La Sicilia passeggiata Vincenzo Consolo fotografie di Giuseppe Leone

Prefazione

di Gianni Turchetta

Da molti anni speravo di ripubblicare La Sicilia passeggiata. E mi piace ricordare subito come anche Caterina, la compagna di una vita di Vincenzo Consolo, lo desiderasse molto. Benché rimasto appartato, e conosciuto quasi solo dagli specialisti, questo testo, come potrete presto constatare, esercita sul lettore una seduzione intensa, fatta di leggerezza e profondità, dinamismo e erudizione. Queste qualità sono rilanciate e riecheggiate a ogni pagina dalla forza vibrante e dalla fulminea capacità di condensazione visiva e simbolica delle foto di Giuseppe Leone.

In La Sicilia passeggiata narrazione, poeticità e saggismo si fondono felicemente, integrandosi nell’evidenza dinamica degli spostamenti, marcata a ogni passo dai verbi di moto. Si veda l’attacco, tra avventuroso e onirico: “Sospinti dal vento, immaginiamo d’approdare” (p. 17). È una trama lieve e decisa, che quasi sospinge il lettore: “Non sostiamo. Procediamo” (ibidem), “Siamo giunti” (p. 18), “è da qui che vogliamo partire” (ibidem); o ancora: “Abbandoniamo” (p. 46), “Dalla piazza di Scicli voliamo” (p. 48), “Andiamo avanti, avanti” (p. 76), “Salpiamo da Porto Empedocle” (p. 96) e così via. In prima approssimazione, il viaggio attraverso cui Consolo ci guida va da Oriente a Occidente. Si parte dalla necropoli di Pantàlica, per poi raggiungere i Monti Iblei, il Val di Noto, Scicli, e poi Còmiso, Vittoria, Ragusa Ibla, Modica, Siracusa, e ancora Enna, i paesi dello  zolfo e quelli del latifondo, fino a immettersi “nell’antica strada che congiungeva Arigento a Catania” (p. 90), arrivare a Gela, Agrigento e la Valle dei Templi, Porto Empedocle, proseguendo per Sciacca, Caltabellotta, Selinunte, Salemi e Calatafimi, e poi Segesta, Trapani, e da qui ancora Èrice e Mozia, le Égadi, fino a Palermo, già punto d’arrivo del viaggio siciliano di Goethe. Ma il movimento fisico è solo l’asse portante di una fitta sequenza di scorribande attraverso il tempo e lo spazio, in un andirivieni senza soste, modulato da continue transizioni tematiche. L’inarrestabile fluidità del discorso è del resto dichiarata apertamente, e coincide con il desiderio di una conoscenza efficace proprio perché pronta a riconoscere un’irriducibile pluralità: “vogliamo partire”, infatti, “per un nostro viaggio, per una nostra ricognizione della Sicilia, per inventarci, liberi come siamo da confini di geografia, da limiti d’epoca storica o da barriere tematiche, un modo, tra infiniti altri, per conoscere quest’isola al centro del Mediterraneo, questo luogo d’incrocio d’ogni vento e assalto, d’ogni dominio e d’ogni civilizzazione.” (p. 18)

Si viaggia, insomma, sotto il segno della molteplicità, caratteristica dell’identità della Sicilia, ma anche del Mediterraneo tutto, come Consolo ha ribadito per una vita intera. Né possiamo dimenticare quanto la pluralità (di lingue, di stili, di generi) sia il cuore della sua ricerca artistica. Il movimento che sospinge La Sicilia passeggiata è incardinato, originalmente, su una prima persona plurale: dove il “noi” è pluralis majestatis, ma piuttosto sobria allusione a una possibile piccola compagnia di viaggiatori. Proprio per questo il “noi” assume una movenza esortativa, come d’invito al lettore a viaggiare insieme all’autore: stabilendo così una sorta di intimità, di vicinanza affettiva oltre che culturale. Non dimentichiamo che questa è una “Sicilia passeggiata”, dove il riferimento alla “passeggiata” non è disimpegno, ma possibilità di conquistare un peculiare regime di leggerezza e libertà, che si fa garanzia di conoscenza, perché capace di accogliere le ragioni della storia insieme a quelle del mito e del sogno, e dunque della poesia. D’altro canto, La Sicilia passeggiata, come è tipico dell’odeporica, della letteratura di viaggio, è sì racconto, ma sempre sorretto da informazioni e spunti lato sensu saggistici: come del resto tutto quello che scrive Consolo. La scelta del titolo è tuttavia segno di differenze profonde rispetto ad altri testi ch’egli scrive in quegli anni. Proviamo a metterle a fuoco.

Quello che poi diventerà La Sicilia passeggiata esce per la prima volta col titolo Kore risorgente. La Sicilia tra mito e storia, in un lussuoso volume hard cover (cm. 29×25), Sicilia teatro del mondo, pubblicato da Nuova ERI / Edizioni RAI nel settembre 1990. Di questo volume costituisce la “metà” letteraria, affiancata, oltre che dalle fotografie di Giuseppe Leone, che già dialogano con il testo consoliano, da un bel saggio di Cesare De Seta, Teatro geografico antico e moderno del Regno di Sicilia, che racconta la storia siciliana a partire dall’omonimo volume uscito a Madrid nel 1686, del cui sontuoso apparato iconografico si riproducono circa cento stampe, su cartoncino. Entrambi i testi sono tradotti in francese (da Nicole Dumoulin) e in inglese (da Richard Kamm). Pochi mesi dopo, nel febbraio 1991, il testo di Consolo e le fotografie di Giuseppe Leone diventano però un volume autonomo, stavolta in un agile formato paperback (cm. 24×14), edito ancora da ERI, con il titolo che qui riproponiamo.

Rispetto alla storia della scrittura di Consolo, La Sicilia passeggiata si colloca fra due opere diversissime, ma che sono entrambe, a loro volta, il racconto di un viaggio in Sicilia. La prima è il romanzo Retablo (1987), ambientato nel 1760-1761, in un Settecento volutamente remoto e irreale, mezzo storico e mezzo fantastico, in opposizione alla deludente realtà storica. La seconda è L’olivo e l’olivastro (1994), viaggio stavolta autobiografico, ancora più apertamente polemico contro il degrado del presente, incardinato sullo schema omerico del nòstos (evocato fin dal titolo, ch’è citazione dall’Odissea). Numerosi spunti odeporici compaiono anche in Le pietre di Pantalica (1988): a prima vista un libro di racconti, ma in realtà frutto della fusione di un originario impianto romanzesco con un pacchetto di narrazioni autobiografiche. Più esili sono invece i rapporti con il romanzo storico Nottetempo casa per casa (1992, Premio Strega)[1]. Proprio il confronto con gli altri due viaggi in Sicilia aiuta a delineare con nettezza, per differentiam, i contorni di La Sicilia passeggiata. Per dirla in pochi cenni, è vistosa anzitutto la distanza rispetto alla fiction di Retablo, con cui pure ci sono non pochi fascinosi elementi di contatto (come i rimandi alla visita goethiana alla grotta di Santa Rosalia, che in Retablo però compare all’inizio, mentre qui è in chiusura). Ma non meno evidente è lo scarto rispetto all’impianto poematico, stilisticamente “alto”, tragico, di L’olivo e l’olivastro, che intreccia il viaggio in Sicilia con la rievocazione delle vicende di personaggi storici rilevanti nella storia dell’isola (Empedocle, Verga, Caravaggio, Maupassant, Saverio Landolina, August von Platen, il giudice Ciaccio Montalto, ucciso dalla mafia, e altri ancora). La copia postillata dall’autore di La Sicilia passeggiata mostra, significativamente, ipotesi di interventi che avrebbero non solo ampliato materialmente il testo, ma anche contribuito a spostarne l’intonazione verso l’alto e i contenuti verso la deprecatio temporis, sospingendolo verso quello che sarà poi L’olivo e l’olivastro. Ma i due libri vanno in realtà in direzioni molto diverse, quasi opposte. Se L’olivo e l’olivastro è infatti tutto teso a sottolineare “i processi di imbarbarimento, di perdita, di orrori”, come dichiarato in un’intervista, La Sicilia passeggiata intende invece valorizzare la ricchezza storica, artistica e naturale dell’Isola, per coglierne l’irriducibile complessità. Come osserva opportunamente Ada Bellanova, “l’attenzione per gli esseri umani e gli intrecci di identità diverse diventa in La Sicilia passeggiata il nodo centrale dello sforzo di dire”[2]. Senza contare l’importanza del rapporto, assai stretto e in qualche misura fondativo, fra il percorso e l’apparato fotografico che lo accompagna, collocandolo in una piccola tradizione di libri dove il testo di Consolo sta accanto a foto dedicate a “luoghi geografici, specialmente siciliani”[3].

Certo anche La Sicilia passeggiata conferma, con la densità dei suoi riferimenti alla classicità greco-latina, l’appartenenza a una stagione di riavvicinamento all’antico, che si fa misura del degrado e della corruzione del presente. Ricordiamo anche la tragedia Catarsi (1989), dedicata alla morte di Empedocle. Consolo si mostra ben consapevole delle differenze tematiche e tonali proprio nel momento in cui, invece che integrare e ampliare La Sicilia passeggiata, decide di scrivere un altro libro, molto più cupo, “alto” e polemico, come L’olivo e l’olivastro. La Sicilia passeggiata va letta, anzitutto, nella chiave della complessità e dell’ambivalenza, che Consolo ritrovava già in Goethe: “Isola dell’esistenza pura e contrastante. Isola dell’infanzia, dei miti e delle favole. Isola della storia. Di storia dei primordi, degli evi di scoperte e di conquiste. Storia di classici equilibri, di decadenze, di crolli, di barbarie. Crogiuolo di civiltà, babele delle razze e delle lingue. Enigma mai risolto è la Sicilia, è archetipo, aleph, geroglifico consunto, alfabeto monco” (p. 18). Dove la contraddizione originaria è anzitutto quella più assoluta e irriducibile: il contrasto fra Vita e Morte, evocato già dal primo titolo, Kore risorgente, che allude alla storia di Persefone, sposa di Ade e regina dell’Oltretomba, che ogni sei mesi torna all’aperto dalla madre Demetra e fa rifiorire la Terra. Non a caso, del resto, questo viaggio siciliano comincia dalla necropoli protostorica di Pantàlica: “vogliamo partire da questo luogo estremo e abissale, da questa soglia per cui si passa dalla scansione della storia all’oscurità del tempo, all’eterno circolare e immoto […]. Poiché Pantàlica è sì un luogo di morte, ma è insieme luogo di resurrezione, di cominciamento: è luogo-simbolo di questa complessa e contrastante terra di Sicilia, della sua storia di ricorrente distruzione e di rinascita” (p. 20). In una direzione analoga vanno molte altre storie evocate: come quella del catastrofico terremoto in Val di Noto del 1693, da cui poi nacquero alcune delle più straordinarie realizzazioni artistiche del barocco siciliano. Ma persino lo spaventoso groviglio di contraddizioni che è Palermo la Rossa, su cui si chiude il libro, riconferma una dinamica analoga. Santa Rosalia, infatti, la “Santa estatica” patrona di Palermo, coincide con “tutte la Sante vergini di Sicilia, Agata Lucia Venera Ninfa, ed è insieme Kore e Persefone”, e si colloca dunque di nuovo sotto il segno della vita che rinasce, di Demetra che torna alla superficie e alla luce: “Come fa l’ape nella primavera, come fa la primavera della storia” (p. 138). Con questa certezza anche noi, dopo tanto buio, ricominciamo il nostro viaggio.

RINGRAZIAMENTI. Un grazie specialmente sentito va a Giuseppe Leone, che per la presente edizione ha rivisto e arricchito lo splendido apparato fotografico: così questo libro è un ritorno, ma anche un libro nuovo. Grazie, di cuore, a Claudio Masetta Milone, che mi ha rivelato le postille di Consolo al volume, e a Francesca Adamo, che ha creduto in questo libro e ne ha curato con competenza impaginazione e redazione.


[1] Per una ricostruzione dettagliata della storia delle opere a cavallo fra fine anni Ottanta a primi anni Novanta mi permetto di rimandare a G. Turchetta, Note e notizie sui testi, in V. Consolo, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di G. Turchetta, e con uno scritto di C. Segre, Mondadori, Milano 2015, pp. 1351-1425.

[2] A. Bellanova, Un eccezionale Baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI) 2021, p. 28.

[3] Ivi, p. 25n.

Vera o di marmo, cosi Paolina sedusse Soliman

 

di Vincenzo Consolo

 

Ancora lei ci spinge a scrivere, la libera donna di Ajaccio, la “paganetta”, la generalessa d’ogni conquista amorosa, la dominatrice d’ogni Impero dei sensi, la legislatrice d’ogni regno del lusso e del gusto, l’impareggiabile Paolina Bonaparte, riapparsa da poco a Villa Borghese nella sublime formalizzazione canoviana, nella serena sua nudità, nella sua divina, trionfale bellezza. Riapparsa lontana e intoccabile per noi volonterosi pellegrini intruppati nella fila serpeggiante davanti al museo, individui privi di quei sogni, di quelle fantasie di cui sono dotati i poeti.

Loro sì, i poeti, sono in grado di allungare la mano, di toccare, carezzare quelle splendide forme, far palpitare di vita quel levigato, gelido marmo.

Le statue, si sa, hanno spesso sedotto, spinto a forzare la barriera della materia sorda, a sprofondare nel gorgo della forma, a possedere l’apparenza della beltà. Freud ci ha dato un esempio di questo dolce delirio nel saggio sul racconto Gradiva di Wilhelm Jensen. Ma al di là dell’analisi del profondo, tornando alla superficie, alla forma, ricordiamo le ispirate parole di Guy de Maupassant davanti alla statua della Venere Anadiomene di Siracusa:

“Essa chiama la bocca, attira la mano, offre ai baci la palpabile realtà della carne meravigliosa, della carne elastica e bianca, rotonda, ferma, deliziosa sotto l’amplesso”.

Difficile andare oltre le sensuali fantasie dell’autore di Bel Ami. Molto al di qua è rimasto, ad esempio, per aver introdotto nel calore del trasporto la fredda lama dell’ironia, o la rondistica geometria, Antonio Baldini di fronte alla nostra Venere, a Paolina. Paolina fatti in là s’intitola il suo racconto. Ma com’è esitante la mano che sfiora quel marmo, come formale la sua carezza.

”E se tenevo  chiusi gli occhi e salivo con la mano, non c’era parte del braccio che sotto le mie dita non rispondesse come vera carne. E quando le passai le mani sul capo, i riccioli mi piovevano tra le dita dalla nuca rotonda”.

Passando dal realismo magico di Baldini al real meraviglioso di Alejo Carpentier, vediamo, di fronte alla bianca, luminosa statua della Venere canoviana altro furioso rapimento, altra sensuale vertigine, l’altra mano audace e sapiente accarezzare, risvegliare e far vivere quel marmo. È la mano questa volta del negro antillano Soliman, personaggio de Il regno di questa terra del grande scrittore cubano, poco letto da noi, sepolto ormai dalla recente gran piena letteraria latino-americana. Scrive Carpentier: “Toccò il marmo con mani avide, e odorato e vista si trasferirono nelle dita. Toccò il seno. Fece scorrere il palmo sul ventre e il mignolo si fermò nella depressione dell’ombelico. Accarezzò la tenera curva della schiena, come per voltare il corpo. Le dita cercavano i fianchi rotondi, le delicate cosce, la purezza del seno e ritrovarono lontani ricordi, gli riportarono dimenticate

immagini […].  Con un grido terribile, come se gli sfondassero il petto, il negro prese a urlare, più forte che poteva nel vasto silenzio di palazzo Borghese”.  Quella mano di Soliman che scivola sul marmo, sull’ideale bellezza suggellata dalla forma neoclassica, la cui canoviana estremizzazione insinua il pensiero del più splendido arresto e della morte è una bella metafora dell’incontro della civiltà, della cultura nostra europea, mediterranea, con la cultura delle popolazioni del Nuovo Mondo. Carpentier, del resto, su quest’incontro ha scritto molti sui romanzi, da Il secolo dei lumi a L’arpa e l’ombra, a Concerto barocco.

Il regno di questa terra narra del colonialismo francese nell’isola di Haiti, del governatorato, sotto Napoleone, del generale Leclerc, della rivolta degli schiavi, della presa del potere nell’isola da parte del re negro Henri Christophe.  Leclerc muore di colera, la moglie Paolina torna in Francia e quindi sposa il principe Camillo Borghese. Nel palazzo di Roma, che Paolina aveva abbandonato per trasferirsi a Parigi, vengono ospitate, dopo l’assassinio del re Christophe, la vedova e le figlie. Con loro è l’ex schiavo Soliman, che era stato, a Cap-Haïtien e all’Ile de la Tortue, valet de chambre e massaggiatore di Paolina.

“Mentre Soliman le faceva il bagno, Paolina traeva un piacere perverso nello strofinare il corpo, sott’acqua, contro i fianchi di lui, poiché sapeva che egli era continuamente tormentato dal desiderio”.

Carpentier, nel romanzo, non si discosta dalla realtà storica (riscontro si può trovare nel libro Paolina Bonaparte di Geneviève Chastenet, recentemente edito da Mondadori e di cui questo giornale ha pubblicato stralci il 9 luglio u.s.).

Sulla realtà storica lo scrittore cubano fa germinare il suo musicale linguaggio, le sue letterarie fantasie, i suoi personaggi. Personaggi come Soliman, la cui mano sul marmo e il cui urlo hanno la forza dirompente e liberatoria di un rito vudù, della vita che vince la forma. È come se nei versi “canoviani”di Foscolo s’introducessero, per scardinarli, il patois e il ritmo del poeta antillano Derek Walcott, l’autore della Mappa del Nuovo Mondo

Da il Messaggero  del 31.7.1997

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L’olivo e L’olivastro. Le due Sicilie di Consolo.


Potrebbe essere l’incipit del più noto romanzo di Vincenzo Consolo, il romanzo che costituì l’avvenimento letterario di quasi vent’anni fa e rivelò prepotentemente alla critica e al pubblico, soprattutto, lo scrittore siciliano. Ci si riferisce a Il sorriso dell’ignoto marinaio, che come si sa prende spunto, anche se lo scenario storico è quello delle vicende siciliane negli ultimi decenni del dominio borbonico dal celebre dipinto antonelliano conservato al Museo Mandralisca di Cefalù, il cosiddetto Ritratto d’ignoto, citato perfino nel titolo del romanzo. In quest’opera il sorriso dell’uomo ritratto nel dipinto di Antonello da Messina, sorprendentemente simile a quello di un marinaio incontrato dal barone Mandralisca sulla nave che lo portò da Lipari a Cefalù, rappresenta un preciso leitmotiv. Eppure la citazione iniziale non è tratta dal Sorriso dell’ignoto marinaio, bensì dall’ultimo volume di Consolo, L’olivo e l’olivastro. L’enigmatico sorriso antonelliano, dunque, continua a impressionare fortemente lo scrittore, in questo libro non è più un leitmotiv, vi appare solo un attimo, occupa poco meno di una pagina a tre quarti del libro, però è una sintesi emblematica che spiega esemplarmente il significato de L’olivo e l’olivastro.
Il viaggio di Consolo nella Sicilia odierna, novello Ulisse alla ricerca di una perduta Itaca, rivela una realtà in pieno disfacimento culturale, etico e ambientale, disumanizzata in nome di un falso progresso, che rischia di smarrire la propria identità e la propria memoria storica. Il profondo malessere esistenziale dell’autore, che sta alla base di questo libro indefinibile quanto genere letterario perché può essere letto come un saggio o un romanzo anche se alla fine propende più per il poema lirico si coglie proprio nell’immagine di quel Ritratto di Ignoto. L’uomo dipinto da Antonello ora per lo scrittore non ostenta più compiaciuta sicurezza nell’intelligenza dello sguardo e nell’ironia del sorriso: i suoi occhi sono chiusi, il sorriso si è tramutato in smorfia. Questa metamorfosi è allegorica, in fondo per certi versi paragonabile alle dicotomie di Stevenson e Kafka, perché se da un lato rappresenta l’equilibrio classico della razionalità, la fiducia nei valori, dall’altro simboleggia il delirio barocco dell’irrazionalità, la paura del vago. Vincenzo Consolo lancia anatemi per denunciare il degrado che segna inesorabilmente la Sicilia e le colpe di cui essa tutt’ora si macchia, ma in questa sua indignazione morale, in questa sua tensione civile, c’è la segreta speranza per un futuro migliore, la speranza forse nel riscatto umano e sociale di un’isola che diventa metafora di tutto un paese e del mondo intero.

L’olivo e l’olivastro è, insomma, opera di uno scrittore che, rifiutando la diffidenza o l’evasione, si sente ancora motivato, crede nell’impegno dell’intellettuale, ha una missione da compiere. Il pessimismo di Consolo, dunque, a ben guardare, non rasenta l’annullamento alla Beckett, di Aspettando Godot per intenderci, perché quest’ultima sua prova letteraria, alla fin fine, è una dichiarazione d’amore nei confronti di un’umanità non ancora perduta. L’ideale richiamo a La terra desolata di Eliot non si può tralasciare ( tanto più che questo testo è perfino citato esplicitamente), ma non ci sono approdi metafisici in Consolo, perché la sua fede è laica, la sua speranza è tutta terrena. D’altra parte L’olivo e l’olivastro, non a caso, già nel titolo stesso mette in risalto le due anime della Sicilia e Consolo per questo è ricorso, con felice scelta, a un’immagine dell’Odissea.
L’olivo e l’olivastro, infatti, nascono dal medesimo tronco, ma hanno sorte diversa, simboleggiano il contrasto tra il coltivato e il selvatico, l’umano e il bestiale, la salvezza nella cultura o la perdita di sé in un destino puramente naturale. La scrittura fluisce quasi magmatica, non sostenuta da una vera e propria trama, secondo una peculiarità stilistica di Consolo; la sua preoccupazione, tuttavia, qui non è tanto il raccontare qualcosa organicamente, quanto far evidenziare lo stato di disagio interiore dinanzi ad un mondo che non riconosce più, un mondo dal passato glorioso, addirittura mitico, ora ridotto in cenere dagli scempi ambientali, dalla corruzione politica, dalla sanguinosità della mafia, dall’omologazione sociale, dal consumismo della civiltà post -industriale che non rispetta secolari tradizioni e cancella i segni di una singolare cultura millenaria. Il viaggio di Consolo, quindi, è davvero il viaggio di un Ulisse disperato, che non si dà per vinto, però, e che nel suo peregrinare oppone alle violenze del presente folgorazioni senza tempo dove gli appaiono figure ed eventi straordinari: i leggendari mostri di Scilla e Cariddi e gli armenti del Sole descritti nell’Odissea; Pirandello che rende omaggio a un Verga vecchio e deluso; Caravaggio intento a dipingere per la siracusana chiesa di Santa Lucia al Sepolcro una sacra effige giudicata oscena dal vescovo per il suo drudo realismo. L’autore, tra un gorgoglio lessicale di “sicilianerie”, che stuzzica il ricordo e la nostalgia (anche se il potere evocativo della parola non servirà comunque a scongiurare l’oblio), percorre i luoghi epici e domestici di Omero e dei Malavoglia, segue le orme di viaggiatori illustri come Goethe e Maupassant, vagola nei paesi distrutti dai terremoti o dall’insipienza degli uomini, lasciandosi prendere dallo stupore ogni qualvolta paesaggi lui familiari disegnano l’orizzonte: “Ora remote, lievi, diafane come carta o lino, ferme o vaganti in mare, sospese in cielo, ora invisibili come cortine di nuvole, ora avanzanti, prossime alla costa, scabre e nitide”. E’ una fiabesca visione delle Eolie, dettata forse da una suggestione quasimodiana, dove lo scrittore può abbandonarsi alla poesia, a quegli squarci lirici che insieme agli inserti romanzeschi costituiscono le uniche, vere accensioni per il lettore. Bisogna dire, in effetti, che una certa discontinuità in quest’opera di Consolo c’è, ma la sua risulta un’operazione riuscita complessivamente, grazie all’attenta ricerca linguistica. Musicalità e sapienza nell’amalgamare bene cronaca a prosa aulica, poesia a documento, contribuiscono sensibilmente a fare de L’olivo e l’olivastro un libro interessante con un grande pregio, quello di spingere alla riflessione, espressionisticamente mettendo in luce il problema ecologico con un procedimento che ricorda in qualche modo, sia pure trasposto in termini cinematografici, Sogni, l’ultimo film del grande regista giapponese Akiro Kurosawa.

Sergio Palumbo
(articolo tratto da “nuovo notiziario delle Isole Eolie” – Ottobre 1995)

29 aprile 1994: cronaca di una giornata

Vincenzo Consolo

Più nessuno mi poterà nel sud commentava Quasimodo. Invece – se m’è concesso il confronto – io nel sud ritorno sovente. Da Milano, dove risiedo, con un volo di un’ora e mezza, atterro in Sicilia. Dalla costa d’oriente o d’occidente, ogni volta, come per ossessione, vizio coazione a ripetere, celebrazione d’un rito, percorro l’isola da un capo a un altro, vado per città e paesi, sperduti villaggi, deserte campagne, per monti e per piane. per luoghi visti e rivisti non so quante volte; incontro vecchie persone, ne conosco di nuove; registro ogni volta, in quella mia terra, che esito a chiamare patria come invece con foga la chiama il poeta, il degrado continuo, le perdite irreparabili, la scomparsa d’ogni vestigia ammirevole, l’inarrestabile imbarbarimento, gli atroci misfatti, gli assassini, le stragi, il saccheggio d’ogni memoria, d’ogni reliquia di civiltà e bellezza. Vado in Sicilia e ne fuggo ogni volta, ritorno a Milano, la città dove da sempre, fuggendo dal Sud, si sono rifugiati poeti e scrittori, artisti, credendo trovarvi, via dalla periferia, da una mediterranea deriva, vicino a un centro d’Europa, per illuministici retaggi, per eredità di probo governo, decenza civile, rispetto di leggi e diritti, a Milano, in Lombardia, in un Nord di lavoro e sviluppo dove da sempre sono emigrati, come da ogni Sud d’immobilità, privazione e offesa, masse di lavoratori in cerca di un nuovo destino. Ritorno a Milano e scrivo, riverso nelle parole, nella scrittura, in racconti e diari, cronache d’avventure sempre uguali e sempre nuove negli esiti orrendi, pene e furori, rimpianti e denunzie, malinconie e invettive. Credo sia questo ormai il destino d’ogni ulisside d’oggi, di tornare sovente nell’Itaca del distacco e della memoria e di fuggirne ogni volta, di restare prigioniero nella reggia d’Alcinoo, in quel regno di supposta utopia, d’irreale armonia, condannato a narrare all’infinito, come un cieco cantore, un vecchio svanito, i suoi nostoi, le sue odissee. E questo che sto facendo ancora da alcuni mesi, faccio in questo giorno di scorcio d’aprile: narro del mio ultimo viaggio dell’estate scorsa in Sicilia, scrivo un libro che Porta un titolo, L’olivo e l’olivastro, colto in Omero, nell’episodio in cui Ulisse naufrago della grande tempesta, nudo e martoriato, mette piede a Scheria, sulla terra del Feaci, si rifugia sotto due arbusti nati da un medesimo Cippo: uno d’olivo, l’altro d’olivastro. Mi è sembrata l’immagine, un simbolo della biforcazione, dei due sentieri o destini che s’aprono nella vita d’un uomo, nell’a storia d’un paese; del coltivato e del selvatico, del civile e del barbarico. Mi è sembrato il simbolo più pregnante della Sicilia, la quale diventa sempre, come si dice, metafora dell’Italia (dell’Europa, del mondo?). In questo penultimo giorno d’aprile, dopo aver attraversato lo Stretto di Messina, aver scansato il rischio mortale di Scilla e Cariddi, aver lasciato sulle falde dell’Etna i mostruosi Ciclopi, dentro la sua caverna di lava il bestiale Polifemo, mi trovo a girare per Siracusa, a muovermi nel cuore d’Ortigia, nelle altre parti di questa antica metropoli, il Tiche, Acradina, Epípoli, Neapoli, nel presente suo squallido e oscuro e il passato suo di potenza e splendore. Muovermi tra la retta e la spirale, il rigore e la grazia, il teorema d’Archimede e la poesia di Pindaro, l’equilibrio dorico e il capriccio barocco, nella piazza a forma d’occhio dove regna Lucia, la signora della luce e della vista. Sta la santa Sibilla dei messaggi visivi nell’antro dove sono ingemmate, in trionfo di mura cristiane, greche colonne di pura geometria, dov’è incastonato il tempio d’Atena, la dea dell’olivo e dell’olio, del nutrimento e della luce, della ragione e della sapienza. Mi trovo, confuso, smarrito, in questo teatro di profonda memoria, di continui richiami, in questa scena odierna di degrado e macerie, deserta di parola, poesia, in questa cavea di urla e fragori, sotto un cielo di spesse caligini, presso un mare di petroli e liquami. In Siracusa è scritta la storia dell’infinito tramonto della civiltà nostra e cultura, dell’umano sentire, è impressa la notte della ragione e della pietà Questo ventinove aprile mi alzo all’alba, come ogni mattina, scrivo dell’ultimo tramonto di Siracusa attraverso il racconto di personaggi che in quella città son passati nel momento più drammatico della loro vita, uomini prossimi alla fine. Racconto del disperato Caravaggio che, fuggito dal carcere a Malta, approda in una Siracusa stremata da terremoti, carestie e pesti, immersa nel buio della Controriforma, dipinge per una chiesa il grande quadro del Seppellimento di Santa Lucia: il cadavere gonfio d’una fanciulla posto a terra, due ignudi becchini in primo piano che scavano la fossa, gli astanti schiacciati alla parete alta d’una latomia, la luce livida d’una catacomba. Racconto del ceroplasta siracusano Zummo che crea teche, teatri di peste, di contagio, di cataste di cadaveri in decomposizione, di avelli di scheletri, di mummie su cui scorrazzano topi, gechi, degli effetti sui corpi della sifilide; crea con le cere colorate perfette anatomie di teste, membra, organi… Racconto di un’arte necrofila, maniacale per cui lo Zummo è onorato alla corte di un Medici a Firenze e a quella del Re Sole a Versailles: la rivoluzione spazzerà via la sua tomba a Saint-Sulpice, spazzerà via gli altari per dare luce, spazio alla dea Ragione. Racconto del poeta von Platen che a Siracusa finisce i suoi giorni, in una misera locanda presso la fonte Aretusa, consumato dalle febbri del colera, dal vomito, dalla dissenteria. E racconto ancora di Guy de Maupassant che a Siracusa, rapito davanti al corpo luminoso della Venere Anadiomene, cova nel sangue il bacillo dell’infezione, della malattia che lo porterà alla demenza, alla morte. Nella scansione del tempo che m’impongo, a mezzogiorno interrompo il lavoro e vado, con desiderio e insieme titubanza, a comprare i giornali. E il momento, quello, della frattura, del ritorno brusco nella prosa offensiva del presente, dell’ingresso nel grigio miserevole teatro di questo regno dei Feaci, di questa Milano in cui sono approdato da più di venticinque anni e da cui non riesco più ad imbarcarmi per l’Isola che un giorno abbandonai. Non riesco a lasciare questa città del disinganno, dell’utopia crollata, della mediocrità più squallida, della nevrosi e dell’aggressività, del deserto d’ogni gioia, d’ogni bellezza, perché non c’è più un’Itaca dove ridurmi e conciliarmi, in cui ricomporre l’armonia perduta, non c’è più espiazione e liberazione dalle colpe dopo il lungo racconto di mostri, di malie e di tempeste; perché i mostri non abitano più nel nostro subconscio, nei nostri sogni, non abitano più in ignote dimore, abissi marini o caverne etnee, non sono dei mondi pre-civili, dei regni dell’olivastro, ma sono della nostra storia, del nostro tempo, sono reali e ovunque presenti, sono quelli che ci hanno predetto Kafka, Baudelaire, Eliot, Joyce, Camus, Pirandello, tutti i poeti-profeti, sono quelli comparsi ieri ad Auschwitz, Hiroshima, Siberia, quelli comparsi oggi a Sarajevo, in Ruanda, in tanti altri luoghi di morte e di massacro; sono quelli che, dopo cinquant’anni, minacciano di ricomparire, ahinoi, in Italia… L’amico giornalaio Bruno mi dà subito le prime notizie con l’espressione del volto, col modo di guardarmi, col far svolazzare, da dentro la nicchia della sua edicola, simile all’antro della Sibilla Cumana, qualche parola che può sembrar casuale, ma che è carica d’allusioni, messaggi. «Ha sentito che cattivo odore, che puzza nell’aria stamane? Sarà scoppiata qualche fogna qui attorno, sarà sfuggito veleno da qualche fabbrica chimica…. Capisco allora, mentre Bruno mi porge i giornali, che le notizie sono pessime, come del resto ogni mattina da molto tempo a questa parte; lo capisco dal malumore, dal brontolare di Bruno che ogni giorno diventa sempre più cupo. E la notizia che era nell’aria, che già si temeva, dopo la stragrande vittoria alle elezioni della destra, del patito del signor Berlusconi, alleato con i revanscisti, i vandeani del signor Bossi , e con vecchi fascisti (neo o post-fascisti loro pretendono d’esser chiamati) e del signor Fini, eccola qua, in prima pagina su tutti i giornali, con titoli a caratteri cubitali: Berlusconi al potere – Berlusconi: vi darò la miglior squadra – Il regime all’opera – Governo, è l’ora di Berlusconi – Silvio Berlusconi s’apprête à accéder au pouvoir… Sì, è fatta, il leader di Forza Italia è stato incaricato dal capo dello Stato di formare il nuovo governo, il cinquantatreesimo dalla fine del fascismo, dall’avvento della democrazia. Illusione, sogno, felicità da spot pubblicitario, mondo d’inganno, di ombre televisive, di degradata, miserabile caverna platonica, regime telecratico, potere d’una squadra di samurai dell’azienda, d’un manipolo di sacerdoti della religione della bottega, di mistici della réclame e del profitto: di questo parlano i giornali. Riportano anche oggi in prima pagina la condanna a otto anni di carcere del finanziere Sergio Cusani, un giovanotto di buona famiglia napoletana, d’un passato a Milano di militanza nel Movimento Studentesco, di marxista rivoluzionario. La sentenza arriva dopo sei mesi di processo trasmesso alla televisione e goduto dai telespettatori come un grande, appassionante spettacolo, in cui sono sfilati i più grandi finanzieri e industriali, i leaders politici, in cui si è mostrato la corruzione, il disfacimento di un potere, il crollo di un sistema simile a quello di Bisanzio prima dell’arrivo dei barbari, quel mondo che ci ha narrato Procopio di Cesarea. La gente che aveva mandato al potere Andreotti e Craxi ha guardato il processo, ha tifato per il giudice di Mani Pulite Di Pietro, si è assolta, e in marzo ha votato per Berlusconi, per Bossi e per Fini. «È disperante. Andiamo via, via da quest’orrenda città, via dall’Italia..» dice mia moglie. «Aspettiamo… Almeno fino a domani» rispondo scherzando. Sappiamo, l’indomani, che il Papa, uscendo dalla doccia, è caduto e s’è rotto il collo del femore. Doveva partire quest’oggi, Giovanni Paolo II, per Siracusa, avrebbe dovuto in quella città consacrare un santuario dedicato alla Madonna delle Lacrime, a un piccolo bassorilievo di gesso colorato che negli anni Cinquanta, in occasione di una tornata elettorale, si dice abbia pianto nella casa di un operaio comunista. Il santuario, un alto edificio in cemento a forma di cono scanalato, una sorta di rampa per il lancio di missili, è stato costruito di fronte al museo dov’è custodita la Venere Anadiomene, nel giardino dov’è la tomba di von Platen. Tutto ormai in questo Paese è di banalità e orrore, di degrado e oblio, è tramonto infinito, è Siracusa, è fiammella d’olio o di candela che si spegne, è buio di catacomba; tutto è Milano del fascismo, del leghismo e del berlusconismo, è squallore e ignoranza, è ricchezza volgare che corrompe, aggredisce e offende.