
… T’avvolge improvvisa voluta di
brezza di mare di monte, si fonde all’alga marcita la palma, poseidonia ginepro fenicio e l’euforbia l’eringio il
pino d’Aleppo esposto sui poggi del monte dimora al romito mai visto,
pellegrino di grotte di tane, alla furia dei venti, brezza che fiori accarezza
spessi d’effluvi di Cipro, spere di conca avvolte nell’oro: allora ti trovi
alla balza su cui si erge la reggia.
Oh excelso muro, oh torres coronadas de honor, de majestad, de gallardia!. (1)
Sei giunto dai
sobborghi o dal Monte Reale per l’arco di porta dai giganti custodi reggenti la
loggia, il belvedere a piramide a smalti e banderuola di latta (vi scorre ai
piedi un ruscello, la vena sfuggita dal Nilo, che porta radici larve papiri
caimani che il raggio di fuoco suscitò dalla coltre di limo ferace — il
principe folle o burlone pietrificò nella villa quei mostri e altri ne aggiunse,
una folla, sognati o pure intravisti alle corti alle feste d’un gran
carnevale).
E varchi il portale
dal timpano rotto in cui si spiegano gli stemmi le armi. Nel chiostro digrada
un chiarore da lucernari di lino, per squarci di cielo turchese di cumuli cirri
ammassi di nubi in cammino — sfreccia delle tempeste l’uccello, l’airone
migrante, il solitario passero o quello maltese. Luce in prigione che indugia
in labirinti di pietra, s’ammassa, esita alle colonne, agli archi, ai doppi
loggiati, agli scaloni a rampe, a viti, scivola sopra mura scialbate,
cilestrine lesene, paraste. Sale dalle segrete lo stridere dei ferri, dai
viali, dai cortili dietro cortili il passo dei cavalli, il cigolio di carrozze,
dai giardini pensili il cinguettare d’uccelli, rari del paradiso, dei tropici.
Passi per gallerie,
anditi, ambulacri, ponti, sospese logge, ai vestiboli esiti, alle soglie (il
Grande, l’Infanta, il Condottiero da sogno, da parete dipinta ti viene): non
badare alla guardia tronfia, al mercenario in brache festose, al buffone con
lucerna spaccona, a pennacchio, che nasconde i sonagli. Odi se vuoi nel tempo
sospeso II bisbiglio di preci per grate, fessure, per bussole schiuse d’oratori
segreti, cappelle murate, delle fruste gli schiocchi, dei flagelli i lamenti, le
canzoni dell’anima.
En una
noche oscura
Con ansias en amores inflamada… (2)
Da vani diversi,
dietro tende, cortine scarlatte, indovini l’alcova, la mano che indugia
carezza, il pannello d’avorio cinese che scorre e dispiega la scena, licenze…
(la sposa del capitano partito per terre conquise s’arrese all’amore di un
giovane a corte, e l’altra – ma qualcuno assicura che la linea del corpo, la
pelle riflessa allo specchio appartiene alla stessa velata – fanciulla tenera,
fu tolta a un padre in prigione, battiloro ribelle, per risveglio di sensi,
voglie incrostate di vecchi togati, prelati). Altrove é la forza, alla sala
del dio provato da immani fatiche, la schiena le braccia potenti, a masse
nodose.
Ma viene il momento:
ti trovi al cospetto di viceré in teoria spiegati, lungo pareti, in effigie,
tra bande di onice nero e fastigi, sovrapporte di stucco, imperi di gesso, e
l’altro – non sai se vero o dipinto in sostituzione d’un altro – in damasco
dorato a garofani a gigli, in seta cangiante e sboffi di trine, la gorgiera che
regge un volto di buio (ride o ira tremenda lo scuote?), assiso sul trono: –
Maestà Seconda, Quasi Signore, Rappresentante Eccelso, Somma Autorità Dopo
Qualcuno, Sovrano Limitato, Mio Viceré – dirai piegando a malapena un sol ginocchio,
mezza la testa, e l’altra tieni alta: bada: sul trono avuto in prestito l’uomo
senza volto non conosce il sorriso, il gesto largo, sereno della magnanimità,
incrina la sua vita l’astio, l’orgoglio offeso, il pensiero costante d’un
potere delegato, d’una grande sicurezza dipendente.
Ora é la volta della
discesa, lasciando a mano dritta la macchina trionfale di Filippo, la Soledad,
le cupole di sangue tra grappoli di datteri, pompelmi, viticci attorcigliati
alle colonne, all’arco di ferro sopra il pozzo.
(2) Jùan de la Cruz, Cancionesa
del almo…
Sobre laclara
estraila del ocaso
como un alfanje, plateada, brilla
la luna en el crepúsculo de rosa… (3)
La volta di pietre
d’oro, d’ametista, topazi affumicati, intrecci, geometrie affollate, ricami
d’arenaria, rabeschi d’una grande moschea profanata. Dimora un cardinale che
affonda in mollezze porporine e dispiega in volute, in ventagli sfaldati
effluvi d’incensi grassi, acide essenze, malsani fermenti. I servi, i paggi
corrotti in fronzoli in gale a farandola intorno, e il monaco che regge lo
stendardo dell’ulivo e del cane infuocato – Misericordia
et Justitia – arrossano pei bagliori di roghi notturni sopra la piazza,
moltiplicati da cristalli bocce vetri piombati.
Allora muovi il passo,
affrettati allo spazio circolare, al centro da cui partono i quattro punti del
mondo. Quattro fontane scrosciano: viene Primavera con Carlo Imperatore e la
vergine Cristina, Estate giunge con Filippo e la Ninfa fatta santa, al volger
d’Autunno l’altro Filippo e l’Oliva santa, chiude Inverno con Filippo Terzo e
la vergine che tiene sopra il palmo la mammella.
T’investono quattro
venti e quattro canti.
Castilla varonil,
adusta tierra,
Castilla del desdén contra la suerte,
Castilla del dolor y de la guerra,
tierra immortal, Castilla de la muerte! (4)
Procedi dunque per la
via che si sperde alla Porta Felice – passano i galeoni, i velieri sul fondale
del mare, costa, riposa alla fresca d’acque fontana teatrale: Orfeo danza, Ercole
coi Fiumi i Tritoni le Ninfe, e il Genio della città sopra lo stelo di putti di
conche di tazze spande largisce dona in cornucopia canestro festone di frutta,
l’albicocca l’arancio il melograno dischiuso…
E guarda, osserva le
quinte di pietra: scorgi le scale i portali le grate panciute i balconi pomposi
di chiese conventi pretori, contro il cielo cobalto e trionfi di nubi i
transetti i contrafforti a volute le aeree cupole come orci iridati, maioliche
azzurre splendenti.
(3) Antonio Machado. EI
poeta recuerda a una mujer desde del Guadalquivir.
(4) Antonio Machado. Orillas del Duero.
Del
ablerto balcòn al blanco muro
va una franja de sol anaranjada
que inflama el aire… (5)
Il monastero ti dona
alla ruota l’agnello trafitto dallo stendardo, i grappoli d’uva dorata, i trionfi
di gola, le frotte di mandorla, cesti canestri nature morte dipinte. E la
chiesa, la chiesa il fresco di nave, lo sfavillio l’abbaglio degli occhi:
scansa gli intarsi catturanti a mischio tramischio, staccati dalle spire di
colonne a torciglioni, le Allegorie le cantorie i coretti, volgi in alto in
alto lo sguardo: vedi i cieli, delle cupole le Apoteosi le Glorie le Ascensioni
oltre le balaustrate rotonde da cui s’affaccia la pavolcella la lira il
caprifoglio franante. E il Senato poi dispiega sopra i cieli le profane
imprese, i Governi le Giustizie le Battaglie i cavalli galoppano, s’impennano
tra nuvole, si rovescia il carro, cozzano le lance, brillano le bocche di
fuoco, investono una folla d’affamati…