Un ricordo un po’ speciale

Nel dodicesimo anniversario della morte di Vincenzo Consolo, ci piace ricordarlo in modo un po’ diverso dal solito. Bruno Caruso, amico di Vincenzo, grande pittore, disegnatore e incisore, collaboratore dell'”Ora” di Palermo nella straordinaria stagione della direzione di Vittorio Nisticò, celebra con il disegno qui riprodotto la nomina di Consolo a Presidente della Giuria dell’importante Premio letterario dedicato alla memoria di Elio Vittorini. Avrebbe poi conservato quell’incarico fino al 2008. Caruso decide, spiritosamente, di interpretare alla lettera la grandezza di Vincenzo Consolo, rendendolo una specie di gigante in mezzo a una piccola folla di scrittori e critici, che, per quanto grandi a loro volta (come Sciascia e lo stesso Vittorini) appaiono qui come piccoli e piccolissimi nanetti, tutti protesi a porgere al nuovo glorioso Presidente omaggi floreali e non solo: ci sono infatti anche “dolci bevande alcooliche, giocattoli”. La nudità dei personaggi evoca chiaramente quella delle statue classiche, accentuando l’effetto umoristico, nel contrasto fra l’ostentazione delle intenzioni celebrative e la comicità dei corpi nudi, certo tutti fuori contesto e non tutti adeguati per bellezza, forza e virilità, come invece richiederebbe l’esibizione. Ma Vincenzo sì, lui per Caruso rispetta senza dubbio tutti i parametri della bellezza classica: e poco importa che nella realtà fosse decisamente un bell’uomo, ma anche di bassa statura… Come in una sorta di Giorno del Giudizio miniaturizzato, i tempi si mescolano, e i vivi si accompagnano ai morti: Vittorini era mancato nel 1966, Sciascia nel 1989, Bufalino nel 1996. Evidentemente, la grandezza letteraria di Consolo, concretizzata nel suo comico gigantismo, non teme confronti. Nell’affettuosa rievocazione di Caruso, l’umorismo sdrammatizza e demistifica, ma nello stesso tempo, proprio perché non teme niente, neanche il ridicolo, ribadisce che di vera gloria si tratta, e che la grandezza di Consolo, per quanto comicizzata, è grandezza vera, che buca il tempo e dura ben oltre la morte.

Gianni Turchetta

Il maestro di fotografia e lo scrittore: storia di una lunga amicizia nata a casa di Sciascia

È il maestro ragusano, Giuseppe Leone, a raccontarci con emozione il suo legame con Vincenzo Consolo, lo scrittore dalla “personalità magnetica” scomparso 10 anni fa

Angela Marina Strano
Giornalista

Vincenzo Consolo e Giuseppe Leone in una foto concessa dal maestro ragusano A volte, dall’incontro di grandi artisti nascono, non solo esperienze professionali di estremo valore, ma anche storie di amicizia profonda. Ne è esempio l’amicizia sorta tra il fotografo Giuseppe Leone e gli scrittori Vincenzo Consolo, Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino.

Giuseppe Leone, è un illustre maestro di fotografia ragusano. Ha collaborato con intellettuali e con case editrici importanti, come Rizzoli, Sellerio e Bompiani. Abbiamo avuto l’onore e la possibilità di intervistarlo telefonicamente e con emozione ci ha raccontato dell’amicizia che lo ha legato alla triade degli scrittori siciliani.

Di certo, le loro vite e le personalità erano diverse, ma unite dall’arte, dalla letteratura e da un profondo legame umano. Ciò dimostra che, non necessariamente, fra personaggi illustri ci debba essere competizione, ma può esistere uno scambio di esperienze, idee acute ed emozioni.

Recentemente, l’Università di Catania ha dedicato allo scrittore Vincenzo Consolo, alcuni importanti eventi culturali per celebrare i dieci anni della sua scomparsa.

Durante l’incontro “Le parole e le immagini”, introdotto dal professore Rosario Castelli, delegato del rettore alle Attività culturali dell’ateneo catanese, con gli interventi degli italianisti Giuseppe Traina dell’Università di Catania e Gianni Turchetta, dell’Università di Milano, curatore della ristampa del volume fotografico “La Sicilia passeggiata”, con scritti di Consolo e con le foto di Leone, si è approfondita la figura e la scrittura di Consolo.

Leone, con il suo intervento, ha narrato attraverso le fotografie, il legame con lo scrittore, proiettando una selezione di foto edite e immagini inedite. Successivamente, ci ha raccontato: «Con Consolo, ci siamo conosciuti negli anni ’80, in contrada Noce, a casa di Leonardo Sciascia a Racalmuto. Quel luogo raccolto, modesto, lontano dal caos, è stato per anni rappresentanza della cultura siciliana.

Tutti gli artisti che operavano in Sicilia finivano per incrociare il loro cammino con la contrada Noce. Una mattina, mentre conversavo placidamente con Sciascia, giunse un’autovettura con a bordo una signora e un uomo. Vidi scendere e avanzare un uomo piccolo di statura. Leonardo ci presentò e, nel corso del pranzo, ho avuto il piacere di scoprire l’eleganza dell’eloquio di Consolo e la sua grande cultura. Rimanemmo tutti incantati dalla sua personalità magnetica».

Il loro rapporto di collaborazione professionale continuò grazie all’intuizione di Leonardo Sciascia, che, avendo ricevuto dal Sole24ore l’incarico di curare cinque pubblicazioni dedicate alla Sicilia, affidò a Consolo e Leone il volume sul barocco siciliano.

I due, così, visitarono e perlustrarono insieme per molti giorni le città di Ragusa, Noto e Palazzolo Acreide, condividendo il tempo e le idee. Tra loro nacque subito una grande intesa che poi divenne una lunga amicizia.

«Consolo – ricorda Giuseppe Leone – era un uomo che amava e apprezzava la bellezza della vita in ogni sua forma. A dispetto dell’immagine stereotipata che si ha di lui, non era affatto un uomo ombroso. Era un artista autentico.

Recentemente, nella galleria fotografica di Ragusa, abbiamo allestito una mostra sui tre scrittori e non tutti conoscevano la figura di Consolo. Questo mi ha colpito molto. Mi fa piacere che adesso ci sia questa attenzione verso di lui e che gli venga riconosciuto il giusto ruolo di scrittore».

Nel corso degli anni, il loro rapporto di collaborazione s’intensifica. Pubblicano, infatti, un libro dedicato a Cefalù, la città che fa da sfondo a tre dei suoi più interessanti romanzi. Poi, segue la pubblicazione di un libro fotografico dedicato ai Nebrodi, i luoghi dove era nato. Leone scopre grazie a Consolo, feste religiose, paesini affascinanti e luoghi sacri. Il loro sodalizio, continua con la pubblicazione di un libro dedicato a Ortigia e Siracusa, città che Consolo amava e dove aveva comprato casa.

«Consolo – continua Leone – amava molto l’archeologia, così decise di prendere una casa ad Ortigia che si affacciava sul tempio di Apollo. Era un grande conoscitore di arte. Con lui ho firmato due dei libri più belli della mia produzione. Il primo, edito da Bompiani, ancora una volta dedicato al barocco siciliano, grazie al coinvolgimento del direttore editoriale Mario Andreose.

Il secondo, decisamente un autentico capolavoro fu “Sicilia teatro del mondo”, commissionato dalle edizioni Eri, con un suo testo magistrale. Libro che è stato ripubblicato dalla casa editrice “Mimesis” proprio in occasione del decennale della sua scomparsa.

Ma in verità, il nostro ultimo lavoro insieme è stato la copertina del suo ultimo libro, pubblicato postumo. La moglie, Caterina Pilenga, mi chiamò dopo la sua scomparsa per scegliere l’immagine che campeggia in copertina di “Al di qua del faro” pubblicato da Mondadori».

Una delle foto più celebri di Giuseppe Leone, ritrae gli scrittori Consolo, Bufalino e Sciascia sorridenti in atteggiamento confidenziale. Ma pare, che a volte, tra Consolo e Bufalino si creavano degli screzi perché avevano caratteri diversi e due modi opposti di intendere il ruolo dello scrittore. Il libro “La Sicilia passeggiata” curato da Consolo, con le fotografie di Leone, svela una terra sognante, forse illusoria, popolata da monumenti, chiese, piazze, paesaggi e racconti di prodigi e sortilegi.

Nell’attacco, Consolo evoca una Sicilia incantata: “Siamo giunti: all’Ànapo che gorgoglia sonoro tra le gole di Pantàlica. Perché è da qui che vogliamo partire, per un nostro viaggio, per una nostra ricognizione della Sicilia, per inventarci, liberi come siamo da confini di geografia, da limiti d’epoca storica o da barriere tematiche, un modo, tra infiniti altri, per conoscere quest’isola al centro del Mediterraneo, questo luogo d’incrocio d’ogni vento e assalto, d’ogni dominio e d’ogni civilizzazione”.

Nelle sue foto Leone ritrae gli amici che si scambiano sguardi d’intesa, sorrisi, che compiono gesti quotidiani, come Leonardo Sciascia a colazione. Eppure, osservando quelle immagini non si ha la sensazione di violare l’intimità dei personaggi, ma si evincono dei frammenti di tempo, delle espressioni che diventano eterni grazie alla fotografia. Si tratta si emozioni sentimentali che si intrecciano con personalità di spicco della storia della Sicilia.

«Del nostro rapporto d’amicizia – ricorda Leone- ho ancora in mente le passeggiate e le grandi tavolate. Si amava dialogare a tavola. A tal proposito, desidero anticipare che, nonostante in questo momento la crisi culturale abbia intaccato anche le pubblicazioni delle case editrici, ho in progetto un nuovo libro fotografico che si intitolerà “Pausa pranzo” e che raccoglierà molte foto dedicate ai momenti conviviali e di intimità durante le conversazioni a tavola di importanti scrittori.

Il libro, non si rifà però solo ad immagini del passato, ma anche al periodo attuale segnato dal Covid e dai cellulari, e le foto dimostreranno come è cambiato il dialogo nel tempo, ognuno è chiuso nel proprio isolamento».

Balarm Magazine 30 gennaio 2022

Nuove Effemeridi – aprile 1994 ” Cronaca di una giornata “

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Cronaca di una giornata
Vincenzo Consolo

<< Più nessuno mi porterà nel Sud >> lamentava Quasimodo. Invece – se m’è concesso il confronto – io nel sud ritorno sovente. Da Milano, dove risiedo con un volo di un’ora e mezza, atterro in Sicilia. Dalla costa d’oriente o occidente, ogni volta, come per ossessione, vizio, coazione a ripetere, celebrazione d’un rito, percorro l’ Isola da un capo a un altro, vado per città e paesi, sperduti villaggi, deserte campagne, per monti e per piane, per luoghi visti e rivisti non so quante volte; incontro vecchie persone, ne conosco di nuove; registro ogni volta, in quella mia terra, che esito chiamare patria,come invece con foga la chiama il poeta, il degrado continuo, le perdite irreparabili, la scomparsa d’ogni vestigia ammirevole, l ‘inarrestabile imbarbarimento, gli atroci misfatti, gli assassini le stragi, il saccheggio d’ogni memoria, d’ogni reliquia di civiltà e bellezza. Vado in Sicilia e ne fuggo ogni volta, ritorno a Milano, la città dove da sempre, fuggendo dal sud, si sono rifugiati poeti e scrittori, artisti, credendo trovarvi, via dalla periferia, da una mediterranea deriva, vicino a un centro d’Europa, per illuministici retaggi, per eredità di probo governo, decenza civile, rispetto di leggi e diritti; a Milano, in lombardia, in un Nord di lavoro e sviluppo dove da sempre sono emigrati, come da ogni Sud d’immobilità, privazione e offesa, masse di lavoratori in cerca di un nuovo destino.
Ritorno a Milano e scrivo, riverso nelle parole, nella scrittura, in racconti e diari, cronache d’avventure sempre uguali e sempre nuove negli esiti orrendi, pene e furori, rimpianti e denunzie, malinconie e invettive.
Credo sia questo il destino d’ogni ulisside d’oggi, di tornare sovente nell’Itaca del distacco e della memoria e di fuggirne ogni volta, di restare prigioniero nella reggia d’Alcinoo, in quel regno di supposta utopia, d’irreale armonia , condannato a narrare all’Infinito, come un cieco cantore, un vecchio svanito, i suoi nostoi, le se odissee.
E’ questo che sto facendo ancora da alcuni mesi, faccio in questo giorno di scorcio d’aprile: narro del mio ultimo viaggio dell’estate scorsa in Sicilia, scrivo un libro che titolo, L’olivo e l’olivastro, colto in Omero, nell’episodio in cui Ulisse naufrago della grande tempesta nudo e martoriato, mette piede a Scheria, sulla terra dei Feaci, si rifugia sotto due arbusti nati da un medesimo ceppo: uno d’olivo, ‘altro d’olivastro. Mi è sembrata l’immagine, un simbolo della biforcazione, dei due sentieri o destini che s’aprono nella vita d’un uomo, nella storia d’un paese: del coltivato e del selvatico, del civile e del barbarico. Mi è sembrato il simbolo più pregnante della Sicilia, la quale diventa sempre,come si dice, metafora dell’Italia ( dell’Europa, del mondo? ). In questo penultimo giorno d’aprile, dopo aver attraversato lo Stretto di Messina, aver scansato il rischio mortale di Scilla e Cariddi, aver lasciato sulle falde dell’Etna i mostruosi Ciclopi, dentro la sua caverna di lava il bestiale Polifemo, mi trovo a girare per Siracusa, a muovermi nel cuore d’ Ortigia, nelle altre parti di questa antica metropoli, il Tiche, Acradina, Epipoli, Neapoli, nel presente suo squallido e oscuro e il passato suo di potenza e splendo re. Muovermi tra la retta e la spirale, il rigore e la grazia, il teorema d’Archimede e la poesia di Pindaro, l’equilibrio dorico e il capriccio barocco, Nella Piazza una forma d’occhio dove regna Lucia, la signora della luce e della vista. Sta la santa Sibilla dei messaggi visivi nell’antro dove sono ingemmate, in trionfo di mura cristiane, greche colonne di pura geometria, dov’e incastonato il tempio d’Atena, la dea dell’olivo e dell’olio, del nutrimento e della luce, della ragione e della sapienza. Mi trovo, confuso, smarrito, in questo teatro di pro fonda memoria, di continui richiami, in questa scena odierna di degrado e macerie, deserta di parola, poesia, in questa cavea di urla e fragori, sotto un cielo di spesse caligini, presso un mare di petroli e liquami. In Siracusa è scritta la storia dell’infinito tramonto della civiltà nostra e cultura, dell’umano sentire,è impressa la notte della ragione e della pietà.
Questo ventinove aprile mi alzo all’alba, come ogni mattina, scrivo dell’ultimo tramonto di Siracusa attraverso Il racconto di personaggi che in quella città son passati nel momento più drammatico della loro vita, uomini prossimi alla fine. Racconto del disperato Caravaggio che, fuggito dal carcere di Malta, approda in una Siracusa stremata da terremoti, carestie e pesti, immersa nel buio della controriforma, dipinge per una chiesa Il grande quadro del Seppellimento di Santa Lucia: il cadavere gonfio d’una fanciulla posto a terra, due ignudi becchini in primo piano che scavano la fossa, gli astanti schiacciati alla parete alta d’una latomìa, la luce livida d’una catacomba. Racconto del ceroplasta siracusano Zummo che crea Teche, teatri di peste, di contagio, di cataste di cadaveri in decomposizione, di avelli di scheletri, di mummie su cui scorrazzano topi, gechi, degli effetti sui corpi della sifilide; crea con le cere colorate perfette anatomie di teste, membra, organi … Racconto di un’arte necrofila, maniacale per cui lo Zummo è onorato alla corte di un Medici a Firenze e a quella del Re Sole a Versailles: la rivoluzione spazzerà via la sua tomba a Saint-Sulpice, spazzerà via gli altari per dare luce spazio alla dea Ragione. Racconto del Poeta von Platen che a Siracusa finisce i suoi giorni, in una misera locanda presso la fonte Aretusa, consumato dalle febbri de colera, dal vomito, dalla dissenteria. E racconto ancora di Guy de Maupassant che a Siracusa, rapito davanti a corpo luminoso della Venere Anadiomene, cova nel sangue il bacillo dell’infezione, della malattia che lo porterà alla demenza, alla morte. Nella scansione del tempo che m’impongo, a mezzogiorno interrompo il lavoro e vado, con desiderio e Insieme titubanza, a comprare i giornali. E’ il momento quello, della frattura, del ritorno brusco Nella prosa offensiva del presente, dell’ingresso nel grigio miserevole teatro di questo regno dei Feaci, di questa Milano in cui sono approdato da piu di Venticinque anni e da cui non riesco più di venticinque anni e da cui non riesco più ad imbarcarmi per l’ Isola che un giorno abbandonai. Non riesco lasciare questa città del disinganno, dell’utopia crollata, della mediocrità più squallida, della nevrosi e dell’aggressività, del deserto d’ogni gioia, d’ogni bellezza, perché non ce più un’Itaca dove ridurmi e conciliarmi, in cui ricomporre l’armonia perduta, non c’è più espiazione e liberazione dalle colpe dopo il lungo racconto di mostri, di malìe e di tempeste ;perché i mostri non abitano più nel nostro subconscio, nei nostri sogni, non abitano più in ignote dimore abissi marini o caverne etnee, non sono dei mondi pre-civili, dei regni dell’olivastro, ma sono della nostra storia, del nostro tempo sono reali e ovunque presenti, sono quelli che ci hanno predetto Kafka, Baudelaire, Eliot, Joyce, Camus, Pirandello,tutti i poeti – profeti, sono quelli comparsi ieri ad Auschwitz, Hiroshima, Siberia, quelli comparsi oggi a Sarajevo, in Ruanda , in tanti altri luoghi di morte e di massacro; sono quelli che, dopo cinquant’anni, minacciano di ricomparire, ahinoi, in Italia …
L’amico giornalaio Bruno mi dà subito le prime notizie con l’espressione del volto, col modo d guar darmi, col far svolazzare, da dentro la nicchia della sua edicola, simile all’ antro della Sibilla Cumana, qualche parola che può sembrar casuale, ma che è carica d’allusioni, messaggi.
<< Ha sentito che cattivo odore, che puzza nell’aria stamane? Sarà scoppiata qualche fogna qui attorno, sarà sfuggito veleno da qualche fabbrica chimica…>>
Capisco Allora, mentre Bruno mi porge i Giornali che le notizie sono pessime, come del resto ogni mattina da molto tempo a questa parte; lo capisco dal malumore, dal brontolare di Bruno che ogni giorno diventa sempre più cupo.
E la che era nell’aria, che già si temeva dopo la stragrande vittoria alle elezioni della destra del partito del signor Berlusconi, alleato con i revanscisti, i vandeani del signor Bossi e con i vecchi fascisti (neo o post-fascisti loro pretendono d’esser chiamati) del signor Fini, eccola qua, in prima pagina su tutti i giornali, con titoli a caratteri cubitali: Berlusconi al potere- Berlusconi vi darò la miglior squadra – il regime all’opera – Governo, è l’ora di Berlusconi -Silvio Berlusconi s’appréte un accéder au pouvoir …
Si, è fatta, il leader di Forza Italia è stato Incaricato dal capo dello stato di formare Il nuovo governo, il cinquantatreesimo dalla fine del fascismo, dall’avvento della Democrazia.
Illusione, sogno, felicità da spot pubblicitario, mondo d’inganno, di ombre televisive, di degradata, miserabile caverna platonica, regime telecratico, Potere d’urna squadra di samurai dell’azienda, d’un manipolo di sacerdoti della religione della bottega, di mistici della réclame e del profitto: di questo parlano i giornali. Riportano anche oggi in prima pagina la condanna a otto anni di carcere del finanziere Sergio Cusani, un giovanotto di buona famiglia napoletana, d’un passato a Milano di militanza nel Movimento Studentesco, di marxista rivoluzionario. La sentenza arriva dopo sei mesi di processo trasmesso alla televisione e goduto dai telespettatori come un grande , appassionante spettacolo, in cui sono sfilati i più grandi finanzieri e Industriali, i leaders politici, in cui si è mostrato la corruzione, il disfacimento di un potere, il crollo di un sistema simile a quello di Bisanzio prima dell’arrivo dei barbari, quel mondo che ci ha narrato Procopio di Cesarea.
La gente che aveva mandato al potere Andreotti e Craxi ha guardato Il processo, ha tifato per il giudice di Mani Pulite Di Pietro, si è assolta, e in marzo ha votato per Berlusconi, per Bossi e per Fini.
<< E’ disperante, andiamo via, via da quest’orrenda città, via dall’Italia ….>> dice mia moglie.
<< Aspettiamo … Almeno fino a domani >> rispondo scherzando.
Sappiamo, l’indomani, il che il Papa, uscendo dalla doccia, è caduto e s’è rotto il collo del femore. doveva partire quest’oggi, Giovanni Paolo II, per Siracusa, avrebbe dovuto in quella città consacrare un santuario dedicato alla Madonna delle Lacrime, a un piccolo bassorilievo di gesso colorato che negli anni Cinquanta, in occasione di una tornata elettorale, si dice abbia pianto nella casa di un operaio comunista. Il santuario, un alto edificio in cemento a forma di cono scanalato, una sorta di rampa per il lancio di missili, è stato costruito di fronte al museo dov’è custodita la Venere Anadiomene, nel giardino dov’è la tomba di von Platen. Tutto ormai in questo paese è di banalità e orrore, di degrado e oblio, è tramonto infinito, è Siracusa, fiammella d’olio o di candela che si spegne, è buio di catacomba: tutto è Milano del fascismo, del leghismo e del berlusconismo, è squallore e ignoranza, è ricchezza volgare che corrompe, aggredisce e offende.

Consolo, disperazione in Sicilia

L’intervista Viaggio, reportage, discesa agli inferi: esce «Udivo e l’olivastro». Così lo scrittore racconta il suo ritorno a casa.

E’ un risentimento profondo, non so se chiamarlo odio. L’odio. in fondo, è furore per un amore tradito, per un’offesa, ha la stessa intensità dell’amore: se si arriva all’odio significa che si ama tantissimo». L’olivo e l’olivastro è il titolo del prossimo libro di Vincenzo Consolo. E sin dal titolo si rivela quell’accostamento di opposti che dà forma a tutto il «romanzo»: amore e odio, appunto, dolcezza e atrocità, fuga e desiderio di ritorno, passione e violenza, umanesimo e irrazionalità, lussureggiante bellezza e disfacimento. Insomma, olivo e olivastro. Romanzo? Forse. Ma anche diario di viaggio in diciassette capitoli, anche reportage, anche pamphlet, leggenda, invettiva, poesia, persino saggio. Racconto: per esempio, nel capitolo dedicato al breve e disperato soggiorno di Caravaggio a Siracusa. Memoria: nelle bellissime pagine in cui si rievoca la madre ormai incapace di riconoscere il figlio. Un libro ad albero, dal cui tronco spuntano rami nervosi, rami spogli, rami frondosi e mobili. Olivo e olivastro: nati da un unico ceppo e indissolubilmente intrecciati tra loro, come nel cespuglio sotto cui Ulisse si nascose appena giunto nell’isola di Scheria, abitata dai Feaci. «L’immagine dell’olivo e dell’olivastro – dice Consolo – compare nell’Odissea, quando l’eroe è al massimo della degradazione umana: ferito, nudo, solo. Omero dice che da uno stesso arbusto vengono fuori rami d’olivo e d’olivastro. E’ una specie di indicazione di quel che Ulisse si era lasciato alle spalle e di quel che lo aspettava nel futuro: da una parte la natura malvagia e minacciosa, il selvatico, il bestiale: dall’altra il coltivato, l’umano, l’armonia. Infatti, arrivato nell’isola dei Feaci, Ulisse troverà una città molto alta, un’utopia, un modello di perfezione. Ulisse poteva rimanere lì, in quel regno beato, ma sente l’urgenza della realtà e della storia, la necessità di tornare a Itaca». Urgenza del ritorno, urgenza della memoria: «Anche per me è un desiderio che brucia. – dice Consolo – e quando torno provo molto dolore e pochissimo conforto, tutto mi pare omologato nel male, nella perdita. Io ho sentito l’esigenza di raccontare il disastro». Niente giornalismo, però, tiene a precisare Consolo: «La differenza tra giornalismo e letteratura è che la letteratura lavora con la memoria». E viene in mente la polemica aperta recentemente da Bocca. «Lo scrittore, attraverso la memoria. riesce a dare spessore al presente», Un viaggio nell’isola delle meraviglie e della barbarie, ma un viaggio universale, nello strazio della nostra civiltà. A Milazzo, dove accanto allo stabilimento esploso, alle canne fumarie delle industrie, ai morti carbonizzati, cresce il gelsomino delicato. A Siracusa, dove nella dissoluzione urbanistica si rimane inebriati dal profumo intenso del basilico. Il viaggiatore, come Ulisse che cerca la sua Itaca, non riconosce più la sua terra. Ovunque trova desolazione: a Gela, a Catania, a Palermo, a Ortigia. Non riconosce più il barocco di Noto, un tempo rigoglioso, vede Cefalù. Trapani, Segesta devastate dai terremoti, si inoltra nell’inferno di acidi e diossine che esalano dalle raffinerie di Melilli. Torna a Trezza, il paese dei Malavoglia. Parte da Gibellina e la ritrova irrimediabilmente deformata. «Cos’è successo, dio mio, cos’è successo? », si chiede con rabbia. Viaggio agli inferi. «Credo che la letteratura siciliana – dice Consolo – sia letteratura della stasi. Il più statico è il mondo verghiano, dominato dal fato.  Quello che ha cercato di rompere il «cerchio della fatalità e della condanna è stato Pirandello, attraverso la dialettica e il ragionamento: ma tra «sferiva la chiusura del mondo contadino e marinaro in un’altra chiusura, piccolo-borghese: è quella che Macchia ha chiamato la camera della tortura. Poi Vittorini, con conversazione in Sicilia, ha portato il viaggio nella letteratura siciliana. Io oscillo tra questi due opposti. Ma l’esigenza di muoversi o di star fermi dipende anche dalle speranze che si nutrono nella storia. Questo è un libro di grande disperazione, anche se ci sono qua e là. piccoli barlumi di sopravvivenza». E poi il libro di Consolo ci parla di letteratura: si apre con una dichiarazione di apparente sfiducia: «Ora non può narrare». Come, non può narrare? «Nel libro – dice Consolo viene agitato il tema dell’afasia. Ci sono momenti in cui la disperazione è tale che non trovi più interlocutori e ti viene voglia di chiuderti. Ci sono due tipi di afasia: quella del potere, che per definizione non vuole comunicare, e quella dell’artista che si oppone a questo potere. Per narrare bisogna essere angeli, messaggeri, avere degli interlocutori in cui trovare comprensione. Se viene meno questa speranza, lo scrittore rischia l’afasia: basta pensare a Empedocle, a Ezra Pound, a Hòlderlin». E c’è l’afasia del vecchio Verga, raccontata in un capitolo del libro. Eccolo, l’autore dei Malavoglia, al suo ottantesimo compleanno, chiuso nel suo soliloquio, nell’amarezza dell’incomprensione, insensibile ai festeggiamenti e muto persino davanti a Pirandello chiamato a celebrarne ufficialmente la grandezza: «Verga ha subito una grave ingiustizia. E’ l’ingiustizia perpetrata ogni volta nei confronti degli scrittori che non adottano il codice linguistico imperante. Io ho voluto narrare il momento del suo risentimento e della sua ritrazione. Fu preso per un traditore, perché a un certo punto abbandonò il linguaggio mondano, assolutamente comunicabile, che piaceva tanto nei salotti nobili milanesi. Quando riscopre la memoria, sceglie una lingua intraducibile ma di estrema verità e poesia: a quel punto non viene più capito». Dalla parte di Verga, della sua lingua, una scelta che oltrepassa la superficie formale e che affonda nelle profondità della narrazione. Come le esplosioni barocche di Consolo, che da sempre bruciano nel corpo del suo racconto: «In una lettera, Calvino scriveva a Sciascia: io sento che tu raffreni la matrice barocca che c’è dentro la tua scrittura… Forse Sciascia aveva paura di sconfinare. Sono convinto che qualsiasi scrittore periferico sia spinto verso l’uso di un linguaggio eccentrico. Sciascia diceva che era un cultore del pensiero e che non sapeva pensare in dialetto. In me c’è questo bisogno, forse perché sono nato alla confluenza tra due mondi antitetici: la Sicilia orientale, contrassegnata dalla presenza della natura, dell’Etna, dei terremoti e quindi portata al lirismo; e la Sicilia occidentale, più razionalistica, attratta dallo storicismo. Ecco, io vorrei essere un illuminista ma la mia scrittura mi porta irresistibilmente verso il barocco. Vivo in continua oscillazione tra questi due poli». L’olivo e l’olivastro.
Paolo Di Stefano
Corriere della Sera, 3 settembre 1994
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Consolo (Mondadori, pagine 149,)
Gibellina: un sudario di calce
di Vincenzo Consolo

Da «L’olivo e l’olivastro»

Nel nudo, nel crudo terreno, nella desolata vaghezza, nella memoria dissolta, nell’estraneità, nell’assenza, sorge l’arroganza, l’offesa, il teatro di marmo, di cemento, di bronzo, sorge alto sopra l’asfalto il fiore stridente, la stella texana, la porta per la fiera del vuoto, per la città metafisica. Di larghe strade, di rampe, di scale, di spalti, portici, logge, vaste piazze, anfiteatri deserti, folgorati dal sole, tagliati dall’ombra, di cubi, sfere, coni, cilindri, giardini di pietra, ghirigori di ferro, porte di marmo, cancelli, cerchi, ellissi, frecce, rombi, triangoli, sibillini alfabeti, il sarcasmo della reliquia innestata del frammento, l’arco il portale il timpano infranto. L’ombra alle spalle e il rimbombo sopra le lastre, fra le astratte sculture imponenti, le architetture della città costruita dai proci, il labirinto dello spaesamento, della squadra, del compasso, dello scoramento, della malinconia, dell’ansia perenne (…). Ora tu, eroe sconfuto, vieni fuori da una casa del nuovo paese, cammini sulla strada deserta, li guardi intorno smarrito,lo t’incontro, ti chiedo. «Sono nato a Gibellina, di anni ventitré… », rispondi. «Che dico?… Mi chiamo Nicola, sono nato a Gibellina, ho lavorato nelle cave di Meirengen. vicino Basilea. Ho là moglie, figli che non vogliono più tornare in questo paese». «Ti riconosco, Nicola, e son passati tanti anni, sei incanutito… T’ho incontrato alla stazione di Milano…». «Anch’io ti riconosco, e sei vecchio, hai una faccia diversa… Vorrei rivedere l’altro paese». Andiamo per quella campagna brulla, di radi alberi, di rocce, di stoppie, di palme solitarie. Arriviamo al colle, ai ruderi spianati e coperti da un’immensa colata di cemento, da una coltre bianca, da un sudario di calce. Non so dov’era la mia casa, dov’era il castello, la piazza, la chiesa…», lamenta Nicola.
L’emigrazione, i terremoti, lo sfascio del paesaggio la violenza, la corruzione delle coscienze: «La mia letteratura? La trovo tra Verga e Vittorini»


29 aprile 1994: cronaca di una giornata

Vincenzo Consolo

Più nessuno mi poterà nel sud commentava Quasimodo. Invece – se m’è concesso il confronto – io nel sud ritorno sovente. Da Milano, dove risiedo, con un volo di un’ora e mezza, atterro in Sicilia. Dalla costa d’oriente o d’occidente, ogni volta, come per ossessione, vizio coazione a ripetere, celebrazione d’un rito, percorro l’isola da un capo a un altro, vado per città e paesi, sperduti villaggi, deserte campagne, per monti e per piane. per luoghi visti e rivisti non so quante volte; incontro vecchie persone, ne conosco di nuove; registro ogni volta, in quella mia terra, che esito a chiamare patria come invece con foga la chiama il poeta, il degrado continuo, le perdite irreparabili, la scomparsa d’ogni vestigia ammirevole, l’inarrestabile imbarbarimento, gli atroci misfatti, gli assassini, le stragi, il saccheggio d’ogni memoria, d’ogni reliquia di civiltà e bellezza. Vado in Sicilia e ne fuggo ogni volta, ritorno a Milano, la città dove da sempre, fuggendo dal Sud, si sono rifugiati poeti e scrittori, artisti, credendo trovarvi, via dalla periferia, da una mediterranea deriva, vicino a un centro d’Europa, per illuministici retaggi, per eredità di probo governo, decenza civile, rispetto di leggi e diritti, a Milano, in Lombardia, in un Nord di lavoro e sviluppo dove da sempre sono emigrati, come da ogni Sud d’immobilità, privazione e offesa, masse di lavoratori in cerca di un nuovo destino. Ritorno a Milano e scrivo, riverso nelle parole, nella scrittura, in racconti e diari, cronache d’avventure sempre uguali e sempre nuove negli esiti orrendi, pene e furori, rimpianti e denunzie, malinconie e invettive. Credo sia questo ormai il destino d’ogni ulisside d’oggi, di tornare sovente nell’Itaca del distacco e della memoria e di fuggirne ogni volta, di restare prigioniero nella reggia d’Alcinoo, in quel regno di supposta utopia, d’irreale armonia, condannato a narrare all’infinito, come un cieco cantore, un vecchio svanito, i suoi nostoi, le sue odissee. E questo che sto facendo ancora da alcuni mesi, faccio in questo giorno di scorcio d’aprile: narro del mio ultimo viaggio dell’estate scorsa in Sicilia, scrivo un libro che Porta un titolo, L’olivo e l’olivastro, colto in Omero, nell’episodio in cui Ulisse naufrago della grande tempesta, nudo e martoriato, mette piede a Scheria, sulla terra del Feaci, si rifugia sotto due arbusti nati da un medesimo Cippo: uno d’olivo, l’altro d’olivastro. Mi è sembrata l’immagine, un simbolo della biforcazione, dei due sentieri o destini che s’aprono nella vita d’un uomo, nell’a storia d’un paese; del coltivato e del selvatico, del civile e del barbarico. Mi è sembrato il simbolo più pregnante della Sicilia, la quale diventa sempre, come si dice, metafora dell’Italia (dell’Europa, del mondo?). In questo penultimo giorno d’aprile, dopo aver attraversato lo Stretto di Messina, aver scansato il rischio mortale di Scilla e Cariddi, aver lasciato sulle falde dell’Etna i mostruosi Ciclopi, dentro la sua caverna di lava il bestiale Polifemo, mi trovo a girare per Siracusa, a muovermi nel cuore d’Ortigia, nelle altre parti di questa antica metropoli, il Tiche, Acradina, Epípoli, Neapoli, nel presente suo squallido e oscuro e il passato suo di potenza e splendore. Muovermi tra la retta e la spirale, il rigore e la grazia, il teorema d’Archimede e la poesia di Pindaro, l’equilibrio dorico e il capriccio barocco, nella piazza a forma d’occhio dove regna Lucia, la signora della luce e della vista. Sta la santa Sibilla dei messaggi visivi nell’antro dove sono ingemmate, in trionfo di mura cristiane, greche colonne di pura geometria, dov’è incastonato il tempio d’Atena, la dea dell’olivo e dell’olio, del nutrimento e della luce, della ragione e della sapienza. Mi trovo, confuso, smarrito, in questo teatro di profonda memoria, di continui richiami, in questa scena odierna di degrado e macerie, deserta di parola, poesia, in questa cavea di urla e fragori, sotto un cielo di spesse caligini, presso un mare di petroli e liquami. In Siracusa è scritta la storia dell’infinito tramonto della civiltà nostra e cultura, dell’umano sentire, è impressa la notte della ragione e della pietà Questo ventinove aprile mi alzo all’alba, come ogni mattina, scrivo dell’ultimo tramonto di Siracusa attraverso il racconto di personaggi che in quella città son passati nel momento più drammatico della loro vita, uomini prossimi alla fine. Racconto del disperato Caravaggio che, fuggito dal carcere a Malta, approda in una Siracusa stremata da terremoti, carestie e pesti, immersa nel buio della Controriforma, dipinge per una chiesa il grande quadro del Seppellimento di Santa Lucia: il cadavere gonfio d’una fanciulla posto a terra, due ignudi becchini in primo piano che scavano la fossa, gli astanti schiacciati alla parete alta d’una latomia, la luce livida d’una catacomba. Racconto del ceroplasta siracusano Zummo che crea teche, teatri di peste, di contagio, di cataste di cadaveri in decomposizione, di avelli di scheletri, di mummie su cui scorrazzano topi, gechi, degli effetti sui corpi della sifilide; crea con le cere colorate perfette anatomie di teste, membra, organi… Racconto di un’arte necrofila, maniacale per cui lo Zummo è onorato alla corte di un Medici a Firenze e a quella del Re Sole a Versailles: la rivoluzione spazzerà via la sua tomba a Saint-Sulpice, spazzerà via gli altari per dare luce, spazio alla dea Ragione. Racconto del poeta von Platen che a Siracusa finisce i suoi giorni, in una misera locanda presso la fonte Aretusa, consumato dalle febbri del colera, dal vomito, dalla dissenteria. E racconto ancora di Guy de Maupassant che a Siracusa, rapito davanti al corpo luminoso della Venere Anadiomene, cova nel sangue il bacillo dell’infezione, della malattia che lo porterà alla demenza, alla morte. Nella scansione del tempo che m’impongo, a mezzogiorno interrompo il lavoro e vado, con desiderio e insieme titubanza, a comprare i giornali. E il momento, quello, della frattura, del ritorno brusco nella prosa offensiva del presente, dell’ingresso nel grigio miserevole teatro di questo regno dei Feaci, di questa Milano in cui sono approdato da più di venticinque anni e da cui non riesco più ad imbarcarmi per l’Isola che un giorno abbandonai. Non riesco a lasciare questa città del disinganno, dell’utopia crollata, della mediocrità più squallida, della nevrosi e dell’aggressività, del deserto d’ogni gioia, d’ogni bellezza, perché non c’è più un’Itaca dove ridurmi e conciliarmi, in cui ricomporre l’armonia perduta, non c’è più espiazione e liberazione dalle colpe dopo il lungo racconto di mostri, di malie e di tempeste; perché i mostri non abitano più nel nostro subconscio, nei nostri sogni, non abitano più in ignote dimore, abissi marini o caverne etnee, non sono dei mondi pre-civili, dei regni dell’olivastro, ma sono della nostra storia, del nostro tempo, sono reali e ovunque presenti, sono quelli che ci hanno predetto Kafka, Baudelaire, Eliot, Joyce, Camus, Pirandello, tutti i poeti-profeti, sono quelli comparsi ieri ad Auschwitz, Hiroshima, Siberia, quelli comparsi oggi a Sarajevo, in Ruanda, in tanti altri luoghi di morte e di massacro; sono quelli che, dopo cinquant’anni, minacciano di ricomparire, ahinoi, in Italia… L’amico giornalaio Bruno mi dà subito le prime notizie con l’espressione del volto, col modo di guardarmi, col far svolazzare, da dentro la nicchia della sua edicola, simile all’antro della Sibilla Cumana, qualche parola che può sembrar casuale, ma che è carica d’allusioni, messaggi. «Ha sentito che cattivo odore, che puzza nell’aria stamane? Sarà scoppiata qualche fogna qui attorno, sarà sfuggito veleno da qualche fabbrica chimica…. Capisco allora, mentre Bruno mi porge i giornali, che le notizie sono pessime, come del resto ogni mattina da molto tempo a questa parte; lo capisco dal malumore, dal brontolare di Bruno che ogni giorno diventa sempre più cupo. E la notizia che era nell’aria, che già si temeva, dopo la stragrande vittoria alle elezioni della destra, del patito del signor Berlusconi, alleato con i revanscisti, i vandeani del signor Bossi , e con vecchi fascisti (neo o post-fascisti loro pretendono d’esser chiamati) e del signor Fini, eccola qua, in prima pagina su tutti i giornali, con titoli a caratteri cubitali: Berlusconi al potere – Berlusconi: vi darò la miglior squadra – Il regime all’opera – Governo, è l’ora di Berlusconi – Silvio Berlusconi s’apprête à accéder au pouvoir… Sì, è fatta, il leader di Forza Italia è stato incaricato dal capo dello Stato di formare il nuovo governo, il cinquantatreesimo dalla fine del fascismo, dall’avvento della democrazia. Illusione, sogno, felicità da spot pubblicitario, mondo d’inganno, di ombre televisive, di degradata, miserabile caverna platonica, regime telecratico, potere d’una squadra di samurai dell’azienda, d’un manipolo di sacerdoti della religione della bottega, di mistici della réclame e del profitto: di questo parlano i giornali. Riportano anche oggi in prima pagina la condanna a otto anni di carcere del finanziere Sergio Cusani, un giovanotto di buona famiglia napoletana, d’un passato a Milano di militanza nel Movimento Studentesco, di marxista rivoluzionario. La sentenza arriva dopo sei mesi di processo trasmesso alla televisione e goduto dai telespettatori come un grande, appassionante spettacolo, in cui sono sfilati i più grandi finanzieri e industriali, i leaders politici, in cui si è mostrato la corruzione, il disfacimento di un potere, il crollo di un sistema simile a quello di Bisanzio prima dell’arrivo dei barbari, quel mondo che ci ha narrato Procopio di Cesarea. La gente che aveva mandato al potere Andreotti e Craxi ha guardato il processo, ha tifato per il giudice di Mani Pulite Di Pietro, si è assolta, e in marzo ha votato per Berlusconi, per Bossi e per Fini. «È disperante. Andiamo via, via da quest’orrenda città, via dall’Italia..» dice mia moglie. «Aspettiamo… Almeno fino a domani» rispondo scherzando. Sappiamo, l’indomani, che il Papa, uscendo dalla doccia, è caduto e s’è rotto il collo del femore. Doveva partire quest’oggi, Giovanni Paolo II, per Siracusa, avrebbe dovuto in quella città consacrare un santuario dedicato alla Madonna delle Lacrime, a un piccolo bassorilievo di gesso colorato che negli anni Cinquanta, in occasione di una tornata elettorale, si dice abbia pianto nella casa di un operaio comunista. Il santuario, un alto edificio in cemento a forma di cono scanalato, una sorta di rampa per il lancio di missili, è stato costruito di fronte al museo dov’è custodita la Venere Anadiomene, nel giardino dov’è la tomba di von Platen. Tutto ormai in questo Paese è di banalità e orrore, di degrado e oblio, è tramonto infinito, è Siracusa, è fiammella d’olio o di candela che si spegne, è buio di catacomba; tutto è Milano del fascismo, del leghismo e del berlusconismo, è squallore e ignoranza, è ricchezza volgare che corrompe, aggredisce e offende.

Paesaggi di luce

di Vincenzo Consolo

Non sappiamo se esiste o possa mai esistere una scienza che studia la luce in rapporto ai luoghi (topofotologia?). Speriamo che non esista, che non possa mai esistere. Perché vogliamo (noi che temiamo le razionalizzazioni, la distruzione delle fantasie, la loro riduzione in mappe, grafici, numeri: ah quella luna profanata, la sua caduta, il suo mito, la sua fantasia frantumata! Ah le sue misure, i nomi dei suoi “mari”. “. dei suoi monti, dei suoi crateri!) vogliamo che luoghi e luci – luoghi bruciati, smaterializzati dalla luce – rimangano pur sempre mari o cieli su cui navighi solo la poesia.
 Luogo di luce, di incroci o giochi di luce è ad esempio quell’isola del Mediterraneo che si chiama Sicilia. Luce che si modula, cambia da capo a capo, da costa a costa, da montagna a montagna, da pianura a pianura. Abbiamo potuto constatare (o è stato un abbaglio?), percorrendo l’isola, che, oltrepassato il capo Gallo, improvvisamente la luce cambia, si fa diversa da quella del Tirreno; che aggirato il capo Peloro, a torre Faro, sopra il gorgo di Cariddi, diversa è la luce dello Jonio; e ancora diversa oltre gli Iblei, da Siracusa a Pachino, all’Isola delle Correnti; che luce sua è, diversa dalle luci dei mari e delle coste, quella della sconfinata landa desolata dell’interno, oltre la barriera delle Madonie e dei Nébrodi. E non è altra la luce rossastra, infuocata, fenicia o africana, di Mozia, del Lilibeo o Selinunte, da quella bianca e cristallina di Taormina, di Megara o di Ortigia, altra dalla luce nera di Catania e dell’Etna? La luce terrosa di Palermo da quella marina, acquorea di Messina? La luce delle Egadi da quella delle Eolie, delle Pelagie? Messina, la spirale del suo porto, lo iato, la fenditura dello Stretto…
 Visto dalla platea di Paradiso, o dalle acque stagne di Ganziri, visto dai palchi dei colli di San Rizzo, dal Faro Superiore o Castanèa delle Furie, è un teatro unico, fantastico, una rappresentazione senza fine dove si spiegano velari, si squarciano, s’involano; dove rifrazioni di lastre immateriali, d’invisibili specchi sciabolano, s’incrociano, si spezzano; dove piovono, s’ammassano gravi cascami d’astri sfaldati; dove sorgono illusioni, sortilegi, fate morgane, allucinazioni; dove a volte il mondo crudamente e crudelmente si denuda, mostra tutta la sua desolazione, la sua angoscia (il dolore assoluto, senza scampo dello sfondo d’una qualche Crocefissione d’Antonello).
E allor mi pare d’essere, ridotto qui tra Pace e Paradiso, come trapassato, in Contemplazione, statico, e affisso a un’eterna luce o vagante, privo di peso, memoria e intento, sopra cieli, lungo viali interminabili e vani, scale, tra mezzo a cattedrali, regge di nuvole e di raggi. Mi pare quando che ho l’agio e il tempo di staccarmi d’ogni reale vero e di sognare. Mi pare forse per questi nomi belli di villaggi o pel mio levarmi presto, ancora notte, con le lune e le stelle, uscire, portarmi alla spiaggia, sedermi sopra un masso e aspettare l’alba, il sole che mi fuga infine l’ombre i sogni, le illusioni, riscopre la verità del mondo, la terra, il mare, lo Stretto solcato d’ogni traghetto e nave, d’ogni barca e scafo, sfiorato d’ogni vento, uccello, fragoroso d’ogni rombo, sirena, urlo.
E se dallo Stretto andiamo  oltre il golfo, il capo di Milazzo, altro teatro, più vasto e più fantasioso vi si spiega: quello di Vulcano, Lipari, Salina, Filicudi, Alicudi …  Isole ora sfumate, lontane, fuggenti dietro cortine, velari, vapori, illusorie come Sirene; ora corpose, evidenti, reali, prossime e avanzanti sulle acque, con ali di meduse, pomici, alghe, fluttuanti come le Simplegadi. Andiamo verso il Tindari, i ricami delle rene, le acque morte, i giunchi velieri marciti sotto la sua rocca prominente. Questo il teatro che mi si parò davanti appena aperti gli occhi, questo il quadro, la memoria più antica e indelebile.
E cos’è allora la memoria d’un pittore nato sopra lo specchio di sommo sortilegio e sommo inganno, sopra l’occhio verde e tremendo di Gorgona, sopra la lastra versicolore, il vetro di Murano, sopra quel Mar Morto e quello Stige, quel cielo rovesciato, quel ceruleo abisso che è la Laguna, la natura più intima, la segreta sorgiva di quel mare che scorre e che si mesce allo Jonio, all’Egeo?
 Nato in una città invisibile, Stambul e Samarcanda riflessa dentro l’acque, madrepora vagante, sargasso stralucente, mamona che si dona e che si nega?
Nato in Venezia e lì imprigionato, nella marea che sale, nel cielo che s’abbassa, nelle acque e nelle brume smemoranti, che celano splendori, miracoli, potenze, ogni beltà, ogni arte? Nella città che sorge all’orizzonte, oltre le soglie, s’erge nei cieli della Luna, di Venere, del Sole, nel cielo delle Stelle, nel centro dei cerchi luminosi?

 Quali nei pleniluni sereni
Trivia ride tra le ninfe eterne
che dipingon lo ciel per tutti i seni,
vidi sopra migliaia di lucerne… (1)

 E possibile ancora memorare, dire, riportare tanto abbaglio, tanta viva sorgente d’ogni luce, d’ogni trasparenza? Solo per allusioni, per astrazioni, per ritmi, per intermittenze, per pulsazioni, per fotoni, per piani e fasci di luce, per accenni d’infinito, per tagli, lame di giallo, bianco, per fuochi intensi, per vermigli, per modulazioni di cieli, e di acque, per azzurri profondissimi, per altre arti e per altre nostalgie, per inusitate visioni forse è possibile.
Possibile, meravigliosamente ardita e luminosa fu la parola d’un Poeta fra luci e visioni d’altro mondo che ad ogni altro avrebbe tolto il passo, il fiato.

Quali per vetri trasparenti e tersi,
o ver per acque nitide e tranquille,
  non si profonde che i fondi sien persi,
  tornan de’ nostri visi le postille,
debili sì, che perla in bianca fronte… (2)


(1) Dante,Paradiso, canto XXIII
(2) Dante, Paradiso, canto


Confini – Visività e configurazione nel reale.
1990 Fabbri Editore

Isole Eolie