Retablo di Vincenzo Consolo

Circola nell’intero, avvincente racconto di Vincenzo Consolo il melodioso canto di una Sicilia luminosa e al tempo stesso attraversata da una condizione di arretratezza sociale in pieno secolo dei lumi; un’alternanza, a dirla con Traina, “di inferno e paradiso”.

Federico Guastella
Pubblicato il 21-10-2024

Retablo

Retablo

Nella quarta di copertina dell’edizione Sellerio del 1987, Leonardo Sciascia scrive:

“Retablo” – dice uno dei più sintetici e usuali dizionari della lingua castigliana – “è conjunto de figura que rapresentan la serie de una historia ò suceso”: e la scegliamo questa definizione, che può sembrare angusta […]. Perché “retablo” è questo racconto non soltanto per il suo alludere alla pittura e, con quasi medianico gioco à rebours, a un pittore; ma per il suo svolgersi in figure di incantata e incantevole fissità, pur circonfuse di un movimento, di un cangiare e trepidare di linee, di colori, di eventi luministici che si direbbe aspirino, al di là delle parole, ma restando certa ogni parola, a una più ineffabile condizione.

E così conclude:

Con questo racconto Vincenzo Consolo […] raggiunge una sua perfezione e compie, nella tradizione della narrativa siciliana, una specie di “rovesciamento della praxis” realistica che a questa tradizione è peculiare.

L’attenzione viene dunque rivolta al titolo dell’opera con la precisazione che il termine “retablo” in catalano indica la successione di “quadri” di una storia figurata: singole scene che, divise da una cornice, sono corrispondenti alle varie sequenze della storia.

Giuseppe Traina in Vincenzo Consolo (Fiesole, 2001), afferma che Retablo è

una narrazione che scommette se stessa nel gioco dialettico fra movimento e fissità, tra metafora del viaggio come conoscenza e metafisica immobilità rispetto alla storia.

La struttura del libro a tre pannelli, uscito pochi anni dopo l’assassinio di Pio La Torre e di Carlo Alberto della Chiesa, è fondata sull’intreccio di letteratura e arti figurative: un omaggio al pittore Fabrizio Clerici, rappresentante del surrealismo degli anni Cinquanta che, amico di Vincenzo Consolo, è il protagonista del viaggio settecentesco in una porzione della Sicilia occidentale, dedicato a dona Teresa Blasco. Alcuni disegni del Clerici impreziosiscono il libro in cui, di pagina in pagina, s’avverte l’onda poetica della grecità: dunque, un giornale di viaggio “in quest’isola lontana, in questa terra antica degli dèi, delle arti, delle conquiste e dei disastrosi avanzi”.
Ad accompagnarlo è Isidoro, un ragazzo siciliano svestitosi di fraticello questuante per amore di Rosalia. Ed è la loro storia a farsi racconto nei racconti, a rivelarsi a più riprese da vivaci sorprese. È in “Oratorio”, il primo dei tre, che proprio Isidoro racconta le sue vicende che introducono a quel che nel libro si svolge. Al porto di Palermo, dove cerca lavoro, vede giungere il packet-boat “Aurora”, dove viaggia il

gentiluomo di Milano, il cavaliere Clerici […] che sbarcò in Palermo con la fortuna mia, per viaggiare l’isola, scoprire l’anticaglie e disegnar su pergamene con chine e acque tinte templi e colonne e statue di cittate ultrapassate.

Il viaggio, narrato nel secondo portello, è intitolato “Peregrinazione”; l’itinerario, che è quello dei viaggiatori del “Gran Tour”, comincia con la voce del protagonista: lo dedica all’amata Teresa Blasco per narrarle la terra originaria, “quella materna e cara”, ma in realtà va in Sicilia

per lo scontento del tempo che viviamo, della nostra vita, di noi, e il bisogno di staccarsene, morirne, e vivere nel sogno d’ere trapassate, antiche, che nella lontananza ci figuriamo d’oro, poetiche, come sempre è nell’irrealtà dei sogni, sogni, intendo come sostanza de’ nostri desideri.

Mostrando la Sicilia del Settecento, severo è il giudizio di Consolo sulla decadenza di Milano e dell’Italia degli anni Ottanta anche se il viaggio si svolge secoli prima. Più piani di finzione espressiva s’intrecciano intanto che scorrono le immagini del paesaggio siciliano a partire dal portello “Oratorio” in cui la descrizione attiene a vagabondi e ruffiani, parassiti e camorristi entro il racconto di Isidoro sulla storia d’amore con Rosalia.
Nel porto di Palermo regna il caos: lo caratterizzano scaricatori, casse, carriole, barili, bestemmie e sgradevoli olezzi, “sciarre di pugni e sfide di coltelli”, “il brulicare d’òmini, animali, carrette e mercanzie”. Ma l’immagine della città, all’arrivo di Clerici, è luminosa di luce chiarissima:

Il sole sul filo in oriente d’orizzonte, mi vedea venire incontro la cittate, quasi sognata e tutta nel mistero, come nascente, tarda e silenziosa, dall’inno della notte.

A interessarlo è la ricerca della Sicilia classica, greca e arcadica per ricavarne sensazioni e sentimenti di atarassia, di distacco dalle pene d’amore. Lo suggestiona la terra fertile, una natura tanto rigogliosamente gentile che si apre allo sguardo passando per Monreale, Burghetto e Partinico, ma le strade sono insicure e accidentate, asperrime e colme d’ogni insidia tra cui l’incontro con i ladri.

Ad Alcamo, ricca d’abbondante natura, il comportamento degli uomini è maschilisticamente contrapposto alle donne: i primi sono “scuri, guardinghi e sospettosi, immobili ai lati della strada” che scrutano il passare del convoglio, parlando tra loro “sommessi e concitati”; le seconde si presentano talmente “intabarrate” di cui non si scorge il viso “o il dito d’una mano”, pronte a “scivolare svelte”, “al richiamo d’uno scampanio, nell’antro d’una chiesa”.
Vistoso il barocchismo nel comportamento dei signorotti che si configura in una vivacità esasperata, nell’opulenza e nella nauseante boriosità in stridente contrasto con la miseria di vecchi e bambini. Chiara la denuncia sociale di Consolo nel rilevare le disuguaglianze: sotto stanno coloro che faticano lavorando “senza inizio e fine”, sopra quelli che oziano “ben armati di trombe e lame, in stivaloni, casacca e cappellaccio”. La condizione d’una miseria ingiusta si tocca poi con mano quando Isidoro e Clerici scorgono “innumerevoli fanciulli, cenciosi e magri” e un’orda “di mendichi, ciechi, storpi, nani, malformati, sconciati sulla pelle di ripugnanti mali”.

Non manca la violenza della prepotenza. Da qui il contrasto tra la bellezza della Sicilia e la vita miserabile della povera gente.

C’è una doppia realtà nell’isola: di una bellezza assoluta di quest’isola, che è al centro del Mediterraneo, che è ricca di cultura, per tutte le stratificazioni culturali che ci sono state lì […] E penso anche alla violenza che c’è.

È la violenza esercitata da chi possiede e dalle categorie intermedie al servizio del potere economico:

Non parliamo poi della mafia. E poi taglieggiano e opprimono i sottomessi.

Sono le donne “impotenti, sottomesse, vittime” in un quadro a fosche tinte. Ma è la meravigliosa natura a favorire l’abbandono al sogno. Anche la generosità siciliana spicca: quella dell’accoglienza dell’ospite derivante sicuramente dai greci. Dinanzi al granitico tempio di Segesta, Clerici resta estasiato; ne descrive ogni dettaglio che esprime un’aura di sacralità agli antipodi dell’imbarbarimento e del degrado. E ci sarebbe da soffermarsi sui “Bagni Segestani” o sull’incontro con i briganti o col pastore don Nino che li accoglie dopo essere stati derubati d’ogni bene. Avvincente la storia del brigante in cui si parla della fanciulla Rosalia, avente lo stesso nome della donna amata da Isidoro.

Incantano le descrizioni delle tappe del viaggio; sono delicatamente visive nell’intrecciarsi di narrazioni d’incontri e mostrano il pullulare immaginoso relativo al paesaggio della Selinunte greca:

Io scesi da cavallo e baciai la terra del Selìno, sacra per tanta vita e tanta morte umana. E come richiamato da voci che solamente a me si rivelavano, voci antiche e sepolte, di sacerdoti, vergini e fanciulli, dentro le pietre immense dei tumuli dei templi, e suscitate, quali suoni dalle corde d’una cetra o arpa, per la forma evocante e per l’amore mio di pellegrino, e per l’aere sciamanti […] m’inoltrai mezzo le pietre […] e tutte come in un grande gorgo vorticando attorno a un’unica colonna che ritta al centro, possente e alta, era rimasta a simbolo del grande, del santo monumento, come preghiera estrema e duratura a un dio ignoto, come meridiana o sosta alla sua ombra in questa ignuda vastità e assolata, come segnale e guida per le carovane che dall’interno si portavano agli empori della costa.

La costruzione del tempio sacro, commenta Vincenzo Consolo, è speranza che va verso il cielo, “oltre il confine misero dell’uomo”, mentre la vista nel “mar di pietra” di metopi e di sculture gli fa sorgere interrogativi esistenziali.

Cos’è mai questa terribile, meravigliosa e oscura vita, questo duro enigma che l’uomo sempre ha declinato in mito, in racconto favoloso, leggendario, per cercar di rispecchiarla, di decifrarla per allusione, per metafora?

Le descrizioni incalzano e affascinano per l’ampio sguardo rapace che fissa plurimi dettagli in un linguaggio scorrevolmente rapido e colto. A Mothia ridono i villani “con gran diverimento”, essendo stati informati che i viaggiatori cercavano “l’antichitate” e li invitano a pigliarsi tutto per liberare il campo. Quasi a far dimenticare la strage sacrificale di innocenti, fa luce di splendida bellezza la statua greca del cosiddetto “Auriga” (o “il Giovinetto di Mozia”), trovata dagli archeologi nell’ottobre del 1979 presso il forno di un vasaio. Sicuramente l’artefice dovette essere un esperto scultore conoscitore dell’arte di Fidia e forse era stata comprata da qualche ricco signore del luogo. Nulla si sa di certo. Chissà dove fosse stata scolpita (forse in una città greca della Sicilia, Selinunte o Agrigento). Lo stile e il secolo in cui si possa collocare sono ignoti. Permangono i dilemmi, gli interrogativi, le ricerche. Il V secolo a.C la datazione possibile, probabilmente la prima metà. Ecco un brano di come Consolo ne parla:

Era la statua, poco più grande della misura naturale, d’un giovine robusto, atleta o auriga, che, pur coperto d’una tunica o chitone a fitte pieghe come rivoli d’acqua scivolanti fino ai piedi, si leggea in trasparenza in corpo sano. Il quale, gravando su una gamba e portando avanti l’altra, parea offrirsi in posa dopo la conquista d’una vittoria. E il viso ancora, incorniciato di ricci sulla fronte, era quello fiero e lontano d’ogni vincitore. Privo di braccia, il residuo d’una mano era attaccato a un fianco, mentre l’altra, sicuramente protesa, dovea reggere in alto il premio o la palma della sua conquista.

Finita in mare la statua, lungo il tragitto per Trapani, che Clerici aveva portato con sé, questi rassegnato dice: “Tutto viene dal mare e tutto nel mare si riduce”.
Trapani, “quella città bianca di marmore e di sale”, ha il porto ricco di commercio e di merci; nella bella cittadina “agile e sciroccosa”, ”attiva e sensuale”, dove la grazia greca s’incrocia “con la carnalità ubertosa e ambrata d’un harem saracino”, poteva fiorire l’arte della pesca e della lavorazione del corallo.
Pagana e apparente la religiosità; folclorica e divertente la venuta a pranzo nella casa ospitale di don Sciaverio, esperta guida della città che, dopo un breve terremoto, pronuncia una frase crudele:

Andate, andate via subito, signor maestro Clerici, andate don Fabrizio. Quest’è terra insicura, traballante.

A Palermo incontrano lo scultore Giacomo Serpotta; prima di lasciare la Sicilia, da alcuni mercanti lombardi il Clerici apprende che donna Teresa, la sua amata,

è appena convolata a nozze […] con l’intraprendente Cesare Beccaria.

Riconoscendo le profonde stratificazioni della Sicilia e i contrasti di povertà e di ricchezza, Clerici non ignora la variegata e complessa umanità che la popola. Certo, le sue aspettative vengono incrinate. Di naufragio parla Traina. Ma a rimanere è un senso di meraviglia insieme ad uno sguardo illuministico.

Il terzo portello, “Veritas”, attiene al racconto di Rosalia dalle cui vicende balzano in primo piano le violenze subite dopo la partenza di Isidoro. È il giuramento di fedeltà ad essere l’epilogo della loro storia d’amore.

E io monaca sono, Isidoro mio, monaca per amore del ricordo più bello e interrotto, monaca per amore dell’amore, in clausura d’anima per te, fino alla morte

invitandolo a rientrare nel convento:

Saperti ancora monaco mi dona contentezza. Monaco tu e monaca io, nel voto e nel ricordo del nostro grande amore.

In definitiva, con questo racconto Vincenzo Consolo descrive storie come isole di un arcipelago, l’una all’altra rinviando personaggi, incanti e disincanti a far giungere il melodioso canto d’una Sicilia luminosa e al tempo stesso attraversata da una condizione di arretratezza sociale in pieno secolo dei lumi.
Federico Guastella per Sololibri.net

Ezra Pound in un racconto di Vincenzo Consolo

Nel settembre di un’estate ferma, sulle pendici dell’Etna, a Zafferana (zàfaran, la pianta aromatica e colorante che ad altre aridità rimanda, al nudo e scabro Atlante, infestato di scorpioni e di  serpenti), in un isolato e aereo alberghetto chiamato Airone, con un terrazzo sulla vasta e scoscesa sciara di lava che si stende fino all’orizzonte, fino alla striscia di un mare di cobalto – era il 1968 -, avevano portato, chissà perché, in occasione di un convegno letterario, Ezra Pound.  Portato è la parola giusta.  Chè il bianco, diafano poeta, chiuso nella invalicabile assenza e afasia, non sembrava più ormai che la vuota sagoma dell’uomo sopravvissuto al suo disastro.

Un pomeriggio come un mezzogiorno senza fine, in quell’ora sospesa su un mondo senza ombre (“In alto immobile meriggio, / il meriggio in se stesso si pensa e si conclude”: Valery, Il cimitero marino), nell’ora del sonno e del silenzio, Pound, eludendo ogni vigilanza, scende dalla sua camera, attraversa il salone dell’albergo immerso nella penombra, esce all’aria infuocata, alla luce accecante del terrazzo.  Si porta alla balaustra, lì rimane rigido e immobile, nella contemplazione di quel nero mare, di quel mondo folgorato, di quella distesa ferrosa e sonante come l’isola dei morti della leopardiana Bratacomiomachia: “D’un metallo immortal massiccio e grave/ … / nero assai più che per versate lave / non par da presso la montagna etnea”. Contempla, Pound, quel caos primordiale, quel paesaggio di rovine naturali che sono l’immagine delle sue rovine interne, del suo scacco storico ed esistenziale.  Lì, sulle pendici del vulcano, nella desolazione dell’immenso Etna, è uguale in quel momento, “il miglior fabbro”, il poeta ambizioso, velleitario, uguale almeno nell’orgoglioso isolamento e nella solitudine, a quel fuggitivo da Agrigento, al poeta che si consumò nel fuoco del cratere, a quell’Empedocle di Hölderlin a cui “nell’ora lieta e sacra della morte / gli dèi sono apparsi senza velo”.

In quegli stessi giorni di settembre, sulle falde dell’Etna, un altro poeta, e cineasta, Pasolini, girava scene d’un film: in un luogo d’estremità ed aridità, un giovane imbarbarito dopo la cancellazione d’una storia, la distruzione d’una civiltà, un estraneo a ogni consorzio umano e a ogni pietà, uccideva l’incauto viandante e ne divorava le carni: una metafora e insieme la premonizione di un’altra landa estrema, desolata, una periferia vaga dove il poeta sarebbe stato assassinato, ridotto, sotto il peso d’un moderno, metallico feticcio, a una poltiglia insanguinata.

L’Etna innevato e fumante, sorgente dalla distesa azzurra delle acque, sullo sfondo dell’impareggiabile scenario dell’antico teatro di Taormina, è apparso, così remoto e innocuo, un dio possente ma benevolo, idilliaco. Il Bembo paragona le basse e fertili plaghe del vulcano all’omerica Feacia: “Lì svariate specie di alberi, buone per dare sia ombra che frutto, in questo tanto superiore a tutti gli altri alberi, che a me par veramente s’addica a questo luogo ciò che Omero immaginò dei giardini di Alcinoo…”

Ma in alto, sul vulcano, prossimi al suo orrido aspetto e alla minaccia del suo fuoco, diversi sono stati i sentimenti dei poeti. Davanti a tanta violenza e spaurente nudità, privati d’ogni schermo e illusione, vicini alla scaturigine del magma, sulla sponda del fiume incandescente, nella visione del caos dell’inizio e dell’esito finale, dell’indomabile, perenne cataclisma universale, il poeta si smarrisce e geme.  Come gli alberi che, raggiunti dalla lenta e inesorabile colata incandescente, si torcono e lamentano prima d’incendiarsi e di ridursi in cenere.

Inedito 1968 Zafferana Etnea


Premio Brancati anno 1968 nella foto si riconoscono gli scrittori Dacia Maraini, Pier Paolo Pasolini, Leonardo Sciascia e Alberto Moravia, Vincenzo Consolo .
il Premio Brancati è stata una delle manifestazioni più importanti nel panorama letterario italiano.
Fu istituito nel 1967 ad opera del Dott. Alfio Coco, sindaco di Zafferana Etnea per oltre 15 anni .
Nel corso degli anni numerosi scrittori sono stati premiati ed hanno partecipato alla rassegna : Elsa Morante , Maria Luisa Spaziani , Ezra Pound , Cesare Zavattini , Ercole Patti, Lucio Piccolo di Calanovela , Jorge Amado, Giuseppe Bonaviri, Maria Occhipinti, Leonardo Sciascia e Vincenzo Consolo.

La Sicilia passeggiata Vincenzo Consolo fotografie di Giuseppe Leone

Prefazione

di Gianni Turchetta

Da molti anni speravo di ripubblicare La Sicilia passeggiata. E mi piace ricordare subito come anche Caterina, la compagna di una vita di Vincenzo Consolo, lo desiderasse molto. Benché rimasto appartato, e conosciuto quasi solo dagli specialisti, questo testo, come potrete presto constatare, esercita sul lettore una seduzione intensa, fatta di leggerezza e profondità, dinamismo e erudizione. Queste qualità sono rilanciate e riecheggiate a ogni pagina dalla forza vibrante e dalla fulminea capacità di condensazione visiva e simbolica delle foto di Giuseppe Leone.

In La Sicilia passeggiata narrazione, poeticità e saggismo si fondono felicemente, integrandosi nell’evidenza dinamica degli spostamenti, marcata a ogni passo dai verbi di moto. Si veda l’attacco, tra avventuroso e onirico: “Sospinti dal vento, immaginiamo d’approdare” (p. 17). È una trama lieve e decisa, che quasi sospinge il lettore: “Non sostiamo. Procediamo” (ibidem), “Siamo giunti” (p. 18), “è da qui che vogliamo partire” (ibidem); o ancora: “Abbandoniamo” (p. 46), “Dalla piazza di Scicli voliamo” (p. 48), “Andiamo avanti, avanti” (p. 76), “Salpiamo da Porto Empedocle” (p. 96) e così via. In prima approssimazione, il viaggio attraverso cui Consolo ci guida va da Oriente a Occidente. Si parte dalla necropoli di Pantàlica, per poi raggiungere i Monti Iblei, il Val di Noto, Scicli, e poi Còmiso, Vittoria, Ragusa Ibla, Modica, Siracusa, e ancora Enna, i paesi dello  zolfo e quelli del latifondo, fino a immettersi “nell’antica strada che congiungeva Arigento a Catania” (p. 90), arrivare a Gela, Agrigento e la Valle dei Templi, Porto Empedocle, proseguendo per Sciacca, Caltabellotta, Selinunte, Salemi e Calatafimi, e poi Segesta, Trapani, e da qui ancora Èrice e Mozia, le Égadi, fino a Palermo, già punto d’arrivo del viaggio siciliano di Goethe. Ma il movimento fisico è solo l’asse portante di una fitta sequenza di scorribande attraverso il tempo e lo spazio, in un andirivieni senza soste, modulato da continue transizioni tematiche. L’inarrestabile fluidità del discorso è del resto dichiarata apertamente, e coincide con il desiderio di una conoscenza efficace proprio perché pronta a riconoscere un’irriducibile pluralità: “vogliamo partire”, infatti, “per un nostro viaggio, per una nostra ricognizione della Sicilia, per inventarci, liberi come siamo da confini di geografia, da limiti d’epoca storica o da barriere tematiche, un modo, tra infiniti altri, per conoscere quest’isola al centro del Mediterraneo, questo luogo d’incrocio d’ogni vento e assalto, d’ogni dominio e d’ogni civilizzazione.” (p. 18)

Si viaggia, insomma, sotto il segno della molteplicità, caratteristica dell’identità della Sicilia, ma anche del Mediterraneo tutto, come Consolo ha ribadito per una vita intera. Né possiamo dimenticare quanto la pluralità (di lingue, di stili, di generi) sia il cuore della sua ricerca artistica. Il movimento che sospinge La Sicilia passeggiata è incardinato, originalmente, su una prima persona plurale: dove il “noi” è pluralis majestatis, ma piuttosto sobria allusione a una possibile piccola compagnia di viaggiatori. Proprio per questo il “noi” assume una movenza esortativa, come d’invito al lettore a viaggiare insieme all’autore: stabilendo così una sorta di intimità, di vicinanza affettiva oltre che culturale. Non dimentichiamo che questa è una “Sicilia passeggiata”, dove il riferimento alla “passeggiata” non è disimpegno, ma possibilità di conquistare un peculiare regime di leggerezza e libertà, che si fa garanzia di conoscenza, perché capace di accogliere le ragioni della storia insieme a quelle del mito e del sogno, e dunque della poesia. D’altro canto, La Sicilia passeggiata, come è tipico dell’odeporica, della letteratura di viaggio, è sì racconto, ma sempre sorretto da informazioni e spunti lato sensu saggistici: come del resto tutto quello che scrive Consolo. La scelta del titolo è tuttavia segno di differenze profonde rispetto ad altri testi ch’egli scrive in quegli anni. Proviamo a metterle a fuoco.

Quello che poi diventerà La Sicilia passeggiata esce per la prima volta col titolo Kore risorgente. La Sicilia tra mito e storia, in un lussuoso volume hard cover (cm. 29×25), Sicilia teatro del mondo, pubblicato da Nuova ERI / Edizioni RAI nel settembre 1990. Di questo volume costituisce la “metà” letteraria, affiancata, oltre che dalle fotografie di Giuseppe Leone, che già dialogano con il testo consoliano, da un bel saggio di Cesare De Seta, Teatro geografico antico e moderno del Regno di Sicilia, che racconta la storia siciliana a partire dall’omonimo volume uscito a Madrid nel 1686, del cui sontuoso apparato iconografico si riproducono circa cento stampe, su cartoncino. Entrambi i testi sono tradotti in francese (da Nicole Dumoulin) e in inglese (da Richard Kamm). Pochi mesi dopo, nel febbraio 1991, il testo di Consolo e le fotografie di Giuseppe Leone diventano però un volume autonomo, stavolta in un agile formato paperback (cm. 24×14), edito ancora da ERI, con il titolo che qui riproponiamo.

Rispetto alla storia della scrittura di Consolo, La Sicilia passeggiata si colloca fra due opere diversissime, ma che sono entrambe, a loro volta, il racconto di un viaggio in Sicilia. La prima è il romanzo Retablo (1987), ambientato nel 1760-1761, in un Settecento volutamente remoto e irreale, mezzo storico e mezzo fantastico, in opposizione alla deludente realtà storica. La seconda è L’olivo e l’olivastro (1994), viaggio stavolta autobiografico, ancora più apertamente polemico contro il degrado del presente, incardinato sullo schema omerico del nòstos (evocato fin dal titolo, ch’è citazione dall’Odissea). Numerosi spunti odeporici compaiono anche in Le pietre di Pantalica (1988): a prima vista un libro di racconti, ma in realtà frutto della fusione di un originario impianto romanzesco con un pacchetto di narrazioni autobiografiche. Più esili sono invece i rapporti con il romanzo storico Nottetempo casa per casa (1992, Premio Strega)[1]. Proprio il confronto con gli altri due viaggi in Sicilia aiuta a delineare con nettezza, per differentiam, i contorni di La Sicilia passeggiata. Per dirla in pochi cenni, è vistosa anzitutto la distanza rispetto alla fiction di Retablo, con cui pure ci sono non pochi fascinosi elementi di contatto (come i rimandi alla visita goethiana alla grotta di Santa Rosalia, che in Retablo però compare all’inizio, mentre qui è in chiusura). Ma non meno evidente è lo scarto rispetto all’impianto poematico, stilisticamente “alto”, tragico, di L’olivo e l’olivastro, che intreccia il viaggio in Sicilia con la rievocazione delle vicende di personaggi storici rilevanti nella storia dell’isola (Empedocle, Verga, Caravaggio, Maupassant, Saverio Landolina, August von Platen, il giudice Ciaccio Montalto, ucciso dalla mafia, e altri ancora). La copia postillata dall’autore di La Sicilia passeggiata mostra, significativamente, ipotesi di interventi che avrebbero non solo ampliato materialmente il testo, ma anche contribuito a spostarne l’intonazione verso l’alto e i contenuti verso la deprecatio temporis, sospingendolo verso quello che sarà poi L’olivo e l’olivastro. Ma i due libri vanno in realtà in direzioni molto diverse, quasi opposte. Se L’olivo e l’olivastro è infatti tutto teso a sottolineare “i processi di imbarbarimento, di perdita, di orrori”, come dichiarato in un’intervista, La Sicilia passeggiata intende invece valorizzare la ricchezza storica, artistica e naturale dell’Isola, per coglierne l’irriducibile complessità. Come osserva opportunamente Ada Bellanova, “l’attenzione per gli esseri umani e gli intrecci di identità diverse diventa in La Sicilia passeggiata il nodo centrale dello sforzo di dire”[2]. Senza contare l’importanza del rapporto, assai stretto e in qualche misura fondativo, fra il percorso e l’apparato fotografico che lo accompagna, collocandolo in una piccola tradizione di libri dove il testo di Consolo sta accanto a foto dedicate a “luoghi geografici, specialmente siciliani”[3].

Certo anche La Sicilia passeggiata conferma, con la densità dei suoi riferimenti alla classicità greco-latina, l’appartenenza a una stagione di riavvicinamento all’antico, che si fa misura del degrado e della corruzione del presente. Ricordiamo anche la tragedia Catarsi (1989), dedicata alla morte di Empedocle. Consolo si mostra ben consapevole delle differenze tematiche e tonali proprio nel momento in cui, invece che integrare e ampliare La Sicilia passeggiata, decide di scrivere un altro libro, molto più cupo, “alto” e polemico, come L’olivo e l’olivastro. La Sicilia passeggiata va letta, anzitutto, nella chiave della complessità e dell’ambivalenza, che Consolo ritrovava già in Goethe: “Isola dell’esistenza pura e contrastante. Isola dell’infanzia, dei miti e delle favole. Isola della storia. Di storia dei primordi, degli evi di scoperte e di conquiste. Storia di classici equilibri, di decadenze, di crolli, di barbarie. Crogiuolo di civiltà, babele delle razze e delle lingue. Enigma mai risolto è la Sicilia, è archetipo, aleph, geroglifico consunto, alfabeto monco” (p. 18). Dove la contraddizione originaria è anzitutto quella più assoluta e irriducibile: il contrasto fra Vita e Morte, evocato già dal primo titolo, Kore risorgente, che allude alla storia di Persefone, sposa di Ade e regina dell’Oltretomba, che ogni sei mesi torna all’aperto dalla madre Demetra e fa rifiorire la Terra. Non a caso, del resto, questo viaggio siciliano comincia dalla necropoli protostorica di Pantàlica: “vogliamo partire da questo luogo estremo e abissale, da questa soglia per cui si passa dalla scansione della storia all’oscurità del tempo, all’eterno circolare e immoto […]. Poiché Pantàlica è sì un luogo di morte, ma è insieme luogo di resurrezione, di cominciamento: è luogo-simbolo di questa complessa e contrastante terra di Sicilia, della sua storia di ricorrente distruzione e di rinascita” (p. 20). In una direzione analoga vanno molte altre storie evocate: come quella del catastrofico terremoto in Val di Noto del 1693, da cui poi nacquero alcune delle più straordinarie realizzazioni artistiche del barocco siciliano. Ma persino lo spaventoso groviglio di contraddizioni che è Palermo la Rossa, su cui si chiude il libro, riconferma una dinamica analoga. Santa Rosalia, infatti, la “Santa estatica” patrona di Palermo, coincide con “tutte la Sante vergini di Sicilia, Agata Lucia Venera Ninfa, ed è insieme Kore e Persefone”, e si colloca dunque di nuovo sotto il segno della vita che rinasce, di Demetra che torna alla superficie e alla luce: “Come fa l’ape nella primavera, come fa la primavera della storia” (p. 138). Con questa certezza anche noi, dopo tanto buio, ricominciamo il nostro viaggio.

RINGRAZIAMENTI. Un grazie specialmente sentito va a Giuseppe Leone, che per la presente edizione ha rivisto e arricchito lo splendido apparato fotografico: così questo libro è un ritorno, ma anche un libro nuovo. Grazie, di cuore, a Claudio Masetta Milone, che mi ha rivelato le postille di Consolo al volume, e a Francesca Adamo, che ha creduto in questo libro e ne ha curato con competenza impaginazione e redazione.


[1] Per una ricostruzione dettagliata della storia delle opere a cavallo fra fine anni Ottanta a primi anni Novanta mi permetto di rimandare a G. Turchetta, Note e notizie sui testi, in V. Consolo, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di G. Turchetta, e con uno scritto di C. Segre, Mondadori, Milano 2015, pp. 1351-1425.

[2] A. Bellanova, Un eccezionale Baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI) 2021, p. 28.

[3] Ivi, p. 25n.

La metrica della memoria


foto: Giovanna Borgese Palermo 1975

La metrica della memoria

Un velo d’illusione, di pietà,

come ogni  sipario di teatro,

come ogni schermo; ogni sudario

copre la realtà, il dolore,

copre la volontà.

La tragedia é la meno convenzionale,

la meno compromessa delle arti,

la parola poetica e teatrale,

la parola in gloria raddoppiata,

la parola scritta e pronunciata. (1)

Al di là é la musica. E al di là é il silenzio.

Il silenzio tra uno strepito e l’altro

del vento, tra un boato e l’altro

del vulcano. Al di là é il gesto.

O il grigio scoramento,

il crepuscolo, il brivido del freddo,

l’ala del pipistrello; é il dolore nero,

senza scampo, l’abisso smisurato;

é l’arresto oppositivo, l’impietrimento.

Così agli estremi si congiungono

gli estremi: le forze naturali

e il volere umano,

il deserto di ceneri, di lave

e la parola che squarcia ogni velame,

valica la siepe, risuona

oltre la storia, oltre l’orizzonte.

In questo viaggio estremo d’un Empedocle

vorremmo ci accompagnasse l’Empedoklès

malinconico e ribelle d’Agrigento,

ci accompagnasse Hölderlin, Leopardi.

Per la nostra inanità, impotenza,

per la dura sordità del mondo,

la sua ottusa indifferenza,

come alle nove figlie di Giove

e di Memoria, alle Muse trapassate,

chiediamo aiuto a tanti, a molti,

poiché crediamo che nonostante

noi, voi, il rito sia necessario,

necessaria più che mai la catarsi.

(Catarsi, p.13-14, […])

 

Questi versi, strofe o frasi, sono tratte dal  Prologo della mia opera teatrale intitolata Catarsi, in cui  é messo in scena il suicidio sull’ Etna di un moderno Empedocle.

Ho voluto iniziare con questi versi perché la tragedia, in forma teatrale o narrativa, in versi o in prosa, rappresenta l’esito ultimo di quella che posso chiamare la mia ideologia letteraria, l’espressione estrema della mia ricerca stilistica. Espressione, in Catarsi, in forma teatrale o poetica, in cui si ipotizza che la scrittura, la parola, tramite il gesto estremo del personaggio, si ponga al limite della pronunciabilità, tenda al suono, al silenzio.

 

[…] Empedocle:

La tragedia comincia nel fuoco più alto (2)

                    In questa nuda e pura, terrifica natura,

in questa scena mirabile e smarrente,

ogni parola, accento é misera convenzione,

rito, finzione, rappresentazione teatrale.

 

Un testo, questo, dal linguaggio di voluta comunicabilità,privo di innesti dialettali,  lontano dal pastiche espressionistico praticato nelle mie opere narrative, intenzionalmente alto,  in qualche modo declamatorio, puntellato da rimandi impliciti e da esplicite citazioni di testi classici: da Hölderlin, naturalmente, ai frammenti di Perì Phùseos e di Katharmoì di Empedocle.

Per spiegare questo esito, devo partire dall’ esordio, dalla mia scelta di campo letterario, dalla prima impostazione stilistica. E il discorso cade fatalmente sulla scrittura, sulla lingua.

La lingua  italiana, sin dalla sua nascita, sappiamo, é stata, come dice Roland Barthes, “molto parlata”, nel senso che molto si é scritto su di essa. A partire dal suo grande  creatore, da Dante, con il De vulgari eloquentia. Il quale, oltre ad essere un saggio di poetica personale, é il primo trattato di linguistica italiana. “Chiamiamo lingua volgare” dice “quella lingua che i bambini imparano ad usare da chi li circonda quando cominciano ad articolare i suoni […] Abbiamo poi un’altra lingua di secondo grado, che i Romani chiamarono ‘grammatica’ (lingua letteraria regolata)”. E afferma, con un bell’ossimoro: “Harum quoque duarum nobilior est vulgaris” (Di queste due lingue la più nobile é la volgare). Da Dante dunque a Lodovico Castelvetro, ad Annibal Caro, e giù fino a Leopardi, a Manzoni, a De Amicis, fino a Pasolini. Molti  scrittori insomma hanno parlato di questo strumento, della lingua che erano costretti ad usare.

Mi voglio soffermare su Leopardi, sulle riflessioni che il poeta fa sulla società, sulla letteratura e sulla lingua italiana in quel gran mare che é lo Zibaldone. Leopardi confronta la lingua italiana con la lingua francese, stabilisce un continuo parallelo fra le due lingue, così apparentemente prossime e insieme così lontane. Lontane al punto, afferma tra gli altri Luca Serianni (3),  che per un adolescente italiano la lingua di Dante o del Novellino è ancora in gran parte comprensibile, mentre per il suo coetaneo francese La Chanson de Roland é un testo straniero, da affrontare con tanto di vocabolario.

Ma torniamo al nostro Leopardi. Il francese, egli dice, tende all’ unicità, mentre l’italiano é un complesso di lingue piuttosto che una lingua sola, potendo essa variare secondo i vari soggetti e stili e caratteri degli scrittori, per cui diversi stili sembrano quasi diverse lingue; il francese invece, sin dall’epoca di Luigi XIV, si é geometrizzato, é diventato lingua unica. E cita, Leopardi, Fénelon, il quale definisce la lingua francese una “processione di collegiali”.Diciamo qui tra parentesi che alla frase di Fénelon deve aver pensato Ernest Renan nell’affermare: “Il francese non sarà mai una lingua  dell’assurdo: e neanche sarà mai una lingua  reazionaria. Non si riesce a immaginare una vera e propria reazione che abbia per strumento il francese”. Ma a Renan ribatte Roland Barthes: “L’errore di Renan  non era errore strutturale ma storico; egli credeva che il francese, plasmato dalla ragione, conducesse necessariamente all’espressione di una ragione politica la quale nel suo spirito non poteva che essere democratica”. E concludeva: “La lingua non é né reazionaria né progressista: essa é semplicemente fascista; il fascismo infatti, non é impedire di dire, ma obbligare a dire”. Non capisco questo radicalismo linguistico di Barthes, espresso nella lezione inaugurale al Collège de France, ma  chiudendo la lunga parentesi, ritorno ancora a Leopardi, alla sua idea del francese geometrizzato. E non posso non esclamare:”Beati i francesi con la loro lingua unica, geometrica e cartesiana! Che é segno, quella lingua, dell’esistenza e della compiutezza di una società civile (“Oggi so che alla Francia mi lega soltanto l’amore per la lingua francese” scriveva Jean Genet durante il suo vagabondare per l’Europa) (4). Il complesso di lingue che é (o che é stato, fino agli anni Sessanta, fino all’analisi della trasformazione di questa lingua che ne fa Pasolini), l’italiano é di segno opposto: segno vale a dire dell’assenza o incompiutezza di una società civile italiana.

Lo Zibaldone, dicevo. Leopardi afferma che la lingua italiana, il toscano vale a dire, raggiunge la sua massima eleganza  nel Cinquecento. Finisce questa eleganza, questa centralità toscana, con la Controriforma, con l’esplosione di quel leibniziano cataclisma armonico, di quell’ anarchia equilibrata che va sotto il nome di Barocco. Per Croce però il Barocco non nasce dalla Controriforma, ma da una concomitante decadenza, dall’ affievolirsi di quell’ entusiasmo morale, di quello spirito del Rinascimento che aveva illuminato l’Europa. Era stata Firenze dunque centro di quella lingua attica, di quell’italiano platonico, di quella scrittura borghese, laica, elegante dei poeti, dei filosofi, degli scienziati a cui ogni scrittore, da ogni corte o convento, da ogni accademia o piazza, da ogni centro o periferia aspirava. Ma questa lingua dell’Ariosto e del Tasso, del Machiavelli e del Guicciardini, nel tempo si irrigidisce, si fa aulica, perde contatto col suo fondo popolare, si geometrizza, perde in estensione. Leopardi ammira la perfezione stilistica raggiunta dagli scrittori del nostro Secolo d’Oro, ma predilige l’immensità, la varietà, la vertiginosa libertà espressiva di uno scrittore secentesco, barocco, del gesuita Daniello Bartoli, l’autore della Istoria della Compagnia di Gesù. Dice: “Il padre Daniello Bartoli é il Dante della prosa italiana. Il suo stile, in ciò che spetta alla lingua, é tutto risalti e rilievi”. Risalti e rilievi come quelli del Resegone, che Manzoni ironizza ironizzando il Seicento, il tempo della disgregazione, del marasma sociale. Ironizza prima esplicitamente trascrivendo nell’introduzione  del suo grande romanzo il “dilavato e graffiato autografo” dell’anonimo secentista, inzeppato “d’idiotismi lombardi”, di “declamazioni ampollose”, di “solecismi pedestri” e seminato qua e là da qualche eleganza spagnola. (L’espediente del documento dell’anonimo secentesco pensiamo derivi al Manzoni da Cervantes, dal Don Chisciotte, dal sedicente manoscritto dell’arabo Cide Hamete Berengeli). E ironizza ancora nascostamente parodiando nell’incipit, in “Quel ramo del lago di Como”, un brano del Bartoli riguardante l’India, la regione del Gange, riportando così il disordine lombardo all’ordine, alla geometria fiorentina. Che era per Manzoni l’aspirazione all’ordine, all’armonia sociale, a un illuministico, cristiano Paese, di cui la lingua, comune e comunicativa, doveva essere espressione. Utopia mai realizzatasi, si sa. E dunque la moderna storia letteraria italiana, con le rivoluzioni linguistiche degli Scapigliati, di Verga e dei Veristi, con il preziosismo decadente di D’Annunzio, con la esplosione polifonica del “barocco” Gadda e degli altri sperimentalisti, da una parte, con lo sviluppo della “complessa” semplicità leopardiana dei rondisti e degli ermetici, con l’asciutta, scabra lingua di Montale, dall’altra, é la storia del convivere e dell’alternarsi della lingua rinascimentale e illuministica e della linea barocca e sperimentale. É la storia di speranza e di fiducia degli scrittori in una società civile; la storia di sfiducia nella società, di distacco da essa, di malinconia, di disperazione.

Da tali altezze scendendo al mio caso, a quel  che ho potuto o saputo fare, posso dire questo. Ho mosso i miei primi passi in campo letterario (e questo risale al 1963) nel momento in cui si concludeva in Italia la stagione del Neorealismo e stava per affacciarsi all’ orizzonte quel movimento avanguardistico che va sotto il nome di Gruppo ‘63. Il quale, come tutte le avanguardie, opponendosi alle linee letterarie che erano in quel momento praticate, dalla neo-realistica, alla illuministica e razionalistica, alla sperimentalistica, programmava l’azzeramento d’ogni linguaggio che proveniva dalla tradizione e proponeva un nuovo, artificiale linguaggio di difficile praticabilità. L’operazione non era nuova, naturalmente, era già stata fatta dal Futurismo, dal suo fondatore Marinetti, il quale aveva dettato il decalogo della nuova scrittura.

1) Bisogna distruggere la sintassi, disponendo i sostantivi a caso, come nascono.

2) Si deve usare il verbo all’ infinito.

3) Si deve abolire l’aggettivo.

4) Si deve abolire l’avverbio…Etc…Etc…

Questa ideologia linguistica o stilistica marinettiana riproponeva uno dei teorici del  Gruppo ’63, affermando che bisognava praticare il “disordine sintattico e semantico come rispecchiamento del disordine della società”. Credo che si fosse nel campo della indecifrabilità, della pseudo-afasia, speculare alla indecifrabilità linguistica e alla pseudo-afasia del potere.

Dicevo che ho mosso i primi passi in quel clima letterario e insieme in quel clima politico in cui un partito di maggioranza, la Democrazia Cristiana, dal ’48 ininterrottamente al potere, aveva cambiato profondamente l’assetto sociale e culturale del nostro Paese, aveva cambiato la nostra lingua.

Pasolini (sulla rivista Rinascita – dicembre ’64 – quindi in Empirismo eretico)  aveva pubblicato il saggio dal titolo Nuove questioni linguistiche in cui sosteneva che, con il neo-capitalismo, l’asse linguistico italiano s’era spostato dal centro meridione, da una realtà burocratica e contadino-dialettale, al centro settentrione, a una realtà piccolo-borghese aziendale e tecnologica. E analizzava un brano del discorso di un uomo politico emblematico, Aldo Moro (ucciso a Roma nel ’78, come sappiamo, da quei piccolo-borghesi criminali, mascherati da rivoluzionari, che sono stati i componenti delle Brigate Rosse), discorso pronunciato nel momento significativo dell’inaugurazione dell’Autostrada del Sole, autostrada che univa per la prima volta l’Italia dal Piemonte alla Sicilia. Diceva Moro: “ La produttività degli investimenti del piano autostradale dipende dunque dal loro coordinamento in una programmazione delle infrastrutture  di trasporto, che tenda a risolvere gli squilibri, ad eliminare le strozzature, a ridurre gli sperperi della concorrenza fra diversi mezzi di trasporto, a dare vita insomma ad un sistema integrato su scala nazionale”. E Pasolini concludeva dunque nel suo saggio: “Perciò in qualche modo, con qualche titubanza, e non senza emozione, mi sento autorizzato ad annunciare che è nato l’italiano come lingua nazionale” (si noti in questa frase l’amara ironia pasoliniana). Non era certo, questo italiano per la prima volta nazionale, uguale al francese unico e geometrizzato di cui parlava Leopardi, ma una sorta di sotto o extra-lingua, una astorica, rigida, incolore koinè.Sono passati più di quarant’anni dal 1964 e lascio immaginare la situazione linguistica italiana di oggi, dell’italiano strumentale e di quello letterario.

Esordivo in quel tempo, insieme a Luigi Meneghello, Lucio Mastronardi, Stefano D’Arrigo con La ferita dell’aprile, titolo di eco eliotiana. Un racconto in una prima persona mai più ripresa, una sorta di Telemachia o romanzo di formazione. Mi ponevo con esso subito, un po’ istintivamente e un po’ consapevolmente, sul crinale della sperimentazione, mettendo in campo una scrittura fortemente segnata dall’ impasto linguistico, dal recupero non solo degli stilemi e del glossario popolari e dialettali, ma anche, dato l’argomento, di un gergo adolescenziale. Gergo quanto mai parodistico, sarcastico, quanto mai oppositivo a un ipotetico codice linguistico nazionale, a una lingua paterna, comunicabile. E organizzavo insieme la scrittura su una scansione metrica, su un ritmo, con il gioco delle rime e delle assonanze. Prendeva così il racconto, nella sua ritrazione linguistica, nella sua inarticolazione sintattica, nella sua cadenza, la forma in qualche modo di un poemetto narrativo. C’era certo, dietro il libro, la lezione di Gadda e di Pasolini, c’era l’ineludibile matrice verghiana, ma c’era l’evidente polemica sociale, la diffidenza nei confronti del contesto storico, della sua lingua.

Tredici anni sono trascorsi tra il primo e il secondo libro. Un tempo lungo che poteva anche significare dimissione dalla pratica letteraria. Un tempo che ha coinciso – mi si permetta di dirlo – con la mia vicenda personale, con il mio trasferimento, nel ’68, dalla Sicilia a Milano. In questa città provai spaesamento per la nuova realtà, urbana e industriale, in cui mi trovai immerso, realtà di cui mi mancava memoria e linguaggio; per l’acceso clima politico, per i duri conflitti sociali di quegli anni. Fu un tempo quello di studio e di riflessione su quella realtà e sul dibattito politico e culturale che allora si svolgeva. Frutto di tutto questo fu la pubblicazione, nel 1976, del romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio.

Un romanzo storico-metaforico, ambientato in Sicilia intorno al 1860, che voleva chiaramente rappresentare il grande rinnovamento, l’utopia politica e sociale che nel  Sessantotto si vagheggiava in Italia e altrove, che nel nostro Paese doveva frantumarsi a causa dei suoi esiti tragici, disastrosi. L’ambientazione storica e il ripartire dal luogo della mia memoria mi permetteva di raggiungere maggiore consapevolezza della mia scelta di campo letterario, scelta contenutistica e stilistica. La sperimentazione linguistica, per l’adozione della terza persona, si svolgeva ora sul piano dell’ironia e del discorso indiretto libero. L’esito era quindi la “plurivocità” ben individuata da Cesare Segre. In cui era incluso il linguaggio alto del protagonista, un erudito dell’800, e la lingua dei contadini, la cui estremità era rappresentata da un antico dialetto, il gallo-italico o mediolatino, che si parlava in Sicilia in isole linguistiche dell’azione del romanzo. La sperimentazione, nel romanzo, era anche sul piano della struttura. I cui jati, le cui fratture erano riempite da inserti storiografici, da documenti, la cui funzione era quella di connettere i vari lacerti narrativi. Mi veniva questo dalle sollecitazioni del Gruppo ’47 di Enzerberger, per le sue teorie  di Letteratura come storiografia.  Anche qui c’é la messa in crisi del genere romanzo, c’é ancora la polemica della scrittura narrativa nei confronti della società. Società di cui fa parte la cosiddetta industria culturale che mercifica e distrugge il romanzo.

 

Nei miei successivi romanzi perseguo e approfondisco sempre di più la sperimentazione linguistica. In essi c’é la messa in crisi del genere romanzo, e c’é ancora, come dicevo sopra, la polemica nei confronti della società. Società in cui, con la rivoluzione tecnologica, con l’invasione dei mezzi di comunicazione di massa, l’autore non riesce più a individuare il lettore. Italo Calvino, scrittore quanto mai razionalista o illuminista, estremamente comunicativo, al pari di Moravia, di Bassani, di Primo Levi, di Sciascia, e di altri di quella generazione, Calvino, nel contesto di una inchiesta, alla domanda, a quale tipo di lettore egli pensasse scrivendo, rispondeva: “A un lettore che la sa più lunga di me”. Non credo che Calvino, in questo nostro presente, potrebbe ancora rispondere in quel modo, oggi in cui non è immaginabile un lettore più o meno letterariamente avveduto, più o meno

colto dell’autore.

Viene quindi la pubblicazione di

Lunaria (1985), un  racconto, una favola dialogata, che fatalmente prende forma

teatrale.La favola, ambientata in un vago Settecento, alla corte di un viceré spagnolo di Sicilia, si ispirava a un frammento lirico di Leopardi, Lo spavento notturno,e ad una prosa di Lucio Piccolo, L’esequie della luna.  La metafora della caduta della luna significava la caduta della poesia, della cultura nel nostro contesto.   L’epoca e il tema favolistico,  mi facevano  approdare a soluzioni di apparente puro significante, come questa:

Lena lennicula

Lemma lavicula,

làmula,

lèmura,

màmula.

Létula,

màlia,

Mah.

Della stessa epoca e dello stesso clima quai favolistico è anche Retablo. E’ un viaggio nella Sicilia classica, una metafora della ricerca al di là della ideologia, della completa dimensione umana, della perduta eredità umanistica. Per i rimandi, le citazioni eplicite e no, per la struttura, il risultato del racconto è di un ipertesto letterario o di un palinsesto.

Nottetempo, casa per casa è ancora una narrazione scandita come un poema. Dico narrazione nel modo in cui è stata definita da Walter Benjamin. Il quale in Angelus Novus, nel saggio su Nicola Leskov, fa una netta distinzione tra romanzo e narrazione.

La storia di Nottetempo, casa per casa é ambientata negli anni Venti, nel momento del fascismo in Italia. Vi si parla della follia privata, individuale, dolorosa, innocente, e della follia pubblica, la follia della società, della storia. Personaggio simbolico é il satanista Aleister Crowley, che incarna il decadentismo estremo della cultura europea di quegli anni, di nuove metafisiche, di misticismi di segno nero o bianco. Il protagonista del racconto, Petro Marano, è un piccolo intellettuale socialista, é costretto all’esilio, a rifugiarsi in Tunisia. Il racconto termina con questa frase: “Pensò che ritrovata calma, trovate le parole, il tono, la cadenza, avrebbe raccontato, sciolto il grumo dentro. Avrebbe dato ragione, nome a tutto quel dolore.”

 

Il libro successivo L’olivo e l’olivastro, inizia con questa frase: “Ora non può narrare. Quanto preme e travaglia arresta il tempo, il labbro, spinge contro il muro alto, nel cerchio breve, scioglie il lamento, il pianto”. Qui è negata la finzione letteraria, l’invenzione del racconto. Il libro è un viaggio nella realtà contingente e nella memoria. E’ il ritorno di un Ulisse a Itaca, dove non trova che distruzione, violenza, barbarie.

Ma devo ora tornare all’inizio di questa conversazione. Tornare alla tragedia Catarsi, in cui , l’antagonista di Empedocle, Pausania,  così recita:

–              Io sono il messaggero, l’anghelos, sono

il vostro medium, colui  a cui è affidato

il dovere del racconto, colui che conosce

i nessi, la sintassi, le ambiguità,

le astuzie della prosa, del linguaggio….

Cambia tono, diviene recitativo, enfatico.

PAUSANIA – E un mattino d’agosto lasciammo la dimora alta e luminosa, lasciammo i templi, le piazze, le arnie e le vigne, abbandonammo la patria nostra, la superba Agrigento che s’alza sopra il fiume…Spogli ed esposti, solitari, per boschi e per deserti giungemmo all’oriente, all’altro mare di quest’isola vasta, alla montagna immensa, presso la scaturigine del fuoco, del fragore, della minaccia…

Empedocle lo interrompe con un ghigno sarcastico.

EMPEDOCLE – Che menzogna, che recita, che insopportabile linguaggio! E’ proprio il degno figlio di questo orrendo tempo, di questo abominevole contesto, di questo falso teatro compromesso, di quest’era soddisfatta, di questa società compatta, priva di tradimento, d’eresia, priva di poesia. Figlio di questo mondo degli avvisi, del messaggio tondo, dei segni fitti del vuoto…Dietro il velo grasso delle sue parole di melassa, io potrei scoprire l’oscena ricchezza della mia città, la sua violenza, la sua volgarità, gli intrighi, gli abusi, i misfatti, le stragi d’innocenza, d’onore, di memoria, la morte quotidiana imbellettata come le parole morte di questo misero ragazzo, di questo triste opportunista…

Ecco, ne L’olivo e l’olivastro l’ánghelos, il narratore, non appare più sulla scena poiché ormai la cavea è vuota, deserta. Sulla scena è rimasto solo il coro che in tono lirico, in una lingua non più comunicabile, commenta e lamenta la tragedia senza soluzione, la colpa, il dolore senza catarsi. Avviene qui la ritrazione invece che l’irruzione dello spirito socratico, quello che Nietzsche, ne La nascita della tragedia vede nel passaggio dall’antica tragedia di Eschilo e di Sofocle alla moderna tragedia di Euripide. Lo spirito socratico è il ragionamento, la filosofia, è la riflessione che l’autore del romanzo fa sulla vicenda che sta narrando: è quindi, come quello dell’ánghelos o messaggero con lo spettatore, il dialogo con il lettore. La ritrazione, la scomparsa dello spirito socratico é l’interruzione del dialogo con il lettore; é lo spostamento della scrittura dalla comunicazione all’espressione.

Nelle mie narrazioni c’é sempre l’interruzione del racconto e il cambio della scrittura, il suo alzarsi di tono, svolgersi in forma ritmica, lirico-poetica. Sono questi per me le parti corali o i cantica latini.

Eric Auerbach, nel suo saggio sul Don Chisciotte, contenuto in Mimesis, scrive: “Cervantes (…) é (anche) un continuatore della grande tradizione epico-retorica, per la quale anche la prosa é un’arte, retta da proprie leggi. Non appena si tratti di grandi sentimenti e di passioni o anche di grandi avvenimenti, compare questo alto stile con tutti i suoi artifici”.

I grandi avvenimenti di cui parla Auerbach (e i sentimenti che essi provocano) con sistono per me, in questo nostro tempo, in questo nostro contesto occidentale,  nella cancellazione della memoria,e quindi della continua minaccia della cancellzione della letteratura, soprattutto di quella forma letteraria dialogante che é il romanzo. Il quale credo che oggi possa trovare una sua salvezza o plausibilità in una forma monologante, in una forma poetica.

Poesia che é memoria, e soprattutto memoria letteraria.

Questo ho cercato di fare nello Spasimo di Palermo, terzo tempo, con il Sorriso dell’ignoto marinaio e Nottetempo,casa per casa, di una trilogia. “Ostinata narrazione poetica, in cui il raccontare é in ogni momento ricerca di senso, un interrogazione sul valore della realtà e dell’esistenza…” (Giulio Ferroni)

Nello Spasimo  vi si narra ancora di un viaggio di ritorno, di un nòstos in un’Itaca dove non é che smarrimento, violenza e dolore, “..una landa ingrata, / dove si trovano strage e livore” dice Empedocle nel Poema lustrale.

Questa é la nostra Itaca d’oggi, la matrigna terra della giustizia negata, della memoria cancellata, dell’intelligenza offuscata, della bellezza e della poesia oltraggiate,  delle passioni incenerite.

 

Vincenzo Consolo

 

 

  • Pasolini P.P. Affabulazione – 1966 – prefazione di G.D. Bonino TO Einaudi 1992
  • Hölderlin F. Sul tragico –1795-1804 – prefazione R.Bodei Mi Feltrinelli 1994

3)  Serianni L.  Viaggiatori, musicisti, poeti,  MI Garzanti 2002

4)   Genet J., Diario del ladro, Il Saggiatore 2002

versione definitiva al 18.2.2009

Cosa loro ” Mafie tra cronaca e riflessione ” Vincenzo Consolo

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La mafia 1

Diciamo subito mafia con emme minuscola: un sostantivo,

un nome comune che indica un certo fenomeno storico‐

sociale: come dire brigantaggio, pirateria, banditismo,

contrabbando… Sono tante le mafie: di antiche e moderne,

di europee e di americane del Nord e del Sud; esse possono

sorgere nelle più varie strutture della vita sociale; nelle

strutture economiche, politiche, ecc.

Ma se diciamo Mafia, con la emme maiuscola, ci riferiamo

subito a quel tipico fenomeno sociale che è nato in

Sicilia più di un secolo fa. E se di mafie in genere non sappiamo

neppure quante ce ne siano o ce ne siano state, della

Mafia siciliana si sa molto. Essa è l’unica associazione di

questo tipo, dell’Europa moderna, che sia stata ampiamente

descritta e analizzata. Dall’unità d’Italia in poi storici,

etnologi, uomini politici, giuristi, scrittori, si sono occupati

del fenomeno: da Napoleone Colajanni al Cutrera,

all’Alongi, al Pitrè, ai due parlamentari Sonnino e Franchetti,

per arrivare, ai giorni nostri, al Pantaleone, al Renda,

all’americano Reid, agli inglesi Smith e Hobsbawm, a

Salvatore Francesco Romano, Girolamo Li Causi, a Danilo

Dolci, a Leonardo Sciascia.

Si dice mafia o maffia? Da dove deriva il nome? Che

cos’è mafia? Cos’è la Mafia? Quali sono le sue origini? Prima

di rispondere a queste domande bisogna subito affermare

che la Mafia è ed è sempre stata una pericolosa e

dannosa associazione a delinquere, una organizzazione di

criminali. Accettata la grafia più corrente moderna, Mafia,

con una sola effe, non si sa quale accettare delle svariate

interpretazioni etimologiche: Mafia deriverebbe dall’antico

termine francese “maufe”, “mauvais”, cattivo; Mafia

deriverebbe dal fiorentino maffia, miseria; dall’arabo “mahias”,

vanteria; dall’italiano “muffole”, manette. Il magistrato

Giuseppe Guido Lo Schiavo, autore di Piccola Pretura,

un romanzo‐cronaca sulla mafia dal quale Pietro Germi

trarrà il soggetto per il suo film In nome della legge, afferma

che mafia deriva dall’arabo “maha”, grotta, e mafia

si chiamava appunto una grotta nella quale dei liberali

siciliani complottavano contro i Borboni e prepararono lo

sbarco di Garibaldi a Marsala. Mafioso diverrà quindi sinonimo

di bello, generoso, coraggioso. Anche per l’etnologo

siciliano Giuseppe Pitrè mafia esprimerebbe l’idea di

qualità superiore. Da qui la sua definizione: «La mafia è la

coscienza del proprio essere, la nozione esagerata della

forza individuale». Il Pitrè genererà una serie di equivoci.

Il più importante dei quali quello del diffondersi dell’idea

del mafioso come bandito eroe, giustiziere, una specie di

Robin Hood: vendicatore delle prepotenze dei forti contro

i deboli, dei ricchi contro i poveri; uomo giusto che si sostituisce

all’ingiustizia delle leggi dello stato. Equivoco in

cui sono caduti e cadono molti siciliani, da Vittorio Emanuele

Orlando a molti uomini politici, per un malinteso

senso dell’onore, del “buon nome dell’Isola”, fino al giornalista

Giuseppe Longa che affermava essere la Mafia: «una

fluida inafferrabile cosa: una atmosfera». «E sarà magari

un’atmosfera – gli risponderà lo scrittore Leonardo Sciascia

– ma il fatto è che si tratta di un’atmosfera che spara e

che, per di più, spara in determinate direzioni. È un’atmosfera

che predilige scaricarsi sotto forma di raffiche di mitra,

in direzione dei sindacalisti. Dimmi contro chi spari e

ti dirò chi sei: almeno questo possiamo dirlo».

Quando nasce la mafia? Dopo il 1860 afferma, la maggior

parte degli storici. Ma le cause del sorgere della Mafia

in Sicilia sono certo antecedenti. Le cause sono le parti9

colari condizioni storiche e sociali dell’isola: l’esistenza del

latifondo da una parte e dell’arretratezza e della miseria

del mondo contadino dall’altra: esistenza di un mondo

feudale protrattosi nella storia anche dopo la Rivoluzione

Francese e anche dopo l’unità d’Italia. Non vi è dubbio che

i contadini siciliani erano abituati a considerare il governo

centrale non come un vero stato, con leggi giuste e risolutive

di problemi annosi, ma come qualcosa di lontano ed

estraneo che si presentava a loro ogni tanto sotto forma di

esattore delle tasse, di poliziotto o di giudice di tribunale.

Già dall’abolizione ufficiale del feudalesimo in Sicilia

(1812‐1838) e dopo l’Unità d’Italia, tra la classe popolarecontadina

e il feudatario si sviluppa una classe media di

agricoltori capitalisti appaltatori, avvocati e simili. Da questa

classe media viene fuori quella che Hobsbawm chiama

il «sistema‐parallelo», il sistema autoritario e legiferante

che si sostituisce a quello dello stato: la mafia. La spina

dorsale della Mafia erano i gabellotti – appartenenti alla

classe media più ricca – che corrispondevano ai proprietari

feudali un affitto globale per l’intera proprietà e subaffittavano

ai contadini e praticamente erano diventati l’effettiva

classe dominante al posto dei padroni. Questi ultimi

erano intenti a sperperare, nei loro fastosi palazzi di

Palermo, i loro redditi o a rivivere, con feste e usanze, un

passato che non esisteva più. Il romanzo di Lampedusa Il

Gattopardo fa una radiografia lucida di questo passaggio

storico, con i Sedara che si sostituiscono ai Salina e divengono

oltre che ricchi, classe dirigente, uomini politici.

Nel 1865, il prefetto Gualtiero, scrivendo una relazione

sulla situazione dell’ordine pubblico in Sicilia affermava

che «l’origine del sempre maggior turbamento esistente

nello spirito pubblico dell’isola e della scarsa autorità morale

che le autorità esercitavano era un grave, prolungato

malinteso tra il Paese e l’autorità». In queste condizioni

era stato dunque facile, secondo il Prefetto, il diffondersi

della «cosidetta mafia», «associazione malandrinesca»,

che, per il Gualtiero ha sempre avuto in Sicilia dirette rela10

zioni con la vita politica. Il carattere particolare della mafia

siciliana era anzi da individuare nella particolare abitudine

e necessità di legame tra malandrinaggio e partiti politici.

Giacché, anche negli anni seguenti, delitti e “malandrinaggio”

non mostrano d’aver fine, i responsabili politici

italiani si renderanno lentamente conto della necessità

di conoscere meglio la situazione dell’isola: mentre, da

privati, due onorevoli toscani, Franchetti e Sonnino, intraprendono,

dopo il ‘70, un’indagine sulla situazione siciliana,

il 29 giugno 1875 il Senato approvava così una legge

che portava come denominazione quella di Inchiesta sulle

condizioni sociali ed economiche della Sicilia e sull’andamento

dei pubblici servizi. La commissione creata a questo scopo

avrà un anno di tempo per condurre un’indagine approfondita

con estesi poteri, sui fenomeni di “malandrinaggio”.

La relazione della commissione verrà pubblicata nel

1876, ma gli atti completi dell’inchiesta, che ha incontrato

numerosi ostacoli e resistenze, verranno praticamente

ignorati fino ad oggi. Gli interrogatori, i verbali delle sedute

verranno così pubblicati solo nel 1969, per iniziativa

dell’Archivio Centrale dello stato. Si tratta di un materiale

che rappresenta molto meglio della reticente relazione finale,

un’interessante e preziosa miniera di notizie, che serve

anche a ricostruire la storia del nostro sud dopo l’unità.

Ecco cosa afferma, per esempio, a proposito dell’andamento

della giustizia nell’Isola, nella sua relazione alla

Commissione d’inchiesta, il procuratore di Girgenti: «…

Se capitano dei poveri disgraziati che non hanno protezioni,

impegni denari, né appartengono alla maffia, si può

star sicuri, non troveranno indulgenza alcuna, e si avranno

verdetti severi e giusti. Ben altro è poi se gli imputati

appartengono a classe agiata; ovvero alla maffia; per qualunque

atroce crimine si può star sicuri d’ottenere verdetti

di incolpabilità: o, se il fatto fosse di tale evidenza di prove

da non potersi, se non con spudoratezza, negare, saranno

sempre ammesse dai giurati tutte quelle circostanze introdotte

dalla difesa, risultino oppure no, dal dibattimento,

 

che valgano a ridurre ai minimi termini l’imputazione e la

relativa pena».

La precisa e coraggiosa descrizione del procuratore

non ha bisogno di commenti. Man mano che le gerarchie

andavano potenziandosi e che si delimitavano le varie zone

di influenza mafiosa e man mano che il prestigio dell’“

onorata società” andava sempre più sostituendosi, di

fatto, ai poteri legittimi, accadde naturalmente che la mafia

andasse al di là delle sue attribuzioni originarie, e dei

suoi primitivi interessi, per rivolgere la sua attività ad ogni

settore della vita pubblica; ed anche questo può essere

desunto dai verbali dell’inchiesta.

Altrettanto bene se ne ricava, leggendo ad esempio l’interrogatorio

dell’ex deputato avv. Salvatore Carnazza, il

senso di sfiducia verso il nuovo stato che assumerà agli occhi

delle masse l’aspetto di uno stato repressivo. Infatti il

sud si era ribellato ai Borboni per il loro malgoverno. «Il

generale Garibaldi attraversava il Paese accompagnato

dalla rivoluzione. Egli portava in trionfo la bandiera dell’unità.

Ma la bandiera era piantata in un Paese in rivoluzione

», affermava De Pretis nell’ottobre del 1860, all’epoca

del dibattito alla Camera sull’annessione delle Provincie

meridionali. I motivi che avevano spinto i siciliani a fare la

rivoluzione erano ancora quelli che avevano prodotto i

vecchi moti: abbattere le strutture feudali, con tutte le ingiustizie,

le violenze, le corruzioni prodotte da quel sistema.

Come rileverà il De Cordova, deputato moderato al

Parlamento, «quando un Governo riceve un Paese non da

una conquista ma dalle mani della rivoluzione, deve domandarsi

per quali bisogni questa rivoluzione si è fatta, e

pensare a soddisfarli». Niente di tutto ciò, invece, verrà

fatto, e lo si vede già scorrendo le pagine della inchiesta.

Le proteste dei contadini delusi verranno così duramente

represse, sin dagli inizi, anche con la forza dalle truppe

dell’esercito garibaldino con fucilazioni e condanne sommarie;

la più nota repressione è quella eseguita dalla 15a

divisione di Nino Bixio, al quale verrà data la missione,

 

come scriverà alla moglie, «di dare il terribile esempio alla

popolazione di Bronte e dei paesi vicini». Dalle pagine

dell’opera ricaviamo pure l’incredibile indifferenza e ignoranza

di molti governi nei confronti dei problemi reali della

Sicilia. Quella Sicilia che per il Minghetti era la plaga

più fertile d’Europa, così come per il Cavour era invece in

base agli impressionanti dati raccolti dagli inquirenti la regione

in preda alla più profonda miseria e da questa miseria

la mafia traeva la sua forza.

Secondo molti uomini politici, dopo l’unificazione sotto

un governo finalmente “civile”, i siciliani avrebbero dovuto

rapidamente e automaticamente emanciparsi dalla

loro miseria e godere così delle ricchezze della loro Terra.

Con sorpresa generale le condizioni della Sicilia al contrario

non muteranno affatto: i delitti continueranno, si continuerà

a parlare sempre più frequentemente di mafia. A

un generico ottimismo succederà un altro generico e facile

pessimismo e gli abitanti verranno così definiti da un

membro responsabile del governo come «un esercito di

barbari accampato fra di noi», e D’Azeglio suggerirà di separare

nuovamente il Sud dall’Italia, mentre De Pretis parlerà

di «un paradiso governato da Satana».

Le repressioni di cui si è detto e il trattamento da cittadini

di seconda classe da parte del nuovo governo, che

considerava a questo punto, non ancora pervenute al grado

di “civiltà” del resto d’Italia le masse isolane, e quindi

largheggiava in provvedimenti restrittivi, terranno dunque

viva la sfiducia verso lo stato e daranno maggior fiato

alla mafia, in un drammatico circolo vizioso, perché questi

provvedimenti rinfocolavano l’ostilità della popolazione e

questo, a sua volta, dava motivo per altri provvedimenti

repressivi. Favorita da questo contesto sociale, la mafia assumeva

un aspetto sempre più organizzato e ragguardevole.

Era tutto un mondo dove la dipendenza personale

dal ricco e dal potente era sentita continuamente come una

necessità che assicurava al debole il soddisfacimento di bisogni

elementari: trovar lavoro, essere difeso nelle liti, ecc.

 

e offriva allo stesso tempo al forte lo strumento di una potenza

capace di passare al di sopra della legge ufficiale, o

in cui questa s’inchinava alla legge clandestina: un distinto

avvocato di Messina fu mandato alla corte di Assise di

Caltanissetta e fu assolto perché «quanto ci poteva essere

di protezioni, di intrighi, di impegni della mafia messinese

tutto si rivolse in Messina nel giorno dell’arresto. In breve

fu assolto e il giorno appresso pretese di essere rimesso in

ufficio, e io aveva fatto il rapporto per la destituzione».

Così afferma alla Commissione Vincenzo Calenda, procuratore

generale della Corte d’Appello di Palermo.

Questo è il quadro necessariamente schematico che

presenta il fenomeno della mafia al momento del suo

maggior sviluppo, che va, press’a poco, dall’unità d’Italia

al 1918 e che i risultati dell’inchiesta del 1875 ci fanno vedere

chiaramente. Concisamente Leonardo Sciascia, siciliano

e autore di saggi e romanzi basati sulla mafia, così definirà

la mafia giunta al suo processo finale di chiarificazione:

«Un’associazione a delinquere, con fini di illecito

arricchimento per i propri associati e che si pone come elemento

di mediazione tra la proprietà e il lavoro: mediazione

si capisce parassitaria e imposta con mezzi violenti».

L’Hobsbawm – analizzando la storia della mafia – vedrà

come essa a poco a poco, da oppositrice al potere politico,

diverrà di esso alleata. Man mano che le masse contadine

prenderanno coscienza e si organizzeranno politicamente,

essa si sposterà sempre più verso la reazione.

Nei moti contadini del 1894 – i fasci siciliani – essi [i mafiosi]

saranno alleati con le forze della repressione. E così,

fino al 1947, alla strage di Portella delle Ginestre, dove la

mafia si servirà della banda Giuliano per sparare su masse

contadine inermi e riunite per festeggiare il primo maggio.

87 anni dopo l’inchiesta di cui ci siamo occupati la mafia,

che nel frattempo ha continuato a evolversi e ha spostato

la sua attività nelle città, dopo aver “congelato” almeno

nelle parti più vistosamente esterne la sua attività

durante il fascismo, essendo divenuta, una volta abolite le

 

libertà democratiche, una sovrastruttura costosa e nociva

agli interessi della classe agraria, è ancora viva. Essa sarà

oggetto di un’altra inchiesta: con legge 20 dicembre 1962

  1. 1720, veniva infatti costituita la commissione parlamentare

d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia. Il 30

giugno 1963, a Ciaculli, una località vicino a Palermo, una

Giulietta carica di tritolo esplodeva uccidendo alcuni

membri delle forze dell’ordine, tra cui un giovane tenente

dei Carabinieri. Il 6 luglio dello stesso anno la Commissione

parlamentare si mette al lavoro. Il 6 agosto 1966 l’allora

Presidente della commissione, il senatore Donato Pafundi

in un’intervista al Giornale di Sicilia dichiarava che «l’archivio

della commissione poteva paragonarsi a una polveriera

». A tutt’oggi comunque i risultati non sono stati resi

noti, tranne una breve relazione di tre pagine sull’andamento

dei lavori. Di questa inchiesta si occupa il secondo

libro Antimafia: occasione mancata, del noto saggista Michele

Pantaleone, un siciliano di Villalba, un paese tradizionalmente

dominato dalla mafia. Nel volume in questione

Pantaleone si occupa tra l’altro dello scandalo di Agrigento,

della mafia dei mercati generali di Palermo, degli enti

locali, del Banco di Sicilia, riferendosi sempre all’attività

della commissione antimafia. Grazie a queste due opere

dunque il panorama della mafia siciliana si offre al nostro

interesse in un arco ininterrotto di quasi un secolo.

 

1 Dattiloscritto inedito di nove carte, non datato (1969?).

Isole dolci del Dio.

*
Quasimodo le chiama “Le isole dolci del Dio” e le guarda dal Tindari nella bellissima lirica intitolata “Vento a Tindari”. Per noi siciliani dell’isola grande, queste isole che avevamo di fronte, soprattutto per noi che abitavamo sulla costa settentrionale, erano delle isole da una parte fantasmatiche perché apparivano e sparivano a seconda del tempo, le nebbie o le calure estive, a volte sembravano vicinissime e dalla zona dove io abitavo si vedeva finanche il faro di Vulcano. Però d’altra parte era un mondo “maledetto” per noi isolani perché quelle erano le isole dei coatti e poi anche dei confinati politici quindi quando la mia sorellina andò a Lipari e incontrò il suo fidanzato, io l’andai a prendere al molo di Milazzo poi l’accompagnai a casa in treno, perché le signorine da sole non viaggiavano, lei in treno mi raccontò questo suo incontro e mi disse tutta felice che poi questo ragazzo sarebbe venuto a casa per chiedere la mano di mia sorella come si usava allora. Io le dissi “vedrai papà cosa dirà…”. Infatti la sera a cena lei disse “sai papà ho incontrato un giovane, ci siamo parlati e mi ha detto che verrà a chiederti la mia mano.” Mio padre, che era molto rigoroso soprattutto con le figlie femmine, le diede uno schiaffo e disse “e io ti ho mandato a Lipari per cercare un fidanzato?”. Poi si sono sposati nel ’60. Allora ero studente a Barcellona e quando potevo andavo da mia sorella e scoprii questo Paradiso che sono le isole Eolie. Quando avevo tempo libero mi imbarcavo a Milazzo sulla “Luigi Rizzo” che allora era l’unica nave e man mano scoprii prima Lipari poi le altre isole, Salina, Alicudi e Filicudi, Stromboli. Una volta ebbi anche un naufragio su un aliscafo: tornavo da Stromboli, era estate e c’erano tantissimi turisti, a Panarea avevano caricato molte persone per cui questo aliscafo cominciò a imbarcare acqua e quasi affonda, spararono i razzi per chiedere aiuto, arrivarono i pescherecci, ci portarono su questi pescherecci e poi ci abbandonarono su una spiaggia di Panarea tutti bagnati. L’indomani finalmente ho potuto raggiungere Lipari. Un altro ricordo alle Eolie: nel ’62 ero lì e arrivò la colonia romana di Moravia, Pasolini con tutti i suoi ragazzetti e Dacia Maraini con la madre Topazia Alliata: io li vedevo, li osservavo, sapevo chi erano. Andavano a fare il bagno a Vulcano alle sabbie nere e io mi mettevo vicino ad ascoltare i loro discorsi. Un giorno sulla spiaggia dopo aver fatto il bagno mi sono seduto accanto a Moravia con nonchalance; Moravia era paralitico da una gamba e zoppicava e arriva una persona che gli racconta che un subacqueo aveva raggiunto una profondità di non so quanti metri ed egli sentenziò “io mi contento di scendere nella profondità dell’animo umano”. Nasceva proprio quell’estate il nuovo amore fra lui e Dacia Maraini. Al Centro Studi Eoliano ho avuto un incontro per l’anniversario del Constitutum, la costituzione democratica che si erano dati gli eoliani. C’era anche un altro personaggio straordinario che ho frequentato a Lipari, Leonida Buongiorno, che mi raccontava le sue vicende personali e non, di cui ero molto amico era una specie di biblioteca delle isole Eolie. Ho conosciuto anche il prof. Giuseppe Iacolino, un altro studioso delle isole Eolie. Pirandello dice che “noi siamo i primi 9 anni della nostra vita” nel senso che da quando nasciamo cominciamo a guardare quindi questi segni esterni ce li portiamo dentro per tutta la vita, sia i segni visuali che i segni orali – questo lo dice anche Dante nel “De vulgari eloquentia”: noi impariamo la prima lingua, la lingua volgare, dalle persone che ci stanno intorno nei primi anni della nostra vita. Nascere in una grande città come Palermo, Catania o ad Agrigento dove è nato Pirandello o nascere alle Eolie è assolutamente diverso perché i segni sono diversi, per cui un eoliano ha un carattere diverso dall’abitante dell’isola grande. Per la vita così dura e aspra l’eoliano era un tipo parsimonioso e laborioso, sull’isola non c’era il latifondo quindi non c’era la mafia e quindi il lavoro per gli eoliani era senza nessun tipo di compromissione e di cedimento ai poteri. C’è un libro di un confinato politico a Lipari che racconta degli altri confinati: quelli che potevano affittavano una casa a Lipari, gli altri invece erano relegati nel castello, una sorta di prigione, però c’era molta solidarietà da parte degli eoliani, c’era aiuto nei confronti di questi confinati. Quindi gli eoliani erano anche persone generose. Oggi non so se è ancora così. Vedere un mondo “altro” anche primigenio, che cos’è la vita nella sua elementarità e nelle sue leggi fondamentali. I turisti spesso vengono dal nord industriale, da luoghi più abbienti e devono capire cosa significa vivere in una piccola isola. L’esempio della rivolta che c’è stata a Lampedusa per quelli che chiamano centri di accoglienza ma che sono dei veri e propri lager: i lampedusiani vivono anche loro di turismo ma non sopportano che la loro isola diventi un lager a cielo aperto, molti questi poveri infelici hanno anche perso la vita.
Se questi turisti approdando a Lipari, nelle isole Eolie leggessero prima e conoscessero i 5000 anni di storia che ha avuto soprattutto Lipari, la stratificazione di civiltà che c’è stata andando a vedere il museo unico che c’è a Lipari capirebbero che luogo unico è, al di là del mare e del cielo. Sulle Eolie c’è anche il libretto “Isole dolci del Dio” uscito nel 2002 per le edizioni l’Obliquo, scritto per amore delle isole. Al momento sono impegnato a scrivere un’opera per Mondadori, alla conclusione della quale l’editore ristamperà tutta la mia produzione nella collana Meridiani. Dopo quest’ultima fatica, mi piacerebbe lasciare Milano e tornarmene finalmente nella mia amata Sicilia, ma non so se mia moglie Caterina è d’accordo…

Vincenzo Consolo
venerdì, 03 aprile 2009(da “Il notiziario delle Isole Eolie)

Conferenza all’Accademia di Belle Arti di Perugia1

Vincenzo Consolo

Metto le mani avanti dicendo che non sono addetto ai lavori, non sono un esperto d’arte, come ha detto il professor Caruso, sono uno scrittore. Uno scrittore che però nella stesura di quasi tutti i suoi libri (Caruso ha citato Lunaria, ma forse fin dal primo libro) ricorre sempre a una citazione pittorica. Anche Calvino, che sembra meno implicato con la pittura, ha dichiarato che da sempre l’immagine di un dipinto lo ispirava nella scrittura dei suoi libri. Allora comincio teoricamente col dire che la letteratura è un discorso assolutamente lineare che ha una sua dinamica temporale nella quale bisogna saper leggere anche la sua verticalità, cioè la complessità. Bisogna dunque nella linearità del discorso letterario saper individuare le molteplicità dei significati oltre naturalmente dei significanti, cioè oltre al significato della parola bisogna anche ascoltarne il suono e comprendere che si propaga nel tempo.
Significante che si riporta ancora nella dimensione temporale: la scrittura si svolge nel tempo. Nell’arte figurativa, pittura o scultura, al contrario il discorso non è lineare, si svolge non nel tempo, ma nello spazio: sono due dimensioni diverse. Le due arti hanno essenze diverse. Ora cito un illuminista che non è il Lessing filosofo che conosciamo, ma un illuminista tedesco di nome Lessing che aveva analizzato la differenza tra letteratura e pittura. Egli afferma che la pittura usa figure e colori nello spazio, mentre la letteratura suoni articolati nel tempo, la pittura rappresenta oggetti che esistono uno accanto all’altro e sono colti con la loro proprietà visibile. È chiaro che qui si parla di pittura figurativa, non della pittura astratta, e quindi di figure di corpi, mentre la letteratura rappresenta oggetti1 che si susseguono uno dopo l’altro, la letteratura rappresenta un’azione nella quale gli oggetti o i corpi sono uno accanto all’altro e nella rappresentazione si segue una sintassi; questi oggetti o corpi sono legati, appunto come dice la parola, da una sintassi che regola la rappresentazione. Sia la pittura che la letteratura ubbidiscono alla legge della sintassi e dei legami. C’è però da osservare che spesso la sintassi pittorica e la sintassi letteraria si possono incrociare, si possono incontrare, e questo significa che vi può essere in pittura una componente temporale e dicendo questo non voglio riferirmi ai quadri medievali dove vi sono delle parole scritte. Mi riferisco soprattutto alle Annunciazioni dove l’angelo che annunzia ha le parole che escono dalla bocca e la Madonna risponde. Credo che le scritte dipinte si chiamassero filatteri. C’è una tradizione altissima di testi letterari dipinti da grandi pittori; basta pensare alle illustrazioni della Divina Commedia, ma anche per esempio al Boccaccio illustrato da Botticelli e in particolare ai due quadri famosi della novella di Nastagio degli Onesti. Vi sono delle pitture in cui vengono affiancati momenti successivi di un’azione e questo è evidente in quel genere di pittura soprattutto religiosa che si chiama Retablo. Il Retablo è un racconto pittorico che si svolge in più quadri, così come nelle narrazioni letterarie dei romanzi o racconti sono inserite narrazioni implicite, esplicite di esempi pittorici, pitture che possono fare da motivo ispiratore o da leitmotiv di una narrazione. Fatta questa premessa teorica facile e scontata voglio dire di me come scrittore, come la pittura mi ha influenzato, quali sono stati i temi pittorici che mi hanno segnato e mi hanno portato a scrivere. Devo iniziare dai primi passi che ho mosso in campo letterario e questo risale a parecchi anni fa, al primo libro La ferita dell’aprile, del 1963 pubblicato in una collana sperimentale, di ricerca letteraria. A quei tempi gli editori si permettevano di mantenere delle collane di ricerca che non avevano fine di profitto, così come le grandi aziende hanno il laboratorio di ricerca. Vittorini dirigeva la collana dei Gettoni presso Einaudi e cercava le nuove voci della letteratura italiana; per mezzo delle collane di ricerca si scoprirono grandi scrittori come Primo Levi, Giorgio Bassani, Leonardo Sciascia e tantissimi altri. Mondadori ha voluto con la chiusura della collana dei Gettoni di Einaudi continuare questa esperienza aprendo una collana che si chiamava il Tornasole, diretta dal poeta Vittorio Sereni e da un grande critico che si chiamava Niccolò Gallo. Quando ho scritto il mio primo libro sapevo già che il libro si sarebbe potuto collocare benissimo in quella collana. Credo che quando si opera in qualsiasi campo letterario, pittorico o musicale, chi comincia deve avere consapevolezza di quello che si è svolto prima che lui nascesse come artista, come autore, quindi conoscere la tradizione letteraria nel momento in cui comincia ad operare, essere consapevole degli autori contemporanei e soprattutto della grande letteratura italiana ed europea, ma anche degli autori che immediatamente lo hanno preceduto e sapere cosa stava succedendo negli anni ‘60 in campo letterario in Italia. Questi autori, Moravia, Morante, Bassani, Calvino, Sciascia e moltissimi altri, in massima parte avevano scelto di scrivere in un registro assolutamente comunicativo, razionalista o illuministico. Io mi sono sempre chiesto perché loro avevano scelto questo registro, questo stile illuministico o razionalistico e mi sono dato una risposta. Ho pensato che le persone che avevano vissuto l’esperienza del fascismo e della guerra, da Primo Levi a Nuto Revelli, a Rigoni Stern e a tantissimi altri che hanno scritto sulla guerra partigiana e sulla campagna di Russia e che hanno restituito la loro esperienza in forma referenziale e comunicativa, avevano scelto quel registro proprio perché speravano che con la fine del fascismo, con la fine della guerra si sarebbe potuta formare in Italia una società civile con la quale comunicare, per cui questi scrittori avevano adottato un registro di speranza, lo stesso registro di speranza che aveva teorizzato e che aveva voluto il padre sacramentale della narrativa italiana, Alessandro Manzoni. Manzoni scrivendo la seconda stesura dei Promessi Sposi, aveva adottato appunto il linguaggio toscano – ricordiamo la famosa frase “sciacquare i panni in Arno” – dopo aver scritto Fermo e Lucia con ancora dei dialettismi, dei localismi lombardi, perché sperava che con l’unità d’Italia gli italiani avrebbero potuto avere anche un’unità linguistica. È stata un’utopia molto generosa, però nonostante l’opera di Manzoni evidentemente questa unità linguistica non si è raggiunta. Per tornare a me, nato dopo le generazioni di scrittori che avevano nutrito questa speranza, nascendo come scrittore nel ’63 ho trovato i giochi politici già fatti. In Italia era avvenuto un profondo mutamento, una mutazione possiamo dire antropologica che nessun paese europeo aveva avuto. Era finito il millenario mondo contadino, c’erano stati spostamenti di massa, di braccianti meridionali verso il mondo industriale, c’era stato il processo di industrializzazione del Nord, un processo rapido che ha portato dei cambiamenti straordinari. Naturalmente il cosiddetto miracolo economico ha liberato il meridione dalla fatica contadina, ma nel contempo ha costretto i contadini a trasformarsi in operai, minatori, carpentieri. Miracolo economico è stato chiamato, (in un paese dove c’è il Papato tutto diventa miracolistico). C’è stata la fine del nostro mondo contadino e della cultura contadina alla quale è succeduta la cultura industriale. Intellettuali come Vittorini e Calvino da una rivista che si chiamava «Il Menabò» invitavano i giovani autori a lasciare i vecchi mestieri, i mestieri liberali dell’insegnamento o dell’avvocatura e di inurbarsi per cercare di spiegare da vicino, nei centri come Milano, o Torino, soprattutto Torino, dove c’era la Fiat, il mondo industriale. Studiare il fenomeno dell’Olivetti dove molti scrittori e poeti sono entrati, come Franco Fortini, Paolo Volponi, Ottiero Ottieri e studiare proprio dentro l’industria, quella che Vittorini chiamò l’industria a misura d’uomo, le strutture per una condizione sociale dignitosa per gli stessi operai. Dicevo che questo nostro paese è cambiato profondamente anche nella lingua, nel senso che la vecchia lingua italiana, quella unica ipotizzata da Manzoni che era stata ripercorsa dagli scrittori della generazione che mi aveva preceduto, quella si era assolutamente trasformata. Pasolini nel 1964 aveva scritto un saggio intitolato Nuove questioni linguistiche dove aveva analizzato il cambiamento profondo della nostra lingua italiana perché col “miracolo economico” era avvenuto quel fenomeno nuovo della esplosione dei mezzi di comunicazione di massa, soprattutto della televisione. I due affluenti che avevano arricchito la nostra lingua, cioè la lingua popolare dal basso e la lingua colta dall’alto, si erano quasi prosciugati, si era formata una lingua media di comunicazione dove si perdevano le radici memoriali della lingua stessa. Sul problema della lingua italiana, oltre Pasolini, andando indietro nel tempo ci sono stati molti scrittori che ne hanno scritto. Ma ci sono stati anche scrittori che non avevano sentito il bisogno di riflettere su questo strumento che erano obbligati a usare. Non credo che ci siano stati nella storia della pittura pittori che abbiano sentito il bisogno di analizzare i colori che dovevano usare, io credo che solo in letteratura questo sia avvenuto, cioè che gli scrit- tori abbiano sentito il bisogno di riflettere sulla lingua che di volta in volta devono usare. La riflessione sulla lingua parte da Dante che sente il bisogno di scrivere un saggio, il De vulgari eloquentia, che è il primo saggio di linguistica italiana e di poetica personale, dove Dante parla di una lingua di primo grado, che è la lingua che noi parliamo da bambini quando noi sentiamo i primi suoni e della lingua grammaticale, cioè della lingua colta. Dopo Dante ci sono stati tantissimi altri scrittori che si sono occupati del problema della lingua, ma quello che l’ha analizzata profondamente è stato Leopardi. Nello Zibaldone scrive un saggio di linguistica in cui studia il rapporto tra società e letteratura, e fa un continuo confronto tra la lingua italiana e la lingua francese. Leopardi sostiene che la lingua francese è una lingua geometrizzata, cioè racchiusa in una serie di regole già dal tempo di Luigi XIV, e quindi lamentava la perdita di infinito che questa lingua aveva prima dell’avvento di Luigi XIV. Con questo sovrano in Francia si era formata una società, ancora prima della rivoluzione, e quindi si aveva bisogno di uno strumento linguistico che fosse estremamente comunicativo. Leopardi invece esalta la ricchezza e la profondità della lingua italiana e naturalmente dice che l’unico momento di unità linguistica nel nostro paese, parliamo di lingua letteraria, non di lingua strumentale, è stato quello del Rinascimento toscano. Il momento in cui tutti gli scrittori da tutte le periferie italiane, sia dai conventi sia dalle accademie si attenevano e usavano la lingua ideale, cioè il toscano. Con la Controriforma l’unità linguistica si disgrega e si comincia di nuovo a ritornare a quelle che erano le espressioni localistiche dialettali: quindi c’è una grande fioritura soprattutto in poesia, poesia dialettale con i grandi nomi di Belli, di Porta o di un narratore napoletano il Basile, autore de Lo cunto de li’ cunti. Si possono fare tantissimi altri nomi. Comunque in Italia non c’era mai stata fino ai nostri anni ’60 una lingua unica che poteva chiamarsi lingua nazionale e Pasolini alla fine del suo saggio Nuove questioni linguistiche porta come esempio di questa nuova lingua italiana, di questa lingua ormai tecnologizzata, assolutamente rigida e orizzontale, un brano del discorso di Aldo Moro nel momento significativo della inaugurazione dell’autostrada del sole. E riporta questo brano in un italiano che sino a quel momento non era stato scritto, infarcito di tecnologismi, quasi impenetrabile, in un registro linguistico pseudo afasico, che non raggiunge il suo referente, cioè l’oggetto della parola. E Pasolini conclude con ironia e amarezza «Che finalmente è nata la lingua italiana come lingua nazionale». Era una lingua nazionale assolutamente impoverita ed è quella che ascoltiamo alla televisione, che non è solo una lingua di comunicazione quotidiana, non è una lingua che sentiamo soltanto nei media, ma è una lingua che viene anche praticata nella scrittura letteraria. Dopo questa lunga riflessione voglio tornare a dire di me. Quando appunto ho cominciato a scrivere ho pensato che non avrei mai potuto scegliere quella lingua comunicativa, lingua assolutamente impraticabile in letteratura e quindi la scelta consapevole e in qualche modo anche istintiva è stata di scegliere un registro altro, diverso, che non fosse la lingua coniata dal potere. Ho scelto un contro codice linguistico che fosse appunto di difesa della memoria linguistica del nostro paese. E quindi il registro che si chiama sperimentale, espressivo; questa scelta mi metteva fatalmente in una linea che era sempre esistita (accanto alla linea razionalistica illuministica), che partiva da Verga, perché il primo che aveva rovesciato l’assunto della lingua ideale del Manzoni era stato Verga che aveva scritto in una lingua fino a quel momento mai scritta. L’italiano che Pasolini definisce irradiato di dialettalità era l’italiano con cui Verga faceva parlare i pescatori di Aci Trezza e i contadini di Vizzini, che non era l’italiano centrale toscano, ma che esprimeva il modo di essere, di sentire, di pensare delle classi non borghesi, delle classi popolari, delle classi umili, quindi il periodare, l’esprimersi per proverbi dei personaggi dei Malavoglia. Ma da Verga in poi naturalmente c’era tutto un filone di scrittori espressivi sperimentali che passava attraverso il grande Gadda, che appunto aveva orchestrato nel modo più vasto e polifonico tutti i dialetti italiani per dare proprio un’ immagine di quella che era l’Italia prima del miracolo economico, prima del processo di industrializzazione, specialmente nel libro Il pasticciaccio brutto di Via Merulana. Nel filone gaddiano si erano mossi poi tanti altri scrittori sperimentali da Lucio Mastronardi a D’Arrigo a Meneghello fino a Pasolini. Pasolini era uno scrittore sperimentale che era partito da un’esperienza dialettale, quella della poesia friulana scritta, in questa lingua-dialetto, e poi arrivando a Roma scrive i romanzi, ma non la poesia, nel romanesco del sottoproletariato romano. Anch’io mi colloco subito in questo filone. Scrivo in un mistilinguismo o quello che Cesare Segre ha definito plurivocità, per una difesa della memoria, perché la letteratura è memoria, memoria linguistica nel cercare di non far seppellire e cancellare tutti i giacimenti linguistici della terra dove mi ero trovato a nascere e a vivere e a capire i suoni, perché la Sicilia che citava il professor Caruso, che ci accomuna, è una terra dove sono passate tutte le civiltà, dagli antichi fenici, ai greci, ai romani, agli arabi. È inutile fare della retorica sulla Sicilia in un luogo come Perugia, in questa Umbria e Toscana, luoghi di grande civiltà. Gli antichi hanno lasciato i monumenti, templi greci, chiese arabo-normanne, ma anche giacimenti linguistici molto preziosi. Io ho fatto un lavoro da archeologo, ho cercato di disseppellire parole che provenivano da queste lingue ormai dimenticate, che erano di volta in volta il greco, l’arabo, il latino, lo spagnolo, il francese, immettendo, innestando nel codice linguistico italiano vocaboli che avessero un loro significato, molto più vasto che il termine italiano poteva darmi, ma anche che avesse una sua valenza di significante, cioè di sonorità, che si potesse incastrare nella frase,
nel discorso per creare un’armonia sonora, che si svolge nel tempo, come dicevo poco fa. La mia scrittura, per la mia ricerca, è contras segnata da questa organizzazione della frase in prosa che ha un suo metro, un suo ritmo che l’accosta un po’ al ritmo della poesia. Ho diffidenza verso la comunicazione, verso la comunicazione che ha in sé la narrazione. La scrittura in prosa è una scrittura ibrida perché la letteratura è nata in forma poetica: i grandi narratori dell’antica Grecia erano poeti orali. I poemi omerici prima erano poemi orali e poi con i grammatici alessandrini sono stati portati sulla carta. Anche la Bibbia era un racconto orale. L’oralità comportava l’organizzazione della frase sia per un fatto mnemonico e sia per un fatto di seduzione degli ascoltatori e le frasi avevano una loro componente ritmica e poetica. In questa epoca, in questa nostra civiltà di massa penso che l’elemento comunicativo che in sé fatalmente ha la scrittura in prosa debba essere sempre più ridotto, che il registro della scrittura debba spostarsi verso la parte ritmica, verso la parte espressiva. Uno scrittore sud americano dice che la scrittura in prosa ha una parte logica e una parte magica, la parte magica è la parte espressivo poetica; parliamo di forma, non di sostanza poetica. Mi sono perso in molti rivoli. Voglio tornare alle citazioni, e alle ispirazioni della pittura nei miei libri. Parlo del mio secondo libro Il sorriso dell’ignoto marinaio dove l’elemento ispiratore è il ritratto di ignoto di Antonello da Messina. Racconto un aneddoto per quanto riguarda questo titolo. Avevo scritto i primi capitoli di questo mio romanzo a metà degli anni ‘70, nel ’73-’74. Per l’ispirazione pittorica che aveva il libro avevo man dato i primi due capitoli alla signora Banti la direttrice della rivista «Paragone», e il cui marito era Roberto Longhi, che dirigeva anche lui la rivista, in parte di critica letteraria e in parte di critica d’arte. Mi sembrava quindi la sede più giusta per avere un riscontro su questi due primi capitoli. Non ho avuto risposta dalla rivista. Un giorno Roberto Longhi è venuto a Milano per presentare la ristampa del suo libro Me pinxit e quesiti caravaggeschi. Sono andato alla presentazione e alla fine gli ho detto con molta timidezza: «Professore le ho mandato due capitoli del mio romanzo. Mi chiamo Consolo. Non ho avuto risposta». Longhi mi ha guardato severamente e mi ha risposto: «Sì, mi ricordo perfettamente, mi ricordo dei bei racconti, mi ricordo il suo nome. Non voglio assolutamente entrare nel merito letterario dei racconti, però questa storia dell’ignoto marinaio deve finire». Sapevo quello che lui aveva scritto nei suoi saggi su Antonello da Messina. Longhi diceva che popolarmente era detto L’ignoto marinaio il ritratto che si conserva al museo Mandralisca di Cefalù, ma Longhi sosteneva che Antonello non era un pittore che faceva quadri di genere, era un pittore molto affermato e che si faceva pagare profumatamente, e quello era un ritratto di un signore, di un proprietario terriero, di un barone, ecc. Io sapevo bene quello che il critico d’arte aveva scritto, ma a me serviva la dizione popolare, la vulgata dell’ignoto marinaio, perché volevo svolgere il tema proprio in questo senso. Naturalmente avevo molta dimestichezza con questo quadro: mi aveva molto incuriosito perché il ritratto dell’uomo aveva un’espressione a me familiare che riscontravo in molti visi di persone che mi stavano intorno, insieme familiare e sfuggente. Ma quando pensai di rimettere insieme vari elementi per scrivere questo romanzo, da una parte il ritratto che avrebbe fatto da filo conduttore, poi la scoperta dei cavatori di pomice delle isole Eolie che si ammalavano di silicosi, e le rivolte popolari del 1860, il personaggio storico di Mandralisca, il protagonista Giovanni Interdonato, erano tutti elementi che mi hanno portato a unire i fatti storici secondo la lezione manzoniana: attingere alla storia e inventare altri personaggi che avessero i colori del tempo. Devo aggiungere che in questo libro ho mancato un’occasione, che sarebbe stata straordinaria, dell’incontro, che ho scoperto dopo la pubblicazione del libro, del barone Mandralisca con il Cavalcaselle. Il Cavalcaselle era anche lui un rivoluzionario risorgimentale che per ragioni politiche era stato costretto a rifugiarsi in Inghilterra. Lo straordinario critico d’arte clandestinamente proprio negli anni delle rivolte era andato a Cefalù alla ricerca delle opere di Antonello da Messina. A Cefalù si era incontrato con il barone Mandralisca e aveva steso uno schizzo di questo ritratto dipinto da Antonello. Volevo leggere il brano in cui racconto del quadro portato dall’isola di Lipari nella casa di Cefalù del barone Mandralisca e di quando viene presentato agli amici. Il barone oltre ad essere uno scienziato e uno studioso di malacologia, cioè studiava lumache, era anche un collezionista di opere d’arte, ma la gemma del suo privato museo era il ritratto di Antonello da Messina.

Apparve la figura di un uomo a mezzo busto. Da un fondo verde cupo, notturno, di lunga notte di paura e incomprensione, balzava avanti il viso luminoso. Un indumento scuro staccava il chiaro del forte collo dal basso e un copricapo a calotta, del colore del vestito, tagliava a mezzo la fronte. L’uomo era in quella giusta età in cui la ragione, uscita salva dal naufragio della giovinezza, s’è fatta lama d’acciaio, che diverrà sempre più lucida e tagliente nell’uso interrotto. L’ombra sul volto di una barba di due giorni faceva risaltare gli zigomi larghi, la perfetta, snella linea del naso terminante a punta, le labbra, lo sguardo. Le piccole, nere pupille scrutavano dagli angoli degli occhi e le labbra appena si stendevano in un sorriso. Tutta l’espressione di quel volto era fissata, per sempre, nell’increspatura sottile, mobile, fuggevole dell’ironia, velo sublime d’aspro pudore con cui gli esseri intelligenti coprono la pietà. Al di qua del lieve sorriso, quel volto sarebbe caduto nella distensione pesante della serietà e della cupezza, sull’orlo dell’astratta assenza per dolore, al di là, si sarebbe scomposto, deformato nella risata aperta, sarcastica, impietosa o nella meccanica liberatrice risata comune a tutti gli uomini.
2



Ecco qui la descrizione dove lo scrittore diventò un po’ critico d’arte, ma naturalmente questo mi serviva per fare della metafora. Il libro che è ispirato a un genere pittorico che si chiama retablo è appunto Retablo, dove la struttura del libro è come fosse un polittico. C’è un primo pannello, un pannello centrale e poi un altro pannello. In tutti e tre i pannelli si racconta la storia. Retablo è un termine catalano che viene dal latino retro tabulo. Nel retablo non c’è più la fissità, ma un’azione che si svolge pittoricamente.2 Il Sorriso dell’ignoto marinaio, pp. 143-144. Questo libro nasce da un’occasione: era venuto in Sicilia il pittore Fabrizio Clerici, testimone in un matrimonio a Palermo dove anch’ io ero testimone. Dopo questo matrimonio avevamo fatto un viaggio nella Sicilia classica, il famoso tour che facevano i viaggiatori stranieri da Goethe a Brydone a un’infinità di altri viaggiatori che partendo da Napoli, arrivando a Palermo facevano poi il giro della Sicilia da Segesta a Mozia a Selinunte ad Agrigento a Siracusa e spesso facevano l’ascensione sull’Etna e poi s’imbarcavano a Messina per fare il viaggio di ritorno. Durante questa escursione nei luoghi classici della Sicilia occidentale vedevo Fabrizio Clerici che prendeva degli appunti, faceva dei disegni. Clerici era un pittore surreale, metafisico, era già diventato un personaggio di un romanzo di Alberto Savinio nel libro Ascolto il tuo cuore, città. Di lui Savinio diceva che era un personaggio stendhaliano e che si chiamava appunto Fabrizio come Fabrizio del Dongo, poi addirittura che potevano essere parenti perché lui si chiamava De Chirico e il pittore Clerici, quindi tutti e due avevano una matrice clericale. Da questo pittore straordinario, intelligente e raffinato mi è venuta l’idea di trasferire nel ’700 il mio Fabrizio Clerici e il trasferimento significava che volevo scrivere un libro che non avesse una matrice storica, ma che fosse una fantasia, fosse un viaggio in una Sicilia ideale. Un pittore del ‘700,
Fabrizio Clerici, lascia la Milano illuministica di Beccaria e dei Verri, innamorato e non corrisposto di una fanciulla, Teresa Blasco, che sposerà poi Cesare Beccaria l’autore Dei delitti e delle pene. Da questa unione nasce Giulia Beccaria, che sarà la madre di Alessandro Manzoni. Faccio muovere Fabrizio Clerici dalla Milano illuminista per andare in Sicilia, non solo perché il suo è un amore infelice e quindi compie un viaggio alla ricerca delle tracce della bellezza della donna di cui è innamorato, ma per fare un omaggio alla letteratura. Negli anni in cui scrivevo il libro, a Milano c’era un’accensione politica molto forte, non c’era spazio per la dimensione umana, per i sentimenti. Io rivendicavo il primato della letteratura attraverso questo libro, passando dall’illuminismo al romanticismo manzoniano attraverso Teresa Blasco e il pittore Fabrizio Clerici. Clerici arriva nei luoghi classici con i suoi metri, come faceva Goethe, arriva in Sicilia pensandola come una sorta di eterna arcadia dove vi erano soltanto monumenti greci, i templi di Segesta e di Selinunte, di Agrigento. I viaggiatori avevano l’idea romantica di trovare i satiri e le ninfe. Senonché viaggiando per le zone della Sicilia occidentale Fabrizio Clerici insieme al suo accompagnatore siciliano, frate Isidoro, che aveva gettato il saio alle ortiche proprio perché sconvolto da una passione d’amore per una fanciulla, Rosalia, si accorge che la Sicilia non era soltanto arcadia. L’arcadia non c’era più. La Sicilia era una terra di forti contraddizioni, di grande miseria, di afflizione, di sopraffazione, di violenza. Clerici incontra banditi, corsari saraceni, ma scopre una dimensione che lui non sospettava, incontra persone dai sentimenti profondi e di grande umanità. Attraverso l’immagine pittorica del retablo ho voluto scrivere una rivendicazione del primato della letteratura nei confronti della politica, ho voluto descrivere la complessità dell’uomo, i suoi sentimenti, le sue passioni. Nel libro c’è l’ironizzazione di certa pittura imbrogliona, prendendo spunto dall’opera teatrale di Cervantes che si chiama appunto El Retablo de las meravillas. In Spagna la parola retablo è un termine che indica sia un’opera pittorica, sia un’opera teatrale. Nel Don Chisciotte c’è il “retablo del maestro don Pedro”, che è un teatrino di marionette portato in giro per la Mancha da don Pedro e che don Chisciotte nella sua follia distrugge. Cervantes mette in ridicolo il
conflitto di allora tra cristiani vecchi e cristiani nuovi, tra spagnoli ed ebrei, e mori convertiti. Questo intermezzo, o atto unico teatrale, lo riprendo nel mio libro Retablo, dove il conflitto questa volta è tra persone ingenue, oneste e fedeli alla chiesa e disonesti, infedeli o traditori:

Irreali come il retablo delle meraviglie che lo scoltor d’effimeri Crisèmalo e il poeta vernacolo Chinigò facean vedere sopra un palco. Un trittico a rilievo basso di cartapesta o stucco coperto d’una polvere dorata (terribilmente baluginava al sole come l’occhio adirato del padre Giove o quello pietrificante di Gorgonia), privo di significato e di figure vere, ma con increspature, rialzi e avvallamenti, spuntoni e buchi, e tutto nell’apparenza d’una arcaica scrittura, di civiltà estinta per tremuoto, diluvio o eruzione di vulcano, e sotto le ruine, in fondo all’acque o nella lava ardente si perse la chiave di sua lettura.

Vide chi pote e vole e sape
dentro il retablo de le maraviglie
magia del grande artefice Crisèmalo,
vide le più maravigliose maraviglie:
vide lontani mondi sconosciuti,
cittate d’oro, giardini di delizie,
[…].
Vide solamente il bravo cristiano,
l’omo che fu tradito mai dalla sua sposa,
la donna onesta che mai tradì il suo sposo…3
3 Retablo, pp. 395-396.

Nella mia scrittura, nello spostamento della prosa comunicativa verso la prosa espressiva ci sono dei momenti di arresto della narrazione, ci sono delle digressioni che io chiamo cantica, come fosse una parte corale, quella dei cori greci. La mia idea oggi di letteratura, di scrittura in prosa, è di una
scrittura dove, come nella tragedia greca non appare sulla scena il messaggero o l’anghelos, cioè il personaggio che comunicava con il pubblico che sedeva nella cavea, che raccontava di un fatto avvenuto prima, in un altro luogo, e da quel momento, dopo questa comunicazione, con un linguaggio assolutamente comunicativo, poteva incominciare la rappresentazione della tragedia, potevano agire i personaggi e intervenire il coro. Credo che oggi in questa nostra civiltà di massa il Messaggero, cioè lo scrittore che comunica con il lettore non può più apparire sulla scena e quindi la scrittura si riduce alla parte corale, alla parte poetica in cui si commenta, si lamenta la tragedia… Diciamo è una rappresentazione priva di catarsi. Ora vi leggo un brano di un altro mio romanzo Nottetempo casa per casa dove con la memoria descrivo un luogo sotterraneo nel quale
sono stati scoperti affreschi romani. Questo brano mi è stato ispirato da una mostra che ha fatto Ruggero Savinio anni fa. Le figure di Ruggero Savinio mi apparivano come venute fuori da una profondità, da un ipogeo, come nelle scoperte di scavi archeologici, e quindi nel racconto del romanzo ci sono interruzioni per raccontare un viaggio dentro un mondo antico:

Quindi per gradi, per lenti processi discendiamo in spazi inusitati
(dimenticammo l’ora, il punto del passaggio, la consistenza, la figura
d’ogni altro, dimenticammo noi sopra la terra, di là della parete, al
confine bevemmo il nostro lete).
Ora in questa luce nuova – privazione d’essa o luce stessa rovesciata, frantumo d’una lastra, rovinìo di superficie, sfondo infinito, abissitade –, in nuovi mondi o antichi, in luoghi ignoti risediamo. O ignote forme, presenze vaghe, febbrili assenze, noi aneliamo verso dimore perse, la fonte dove s’abbevera il passero, la quaglia, l’antica età se polta,
immemorabile.
In questa zona incerta, in questa luce labile, nel sommesso luccichio
di quell’oro, è possibile ancora la scansione, l’ordine, il racconto ? È
possibile dire dei segni, dei colori, dei bui e dei lucori, dei grumi e degli strati, delle apparenze deboli, delle forme che oscillano all’ellisse, si stagliano a distanza, palpitano, svaniscono? E tuttavia per frasi monche, parole difettive, per accenni, allusioni, per sfasature e afonie tentiamo di riferire di questo sogno, di questa emozione. Viene e sovrasta un Nunzio lampante, una lama, un angelo abbagliante. Da quale empireo scende, da quale paradiso? O risale prepotente da quale abisso? È lui che predice, assorto e fermo, ogni altro evento, enuncia enigmi, misteri, accenna ai portenti, si dichiara vessillo, simbolo e preambolo d’ogni altro spettro. Da sfondi calmi, da quiete lontananze, dagli ocra, dai rosa, dai bru ni, da strati sopra strati, chiazze, da scialbature lievi, da squarci in cui traspare l’azzurro tenero o il viola d’antico parasceve, lo Scriba affaccia, in bianca tunica, virginea come la sua fronte o come il libro poggiato sui ginocch
i. Venne poi il crepuscolo, la sera. Una sera azzurra e bruna, vermiglia e gialla. Con un reticolo d’ombre, di caligini, un turbine di braci. È l’ora questa degli scoramenti, delle inerzie, degli smarrimenti, delle malinconie senza rimedio, l’ora delle geometrie perfette, delle misure inesorabili, la sfera il compasso la clessidra la bilancia…(la luna suscita muffe fiori di salnitro…) l’ora della luce bianca, della luce nera, sospesa e infinita. Oltre sono i foschi cieli e le chiome degli alberi impietrati, gli scuri ingressi degli antri delle vuote dimore, del volo di vespertili, verso della civetta.
Oltre sono le Rovine. Che non consumi tu Tempo vorace. 4 Che non consumi tu…Che non consu…”5

È la poesia delle rovine, delle vestigia del nostro passato che ci
commuovono ogni volta che le vediamo.

Prof. Caruso. Volevo ringraziare. È qualcosa di più di una conferenza, è anche una confessione stupenda e soprattutto hai dato una prova di come la pittura e la letteratura siano strettamente connesse, fraterne e vicine. Poi hai parlato delle rovine che ci commuovono tanto: ci commuovono perché sono il nostro passato, i nostri ricordi. 4
«Riprende una frase che “i paesaggisti del Cinque-Seicento scrivevano
dietro i paesaggi con rovine” (Villa, p. 177)». Così nel dattiloscritto. D.
O’Connell da parte sua commenta questa frase come segue: « A detta dello
scrittore questa frase è ripresa dagli incisori dell’Ottocento che la lasciavano scritta sopra le rovine riprodotte. Ma ci sembra di sentire qui anche un’eco del latino, in particolare da Ovidio (Metamorphoses XV, 234-236): Tempus edax rerum, tuque, invidiosa vetustas, / Omnia destruitis vitiataque dentibus aevi / Paulatim lenta consumitis omnia morte! (Id., Consolo narratore e scrittore palincestuoso, cit., p. 173). 5 Nottetempo, casa per casa, pp. 686-687.

Hai anche detto che i pittori non analizzano i loro strumenti. Non è assolutamente vero. Purtroppo i vari strumenti linguistici dell’arte figurativa, dell’arte visiva vengono fin troppo analizzati. Questa è una puntualizzazione. Poi io direi a proposito del tuo ritmo di scrittura e anche di come tu parlavi delle origini della letteratura che la grande matrice di tutte le arti è la musica; anche le prime parole nascono da un ritmo musicale. Il ritmo musicale in qualche modo ci guida in qualsiasi attività artistica, perché se non c’è ritmo non c’è scansione e non c’è parola, né pagine, né spazio. Hai parlato in modo da provocare una quantità di associazioni. Ti ringrazio. Consolo. Mi scuso per l’errore che ho fatto, data la mia ignoranza pensavo che i pittori trovassero i colori a portata di mano, che andassero in un colorificio e in modo rapido comprassero i loro colori. Sono stati tanti i pittori che mi hanno ispirato. Però mi hanno ispirato anche molti libri o pagine di libri, ma c’è un pittore che più degli altri mi ha impressionato e che compare nel Sorriso dell’ignoto marinaio, è Goya. Goya dei Disastri della guerra, Nel mio libro c’è la descrizione di una strage che hanno fatto i rivoltosi popolani di un paesino dove appunto mi servo delle didascalie delle incisioni di Goya per scandire la tragedia. E insieme c’è anche la malinconia del Dürer. Ho parlato di un altro pittore, Caravaggio, ne L’olivo e l’olivastro, che non è un libro di invenzione narrativa, è un viaggio nella realtà siciliana, dove sono inseriti frammenti narrativi, tra cui la sosta di Caravaggio a Siracusa dopo la fuga da Malta, e la commissione che gli viene data dal senato di Siracusa tramite un erudito locale, Mirabella, del quadro del seppellimento di S. Lucia. Volevo leggere il brano dove descrivo il quadro:

Effigiò la santa come una luce che s’è spenta, una Lucia mutata in Euskìa, un puro corpo esanime di fanciulla trafitta o annegata, disposto a terra, riversa la testa, un braccio divergente, avanti a donne in lacrime, uomini dolenti, stretti, schiacciati contro la parete alta della latomia, avanti alla corazza bruna del soldato, la mitria biancastra, aperta a becco di cornacchia, del vescovo assolvente, dietro le quinte dei corpi vigorosi e ottusi dei necrofori, cordari delle cave o facchini del porto, che scavano la fossa. La luce su Lucia giunge da fuori il quadro, dalla pietà, dall’amore dei fedeli astanti, da quel corpo riverbera e si spande per la catacomba, a cerchi, a onde, parca come fiammella di cera dietro la pergamena. Nel sentimento della morte che ormai l’ha invaso e lo possiede, Michelangelo è oltre la violenza, l’assassinio, è alla resa, alla remissione, al ritorno ineluttabile, al cammino verso la notte immota. 6

Il vescovo di Siracusa, dicono i documenti, non ha trovato questo quadro di suo gradimento e glielo ha fatto correggere; sempre secondo i documenti, la testa di Santa Lucia era staccata dal corpo, la santa era stata decapitata, e il vescovo gli ha fatto congiungere la testa con il corpo, lasciando una piccola ferita nel collo. Nel quadro oggi si vede soltanto questo piccolo squarcio. Dicevo che c’è il passaggio, da questa lama di luce che c’è nella pittura caravaggesca che squarcia le tenebre controriformistiche, alla forma necrofila di arte del ceroplasta siracusano Gaetano Zumbo, il quale componeva dei teatrini rappresentanti la morte e la corruzione del corpo umano. Il cereo corpo di Lucia si decompone insomma negli ipogei della
morte, negli avelli, nelle catacombe dei liquami; nella ferita del collo
bianco s’è insinuato il bacillo della peste che cova e germina nelle
volute, nei ghirigori del barocco».

6 L’olivo e l’olivastro, pp. 828-829.

Il testo di questa Conferenza, tenuta all’Accademia di Belle Arti di Perugia il 23 maggio 2003, mi era stato affidato alcuni anni orsono da Caterina Pilenga, vedova dello scrittore, come un prezioso inedito che io ho gelosamente custodito. In calce al testo dattiloscritto, sotto la firma di Vincenzo Consolo, si legge la data: Milano, 19.3.2004, verosimilmente apposta da chi ha dattilografato il manoscritto, forse la stessa Caterina


Uomini e paesi dello zolfo

di Vincenzo Consolo

    Siamo nel regno del latifondo, del feudo, quel regno che gli stessi antenati di Lampedusa, che così bene lo descrive ne Il Gattopardo, hanno contribuito, col loro assenteismo, con la loro incuria, con i loro criteri economici medievali, a desolare, a desertificare, renderlo quella distesa infinita di solitudinee miseria che è.

    E’ l’eucaliptus, di cui parla lo scrittore, l’unico albero che s’incontra in quella distesa, solitario, in gruppi, in boschetti nelle valli e per i dirupi franosi, l’eucaliptus, quest’albero maligno e velenoso come un serpente, che “si trasforma in una vera e propria pompa vivente che, se in un primo momento può risultare utile a bonificare certi terreni acquitrinosi, finisce con il diventare poi un mostro insaziabile, capace di prosciugare in breve tempo sorgenti, disseccare falde sotterranee, depauperare il suolo sottostante…” scrive Fulco Pratesi. L’eucaliptus diventa simbolo del gabelloto del feudo, del soprastante, del campiere, del picciotto, di quella gerarchia che, per delega del proprietario lontano, ha angariato il contadino, il bracciante, ha sfruttato il lavoro di questi e ha spogliato spesso il proprietario della terra; simbolo del gabelloto mafioso, come le alte, snelle palme davanti alle masserie, alle ville dei feudatari erano simbolo di proprietà e d’aristocrazia.

         Ma continuiamo il nostro viaggio all’interno dell’isola, dove altre piante, altri simboli s’incontrano. E altro paesaggio. Ci accorgiamo che, a poco a poco, le curve dei colli calvi, che si sciolgono in pendìi, in vallate, si spezzano, s’increspano, s’accavallano, si fanno dure e aspre: dai bruni o grigi terreni a mano a mano s’alzano frastagli di rocce calcaree, i fianchi dei colli, ora ripidi, mostrano le radici di quelle rocce, gli strati; le fiumare hanno tagliate netti quei fianchi, hanno scavato tra un colle e l’altro profondi abissi.

        E quelle rocce biancastre, lungo i fianchi, sui profili delle alture sembrano residui d’ossa calcinate di gigan­teschi animali preistorici. Nei loro fianchi, negli anfratti, cresce lo spino, l’agave, l’ampelodesmo, il cardo, la giummara, la ginestra spinosa, il pomo di Sodoma… E sopra vi volteggiano i neri corvi… Sembrano luoghi, questi, di maledizione biblica, luoghi come la disuma­na, barbara, d’atroce esilio per Ifigenia, terra dei Tauri (“in questa terra estrema, desolata”, dice Euripide). E qui, dove la roccia si frantuma e s’allarga, è il chiarchià­ru […]

        Ma andiamo avanti, avanti, e, come in una paurosa di­gressione onirica, in una metafisica discesa agli Inferi, ar­riviamo in luoghi ancora più desolati, se è possibile, più disumani. Là, dove il calcare si sfalda, si fa poroso, friabi­le, argilla e gesso giallognolo, cristalli di gesso, tuffu niuru (tufo nero), marna turchina, là è lo zolfo. Siamo nel cosid­detto altipiano dello zolfo, quello che va da Caltanissetta ad Agrigento. Se si guarda una cartina geologica della Si­cilia, come la francese Carte Sulfurière de la Sicile del 1874, dove i giacimenti di zolfo sono segnati a macchie rosse, si vede che le sparse tracce, partendo dalla periferia, dal Pa­lermitano (Calatafimi, Lercara Friddi), dal Catanese e dall’Ennese (Assoro, Licodia Eubea), a mano a mano s’infittiscono, s’addensano, tra Cianciana e Valguarnera, di­vengono un continuo lago rosso attorno a Girgenti, da Aragona a Serradifalco.

        Vasto luogo infernale, crosta, volta d’un mondo sot­terraneo dove malvagie divinità catactonie si manife­stano in alto per acque salmastre, gorgoglìi di pozze motose, soffi di vapori gassosi; dove Plutoni sarcastici si acquattano in attesa di Kore innocenti che non saranno mai rese alla luce, alla pietà delle madri. Siamo scivolati insensibilmente nel mito, ma avvolto nel mito doveva essere in antico lo zolfo, religioso e magico il suo uso. “Ma egli parlò alla cara nutrice Euriclea: / — Porta lo zolfo, o vecchia, il rimedio dei mali; portami il fuoco: / voglio solfare la sala” (Odissea, XXII). Così Odisseo pu­rifica i luoghi dove sono stati uccisi i Proci. Solo sotto i Romani abbiamo notizia che lo zolfo affiorante viene raccolto, quello sotterraneo viene scavato, fuso (E cuni­culis effusum, perficitur igni, Plinio), solidificato in pani (è attestato dalle lastre di terracotta con marchio delle officine di Racalmuto conservate al Museo nazionale di Palermo), largamente impiegato in medicina e nell’in­dustria tessile. E c’è un piccolo particolare nella storia della Sicilia sotto i romani, nel II secolo a.C., di un fram­mento di zolfo che si fa simbolo di rivolta e di riscatto. Racconta Diodoro Siculo, e con lui ripetono gli storici ottocenteschi siciliani, da Nicolò Palmeri a Isidoro La Lumia, che lo schiavo Euno, per acquistar prestigio presso i compagni, emetteva dalla bocca fiamme miste ad oracoli, fiamme con l’artificio di una noce svuotata e riempita di zolfo. E fiamme di zolfo uscivano dalla sua bocca guidando gli schiavi ribelli alla conquista di Enna. Altre fiamme di zolfo, altre rivolte vedremo più avanti, in tempi molto più vicini, se non di schiavi, di quelli che possiamo chiamare i dannati del sottosuolo: gli zolfatari.

        Sì, si hanno ancora notizie della conoscenza in Sicilia dei giacimenti di zolfo nel periodo arabo, normanno, angioino e ancora nel Quattro, Cinque, Seicento, ma quella che è la storia vera e propria dell’industria zolfifera dell’isola, dell’estrazione sistematica dello zolfo e della sua esportazione, comincia nel Settecento, sotto i Borboni, con la prima rivoluzione industriale, con la scoperta di un nuovo metodo per la preparazione dell’acido solforico, che larghissimo impiego aveva nell’in­dustria tessile, e della soda artificiale. Zolfo allora si chiedeva alla Sicilia, da dove veniva inviato su velieri fino al mercato di Marsiglia. Sul finire del Settecento, miniere attive erano a Palma di Montechiaro, Petralia Sottana, Racalmuto, Riesi, San Cataldo, Caltanissetta, Favara, Agrigento, Comitini, Licodia Eubea. Novantamila cantàri se ne esportavano, al prezzo di un ducato a cantàro. Ed ecco che le sotterranee divinità plutoniche, signore delle tenebre e della morte, si trasformano in benigne divinità della speranza. Il mito si distrugge, si razionalizza, i pozzi e le gallerie che inseguono la vena gialla dello zolfo non nascondono più paure metafisi­che, ma reali, concreti pericoli di crolli, d’allagamenti, di scoppi, di incendi. La febbre dello zolfo prende tutti, proprietari terrieri, gabelloti, partitanti, picconieri, com­mercianti, bottegai, magazzinieri, carrettieri, artigiani, arditori, carusi; attira avveduti stranieri, esperti di spe­culazioni e di profitti.

         È una febbre, quella dello zolfo, che cresce col tempo, una drammatica epopea che si sviluppa nell’arco di due secoli, tra congiunture, crisi, crolli di prezzi, riprese e miracoli, raggiunge il suo acme tra la fine dell’Ottocen­to e gli inizi del Novecento, decresce fino a sparire ver­so gli anni ‘50. Lasciando tutto come prima, peggio di prima. Lasciando, sull’altipiano di cui abbiamo detto, la polvere della delusione e della sconfitta, un mare di de­triti, cumuli senza fine di ginisi, di scorie, un vasto cimi­tero di caverne risonanti, di miniere morte, sopra cui i tralicci arrugginiti, i binari contorti dei carrelli fischiano sinistri ai venti dell’inverno; son tornati a ricrescere i ce­spugli spinosi del deserto, a strisciare le serpi, a volteg­giare i corvi. E tornata a regnare, su quell’altipiano, la metafisica, eliotiana desolazione:

        Quali sono le radici che s’afferrano, quali i rami che crescono

          Da queste macerie di pietra? Figlio dell’uomo,

          Tu non puoi dire, né immaginare, perché conosci soltanto

          Un cumulo d’immagini infrante, dove batte il sole,

          E l’albero morto non dà riparo, nessun conforto lo stridere del grillo,

          L’arida pietra nessun suono d’acque.

        Ma nell’arco di quei due secoli, dallo zolfo, per lo zolfo, è nata e cresciuta in Sicilia una nuova categoria di lavoratori; nelle zone zolfifere, nei paesi delle miniere é nato e si è sviluppato un nuovo modo d’essere siciliano, una nuova umanità; dallo zolfo e per lo zolfo è nata una storia politica e sociale, una letteratura.

        Idealmente restringendo nel tempo e ipotizzando im­provviso l’esplodere e lo svilupparsi dell’industria zolfi­fera, c’è da immaginarsi la corsa di masse di uomini ver­so questa nuova possibilità di lavoro, verso questa nuova speranza. Dai popolosi paesi dell’interno dell’isola, dai miseri centri del feudo, in questa sterminata landa dove da secoli le possibilità di lavoro dipendevano dalla volontà, dal capriccio del gabelloto e dei suoi sottostanti, dalla soggezione a costoro, dove le giornate lavorative si riducevano a poche nell’arco dell’anno, dove il contadi­no era angariato, oltre che dalla iniqua divisione dei pro­dotti, da tasse, decime e balzelli vari, a cui bisognava ag­giungere le tangenti illegali, dove squadre di lavoratori stagionali, mietitori o spigolatori, erano costretti al nomadismo, dove la vita insomma raggiungeva inimmagi­nabili livelli di sfruttamento e di miseria, la miniera, la zolfara appare come un miraggio nel deserto. Tutti ora hanno possibilità di lavoro, dagli uomini più giovani, saldi e robusti, agli anziani, ai deboli, ai menomati, alle donne, ai bambini. Nella miniera, dentro la miniera, Co­me in esilio o in extraterritorialità, trova rifugio finanche il disgraziato che ha appena saldato un debito con la giu­stizia o che con questa ha ancora dei conti in sospeso.

        Senonché la miniera riproduce immediatamente, nel­la gerarchia padronale, nei vari gradi di sfruttamento, nella precarietà, nel rischio, nei danni, nella stessa spi­rale di miseria, quella che era la vita contadina in super­ficie, nel feudo. Come se la situazione orizzontale della campagna, in una rotazione di novanta gradi, si fosse verticalizzata: così la miniera, dalla sua bocca, e via via nei vari livelli, fisicamente, visivamente, è la rappresen­tazione di un’ingiusta, insostenibile situazione sociale. In superficie, dunque, invisibili, lontani, in alto nei loro palazzi di Palermo, di Girgenti o di Catania, erano i proprietari del suolo, che per legge erano anche pro­prietari del sottosuolo in cui era imprigionato lo zolfo, che senza preoccupazione e rischio alcuno ricevevano dal gabelloto, dal concessionario, l’estaglio, la grossa quota del prodotto. Scriveva il professore Caruso-Rasà nel 1896 ne La questione siciliana degli zolfi:

       Quando, nello scorso febbraio, ebbi occasione di conoscere qui a Torino il giovane Notarbartolo di Villarosa, il famoso lionpalermitano, che per una scommessa fatta con lo zio, du­ca di San Giovanni, compiva a piedi il viaggio da Palermo a Torino [in codeste imprese, impegnati in simili fatue avventu­re consumavano la loro vita molti giovani rampolli della no­biltà siciliana, ndr], volli, sapendolo proprietario di molte zol­fare in quel di Villarosa, chiedergli degli appunti e delle notizie che avrebbero potuto servirmi in questo studio, sul quale allora già lavoravo. L’intervista che io ebbi col giovane aristocratico palermitano fu per me poco edificante. Egli sa­peva di esser padrone di certe zolfare nel territorio di Villaro­sa, ma non sapeva né il numero, né il nome e mi confessò can­didamente che né egli né suo padre erano mai andati a visitarle.

           

         E ci immaginiamo quest’incontro tra lo scrupoloso professore siciliano, insegnante di economia politica nella Regia Università della capitale piemontese, e il “noncurante” Notarbartolo.

       Ancora in alto, lontani, erano gli sborsanti, i finanzia­tori dell’impresa, i gabelloti, i magazzinieri, gli esporta­tori: tutta una categoria parassitaria che dal lavoro della miniera traeva profitti.

       Sempre fuori della miniera, carrettieri, fabbri ferrai, bottegai (la bottega apparteneva spesso al proprietario della miniera, al gabelloto o a persona di fiducia che ap­plicava agli zolfatari il cosiddetto truck system). E anco­ra, più vicini, più strettamente legati alla miniera: calca­ronai arditori, addetti cioè alla preparazione dei calca­roni e alla fusione dello zolfo; i vagonari,che spingevano i carrelli sui binari dalla bocca della miniera fino ai cal­caroni. E quindi, dentro la miniera, distribuiti a diversi livelli come i dannati nei vari gironi: i capimastri, picco­nieri, glispesalori, pompieri, carusi.

       Ma, se si guarda bene, tutto questo vasto apparato, tutta questa realtà economica poggia principalmente sulle spalle di due soli lavoratori: il picconiere e il caruso. L’uno a colpi di piccone estrae lo zolfo, l’altro dalle visce­re della terra lo trasporta alla superficie, alla luce. L’uno e l’altro legati tra loro indissolubilmente oltre che da un contratto (spesso giudicato infame, disumano: il famoso soccorso morto), da uno stesso destino di pena, di fatica, di dannazione, di pericolo; l’uno e l’altro legato da inestri­cabili fili di dominio e soggezione, violenza e passività, benevolenza e rancore, amore e odio, acquiescenza e ri­bellione, fedeltà e tradimento. Sono gli ultimi due anelli, i picconiere e il caruso, di una lunga catena che nelle tenebre più fitte della miniera, all’estremo limite della condizione umana, sul confine tra vita e morte, hanno mes­so a nudo, come i loro corpi, la loro anima, gli istinti primordiali dell’uomo, al di là di ogni remora, di ogni regola di ogni condizionamento sociale.

       Attorno al picconiere e al caruso, vi sono poi gli altri protagonisti, v’è il coro degli altri dannati.

       Gli uomini della zolfara hanno operato una rivoluzione (o involuzione: giudichi ognuno come vuole) culturale, in ogni caso una rottura con quella che era l’arcaica, tradizionale cultura contadina. La quale era di rassegnazione, portatrice di valori statici, immutabili, di prudenza e “saggezza” ereditate dai padri, di confor­mità a una morale e a una “dignità” piccolo-borghese. La quale si esprimeva in un dire sentenzioso, in prover­bi, in collaudate massime sapienzali. Tutta la letteratu­ra siciliana, d’estrazione e tema contadino (da Verga in poi, fino alla svolta di Vittorini) esprime un sottoprole­tariato e proletariato in abiti e con aspirazioni piccolo-borghesi. Così viene fuori dagli studi etnologici di un Pitrè, di un Salomone-Marino, di un Guastella; così vie­ne fuori nei romanzi e nelle novelle di Verga, in quelli di Capuana, nelle novelle di Pirandello. L’unico libro in cui i contadini non siano mascherati da piccolo-borghe­si è I mimi siciliani di Francesco Lanza. Ma questo si spiega forse col fatto che Lanza, e i suoi contadini, sono d’un paese zolfifero, di Valguarnera.[…]

Vincenzo Consolo, Di qua dal faro, Milano, 1999, pp. 11-18.

FANTASIA ISPANICA

Guida alla città vicereale                                                                                                                                                                  di Vincenzo Consolo

De la ciudad moruna
tras la murallas viejas,
yo contemplo la tarde silenciosa,
a solas con mi sombra y con mi pena.

(A. Machado, Campos de Costilla)


… T’avvolge improvvisa voluta di brezza di mare di monte, si fonde all’alga marcita la palma, poseidonia  ginepro fenicio e l’euforbia l’eringio il pino d’Aleppo esposto sui poggi del monte dimora al romito mai visto, pellegrino di grotte di tane, alla furia dei venti, brezza che fiori accarezza spessi d’effluvi di Cipro, spere di conca avvolte nell’oro: allora ti trovi alla balza su cui si erge la reggia.

Oh excelso muro, oh torres coronadas
de honor, de majestad, de gallardia!. (1)

Sei giunto dai sobborghi o dal Monte Reale per l’arco di porta dai giganti custodi reggenti la loggia, il belvedere a piramide a smalti e bande­ruola di latta (vi scorre ai piedi un ruscello, la vena sfuggita dal Nilo, che porta radici larve papiri caimani che il raggio di fuoco suscitò dalla coltre di limo ferace — il principe folle o burlone pietrificò nella villa quei mostri e altri ne aggiunse, una folla, sognati o pure intravisti alle corti alle feste d’un gran carnevale).

E varchi il portale dal timpano rotto in cui si spiegano gli stemmi le armi. Nel chiostro digrada un chiarore da lucernari di lino, per squarci di cielo turchese di cumuli cirri ammassi di nubi in cammino — sfreccia delle tempeste l’uccello, l’airone migrante, il solitario passero o quello maltese. Luce in prigione che indugia in labirinti di pietra, s’ammassa, esita alle colonne, agli archi, ai doppi loggiati, agli scaloni a rampe, a viti, scivola sopra mura scialbate, cilestrine lesene, paraste. Sale dalle segrete lo stri­dere dei ferri, dai viali, dai cortili dietro cortili il passo dei cavalli, il cigolio di carrozze, dai giardini pensili il cinguettare d’uccelli, rari del paradiso, dei tropici.

Passi per gallerie, anditi, ambulacri, ponti, sospese logge, ai vesti­boli esiti, alle soglie (il Grande, l’Infanta, il Condottiero da sogno, da parete dipinta ti viene): non badare alla guardia tronfia, al mercenario in brache festose, al buffone con lucerna spaccona, a pennacchio, che nasconde i sonagli. Odi se vuoi nel tempo sospeso II bisbiglio di preci per grate, fessure, per bussole schiuse d’oratori segreti, cappelle murate, delle fruste gli schiocchi, dei flagelli i lamenti, le canzoni dell’anima.

En una noche oscura
Con ansias en amores inflamada… (2)

Da vani diversi, dietro tende, cortine scarlatte, indovini l’alcova, la mano che indugia carezza, il pannello d’avorio cinese che scorre e dispiega la scena, licenze… (la sposa del capitano partito per terre con­quise s’arrese all’amore di un giovane a corte, e l’altra – ma qualcuno assicura che la linea del corpo, la pelle riflessa allo specchio appartiene alla stessa velata – fanciulla tenera, fu tolta a un padre in prigione, batti­loro ribelle, per risveglio di sensi, voglie incrostate di vecchi togati, pre­lati). Altrove é la forza, alla sala del dio provato da immani fatiche, la schiena le braccia potenti, a masse nodose.

Ma viene il momento: ti trovi al cospetto di viceré in teoria spiegati, lungo pareti, in effigie, tra bande di onice nero e fastigi, sovrapporte di stucco, imperi di gesso, e l’altro – non sai se vero o dipinto in sostitu­zione d’un altro – in damasco dorato a garofani a gigli, in seta cangiante e sboffi di trine, la gorgiera che regge un volto di buio (ride o ira tre­menda lo scuote?), assiso sul trono: – Maestà Seconda, Quasi Signore, Rappresentante Eccelso, Somma Autorità Dopo Qualcuno, Sovrano Limitato, Mio Viceré – dirai piegando a malapena un sol ginocchio, mezza la testa, e l’altra tieni alta: bada: sul trono avuto in prestito l’uomo senza volto non conosce il sorriso, il gesto largo, sereno della magnanimità, incrina la sua vita l’astio, l’orgoglio offeso, il pensiero costante d’un potere delegato, d’una grande sicurezza dipendente.

Ora é la volta della discesa, lasciando a mano dritta la macchina trionfale di Filippo, la Soledad, le cupole di sangue tra grappoli di datteri, pompelmi, viticci attorcigliati alle colonne, all’arco di ferro sopra il pozzo.

(2) Jùan de la Cruz, Cancionesa del almo

Sobre laclara estraila del ocaso
como un alfanje, plateada, brilla
la luna en el crepúsculo de rosa… (3)

La volta di pietre d’oro, d’ametista, topazi affumicati, intrecci, geome­trie affollate, ricami d’arenaria, rabeschi d’una grande moschea profanata. Dimora un cardinale che affonda in mollezze porporine e dispiega in volute, in ventagli sfaldati effluvi d’incensi grassi, acide essenze, malsani fer­menti. I servi, i paggi corrotti in fronzoli in gale a farandola intorno, e il monaco che regge lo stendardo dell’ulivo e del cane infuocato – Misericor­dia et Justitia – arrossano pei bagliori di roghi notturni sopra la piazza, moltiplicati da cristalli bocce vetri piombati.

Allora muovi il passo, affrettati allo spazio circolare, al centro da cui partono i quattro punti del mondo. Quattro fontane scrosciano: viene Pri­mavera con Carlo Imperatore e la vergine Cristina, Estate giunge con Filippo e la Ninfa fatta santa, al volger d’Autunno l’altro Filippo e l’Oliva santa, chiude Inverno con Filippo Terzo e la vergine che tiene sopra il palmo la mammella.

T’investono quattro venti e quattro canti.

Castilla varonil, adusta tierra,
Castilla del desdén contra la suerte,
Castilla del dolor y de la guerra,
tierra immortal, Castilla de la muerte! (4)

Procedi dunque per la via che si sperde alla Porta Felice – passano i galeoni, i velieri sul fondale del mare, costa, riposa alla fresca d’acque fon­tana teatrale: Orfeo danza, Ercole coi Fiumi i Tritoni le Ninfe, e il Genio della città sopra lo stelo di putti di conche di tazze spande largisce dona in cornucopia canestro festone di frutta, l’albicocca l’arancio il melograno dischiuso…

E guarda, osserva le quinte di pietra: scorgi le scale i portali le grate panciute i balconi pomposi di chiese conventi pretori, contro il cielo cobalto e trionfi di nubi i transetti i contrafforti a volute le aeree cupole come orci iridati, maioliche azzurre splendenti.


(3) Antonio Machado. EI poeta recuerda a una mujer desde del Guadalquivir.
(4) Antonio Machado. Orillas del Duero.

Del ablerto balcòn al blanco muro
va una franja de sol anaranjada
que inflama el aire… (5)

Il monastero ti dona alla ruota l’agnello trafitto dallo stendardo, i grap­poli d’uva dorata, i trionfi di gola, le frotte di mandorla, cesti canestri nature morte dipinte. E la chiesa, la chiesa il fresco di nave, lo sfavillio l’abbaglio degli occhi: scansa gli intarsi catturanti a mischio tramischio, staccati dalle spire di colonne a torciglioni, le Allegorie le cantorie i coretti, volgi in alto in alto lo sguardo: vedi i cieli, delle cupole le Apoteosi le Glorie le Ascen­sioni oltre le balaustrate rotonde da cui s’affaccia la pavolcella la lira il caprifoglio franante. E il Senato poi dispiega sopra i cieli le profane imprese, i Governi le Giustizie le Battaglie i cavalli galoppano, s’impen­nano tra nuvole, si rovescia il carro, cozzano le lance, brillano le bocche di fuoco, investono una folla d’affamati…

(5) Antonio Machado. Fantasia iconografica.

I corpi di Orvieto di Fabrizio Clerici

E’ un eclisse totale di sole il primo remoto, infantile ricordo di Pirandello. “Come l’ombra della luna lo investe, la luce del sole diviene fioca. Alle 2 pomeridiane il disco è interamente ottenebrato, ma lo circonda un anello di fuoco. Allora son tenebre di crepuscolo, gli uccelli si rincantucciano, il colore degli oggetti circostanti è pallido, fosforico”, così annota lo storico agrigentino Picone alla data 22 dicembre 1870.

L’eclisse sul Caos, la “campagna d’olivi saraceni affacciata agli orli d’un altipiano d’argille azzurre sul mare”, dove la famiglia s’era rifugiata per sfuggire al colera. E ancora, nell’infanzia dello scrittore, la serva Maria Stella che lo inizia al terrifico mondo magico-popolare, che lo porta nella chiesa di Santo Spirito dove, sopra l’altare, si dispiega lo scenario bianco, come di sudario scosso e sagomato dal vento, degli stucchi del Serpotta, e, al colmo dell’arco trionfale dell’abside, un Padreterno – un padre! – si sporge e incombe, con spropositata apertura di braccia, sovrasta uno schiumoso fondale di nuvole colombe raggiere angeli santi. Si aggiunga il teatro di Agrigento, il luogo dove la storia s’è spenta, s’è bloccato il conato, e dove regnano vuoto, ammasso di pietre, colonne che si sgretolano, ipogei di zolfo e labirinti di cenere. Da questa profonda memoria, da queste assenze, violenze, da questi terrori crediamo sia nato il mondo pirandelliano, in questo lontano momento si sia spezzata la linea retta, abbia avuto inizio la parallela della sua postica: la sua dialettica, la infinita perorazione, la crudele conversazione che rimbalza da una parete all’altra della sua “stanza della tortura”. “Ciò che conosciamo di noi è però solamente una parte, e forse piccolissima, di ciò che siamo a nostra insaputa (..) E intendeva forse significare con questo che, oltre ai limiti della memoria, vi sono percezioni che ci rimangono ignote, perché veramente non sono più nostre, ma di noi quali fummo in un altro tempo…” dice Bobbio-Pirandello. Per queste percezioni, per queste impressioni seppellite nel buio di catacombe imrnemorabili – che mai le violino archeologi disincantati, freddi analisti di reperti ineffabili! – s’è prodotto strappo sul fondale d’una realtà apparente; su queste fondamenta vibranti di risonanze infinite i grandi architetti hanno costruito il loro mondo di verità ulteriore, la poesia della verità trascendente.
Quali mai sono state le percezioni, le impressioni, al di là d’ogni memoria, di Fabrizio Clerici? Su quale terreno di meraviglie, stupori, affanni, terrori poggia il suo straordinario mondo fantastico? Noi possediamo solo la mappa, anche fallace per la semplicità delle linee, per la perentoria evidenza del disegno, del suo percorso umano. Sappiamo della nascita a Milano, in quel centro storico di stradine circolari e labirintiche, di architetture discrete, di severi prospetti che dietro nebbie e fumi svanivano. Del primo suo altrove, della prima avventura nell’Umbria, all’abbazia di Montelabate, nella cui cripta scopre i cadaveri dei cappuccini – erano nudi e sulla terra distesi come Francesco o in orbace? In piedi e con paramenti come i prelati delle cripte di Palermo o seduti in poltrona come le badesse di un convento di Ischia?
La mappa ancora ci dice degli studi presso i Gesuiti di Roma. Nella Roma crogiolo d’ogni storia e mito, d’ogni fasto e decadenza, d’ogni rovina e reperto, delle dimore papali e delle fontane sonanti, del Bernini e del Borromini, dei marmi della chiesa di S. Ignazio, dei riti pomposi e degli esercizi spirituali, delle reliquie e delle volute oleose degli incensi. Ci dice ancora dei viaggi a Napoli e ai Campi Flegrei, ad Atene e a Constantinopoli, degli studi di architettura e della frequentazione di morgues e di teatri anatomici – un involontario Zumbo per necessità di vita – e delle fughe, le fughe verso gli orienti di civiltà e di idoli estinti, di deserti, di luci accecanti e di miraggi. Quale miracolosa alchimia si è compiuta tra il fondo immemoriale, le esperienze, le visioni straordinarie e la singolare, vertiginosa cultura di Fabrizio Clerici? E quale profondo disagio, quale malinconia della storia ha spinto l’artista a creare linguaggi inusitati, stabilire inediti, sorprendenti nessi sintattici?
La sua mano si è mossa per disegnare, dipingere, in una coazione, com’è nei veri artisti, in una ricerca, in un lavorio virtualmente infinito.
I primi rapporti sono i disegni famosi, La grande fame, Troppo visto, troppo sentito, Souvenir d’Italie, Stanchezza degli Omenoni, Crisi del secolo.., in cui si è abbattuta sul mondo una tragedia che è della storia ed è insieme del tempo, per cui si giunge alla tempera Recupero del cavallo di Troia, alla rappresentazione del simbolo bellico, dell’inganno blasfemo, della disumana scienza, dell’ordigno di tecnologia crudele che ha seminato devastazione e morte, ha creato la mutazione, ha generato la colpa, ha provocato la maledizione: nei legni consunti, calcinati, nel paesaggio roccioso e deserto, nel cielo striato di grigio si vede Hiroshima più che nella rappresentazione diretta della Piccola atomica.
Da qui crediamo derivino tutti i deserti, le città fantasmatiche, i labirinti, le architetture babeliche, le barche solari, i promontori goyeschi, da qui cerchi di pietra rotanti e il loro frantumarsi, e le apparizioni di litici falchi occhi arieti, di obelischi dagli alfabeti consunti. Da qui le stanze della crudele geometria, del vuoto, dell’assenza, dello sgomento d’un cavallo, delle bocche dei baratri, del sorgere di isole dei morti, malinconie, feluche infernali, sfingi, idoli, prosopopee d’un oltremondo d’inganno. Da qui l’uovo della morte, il teschio eburneo tra le pieghe d’una grazia di stucco, gli squarci tremendi nel sipario dell’abbaglio. Siamo di certo nel cuore del paesaggio leopardiano, nella notte illune di un pastore errante sul manto di lave, in cui è assente anche la ginestra, dello “sterminator Vesevo” o nell’assoluta desolazione del “gallo silvestre”: “Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta (…) Parimenti del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso”. O il sogno d’un ipogeo profondo, d’una catacomba del tempo, della bellezza, dell’arte, un Infero ermetico dove il melograno ha nutrito l’eterno.

Vogliamo affermare, e a questo punto in modo tardivo, che, oltre il simbolismo, il surrealismo, la metafisica, o grazie ad esse, nella nostra epoca, pochi artisti come Clerici, e meno i realisti, i didascalici, meno ancora forse gli apocalittici dell’astrazione, hanno saputo esprimere l’offesa, la profonda ferita della storia, l’angoscia dell’evento remoto e incombente, la malinconia del tempo, la pietà per il nostro destino.
Nessuno, in modo tanto forte, di fronte a noi, smarriti, attoniti, lontani e ciecamente brulicanti nell’anfiteatro precario del mondo, ha saputo accusare la Madre della nostra caduta, della nostra ferina mutazione, della nostra ottusa ferocia.
Su questo terreno di umano dolore, di pietà, di orrore durante una notte di tenebre spesse, di violenza, di sequestri processi condanne, di morti ammazzati sopra l’asfalto – su questo terreno convergevano L’uomo solo di Clerici e L’affaire Moro di Sciascia – e da un ultimo incontro con la signorelliana Divina Commedia nascevano le straordinarie tavole, i disegni dei “Corpi di Orvieto”. Il corpo umano, l’uomo, la meraviglia del mondo, che nel Giudizio Universale del Duomo di Orvieto, nel miracolo della cappella di
S. Brizio, il Signorelli ha esaltato nella virginale armonia, nella luminosa innocenza di una resurrezione, ha mostrato tremulo, fuggente in preda al terrore d’un finimondo incombente; fulminato, offeso, violentato nel dominio del Male; e decaduto, dilaniato, soffocato nel groviglio terribile con i corpi di demoni verdastri, cinerini, bluastri, muniti d’escrescenze, pelami, membrane ripugnanti, dopo la definitiva condanna…
La chiave di lettura del poema del Signorelli da parte di Clerici fu l’incontro fortuito del suo sguardo con un particolare d’una delle pareti affrescate. “Nel piccolo spazio di un rettangolo un tavolo rovesciato, tra cavalieri armati che lottano fra loro e un gruppo di dame terrorizzate in quel caos imperante, diventa simbolo della violenza circostante e assume così la funzione di protagonista della rappresentazione di quella mischia” racconta.
La violenza, l’orrore: Clerici coglie in quell’aleph nascosto, quasi invisibile il sentimento che mosse la mano di Signorelli a Orvieto, il suo rimandare a violenze, orrori medievali, a quelli d’ogni passato e d’ogni futuro; coglie il dolore, la crisi di quell’uomo, di quell’artista per la morte del figlio, la crisi di quel mondo d’armonia attica che fu il Rinascimento. “Essendogli stato ucciso in Cortona un figliolo che egli amava molto, bellissimo di volto e di persona, Luca così addolorato lo fece spogliare ignudo, e con grandissima costanza d’animo, senza piangere o gettar lacrima, lo ritrasse, per vedere sempre che volesse, mediante l’opera delle sue mani, quello che la natura gli aveva dato e tolto la nimica fortuna” narra Vasari. Clerici rapporta la violenza di Cortona, di quel tempo, alla violenza del suo, del nostro tempo all’orrore per l’offesa alla vita, per lo scempio d’una nobile essenza, sembianza; quel dolore di allora di un uomo al dolore ora di ognuno per l’armonia che viene bandita dal mondo.
In un prezioso diario dell’estate-autunno del 1981, nella sua casa presso Siena, il pittore ci racconta la fatica, il travaglio, la pena nel dipingere quella sequenza orvietana. Ci rivela, come solevano fare gli antichi maestri, quella sua stagione di possessione, ossessione, furore creativo, le misure rigorose, ineludibili della sua lucida, tagliente geometria, la tormentata conquista degli equilibri assoluti nelle sue architetture allarmanti. Egli legge – lo diciamo nel senso latino di scegliere, cogliere – brani, frammenti del grande libro signorelliano e li fa suoi, li trasferisce nella cripta sotto il suolo della memoria, li riporta alla luce, alla scansione del tempo, alla sua poetica, li dispone nel suo spazio, nelle stanze della ritrazione e della riflessione, negli antri cumani delle profezie inquietanti.
“La stanza è la testimonianza di una passata violenza. Quello che noi vediamo è come attraverso il filtro del tempo, è come una peluria di luce, peluria cromatica che fa pensare alla polvere, tutto è molto pulito, tutto è molto terso, ma tutto avviene attraverso un leggero pulviscolo, come delle diafane emanazioni di luce, di una luce che non si sa proprio da che parte arrivi…”. E non si sa proprio da che parte arrivi questa pittura orvietana di Clerici, questa teoria di scene dove non si scorge più sforzo fonetico, traccia di segno, travaglio sintattico, dove tutto si mostra conchiuso e compatto, d’improvviso venuto da un’obliata distanza, da un’ignota curva del tempo. Certo l’allarme, l’inquietudine è subito per la sua “pelle” levigata di perla, di lucore sommesso, chiarore di pergamena, fissità del mistero. E dunque nel testo, la fuga di assi interrotta da una buca, “impronta di bara”, su cui, imbrigliato da corde d’aloe o di canapa, sta sospeso il gran masso, il frammento d’affresco, il papiro, la terzina incompleta che dice del giovane corpo riverso, sparsi i capelli, attoniti gli occhi: sul torso ormai fragile premono piedi, rotule ferree; le sedie rovesciate, i frammenti di osso dicono che qui ancora e sempre s’è compiuto l’oltraggio, s’è perpetrato il delitto, s’è celebrata l’infamia. Altra stanza, con fuga prospettica del pavimento e mattonelle divelte, quadri su cavalletti in piani paralleli contro il piano della parete: sono ancora, in variazione di toni, sfumature di tinte, modulazioni di luce, giovani corpi riversi e oppressi. E ancora, anelli in convergenza e in controluce, in penombra, su convergenza di luci, riverbero tenue d’un fuori deserto. La stazione ulteriore è il faccia a faccia di due dipinti, e in quello visibile, centro del dramma, l’atroce più acuto, un cappio tirato da forza brutale che finisce un inerme. Si ripete la scena in un tempo seguente in cui avviene che una nuvola lieve abbassa i toni, proietta le ombre il grido si fa compianto.

Siamo, in questa clericiana sequenza pittorica dei “Corpi di Orvieto”, e nel coro de disegni, siamo per Signorelli, come prima per Hböcklin, nella pittura dentro la pittura. Siamo nel dramma barocco, nel Sogno di Calderon, nel teatro dentro il teatro dell’Amleto, nella rappresentazione luttuosa, nella stanza dove dialetticamente si scontrano e conflagrano idea e fenomeno, allegoria e storia, geometria e caos, ragione e delirio, armonia e violenza. E dove il mondo si copre di tenebra per un’eclisse totale di sole.

Milano, 25 settembre 1996
Vincenzo Consolo

Vincenzo Consolo

“Ricordando Fabrizio Clerici”

Prolusione presso l’Accademia Nazionale di San Luca, Roma 10 giugno 1994….

La mia, naturalmente non è una relazione, è solo un breve ricordo di Fabrizio Clerici.

Era quello di Clerici, sul mondo, uno sguardo leopardiano, del poeta della Ginestra, dell’Infinito del Pastore errante. Era lo sguardo su colpi di lava, di basalto, che hanno coperto, cancellato ogni vestigia di vita, ogni segno umano. Lo sguardo sugli infiniti spazi di smarrimento, panico; su sconfinate distese, desolanti, sotto celi notturni.

Era, quello di Fabrizio Clerici, dolore per il fluire inesorabile del tempo; per l’inconsistenza della storia, era la compassione per il destino umano: malinconia del passato, struggimento delle rovine, insopportabilità d’ogni presente misero e atroce.

Erano, i suoi mondi di pietra, le sue distanze, le sue stasi campannelliane, le sue allarmanti apparizioni nelle stanze, i suoi vuoti, le sue quieti, il suo onirismo e la sua metafisica; non erano dunque che difesa, schermo, un travaglio incessante, d’un assillo senza tregua, d’un dolore senza rimedio.

Per parte mia voi sapete, vorrei sottrarmi dalla tempesta insana d’ogni sentimento; percorrendo a ritroso vecchi antichi sentieri della storia, questo tempo umano del conato, del movimento ceco, incontrollato, fino al punto oscuro, iniziale per cui si passa nell’immota eternitate da cui veniamo; nel tempo senza soli e senza lune, giorni e stagioni, natività e morte, del vuoto e del silenzio, nell’immensa stasi, la somma e infinita quiete metafisica.

Oggi, sta in quella quiete Fabrizio Clerici, a noi, del suo passaggio in mezzo alla tempesta, nella sua sosta sopra le lave dello sterminato corso reso, l’eredità di un arte sublime e umanissima; la testimonianza della compassione per il dolore che ognuno ha anche ignorato, compassione per il mondo.

A me, come ad altri scrittori, il dono speciale, per mezzo della sua arte, della sua personalità, dell’ispirazione di un racconto.