La giovane studiosa Ada Bellanova ha recentemente pubblicato una poderosa monografia su Vincenzo Consolo per i tipi della casa editrice Mimesis nella collana diretta da Gianni Turchetta: Punti di vista. Testi e studi di letteratura italiana contemporanea. (Un eccezionale Baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo, Mimesis/Punti di vista, Milano-Udine 2021). Il volume comprende, oltre all’Introduzione (Un eccezionale Baedeker. Cartografare lo spazio), quattro parti (I. Strumenti per percorrere i luoghi; II. Un percorso tra luoghi simbolo; III Ecologie consoliane; IV Mediterraneo) ciascuna suddivisa a sua volta in un numero diverso di capitoli, nei quali l’autrice distribuisce con grande perizia e intelligenza i testi consoliani presi in esame, da quelli giornalistici (molti non ancora raccolti in volume) e saggistici, a quelli di finzione. Ora, la prospettiva dalla quale la studiosa legge e organizza la testualità consoliana è quella già enunciata nel sottotitolo del suo lavoro: La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo. Alla prospettiva ‘spaziale’ è dedicata infatti la prima parte del libro, che si può considerare a tutti gli effetti una introduzione teorica e comparata alla sua «perlustrazione» dei luoghi consoliani, che fa il punto sullo spatial turn e il geographical turn, sugli approcci teorici cioè (Braudel, Turchi, Piatti, Westphal, Scaffai, Iacoli, Iovino, Montandon ecc., la lista sarebbe lunga) utili a indagare gli spazi geografici, paesaggistici, territoriali, umani, insieme alle topografie di suoni e di luci presenti nei testi di Consolo. Naturalmente l’autrice mette in guardia il lettore dalla corrispondenza esatta tra realtà e ambientazione letteraria, et pour cause, la geografia reale è sempre determinata dallo sguardo di chi la scopre o la osserva, a maggior ragione dallo sguardo di uno scrittore o di un artista. Rivolto a questa delicata questione e ai numerosi contributi teorici sul rapporto tra ‘geografia e letteratura’ (geocritica, geopoetica, geotematica ed ecocritica), è il capitolo intitolato Come percorrere i luoghi di Consolo: «I luoghi che l’universo letterario di Consolo ci invita a scoprire sono già molto ‘detti’, possiedono cioè una propria intrinseca ricchezza in termini di rappresentazione letteraria e artistica, oppure sono stati e sono ancora al centro del dibattito storico e filosofico: hanno già una propria identità frutto dell’interazione tra immaginario e reale» (34). Fermo restando comunque che per Consolo la geografia letteraria si intreccia alle istanze di una geografia intima, sicché spesse volte l’autrice fa riferimento ad una «soggettività autoriale», e anche a una «soggettività pensosa» (p. 136). Un altro maestro di luoghi per Consolo è stato senza dubbio l’autore del Cristo si è fermato a Eboli: «Con Levi Consolo vede davvero i luoghi» (p. 51) E così come viene sottolineato questo particolare legame ‘spaziale’ con Carlo Levi, altrettanto accade per Verga del quale Consolo accoglie non solo, come è noto, la rivoluzione linguistica e stilistica, ma anche l’attenzione al mondo degli umili efficacemente rilevata dalla studiosa. Ora, l’approccio ‘geografico’ fa emergere strati della scrittura dell’agatese finora solo sfiorati dalla critica e che Bellanova approfondisce o porta alla luce per la prima volta. Mi riferisco in particolare a certa stratificazione ‘classica’ della geografia consoliana (come ad esempio la geografia euripidea e omerica), meravigliosamente ‘scoperta’ e analizzata dall’autrice: «Rilevanti mi sono parsi inoltre i riferimenti ad alcuni storici greci o a Virgilio. Per lo più si tratta di rimandi che riscostruiscono, tra oblio 42|43 XI (2021) ISSN 2039-7917 268 storia e mito, il passato lontano della Sicilia e del Mediterraneo, testimonianza dunque, utile a comprendere toponomastica o reperti archeologici. Ma a volte non si tratta solo di questo. Quando Consolo allude all’Arcadia – luogo letterario teocriteo, oltre che virgiliano, e segnato dalla rilettura del classicismo settecentesco –, richiamando l’immagine dello spazio consacrato al contatto armonico tra esseri umani e natura, muove in realtà una critica nei confronti del mondo contemporaneo che invece deve fare i conti con una relazione distorta tra uomo e ambiente. Se gli Iblei si rivestono ai suoi occhi di caratteri arcadici, se Pantalica è il luogo della rinascita possibile, ciò non avviene soltanto perché anche in questo caso è in gioco una tradizione, ma perché l’autore, attraverso l’associazione con l’immagine classica, definisce le caratteristiche di uno spazio e lo salva dalla generale resa alla contemporaneità, trasformandolo in un modello di permanenza della biodiversità non tanto o non solo naturalistica ma soprattutto culturale» (p. 312). I rimandi classici, così essenziali e profondi nell’opera di Consolo, acquistano dunque nello studio di Bellanova una precisa collocazione spaziale e temporale in una necessaria e logica relazione col presente, relazione che non è solo di nostalgia o di sterile indignazione, ma di critica e di reazione nei confronti dei disastri della modernità. Questo ci è sembrato, tra gli altri, il contributo inedito di questo ‘eccezionale baedeker’ che, a partire dai luoghi reali, immaginari e simbolici della geografia consoliana, ne mette in luce non soltanto la tragica antitesi (bellezza/orrore, antico/moderno, armonia/violenza, potere/umiltà ecc.), che dalla Sicilia di Consolo si può estendere oggi all’intero pianeta, ma anche una via possibile di resistenza al disastro. La passione per l’antico di Consolo serve questa causa di sopravvivenza. Come esempio emblematico di questo singolare procedimento per forti e quasi fatidici contrasti, sempre legato alla geografia dei luoghi e dei tempi storici, si legga, fra gli altri, il notevole capitolo Palermo bellissima e disfatta (pp. 155-176). L’approccio geocritico del saggio mette in luce, ne Il sorriso dell’ignoto marinaio ad esempio, un’altra dimensione spaziale e storica estremamente interessante, e cioè il particolare sguardo dello scrittore sul cosiddetto Risorgimento siciliano, narrato non a partire dalla grande Storia ma dalla piccola storia, quella, all’occorrenza, di un paesino come Alcara Li Fusi: «In più Consolo è affascinato dal fatto che la vicenda di Alcara si sia svolta proprio sui Nebrodi, a poca distanza dal suo paese: da questo dettaglio, dalla valorizzazione di un luogo e di un evento trascurati, parte per un suo processo di rilettura del Risorgimento» (p. 21, corsivi miei). O ancora, più avanti: «Ma la scelta di un episodio trascurato dalla storiografia, avvenuto in un territorio marginale, assente dalle mappe ufficiali, dalle geografie di sbarchi e battaglie celebri, è il risultato di una sorta di pratica “archeologica” che porta alla superficie del testo le rovine nascoste del tempo. […]. Dal rifiuto della storia come scrittura dei privilegiati Consolo giunge alla scelta di narrare una storia al margine e dal margine, ovvero quella di chi ha potuto solo lasciare tracce di carbone sulle pareti a spirale del carcere» (p. 116, corsivi miei). Altrettanto per la valorizzazione di alcuni luoghi poco o affatto frequentati dai viaggiatori nell’isola: «Un vero e proprio criterio cartografico è ravvisabile nell’organizzazione di Retablo, del 1987. È in particolare la sezione centrale ad offrire spunti di riflessione in merito. […]. L’opera offre un ritratto della Sicilia occidentale, da Palermo a Trapani, passando attraverso luoghi di grande fascino, come Segesta, Selinunte, Mozia, e svela angoli altrimenti poco noti, come le terme segestane» (p. 21). Il lavoro di Ada Bellanova è talmente denso e ricco di percorsi che non posso che rinviare alla lettura integrale del suo istruttivo baedeker nato, come ella stessa ricorda all’inizio e alla fine del suo saggio, proprio da un viaggio in Sicilia: «Quando, alcuni anni fa, sono andata nella Sicilia occidentale per la prima volta, Retablo è stato il mio eccezionale baedeker. […]. L’intero mio percorso ha beneficiato della suggestione incantata di Retablo. La visita alle rovine di Segesta e Selinunte, l’incontro con l’enigmatico efebo di Mozia mi hanno molto emozionato. Mi si dirà che è naturale, che si tratta di luoghi estremamente affascinanti, senza tempo e insieme testimonianza di un altro tempo, opera della mano dell’uomo, ma anche spazio della natura. Eppure io credo che le pagine di Consolo abbiano avuto un ruolo determinate nel farmeli apprezzare» (p. 11). Condivido oblio 42|43 XI (2021) ISSN 2039-7917 269 pienamente quest’ultima affermazione dell’autrice, permettendomi solo una semplice chiosa a conferma: la scrittura di Consolo ha il pregio non solo di mappare i luoghi della sua isola (e anche della sua Milano!), ma soprattutto di evocarne l’aura, bella o orrida che sia. E per questo i suoi testi possono costituire un prezioso baedeker per quei lettori-viaggiatori che non si sottraggono al fascinum della scoperta.
Da Oblio 42|43 XI (2021)
ISSN 2039-7917
Tag: Mediterraneo
Consolo cartografo
di Antonio Pane
Di Ada Bellanova, laureata in lettere classiche e insegnante di liceo, conoscevo la prima tesi di dottorato (sulla presenza dei classici greci e latini nell’opera di Borges) e avevo letto con interesse i racconti L’invasione degli omini in frac (e altre piccole nostalgie) (Siena, Pascal, 2010), Le mal du pays (vincitore del Concorso Scrivere Altrove – Associazione MaiTardi Nuto Revelli) e il romanzo Papamusc’ (Arcidosso, Effigi, 2016); mi trovo ora a sfogliarne la ponderosa monografia Un eccezionale baedeker: la rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo (rielaborazione della seconda tesi di dottorato discussa presso l’Université di Lausanne), accolta nella collana «Punti di vista. Testi e studi di letteratura italiana contemporanea» di Mimesis (2021), prova in cui la vocazione narrativa si sposa felicemente con l’attitudine allo studio assiduo e ponderato.
Narrativo ne è certamente l’incipit («Quando, alcuni anni fa, sono andata nella Sicilia occidentale per la prima volta, Retablo è stato il mio eccezionale baedeker»); narrativo è senz’altro l’avvio delle Conclusioni («Chiusi i libri, riposti gli articoli, resta un nastro di immagini, ‘fotografie’ accostate e sovrapposte: boschi, strade, aranceti, giardini, profili di palme e castelli, spiagge e isole, chiese e dimore di santi, rovine e musei, città che non esistono più e altre che restano eterne, altre ancora “invisibili” o chiuse l’una nell’altra in mirabile convivenza»); narrativi sono certi slanci esegetici, come la rêverie sulla pianta secentesca del Passafiume collocata di fronte all’Ignoto di Antonello da Messina, «quasi che lo sguardo penetrante del ritratto sia impegnato a scrutare e sorvegliare costantemente il microcosmo in cui è stato collocato»; ma rigorosa, oculatissima e ben documentata è l’indagine, suggerita dalla ragguardevole presenza, nell’opera di Consolo, di «indicazioni toponomastiche, direzionali, localizzative», dalla «segnalazione ricorrente di aree territoriali, contrade, vie, piazze, edifici», dall’«insistenza e l’accuratezza nel nominare i luoghi»: fenomeni ricondotti al «piacere precocemente sperimentato nella scoperta della stessa Sicilia, quando da ragazzino, al seguito del padre, imparava la novità e la varietà del paesaggio, pur segnato dalle macerie della guerra, al di là dei ristretti confini della natia Sant’Agata di Militello».
Sulla scorta di testi come Maps of the imagination: the writer as cartographer, di Peter Turchi, e con una preventiva discussione delle prospettive teoriche fiorite dallo spatial turn (geocritica, geopoetica, geotematica, ecocritica) e delle proposte della narratologia cognitivista, l’autrice cerca di definire il «principio territoriale» della scrittura di Consolo, di individuarne le cartografie (le mappe che orientano le sue esplorazioni e le mappe, reali o immaginarie, che lui stesso costruisce), distinguendovi in via preliminare due caratteri precipui: la natura ‘palinsestica’ (o, secondo il suggestivo battesimo di Daragh O’Connell, ‘palincestuosa’), ovvero il loro «legame particolarmente intenso e stretto con i testi anteriori»; i segni di «suggestioni sensoriali, risultato di una conoscenza ravvicinata e personale», di Storia (una «Storia che si può sperimentare, che si vive, una Storia dal basso, lontana dunque da quella dei grandi eventi») e di attività umane che vi sono impressi.
Quanto all’uso dei «testi anteriori», la ricerca stabilisce che il contributo dei classici greci e latini diventa apprezzabile «a partire dall’esperienza di traduzione dell’Ifigenia fra i Tauri euripidea del 1982», per costituire in seguito «un riferimento ricorrente, quasi un marchio presentato come garanzia di solennità e autorevolezza», che lo spazio ‘classico’ di Retablo si incista nella letteratura odeporica settecentesca (Von Riesedel, Brydone, Goethe), che L’olivo e l’olivastro si contagia (in specie nel cammino delle Latomie e nell’entusiasmo per la Venere Landolina) del Maupassant di La vie errante, che Di qua dal faro adotta lo sguardo tutto umano di Carlo Levi («un antiGoethe in carne e ossa»), valutando infine l’apporto degli scrittori siciliani plasmati dall’Isola che a loro volta plasmano in tratti memorabili: Pirandello, Sciascia e Tomasi di Lampedusa per l’area agrigentina; Cattafi e D’Arrigo per lo Stretto; Verga per il territorio dominato dall’Etna; Piccolo per l’arcadia dei Nebrodi; Vittorini per il simbolismo del nóstos.
Insieme a queste orditure intertestuali, Ada Bellanova prende in esame l’impiego originale di «geografie letterarie già divenute simbolo in forza di una lunga tradizione»: la Sicilia-Itaca (terra «irriconoscibile, luogo di mostruosità, di efferatezze, reggia in cui hanno vinto i Proci […] diventata Troia, perché non esiste più, se non nel ricordo», e dall’Ulisse-Enea che vi approda «in cerca di una nuova patria nella consapevolezza che la propria è ormai consumata dalle fiamme»; il «personale criterio di associazioni» che sovrintende al modello odissiaco di L’olivo e l’olivastro (esemplato dal particolare ‘trattamento’ delle Eolie: «La memoria delle regolari visite di un tempo a Lipari rende le isole un luogo intimo e l’elemento affettivo e personale prevale anche quando compare l’evocazione della vicenda odissiaca: il dio dei venti è l’oggetto della narrazione di Consolo ai nipoti, mentre la tempesta sull’equipaggio di Ulisse dopo l’incauta apertura dell’otre è sostituita dal tremendo mare che accompagna la fuga precipitosa dall’isola a causa della lettera di leva»); la declinazione dell’incontro con la madre a Sant’Agata «come ritorno a Itaca e insieme Nekya». Una particolare attenzione è poi riservata allo scenario di Ifigenia fra i Tauri (per la sorprendente associazione di Milano con la Tauride, come terra «gretta, inospitale, luogo di perdita della memoria, campo fertile per l’attecchimento di ideologie razziste», e per il suo contraltare di una Sicilia-Argo, oggetto del desiderio che può a suo luogo trasfigurare in violenta e prevaricatrice Tauride), alle suggestioni manzoniane di Il sorriso dell’ignoto marinaio (nel capitolo V, dove risuona, ma in un ambiente del tutto diverso, lo «scampanìo che prelude al mutamento d’animo dell’Innominato», e nel capitolo VII, per l’allusione alla peste e per lo «scendea per uno di quei vicoli», che «richiama alla mente l’immagine della madre di Cecilia che coltiva la compostezza e il decoro nella pietosa consegna dell’amato corpo della propria bambina al monatto»), all’eco, in Filosofiana, del Pitrè di Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, dell’Agamennone di Eschilo e delle Rane di Aristofane.
L’inventario considera poi gli apporti dell’universo figurativo (le ecfrasi dichiarate del Ritratto di ignoto, del Seppellimento di Santa Lucia, dello Spasimo di Sicilia, di una foto di Robert Capa, di reperti archeologici e beni architettonici, le citazioni pittoriche di Lo sposalizio della Vergine e di Los desastres de la guerra, le allusioni all’Ave Maria a trasbordo di Segantini e all’Angelus di Millet), delle recensioni artistiche dello stesso autore (sulle mostre di Michele Spadaro e di Franco Mulas), delle «trame sensoriali» che disegnano «paesaggi sonori, olfattivi, persino paesaggi gustativi» (come le offerte culinarie che accompagnano il viaggio di Clerici in Retablo, la fiera di San Calogero e la Pasqua in La ferita dell’aprile), delle fantasie scaturite da un «confronto personale con i luoghi», e del loro «uso simbolico» (così nel racconto giovanile Un sacco di magnolie «il profumo conturbante dei fiori e poi il nero delle corolle marcite rinvia alla morte del protagonista», in L’olivo e l’olivastro «il gelsomino lasciato marcire delle raccoglitrici in sciopero […] allude ai morti dell’industria di Milazzo», in Un filo d’erba al margine del feudo «il nero dominante sulle case e sulle persone del borgo di Tusa […] si lega alla morte drammatica di Carmine Battaglia»), dei tasselli di storia che, attraverso una «lingua non compromessa con il potere», danno voce «agli esclusi e alle loro utopie» e mettono in mora l’impresentabile presente, dei quadri che attestano il sofferto lavoro dell’uomo (la vita del latifondo in Ratumeni, la vendemmia in Nottetempo, casa per casa, la famiglia contadina in Il fosso, il museo contadino di Antonino Uccello in La casa di Icaro, gli agrumeti di Arancio, sogno e nostalgia, i cavatori di pomice di Il sorriso dell’ignoto marinaio, i pescatori in La ferita dell’aprile e La pesca del tonno).
Ma il cuore del libro è la sua seconda parte, Un percorso tra luoghi-simbolo, che verifica, per così dire, sul campo l’ampia e motivata premessa costituita dalla prima, Strumenti per percorrere i luoghi, nonché dall’Introduzione, perlustrando partitamente le sedi privilegiate della scrittura di Consolo: Sant’Agata; Cefalù; Palermo; Siracusa; le rovine dell’Isola; Milano.
Il paese natale – «limen», discrimine «tra un oriente e un occidente» che calamita una «grande ricchezza di notazioni affettive e di riferimenti a percezioni sensoriali» e diviene il prototipo di «un’immagine della Sicilia metafisica, arcaica e magica, e nel contempo viva e palpitante nei problemi sociali, economici e politici» – è chiamato, nel Sorriso, a una cruciale missione diegetica (per la scelta di mappare il suo castello Gallego con le scritte dei prigionieri di Alcara: «Lo spazio reale si traduce in scenario e simbolo: la scala diventa chiocciola, la chiocciola diventa storia, anzi la Storia, che si avvolge su se stessa e si confonde e confonde»), laddove in L’olivo e l’olivastro vi si incidono «i dettagli del ritorno doloroso […] mentre la madre si fa evanescente come Euridice e la casa viene distrutta, spazzata dalle ruspe, sostituita da un palazzo di banche e uffici che nasconde la vista della spiaggia e del mare».
Il microcosmo cefaludese, scena del Sorriso e di Nottetempo, è per Consolo già Occidente, una Palermo in miniatura (dove si può più facilmente leggere il meticciato arabo-normanno sotteso all’identità siciliana), epperò infinitamente espansibile come una «faulkneriana yoknapatawpha». In questo «labirinto di vicoli e strade» che – sebbene non sia «precisamente collocato nel territorio, tra la Rocca e la spiaggia della Calura, che ha il suo centro nel Duomo», come invece, in un volo poetico, lo vede l’autrice: la Calura si trova in verità dietro la Rocca, nel fianco opposto a quello che dà sull’abitato, e il Duomo sta semmai tra la Rocca e il porticciolo – è fedelmente restituito nei due romanzi (con l’ausilio di mappe a loro volta oggetto di ariose descrizioni), i percorsi dei personaggi sono delineati, con una ricca e persuasiva analisi, come itinerari sonori e luminosi. Quello di Sasà, nel Sorriso, è dapprima scandito dal «latrato dei cani», dal «gemito dei mulini attivi», da «galline ruspanti», dal «ronzìo di vespe e zanzare», dalle grida dei pescivendoli, dalle imprecazioni dei carcerati, mentre nella piazza del Duomo predomina «il senso della vista» e più innanzi le due percezioni sfociano nel «si videro oscillare le campane», dove «è proprio il propagarsi del suono che suggerisce uno sguardo più ampio sul paese, altrimenti impossibile».
Similmente, in Nottetempo, il suono dello zoccolo del cavallo di don Peppino «mentre si propaga, ci fa vedere» e, nell’incipit, «Il procedere dolorante del luponario, accompagnato da un ululato profondo, mostra i luoghi a gara con la luce. Le reazioni al suo passaggio […] costruiscono un itinerario sonoro. È proprio questa la prima immagine di Cefalù del romanzo, quella disegnata dal percorso disperato dell’uomo, sotto l’altro, luminoso, della luna». Altre epifanie del ‘sentiero luminoso’ saranno il ferino crepuscolo dal balcone di Don Nené (colto come controcanto ironico all’incipit del Piacere), il sole che illumina «la vista dei pascoli di Janu, quindi la Rocca» e «scandisce poi con le sue gradazioni le tappe dell’incontro e dell’amore con la thelemita», per culminare nel fulgido trionfo del Duomo che sarà ancora celebrato nella visitazione satanico-mistica di Crowley e nel racconto La corona e le armi.
«Se Cefalù è la porta del mondo, Palermo è il mondo», e la sua rappresentazione sarà quindi più complessa, attuata «integrando una varietà di sguardi letterari e testimonianze della stratificazione urbanistica e accogliendo innumerevoli stimoli sensoriali, alternativamente seducenti e inquietanti». Il palinsesto letterario (che annovera prelievi da Boccaccio, Ibn Giubayr, Amari, Tomasi di Lampedusa, Lucentini, Falcone, Goethe, Brydone, Pitrè, La Lumìa, Lucio Piccolo) si intreccia con le sontuose quanto ambigue «sollecitazioni sensoriali» cui è impossibile sottrarsi, tanto che «Solo l’immedesimazione permette di fare esperienza dell’universo multiforme di Palermo», e con il «multistrato» delle sue architetture, distribuito fra le sopravvivenze arabo-normanne e i più recenti misfatti urbanistici: un coacervo che trova il suo emblema nella pasta con le sarde, perfetta versione culinaria della feconda contaminazione di culture differenti che costituisce «l’identità più vera» della città che nello Spasimo di Palermo giunge a configurarsi come un’Itaca, se pure stravolta (dato che «non sa offrire consolazione all’esule nel momento del ritorno, ma non ha saputo offrirne neppure un tempo»), o a esibire finte topografie, come quella del palazzo di Martinez in cui Consolo trasferisce «la vicenda della propria casa natìa di Sant’Agata».
La Siracusa di Consolo (scoperta precocemente nel 1950, in una gita scolastica) è luogo di luce che prende un corpo di donna in cui confluiscono la statua di Venere Anadiomene, divinità del mito (Aretusa, Atena, Afrodite, Artemide, Kore), Santa Lucia, e ogni altra femminea sembianza, «a partire da quelle che per i loro capelli e il portamento apparvero diverse, nuove, nel primo incontro con la città ricordato in Siracusa il mio primo talismano» (caratteri restituiti con una insolita «ricchezza di riferimenti intertestuali», un «collage di citazioni e richiami» in cui entrano in gioco gli itinerari di Caravaggio, Maupassant, Von Platen, del ceroplasta Zummo, della Dichiarazione della pianta delle antiche Siracuse di Vincenzo Mirabella, i versi di Pindaro, Virgilio, Ibn Hamdis, Ungaretti), ma è insieme, soprattutto nelle ultime prove, icona del tramonto di una civiltà, divenuta (per il suo odierno degrado, per i mostri delle raffinerie, per il suo «squallore sonoro») «Argo del sogno e della nostalgia di Ifigenia, un luogo che non esiste più perché stravolto dall’orrore dall’omicidio».
Con il pellegrinaggio nelle rovine siciliane Consolo continua a coltivare un gusto appreso già nell’adolescenza, una consuetudine che vale anche a «evadere dal presente», in una «prospettiva idealizzante» anch’essa affidata a una «fitta trama intertestuale in cui spiccano pause ecfrastiche, memorie di autori antichi, narrazioni di miti, evasioni arcadiche». Con questa singolare contaminazione di fatti sensibili e fatti libreschi, Segesta, Selinunte e Mozia acquisiscono «tutta l’intensità di luoghi fisici, di cui si può fare esperienza, in una ricchezza di suggestioni non solo mentali – l’imponente passato a cui rinviano – ma anche visive, olfattive, uditive». Se Segesta induce anzitutto «la contemplazione estatica del paesaggio e l’evocazione del passato, delle infinite epoche trascorse, fino al rapimento nel passato», la Selinunte di Retablo è, nelle metope che la finzione restituisce al luogo d’origine, pietra che parla ed è parlata: nella descrizione del riquadro di Zeus e Era la studiosa ipotizza un attendibile richiamo «a uno specifico passo dell’Iliade, ovvero XIV 346-351» e nella bellissima fanciulla del témenos di Demetra Malophoros intravede l’allusione «ad uno dei Desastres de la guerra di Goya, ovvero Murió la verdad». Mozia è invece, sempre in Retablo, mistero: il mistero dei naufragi, nel passo suscitato dai relitti intravisti nei fondali al momento dello sbarco di Clerici (al cui riguardo si congettura «la conoscenza di Naufragio con spettatore di Hans Blumemberg»); il mistero dei reperti, oggetto di un «procedimento ecfrastico originale che restituisce la natura delle antiche opere d’arte ipotizzandone la collocazione settecentesca, quindi lo stato d’abbandono e l’accumulo casuale»; il mistero dell’efebo greco in terra fenicia, che il racconto destina ancora a un fondale marino, includendo, secondo l’autrice, una «reminiscenza di Morte per acqua di Eliot, IV sezione di The Waste Land», con lo scambio fra il ragazzo ellenico e Phlebas il Fenicio.
La rassegna dei ‘luoghi-simbolo’ si chiude con Milano, contrada della speranza divenuta inospitale e difficilmente narrabile, spazio ostile che respinge il migrante cresciuto nel suo mito: la relazione di Consolo con la città «non arriva mai ad essere equilibrata, pacifica». Con l’eccezione dell’oasi multiculturale e versicolore di Porta Venezia, «uno spazio di riconciliazione», la metropoli lombarda appare scialba e sorda e, nello Spasimo (dove l’amaro congedo di Chino profila «un Addio ai monti capovolto»), «recinto dei moribondi di manzoniana memoria», mentre in Retablo la corrotta città del Settecento filigrana «il degrado della Milano craxiana», deriva morale che provoca in ultimo le requisitorie contro i successi elettorali di Mascelloni/Berlusconi.
La terza parte del libro, Ecologie consoliane, articolata nelle sezioni Per un’ecologia del paesaggio e dell’identità e La prova della ricostruzione. Per un’ecologia del dopo disastro, ritaglia le zone che in Consolo investono il «delicato rapporto tra uomo e ambiente in Sicilia e nel Mediterraneo».
I casi dei poli industriali di Milazzo, Gela e Siracusa, gli incendi e la speculazione edilizia ne rappresentano, nella prima sezione, il versante negativo. A formare l’immagine di Milazzo concorrono un’antica familiarità con il luogo (l’adolescente Consolo era solito sostarvi «di ritorno dalle Eolie dove viveva una delle sorelle»), le notizie dello storico locale Giuseppe Piaggia (che ne fanno una terra d’idillio, promossa in La mia Sicilia «giardino di Alcinoo» e «sicula terra dei Feaci») e, con un «effetto straniante», il racconto odissiaco degli armenti del Sole (tradizionalmente posto nella piana di Mylai), quando l’empietà degli industriali e dei politici che hanno voluto la raffineria a spese del paesaggio e degli esseri umani viene assembrata a quella dei compagni di Ulisse, e l’esplosione è il momento in cui essi «banchettano con le carni dei buoi sacri, autoassolvendosi nella promessa del futuro sacrificio». Un analogo straniamento raggiunge il polo industriale siracusano, accostato a sorpresa, in L’olivo e l’olivastro, «al culmine di una descrizione che, per quanto cupa, ha tratti realistici», al paese dei Lestrigoni (che un passo tucidideo vuole in Sicilia), e dove si rileva che il modello omerico lotta con quello virgiliano («l’area si presenta come un’Itaca impossibile, non approdo del ritorno ma regno dei Lestrigoni, ed è allo stesso tempo la città di Troia devastata dalla guerra»), mentre il petrolchimico di Gela attira, per evocare l’inferno, anche morale, della città, la parola di Eschilo (quando condanna il delitto di Clitennestra), proponendo inoltre l’«associazione del petrolio alla trovatura nelle tombe greche, nelle cisterne saracene».
Passando alle devastazioni prodotte dagli incendi e dalla speculazione edilizia, l’accurato scandaglio dell’intera produzione di Consolo, soprattutto giornalistica, permette di concludere che esse sono per lui «il risultato di quella profonda e repentina trasformazione che consiste nella fine della civiltà contadina e nell’avvento forzato del miracolo industriale». Viceversa, il lato positivo del ‘pensiero ambientale’ di Consolo è comprovato dalla sua autentica militanza a favore di «una biodiversità naturale e umana ancora possibile», manifestata dalle pagine sui Nebrodi (che prevedono anche «un impegno attivissimo a favore dell’istituzione del parco») e sull’area dei monti Iblei («tratteggiata come un’alternativa di rinascita», con la necropoli di Pantalica a rappresentarvi «la resurrezione, la vita, pur essendo un luogo di morte, poiché in essa riposa la memoria identitaria», e presidiata dalle straordinarie persone di Antonino Uccello, del mielaio Blancato, del «vecchio Paolo Carpinteri, che intaglia il legno, costruisce zufoli e narra storie di erbe e animali fantastici», di Gina e Pino Di Silvestro, di Sebastiano Burgaretta), e annunziata dal pastore Nino Alaimo di Retablo, che raffigura «l’equilibrio, la serenità, un modo più umano e sostenibile di vivere».
La seconda sezione di Ecologie consoliane si concentra sui luoghi colpiti da disastri naturali e sulle «implicazioni antropologiche, identitarie, relazionali, storiche» del ricostruire. Le eruzioni dell’Etna, guardate attraverso il Leopardi della Ginestra e la filosofia di Empedocle, chiamano in causa il mito: il selvaggio Polifemo è identificato con il vulcano, e Ulisse con l’«uomo tecnologico», capace, con le sue arti, di fronteggiarne la devastante potenza. I brani sul terremoto di Noto si muovono invece, mediante l’«associazione Kore-ape-Noto», tra le note gaudiose che inneggiano alla mirabile ricostruzione dopo il terremoto del 1693 e il rammarico per il successivo degrado che ha prodotto la «dimenticata marcia scenografia teatrale» di L’olivo e l’olivastro, facendone l’«Argo amara, in guerra» di una «Ifigenia smarrita»: uno sfacelo che diviene «l’emblema di una rovina che non riguarda solo gli Iblei, ma la Sicilia, l’Italia, il mondo» e che si fa ancor più evidente nel caso di Gibellina e della sua discussa ricostruzione. In L’olivo e l’olivastro il sito «è innalzato a simbolo: è Ilio nel momento della partenza dopo il disastro, non sa essere Itaca nel ritorno, perché troppo diversa si presenta all’esule» (in Metamorfosi di una melodia, sarà «emblema della negazione dell’identità e della memoria», come la Gerusalemme distrutta dai Romani), mentre nei testi del 2008, chiamati a ricordare il quarantesimo anniversario del sisma, «prevale l’invito alla rinascita della Valle del Belice».
La quarta parte del libro, Leggere e scrivere il Mediterraneo, si sofferma sui modi in cui l’interesse di Consolo per la Sicilia e il sud si riverbera sull’intero spazio del mare nostrum. Se la Sicilia si identifica nel «flusso incessante di energie umane e culturali», tutta l’area mediterranea è «crocevia di popoli differenti»; ed entrambe sono insieme «scenario di devastazione» e «archivio di eredità preziose». Il loro Ulisse «non è l’eroe del ritorno, è piuttosto il migrante», condannato a un esilio perenne. Nel suo viaggio, «insieme all’ansia di scoperta e conoscenza, è evidenziato il senso di colpa e il rimorso per l’abuso della tecnologia che distrugge patrimoni e vite umane». Il Mediterraneo è per Consolo un «mondo unico». L’arancio diffuso nelle sue coste è «sogno di un Eden perduto», simbolo di «uno spazio sano in cui le piante odorose possono ancora fare mostra di sé accanto alle rovine del passato». In Palestina le colline di roccia e deserto gli ricordano i prediletti Iblei, e il lamento delle donne per i guerriglieri morti la tragedia greca. La Casbah di Algeri gli fa pensare al centro storico di Palermo. Di Utica lo colpiscono le rovine e il basilico, ma «tutto il Mediterraneo in qualche modo è Utica».
Come la Sicilia, tutto il Mediterraneo è oggi «una Tauride senza speranza». In Le pietre di Pantalica Beirut è come Palermo. Le macerie di Sarajevo 1997 cancellano la civiltà. La Palestina 2002 è un inferno appena mitigato dalla rugosa matrona di Ramallah che offre nepitella. Ma, come il suo Ulisse è un migrante, il Mediterraneo di Consolo è soprattutto «spazio di migrazioni». Il suo mare «non è di nessuno, non può essere veramente limite, e la terra non reca un marchio di possesso ma molti strati di identità che il tempo e i popoli plasmano, partendo, arrivando». La presenza degli Arabi in Sicilia ha lasciato segni profondi sia nell’ambito agricolo che in quello artistico-culturale. L’antica emigrazione megarese nel versante orientale dell’Isola è piegata, forzando l’anodino referto di Tucidide, a modello di uguaglianza, progresso e raziocinio. Le migrazioni italiane verso il Maghreb e l’emigrazione maghrebina in Italia tradiscono la contiguità dei due mondi. Di qui l’impegno civile di Consolo: la coraggiosa denuncia di episodi di xenofobia e persecuzioni, di leggi disumane, del cinismo politico, della barbarie dei cosiddetti centri di accoglienza, dell’ipocrisia di chi vuole per Lampedusa, prima che un’ospitalità degna di questo nome, il sepolcro imbiancato di un Museo, la beffa di un Monumento.
Terminato il viaggio cartaceo, riposto il voluminoso volume, la ricognizione di Ada Bellanova nell’ideale baedeker di Consolo ci appare a sua volta come una preziosa ‘guida alla guida’, un’appassionata quanto precisa cartografia che registra le concrezioni che vi sono depositate, i fili sotterranei che ne muovono le piste. Fra i suoi esiti, giustamente rivendicati nelle Conclusioni, piace qui rimarcare la esaustiva mappatura dei numerosi rimandi a Omero, Virgilio, Euripide, Tucidide e agli storici greci, svolta con acribia e sulla base di solide competenze: apprendiamo così che le geografie omeriche hanno in Consolo una funzione connotativa, interrogano la natura dei luoghi attraversati; che l’Eneide è adottata come «racconto di migrazione», dove «i simboli dell’epos latino integrano e correggono quelli dell’Odissea omerica nella rappresentazione di uno spazio compromesso con l’esperienza dell’esilio»; che l’Argo di Ifigenia fra i Tauri «concorre a definire i tratti della patria lontana, desiderata», quando la Tauride «è la terra dell’esilio, ovvero dell’estraneità, della perdita culturale, non solo luogo geograficamente definito, ma anche tempo di condanna e di sconfitta».
Ugualmente significative mi sembrano le considerazioni sul ruolo dei termini dialettali (adoperati da Consolo per restituire «un’affettività dello sguardo e testimoniare il legame del ricordo», ma anche per rendere «tratti non altrimenti riferibili con altrettanta precisione»). Ma le notazioni che più mi hanno sorpreso sono quelle che toccano la passione civile di Consolo (rivelata soprattutto dal sistematico spoglio della sua vasta produzione giornalistica), milizia che trasforma il suo baedeker in uno strumento insolito, obliquo (portato com’è all’indignazione e alla protesta), e dove l’invettiva contro la profanazione dei luoghi e della loro identità richiama un plurilinguismo che è anch’esso un ‘gesto politico’: il ricorso al dialetto, a termini greci, bizantini, arabi, normanni, sancisce il rifiuto dell’«im-mondo», il monocorde presente che annulla le differenze, nega le nostre singole storie.
Dialoghi Mediterranei, n. 52, novembre 2021
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Antonio Pane, dottore di ricerca e studioso di letteratura italiana contemporanea, ha curato la pubblicazione di scritti inediti o rari di Angelo Maria Ripellino, Antonio Pizzuto, Angelo Fiore, Lucio Piccolo, Salvatore Spinelli, Simone Ciani, autori cui ha anche dedicato vari saggi: quelli su Pizzuto sono parzialmente raccolti nel volume Il leggibile Pizzuto (Firenze, Polistampa, 1999).
La Sicilia passeggiata Vincenzo Consolo fotografie di Giuseppe Leone
di Gianni Turchetta
Da molti anni speravo di ripubblicare La Sicilia passeggiata. E mi piace ricordare subito come anche Caterina, la compagna di una vita di Vincenzo Consolo, lo desiderasse molto. Benché rimasto appartato, e conosciuto quasi solo dagli specialisti, questo testo, come potrete presto constatare, esercita sul lettore una seduzione intensa, fatta di leggerezza e profondità, dinamismo e erudizione. Queste qualità sono rilanciate e riecheggiate a ogni pagina dalla forza vibrante e dalla fulminea capacità di condensazione visiva e simbolica delle foto di Giuseppe Leone.
In La Sicilia passeggiata narrazione, poeticità e saggismo si fondono felicemente, integrandosi nell’evidenza dinamica degli spostamenti, marcata a ogni passo dai verbi di moto. Si veda l’attacco, tra avventuroso e onirico: “Sospinti dal vento, immaginiamo d’approdare” (p. 17). È una trama lieve e decisa, che quasi sospinge il lettore: “Non sostiamo. Procediamo” (ibidem), “Siamo giunti” (p. 18), “è da qui che vogliamo partire” (ibidem); o ancora: “Abbandoniamo” (p. 46), “Dalla piazza di Scicli voliamo” (p. 48), “Andiamo avanti, avanti” (p. 76), “Salpiamo da Porto Empedocle” (p. 96) e così via. In prima approssimazione, il viaggio attraverso cui Consolo ci guida va da Oriente a Occidente. Si parte dalla necropoli di Pantàlica, per poi raggiungere i Monti Iblei, il Val di Noto, Scicli, e poi Còmiso, Vittoria, Ragusa Ibla, Modica, Siracusa, e ancora Enna, i paesi dello zolfo e quelli del latifondo, fino a immettersi “nell’antica strada che congiungeva Arigento a Catania” (p. 90), arrivare a Gela, Agrigento e la Valle dei Templi, Porto Empedocle, proseguendo per Sciacca, Caltabellotta, Selinunte, Salemi e Calatafimi, e poi Segesta, Trapani, e da qui ancora Èrice e Mozia, le Égadi, fino a Palermo, già punto d’arrivo del viaggio siciliano di Goethe. Ma il movimento fisico è solo l’asse portante di una fitta sequenza di scorribande attraverso il tempo e lo spazio, in un andirivieni senza soste, modulato da continue transizioni tematiche. L’inarrestabile fluidità del discorso è del resto dichiarata apertamente, e coincide con il desiderio di una conoscenza efficace proprio perché pronta a riconoscere un’irriducibile pluralità: “vogliamo partire”, infatti, “per un nostro viaggio, per una nostra ricognizione della Sicilia, per inventarci, liberi come siamo da confini di geografia, da limiti d’epoca storica o da barriere tematiche, un modo, tra infiniti altri, per conoscere quest’isola al centro del Mediterraneo, questo luogo d’incrocio d’ogni vento e assalto, d’ogni dominio e d’ogni civilizzazione.” (p. 18)
Si viaggia, insomma, sotto il segno della molteplicità, caratteristica dell’identità della Sicilia, ma anche del Mediterraneo tutto, come Consolo ha ribadito per una vita intera. Né possiamo dimenticare quanto la pluralità (di lingue, di stili, di generi) sia il cuore della sua ricerca artistica. Il movimento che sospinge La Sicilia passeggiata è incardinato, originalmente, su una prima persona plurale: dove il “noi” è pluralis majestatis, ma piuttosto sobria allusione a una possibile piccola compagnia di viaggiatori. Proprio per questo il “noi” assume una movenza esortativa, come d’invito al lettore a viaggiare insieme all’autore: stabilendo così una sorta di intimità, di vicinanza affettiva oltre che culturale. Non dimentichiamo che questa è una “Sicilia passeggiata”, dove il riferimento alla “passeggiata” non è disimpegno, ma possibilità di conquistare un peculiare regime di leggerezza e libertà, che si fa garanzia di conoscenza, perché capace di accogliere le ragioni della storia insieme a quelle del mito e del sogno, e dunque della poesia. D’altro canto, La Sicilia passeggiata, come è tipico dell’odeporica, della letteratura di viaggio, è sì racconto, ma sempre sorretto da informazioni e spunti lato sensu saggistici: come del resto tutto quello che scrive Consolo. La scelta del titolo è tuttavia segno di differenze profonde rispetto ad altri testi ch’egli scrive in quegli anni. Proviamo a metterle a fuoco.
Quello che poi diventerà La Sicilia passeggiata esce per la prima volta col titolo Kore risorgente. La Sicilia tra mito e storia, in un lussuoso volume hard cover (cm. 29×25), Sicilia teatro del mondo, pubblicato da Nuova ERI / Edizioni RAI nel settembre 1990. Di questo volume costituisce la “metà” letteraria, affiancata, oltre che dalle fotografie di Giuseppe Leone, che già dialogano con il testo consoliano, da un bel saggio di Cesare De Seta, Teatro geografico antico e moderno del Regno di Sicilia, che racconta la storia siciliana a partire dall’omonimo volume uscito a Madrid nel 1686, del cui sontuoso apparato iconografico si riproducono circa cento stampe, su cartoncino. Entrambi i testi sono tradotti in francese (da Nicole Dumoulin) e in inglese (da Richard Kamm). Pochi mesi dopo, nel febbraio 1991, il testo di Consolo e le fotografie di Giuseppe Leone diventano però un volume autonomo, stavolta in un agile formato paperback (cm. 24×14), edito ancora da ERI, con il titolo che qui riproponiamo.
Rispetto alla storia della scrittura di Consolo, La Sicilia passeggiata si colloca fra due opere diversissime, ma che sono entrambe, a loro volta, il racconto di un viaggio in Sicilia. La prima è il romanzo Retablo (1987), ambientato nel 1760-1761, in un Settecento volutamente remoto e irreale, mezzo storico e mezzo fantastico, in opposizione alla deludente realtà storica. La seconda è L’olivo e l’olivastro (1994), viaggio stavolta autobiografico, ancora più apertamente polemico contro il degrado del presente, incardinato sullo schema omerico del nòstos (evocato fin dal titolo, ch’è citazione dall’Odissea). Numerosi spunti odeporici compaiono anche in Le pietre di Pantalica (1988): a prima vista un libro di racconti, ma in realtà frutto della fusione di un originario impianto romanzesco con un pacchetto di narrazioni autobiografiche. Più esili sono invece i rapporti con il romanzo storico Nottetempo casa per casa (1992, Premio Strega)[1]. Proprio il confronto con gli altri due viaggi in Sicilia aiuta a delineare con nettezza, per differentiam, i contorni di La Sicilia passeggiata. Per dirla in pochi cenni, è vistosa anzitutto la distanza rispetto alla fiction di Retablo, con cui pure ci sono non pochi fascinosi elementi di contatto (come i rimandi alla visita goethiana alla grotta di Santa Rosalia, che in Retablo però compare all’inizio, mentre qui è in chiusura). Ma non meno evidente è lo scarto rispetto all’impianto poematico, stilisticamente “alto”, tragico, di L’olivo e l’olivastro, che intreccia il viaggio in Sicilia con la rievocazione delle vicende di personaggi storici rilevanti nella storia dell’isola (Empedocle, Verga, Caravaggio, Maupassant, Saverio Landolina, August von Platen, il giudice Ciaccio Montalto, ucciso dalla mafia, e altri ancora). La copia postillata dall’autore di La Sicilia passeggiata mostra, significativamente, ipotesi di interventi che avrebbero non solo ampliato materialmente il testo, ma anche contribuito a spostarne l’intonazione verso l’alto e i contenuti verso la deprecatio temporis, sospingendolo verso quello che sarà poi L’olivo e l’olivastro. Ma i due libri vanno in realtà in direzioni molto diverse, quasi opposte. Se L’olivo e l’olivastro è infatti tutto teso a sottolineare “i processi di imbarbarimento, di perdita, di orrori”, come dichiarato in un’intervista, La Sicilia passeggiata intende invece valorizzare la ricchezza storica, artistica e naturale dell’Isola, per coglierne l’irriducibile complessità. Come osserva opportunamente Ada Bellanova, “l’attenzione per gli esseri umani e gli intrecci di identità diverse diventa in La Sicilia passeggiata il nodo centrale dello sforzo di dire”[2]. Senza contare l’importanza del rapporto, assai stretto e in qualche misura fondativo, fra il percorso e l’apparato fotografico che lo accompagna, collocandolo in una piccola tradizione di libri dove il testo di Consolo sta accanto a foto dedicate a “luoghi geografici, specialmente siciliani”[3].
Certo anche La Sicilia passeggiata conferma, con la densità dei suoi riferimenti alla classicità greco-latina, l’appartenenza a una stagione di riavvicinamento all’antico, che si fa misura del degrado e della corruzione del presente. Ricordiamo anche la tragedia Catarsi (1989), dedicata alla morte di Empedocle. Consolo si mostra ben consapevole delle differenze tematiche e tonali proprio nel momento in cui, invece che integrare e ampliare La Sicilia passeggiata, decide di scrivere un altro libro, molto più cupo, “alto” e polemico, come L’olivo e l’olivastro. La Sicilia passeggiata va letta, anzitutto, nella chiave della complessità e dell’ambivalenza, che Consolo ritrovava già in Goethe: “Isola dell’esistenza pura e contrastante. Isola dell’infanzia, dei miti e delle favole. Isola della storia. Di storia dei primordi, degli evi di scoperte e di conquiste. Storia di classici equilibri, di decadenze, di crolli, di barbarie. Crogiuolo di civiltà, babele delle razze e delle lingue. Enigma mai risolto è la Sicilia, è archetipo, aleph, geroglifico consunto, alfabeto monco” (p. 18). Dove la contraddizione originaria è anzitutto quella più assoluta e irriducibile: il contrasto fra Vita e Morte, evocato già dal primo titolo, Kore risorgente, che allude alla storia di Persefone, sposa di Ade e regina dell’Oltretomba, che ogni sei mesi torna all’aperto dalla madre Demetra e fa rifiorire la Terra. Non a caso, del resto, questo viaggio siciliano comincia dalla necropoli protostorica di Pantàlica: “vogliamo partire da questo luogo estremo e abissale, da questa soglia per cui si passa dalla scansione della storia all’oscurità del tempo, all’eterno circolare e immoto […]. Poiché Pantàlica è sì un luogo di morte, ma è insieme luogo di resurrezione, di cominciamento: è luogo-simbolo di questa complessa e contrastante terra di Sicilia, della sua storia di ricorrente distruzione e di rinascita” (p. 20). In una direzione analoga vanno molte altre storie evocate: come quella del catastrofico terremoto in Val di Noto del 1693, da cui poi nacquero alcune delle più straordinarie realizzazioni artistiche del barocco siciliano. Ma persino lo spaventoso groviglio di contraddizioni che è Palermo la Rossa, su cui si chiude il libro, riconferma una dinamica analoga. Santa Rosalia, infatti, la “Santa estatica” patrona di Palermo, coincide con “tutte la Sante vergini di Sicilia, Agata Lucia Venera Ninfa, ed è insieme Kore e Persefone”, e si colloca dunque di nuovo sotto il segno della vita che rinasce, di Demetra che torna alla superficie e alla luce: “Come fa l’ape nella primavera, come fa la primavera della storia” (p. 138). Con questa certezza anche noi, dopo tanto buio, ricominciamo il nostro viaggio.
RINGRAZIAMENTI.
Un grazie specialmente sentito va a Giuseppe Leone, che per la presente edizione
ha rivisto e arricchito lo splendido apparato fotografico: così questo libro è
un ritorno, ma anche un libro nuovo. Grazie, di cuore, a Claudio Masetta
Milone, che mi ha rivelato le postille di Consolo al volume, e a Francesca
Adamo, che ha creduto in questo libro e ne ha curato con competenza impaginazione
e redazione.
[1] Per una ricostruzione dettagliata della storia delle opere a cavallo fra fine anni Ottanta a primi anni Novanta mi permetto di rimandare a G. Turchetta, Note e notizie sui testi, in V. Consolo, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di G. Turchetta, e con uno scritto di C. Segre, Mondadori, Milano 2015, pp. 1351-1425.
[2] A. Bellanova, Un eccezionale Baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI) 2021, p. 28.
[3] Ivi, p. 25n.
La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo
di Ada Bellanova
Partendo dall’evidente ricchezza di riferimenti geografici osservabile nell’opera di Vincenzo Consolo, il saggio si propone, mediante uno studio delle modalità di costruzione dell’immagine letteraria, di accendere l’attenzione non solo sugli spazi di cui l’autore parla direttamente, ma anche sulla nostra relazione con lo spazio. Guida dunque il lettore attraverso un universo labirintico e ‘palincestuoso’, che ha il suo centro in Sicilia e che comprende il Mediterraneo, l’Italia, il mondo intero. Invitando a cogliere la complessità della percezione e della rappresentazione, si sofferma sul dramma ecologico di un paesaggio costantemente a rischio e sulla crisi dell’identità umana che ne consegue.
Evidenziando poi la caratterizzazione del mare Mediterraneo come spazio di molteplicità e migrazioni lo studio rivela un’importante riflessione autoriale sulle emergenze dei nostri giorni.
“Il lettore potrà, facendosi strada in uno spazio letterario labirintico, compilare mappe di senso e comprendere i luoghi dell’autore e il nesso esistente tra geografie di carta e geografie reali? Se sì, forse sarà incoraggiato a scoprire la Sicilia, il Mediterraneo, chissà anche Milano. Ma, fatta salva la specificità dei luoghi chiamati in causa, si troverà inevitabilmente di fronte a una serie di riflessioni di più ampia
portata, ciò che accade di fronte alla vera letteratura. Comprenderà che i luoghi non sono uno sfondo, non solo quelli della pagina scritta, ancor meno i loro referenti della realtà: nessun luogo reale, infatti, è un
semplice contenitore, uno scenario su cui sfilare. Mediterà allora sul proprio modo di percepire lo spazio, sulla relazione tra rappresentazione e realtà, sulla memoria e sul cortocircuito che si produce quando, nello scorrere del tempo, Itaca smette di essere Itaca mentre i ricordi restano fedeli al passato. Sarà costretto a pensare a quello che sta succedendo al paesaggio, a tratti esteticamente splendido, a tratti deturpato, privato della sua identità. Ecco, si interrogherà sull’identità: se i luoghi non sono uno sfondo e smettono di essere quello che sono – fagocitati dall’omologazione, da interessi economici, dalla costruzione di barriere –, inevitabili e funeste sono le conseguenze anche sugli esseri umani. Così strettamente interrelate sono l’identità degli uomini e quella degli spazi. Per questo allora l’opera di Consolo può dirsi un eccezionale baedeker: vi si può cogliere l’invito a scoprire alcuni angoli geografici, mediante il rilievo a proposito delle emergenze architettoniche o naturalistiche che attendono il lettore che voglia avventurarsi alla scoperta dello spazio reale, ma vi si troverà anche la presentazione dei deprecabili interventi che deturpano il paesaggio e la vita umana. Già questo basterebbe ad attestarne la particolarità, perché le guide di viaggio, anche quelle “letterarie”, si soffermano piuttosto sugli aspetti seducenti, evitando invece ciò che produrrebbe un’esperienza quanto meno sgradevole per il lettore-viaggiatore. Mentre, alternando la lente dello stupore e dell’idealizzazione a quella dell’indignazione, attrae e scoraggia, il testo svela la complessità della nostra relazione con lo spazio, costringendo ad un’esperienza non sempre gratificante, e guida a una maggiore attenzione nei confronti dei luoghi, di tutti i luoghi, in quanto portatori di identità. Agli importanti segni di crisi della modernità l’opera risponde affermando il valore di ciò che è rimasto, traccia di passato nel presente: solo nella conservazione, nella cura possiamo sperare di non perdere noi stessi, ma questo non può accadere senza consapevolezza. Consolo dichiara insomma che i luoghi non sono uno sfondo, ma ci appartengono profondamente e rileva l’intimo scambio che esiste sempre tra ambiente e essere umano. Mi piace pensare allora che nei versi di Accordi, con l’ignoto tu, l’autore alluda proprio a questo, ad un’identità sua e di tutti i figli del Mediterraneo, un’identità nata da una relazione vecchia di secoli con la terra, le piante, i muri a secco, con i paesaggi: tolto tutto questo, cosa saremmo?
Sei nato dal carrubo
e dalla pietra
da madre ebrea
e da padre saraceno.
S’è indurita la tua carne
alle sabbie tempestose
del deserto,
affilate si sono le tue ossa
sui muri a secco
della masseria.
Brillano granatini
sul tuo palmo
per le punture
delle spinesante [1]”.
[1] Accordi. Poesie inedite, a cura di F. Zuccarello e Claudio Masetta Milone, Zuccarello editore, Sant’Agata di Militello 2015.
Vincenzo Consolo, Memorie
In memoria di Caterina
Dopo La grande vacanza orientale-occidentale (2001) e Il prodigio (2014), le Edizioni Libreria Dante & Descartes di Napoli, nel piccolo formato che le contraddistingue, consegnano, in questo luglio del 2020, un testo di Vincenzo Consolo intitolato Memorie, già pubblicato nella raccolta di saggi La mia isola è Las Vegas (Milano, Arnoldo Mondadori, 2012).
Questo prezioso libricino gode della prefazione di Claudio Masetta Milone, uno dei soci fondatori dell’associazione «Amici di Vincenzo Consolo», collaboratore anche con il Centro Studi iniziative culturali Pio La Torre, di Palermo. Claudio Masetta Milone è anche uno dei fondatori della «Casa della Letteratura di Vincenzo Consolo» a Sant’Agata Di Militello, paese natio dello scrittore.
A scanso di equivoci e senza nessun compiacimento verso le proprie motivazioni, Vincenzo Consolo chiarisce ciò che intende con il vocabolo «Memorie»:
Avrei potuto, o potrei, giunto alla mia età, riempire pagine e pagine di ricordi, di memorie, ricostruire, al di là d’ogni validità letteraria, un tempo perduto, stendere una mia, un’umile, piccola recherche. Ma non è questo il moto e lo scopo del mio scrivere (p. 5).
Rievocando il rapporto esistenziale che lega lo scrittore al suo paese di origine, Claudio Masetta introduce dialetticamente la tematica memoriale, quasi creasse un dialogo tra sé, il lettore e lo scrittore: «Fare memoria significa essenzialmente narrare» (p.12). Ma come nasce la narrazione? Nasce innanzitutto dal bisogno insaziabile di Consolo di ascoltare di nuovo i minimi particolari della sua zona, che siano geografici, umani, sociali o linguistici. Precisa Claudio Masetta: «L’ascolto dei fatti santagatesi era lo scoglio da cui, ogni volta, la narrazione spiccava il volo, nello spazio e nel tempo» (p.12-13).
Ricorrentemente desideroso di definire la propria identità di uomo e di scrittore (ciò che fece in molti scritti), Vincenzo Consolo evoca la posizione geografica di Sant’Agata Di Militello. Comune sito a mezza strada tra Messina e Cefalù, la zona divide la Sicilia orientale, la Sicilia greca, terra di miti, la cui espressione si svolge prevalentemente «in forme poetiche, in toni lirici, in scansioni musicali (p. 25), dalla Sicilia occidentale, influenzata dagli Arabi, un’area segnata dalla storia, dai molteplici colonizzatori, dai conflitti sociali, e «che si esprime in forme prosaiche, in toni discorsivi, in scansioni logiche» (p. 26).
Su questa «immaginaria linea» (p. 27), data la posizione di Sant’Agata di Militello, su questo crinale, nasce la poetica consoliana.
I ricordi, le memorie legati a Sant’Agata, pur cari che siano, pur essendo il crogiolo di alcuni suoi racconti, non bastano a soddisfare la sua creatività che si estende «alla Sicilia tutta, all’Italia, al Mediterraneo e oltre, (…). Ma [si dispiega] anche dal presente al passato – o sarebbe meglio dire – ai passati dell’isola» (Claudio Masetta, «Prefazione», p. 13).
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Il tono si fa man mano più grave e le domande incalzanti. Quasi con trepidazione, Vincenzo Consolo chiede a se stesso: «E allora: perché scrivo? Ma perché scrivo in prosa? E perchè scrivo romanzi o racconti di contenuto storico o sociale» (p. 36). Permeato dalla superiorità della poesia, si riferisce a componimenti di poeti maggiori (cita qualche verso della «Ginestra» di Leopardi, allude al poemetto di T. S. Eliot, «La terra desolata», alla raccolta di Eugenio Montale, Ossi di seppia, nonché al suo componimento «La bufera»). Consolo si arrende alla constatazione non priva di rammarico, che non è stato eletto a questo registro:
Scrivo dunque di temi relativi, contingenti, perché non sono poeta, perché non sono un fanciullo, perché non sono re (non faccio parte, voglio dire, non sono detentore del potere). Solo i poeti infatti, i fanciulli e i re possono affrontare gli assoluti, immergersi naufragare nell’infinito mare dell’esistenza (p. 37).
Fra queste linee, traspare la figura del viceré Casimiro, personaggio centrale della favola teatrale Lunaria (1985), opera in cui Vincenzo Consolo si avvicina maggiormente al mito e alla poesia. Casimiro, essere malinconico e lunare, a metà strada tra re-fanciullo e poeta, in grado di capire, fino ad un certo punto, la lingua poetica, edenica di San Fratello (vicino a Sant’Agata), vero baluardo utopico contro il disfacimento della corte palermitana, su cui regna Casimiro da troppo tempo.
Come non pensare agli eccentrici Casimiro e Lucio Piccolo, poeta quest’ultimo che affascinava Consolo?
Sul dritto filo di queste parole, in un altro breve scritto, «Considerazione sulla forma racconto», in Prodigio (Edizioni Dante & Descartes, 2014), ricorda la sua scelta narrativa:
…l’unico racconto praticabile mi sembra quello storico-metaforico (…) ; che un modo per praticare ancora una letteratura non ipotecata dal potere è quello di risacralizzare il linguaggio, di restituirgli memoria, tono e modulazione di poesia : riaccostarlo, per irriducibile, al linguaggio liturgico dei poemi (p. 25).
Consapevole di essere cresciuto e vissuto per anni in bilico tra Oriente ed Occidente, tra mito e storia, tra natura e cultura, Vincenzo Consolo approda al nucleo della sua ricerca letteraria:
E non è questo poi l’essenza della narrazione ? Non è il narrare, come dicevo, quell’incontro miracoloso, di ragione e passione, di logica e di magico, di prosa e di poesia ? Non è questo ibrido sublime, questa chimera affascinante ? (p. 50-51).
Non si può parlare dell’identità letteraria di Vincenzo Consolo senza evocare il terzo polo d’influenza della sua poetica: la città di Milano, dove si trasferisce nel 1969. Andirivieni incessanti tra la capitale lombarda e la sua isola ritmano d’ora in poi la sua vita e la sua produzione. A questa città «progredita, ricca e allettante, ma anche dura, ma anche pretenziosa» (p. 52-53), Consolo oppone un orgoglioso riserbo, pur essendo aperto ai fermenti e alla cultura della metropoli europea. Ma ha continuamente l’attenzione rivolta ai fatti siciliani.
L’attualità di questo ultimo ventennio è prevalentemente segnata dal fenomeno migratorio. È da tempo giunto il momento per l’Europa di aiutare popoli che soffrono per le guerre, per le malattie e la povertà. Le ricchezze si devono oramai condividere con i paesi più poveri e l’ordine mondiale viene totalmente travolto da questa urgente necessità. La Grecia e la Sicilia sono le porte di ingresso verso questo nuovo eldorado. Ventuno anni fa, nel 1999, Vincenzo Consolo era uno tra i pochissimi intellettuali ad affrontare questa questione nella sua raccolta di saggi Di qua dal faro (Milano, Arnaldo Mondadori Editore), nel capitolo «Uomini sotto il sole» (p. 227). Scrive:
Di questi esodi massicci e incessanti le cronache di ogni giorno ci consegnano tragici episodi: di clandestini soffocati dentro stive di navi; d’altri, scoperti, gettati in pasto ai pescicani; di bambini assiderati nei passaggi notturni per valichi montani; di carghi colati a picco con dentro il loro carico umano; di criminali che trasportano su gommoni e abbandonano sulle spiagge masse di disperati.
Claudio Masetta ricorda i momenti trascorsi a parlare con Consolo, in conversazioni in cui la questione, specie
dacché la Libia è in guerra, dei profughi riaffiora. Parlano di cultura greca, ma non solo, e di un presente ostile che provoca l’ira dello scrittore contro il ricordo del tempo dell’ospitalità siciliana che fu:
E della cultura mediterranea che, (…), si è sempre sviluppata sotto il segno dell’accoglienza. I fatti di cronaca odierna, l’innalzamento di barriere laddove un tempo c’erano spiagge d’approdo di innumerevoli naufraghi che, una volta a terra, nella sua Sicilia, potevano dirsi sicuri di trovare accoglienza, lo avrebbero fatto urlare di sdegno e vergogna.
Amava cercare i segni di questa antichissima tradizione di ospitalità siciliana. Si entusiasmava alle prove dell’avvenuta integrazione, sul suolo siciliano, di culture e tradizioni diverse (p. 15-16).
Claudio Masetta riporta, in confidenza, sempre con valore didattico per il lettore, un aneddoto interessante su questo argomento: quello del santuario della Madonna Nera di Tindari che è sito nel grandioso golfo di Patti, in provincia di Messina. Tindari è stata costruita nel 396 A. C. da Dionisio I°, tiranno di Siracusa, al fine di fronteggiare gli attacchi dei Cartaginesi. Il suo nome originario era Tyndaris. A picco sul mare, il santuario raccoglie quella singolare Vergine bizantina nera con il bambino, alto simbolo di accoglienza dei naufraghi, la quale impedì alla nave che la trasportava di ripartire sul mare, così evitando l’inesorabile naufragio dovuto alla tempesta.
E Claudio Masetta, restituendoci lo scrittore Consolo nella sua intera dimensione umana e umanistica: «Aveva una collezione di santi neri, Vincenzo. Amava quella collezione come simbolo di felice integrazione» (p. 18).
Con particolare acuità, Claudio Masetta insiste per ultimo sul bisogno di trasmettere alle nuove generazioni le chiavi del linguaggio così particolare di Vincenzo Consolo: al tempo stesso popolare ed erudito. Non si entra facilmente nella prosa consoliana e lui lo intuiva, lo sapeva. Tanti incontri fece con giovani di liceo o freschi universitari, molto spesso confrontati al suo linguaggio stratificato, complesso, a volte criptato. Ma non era mai semplice esercizio di chiarimento di tale passo, pur studiato nei particolari. Il pubblico liceale o universitario era da lui prediletto perché vergine da alcun a priori sul linguaggio letterario. Si dilettava di questi incontri con il giovane pubblico, quasi dovesse concretizzare la propria vocazione di pedagogo.
Al di là però, si trattava sempre di infondere ai giovani una certa conoscenza della letteratura siciliana. Consolo amava tramandare la memoria, e così scrive Claudio Masetta: «la memoria attraverso la narrazione era per lui fatto da condividere. In modo particolare con i giovani, a cui si rivolgeva, verso i quali amava riversare il racconto della Sicilia, della storia, ma soprattutto della letteratura» (p. 19-20).
Per concludere, il libretto Memorie, racchiude molto del pensiero di Vincenzo Consolo, un pensiero mai uniforme, così come sono molteplici e variegate le forme della sua espressione letteraria e della sua poetica.
Claudio Masetta Milone, nel riproporre la lettura di questo testo, nel sollecito ascolto delle parole dell’amico scrittore, nel trascriverle, ha il merito (tra tanti altri), di contribuire in modo originale, ad una più ampia conoscenza del pensiero universale di Vincenzo Consolo, e a ravvivarne le idee umanistiche con luce odierna.
Maryvonne Briand
Viaggiatori e migranti Vincenzo Consolo
Vincenzo Consolo
Mediterraneo
Viaggiatori e migranti
di Aldo Meccariello
Edizioni dell’asino, Roma 2016
Il sottotitolo di questo grazioso libriccino di Consolo è viaggiatori e migranti che hanno attraversato le coste del Mediterraneo, “il mare di conflitti, di spoliazioni territoriali, di negazioni d’identità, di migrazioni e diaspore, di ognuno che, esule per desiderio di conoscenza o per costrizione, ritrova la sua terra, il suo cielo, la sua casa” (p. 22). Punto di osservazione dello scrittore siciliano che non aveva la fede illuministica di Sciascia è la sua terra sospesa tra incanto e disincanto, e lacerata nelle sue corde più profonde. Consolo fa palpitare, più che gli spasimi, i respiri della sua isola che sembrano sprigionarsi dal mito, dalla storia e dalla letteratura in un gioco di rimandi e di corrispondenze reciproche.
Filo conduttore della trattazione è il viaggio iniziatico di Ulisse nei mari dell’immaginario dove avviene il trauma del distacco dalla realtà, “dove fiorisce il fantastico, il surreale, l’onirico, la fascinazione, l’ossessione, dove la ragione si oscura e trovano varco i mostri” (p.7). Sospinto dalle onde tremende del mare, l’eroe omerico, dopo aver lasciato la distrutta Ilio intraprende il viaggio di ritorno ad Itaca per ritrovarvi con l’aiuto del figlio Telemaco l’armonia perduta. L’asse centrale di questo piccolo e prezioso reportage sul Mediterraneo che lo scrittore offre ai suoi lettori è il legame della Sicilia con la cultura araba che “ha lasciato nell’isola un’impronta tale che dal suo innestarsi nell’isola si può dire che cominci la storia siciliana” (p.10).
Da Mazara a Palermo i segni della cultura araba si sono sedimentati lungo un millennio nel carattere, nelle fisionomie, nei costumi e nella lingua del popolo siciliano. Il miracolo più grande, osserva Consolo, è che durante la dominazione musulmana domina lo spirito di tolleranza e di pacifica convivenza che viaggiatori come Ibn Giubayr, il geografo Idrisi e Ibn Hawqal hanno raccontato nei loro testi. A Ibn Giubayr, viaggiatore e letterato musulmano di Spagna vissuto tra il XII e il XIII secolo è dedicato un capitoletto che ricostruisce il suo “Itinerario” (Riḥla), sul pellegrinaggio da lui compiuto alla Mecca (1183-85) partendo da Granata, dopo aver attraversato pericolosamente le coste del Mediterraneo. Al suo ritorno in patria si ferma in Sicilia e, attraversandola in lungo e in largo, rimane abbagliato dalle sue città e dalle sue coste. Queste notizie sui viaggiatori arabi trovano poi una sistemazione accurata nella grande opera in cinque volumi, La storia dei Musulmani di Sicilia scritta da uno scrittore e saggista politico del secolo scorso, Michele Amari che “reperì e tradusse documenti storici, memorie, letteratura araba che riguardava la Sicilia”(p.13). E dopo di lui, venne a formarsi in Italia una vera scuola di arabisti ed orientalisti (Ignazio e Michelangelo Guidi, Giorgio Levi della Vida, Leone Caetani, Francesco Gabrieli ed altri) di cui non si parla quasi più.
La narrazione di Consolo scandita nella forma di deliziosi pastiches cattura pagine, voci, suoni e topoi come ripescati dai fondali del Mediterraneo stordito dalle sue ataviche contraddizioni geopolitiche. Lungo quel breve braccio di mare tra la Sicilia e le coste africane scopriamo un affresco mosso e variegato fatto di storie di scambi e di razzie, di emigrazioni e di conquiste che coinvolgono uomini di culture e fedi diverse (italiani, tunisini, marocchini, poi cristiani, musulmani, ebrei). Una pennellata di questo affresco è la “grossa ondata migratoria di bracciantato italiano in Tunisia avvenne sul finire dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, con la crisi economica che colpì le nostre regioni meridionali” (p.26).
Un’altra pennellata è il racconto, Uomini sotto il sole, pubblicato nel 1963 dal palestinese Ghassan Kanafani, ucciso nel 1972 in un attentato. I tre personaggi-profughi principali del racconto moriranno asfissiati dentro un’autocisterna nel tentativo di espatriare in Kuwait, dopo aver attraversato il deserto iracheno che di lì a poco sarà il tragico teatro della prima guerra del Golfo. Consolo rilegge il racconto come una grande metafora della tormentata e ricca civiltà mediterranea e come un esempio di vera letteratura politica.
Vincenzo Consolo, Mediterraneo. Viaggiatori e migranti
Il sottotitolo di questo grazioso libriccino di Consolo è viaggiatori e migranti che hanno attraversato le coste del Mediterraneo, “il mare di conflitti, di spoliazioni territoriali, di negazioni d’identità, di migrazioni e diaspore, di ognuno che, esule per desiderio di conoscenza o per costrizione, ritrova la sua terra, il suo cielo, la sua casa” (p. 22). Punto di osservazione dello scrittore siciliano che non aveva la fede illuministica di Sciascia è la sua terra sospesa tra incanto e disincanto, e lacerata nelle sue corde più profonde. Consolo fa palpitare, più che gli spasimi, i respiri della sua isola che sembrano sprigionarsi dal mito, dalla storia e dalla letteratura in un gioco di rimandi e di corrispondenze reciproche. Filo conduttore della trattazione è il viaggio iniziatico di Ulisse nei mari dell’immaginario dove avviene il trauma del distacco dalla realtà, “dove fiorisce il fantastico, il surreale, l’onirico, la fascinazione, l’ossessione, dove la ragione si oscura e trovano varco i mostri” (p.7). Sospinto dalle onde tremende del mare, l’eroe omerico, dopo aver lasciato la distrutta Ilio intraprende il viaggio di ritorno ad Itaca per ritrovarvi con l’aiuto del figlio Telemaco l’armonia perduta. L’asse centrale di questo piccolo e prezioso reportage sul Mediterraneo che lo scrittore offre ai suoi lettori è il legame della Sicilia con la cultura araba che “ha lasciato nell’isola un’impronta tale che dal suo innestarsi nell’isola si può dire che cominci la storia siciliana” (p.10).Da Mazara a Palermo i segni della cultura araba si sono sedimentati lungo un millennio nel carattere, nelle fisionomie, nei costumi e nella lingua del popolo siciliano. Il miracolo più grande, osserva Consolo, è che durante la dominazione musulmana domina lo spirito di tolleranza e di pacifica convivenza che viaggiatori come Ibn Giubayr, il geografo Idrisi e Ibn Hawqal hanno raccontato nei loro testi. A Ibn Giubayr, viaggiatore e letterato musulmano di Spagna vissuto tra il XII e il XIII secolo è dedicato un capitoletto che ricostruisce il suo “Itinerario” (Riḥla), sul pellegrinaggio da lui compiuto alla Mecca (1183-85) partendo da Granata, dopo aver attraversato pericolosamente le coste del Mediterraneo. Al suo ritorno in patria si ferma in Sicilia e, attraversandola in lungo e in largo, rimane abbagliato dalle sue città e dalle sue coste. Queste notizie sui viaggiatori arabi trovano poi una sistemazione accurata nella grande opera in cinque volumi, La storia dei Musulmani di Sicilia scritta da uno scrittore e saggista politico del secolo scorso, Michele Amari che “reperì e tradusse documenti storici, memorie, letteratura araba che riguardava la Sicilia”(p.13). E dopo di lui, venne a formarsi in Italia una vera scuola di arabisti ed orientalisti (Ignazio e Michelangelo Guidi, Giorgio Levi della Vida, Leone Caetani, Francesco Gabrieli ed altri) di cui non si parla quasi più. La narrazione di Consolo scandita nella forma di deliziosi pastiches cattura pagine, voci, suoni e topoi come ripescati dai fondali del Mediterraneo stordito dalle sue ataviche contraddizioni geopolitiche. Lungo quel breve braccio di mare tra la Sicilia e le coste africane scopriamo un affresco mosso e variegato fatto di storie di scambi e di razzie, di emigrazioni e di conquiste che coinvolgono uomini di culture e fedi diverse (italiani, tunisini, marocchini, poi cristiani, musulmani, ebrei). Una pennellata di questo affresco è la “grossa ondata migratoria di bracciantato italiano in Tunisia avvenne sul finire dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, con la crisi economica che colpì le nostre regioni meridionali” (p.26).Un’altra pennellata è il racconto, Uomini sotto il sole, pubblicato nel 1963 dal palestinese Ghassan Kanafani, ucciso nel 1972 in un attentato. I tre personaggi-profughi principali del racconto moriranno asfissiati dentro un’autocisterna nel tentativo di espatriare in Kuwait, dopo aver attraversato il deserto iracheno che di lì a poco sarà il tragico teatro della prima guerra del Golfo. Consolo rilegge il racconto come una grande metafora della tormentata e ricca civiltà mediterranea e come un esempio di vera letteratura politica.
Edizioni dell’asino, Roma 2016
Il mare, l’isola, il viaggio negli ultimi libri di Vincenzo Consolo.
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ROBERTA DELLI PRISCOLI
Il mare, l’isola, il viaggio negli ultimi libri di Vincenzo Consolo.
ROBERTA DELLI PRISCOLI
Il mare, l’isola, il viaggio negli ultimi libri di Vincenzo Consolo.
Tra gli ultimi scritti di Consolo sono presi in attenta considerazione «L’olivo e l’olivastro» (1994), «Lo Spasimo di Palermo» (1998), «Il viaggio di Odisseo» (1999), «La mia isola è Las Vegas» (2012). «Il viaggio di Odisseo», trascrizione di una conversazione tra Consolo e Nicolao, offre una illuminante chiave di lettura. Il ritorno catartico di Odisseo nell’ Itaca della ragione e degli affetti diventa metafora del nostos di chi è nato nell’ isola dai tre angoli. La Trinacria, isola in cui sono confluite le fisionomie diverse, ma complementari di varie componenti etniche, è configurata come modello emblematico di una più ampia realtà storica e geografica. Le aporie del tempo presente sembrano offuscare il panorama sociale e ambientale del mondo del Mediterraneo, ma, secondo Consolo, la salvezza è ancora possibile, ove si dia spazio al linguaggio della letteratura e della poesia. Il viaggio di Odisseo 1 ‘offre il filo di Arianna al lettore che si avvicina alla multiforme e complessa produzione letteraria di Vincenzo Consolo.2 Il libro, attento e meditato confronto tra Consolo e Nicolao, delinea l’orizzonte culturale, le coordinate letterarie, i valori di riferimento dello scrittore siciliano. Questi, preliminarmente, dichiara che, tra i più recenti scrittori, i più significativi per lui sono Vittorini (Conversazione in Sicilia) e D’Arrigo ( Horcynus Orca), ambedue siciliani «di una terra, di un’isola eccentrica, estrema, che fanno compiere ai loro rispettivi eroi, Silvestro e ’Ndria Cambria, il nostos, il viaggio di ritorno».3 Ma, dopo aver preso atto che l’utopia vittoriniana di Conversazione in Sicilia è definitivamente crollata, Consolo risale da Vittorini all’ Odissea, a questa grande matrice del racconto, per capire e per capirsi.4 «L’Odissea è così piena di sensi, di significati: in ogni frammento di essa si possono leggere interi mondi».5 Egli compie così un nuovo viaggio nel poema omerico, mettendo in luce originali prospettive di lettura, che sono non verità filologiche, ma scoperte soggettive, utili alla sua concezione del mondo. Odisseo è visto come l’eroe della colpa, della colpa soggettiva, e il suo nostos diventa il viaggio dell’espiazione e della catarsi. La colpa dell’eroe è la creazione del cavallo di legno, «mostro tecnologico, […] arma estrema, sleale e dirompente che aveva segnato la sconfitta di Troia alla fine della guerra».6 Nicolao, in uno dei suoi interventi,7 sottolinea come Odisseo, nella prospettiva di Consolo, sia il primo eroe che collega mētis e technē nell’arte bellica, attirando su di sé la maledizione dell’uomo tecnologico.8 Consolo ribadisce il collegamento tra la maledizione di Odisseo e l’irruzione della tecnologia nel mondo del menos, del furore guerriero, proponendo una riflessione sulla tecnologia in generale, che è la chiave di volta della sua intuizione del mondo: La tecnologia ha un automatismo di riproduzione di velocissimo e inarrestabile sviluppo che l’uomo non riesce più a controllare: è lei che ci controlla, ci determina. Siamo insomma al mito di Frankenstein di Mary Shelley. Siamo all’ambiguità della scienza, che ci può salvare 1 V. CONSOLO – M. NICOLAO, Il viaggio di Odisseo, Milano, Bompiani, 1999. Il testo è la registrazione,
aggiornata, di una conversazione tenuta da Consolo e Nicolao presso la libreria Messaggerie Paravia di Milano il 10 ottobre 1996. 2 Sugli stretti rapporti tra l’opera di Consolo e l’Odissea, cfr. A. GRILLO, Appunti su Odisseo e il suo viaggio nella cultura siciliana contemporanea: da Vittorini a Consolo e a Cattafi, in S. NICOSIA (a cura di), Ulisse nel tempo. La metafora infinita, Venezia, Marsilio, 2003, 593-604. Una ricca rassegna bibliografica su Consolo si legge in TRAINA, Vincenzo Consolo, Fiesole (FI), 2001, 117-122. 3 CONSOLO – NICOLAO, Il viaggio di Odisseo…, 13. 4 Ivi, 20. 5 Ivi, 32. 6 Ivi, 28. Cfr. V. CONSOLO, L’olivo e l’olivastro, Milano, Oscar Mondadori, 2012, 15 (I edizione: Scrittori italiani, Mondadori, 1994). 7 CONSOLO-NICOLAO, Il viaggio di Odisseo …, 30. 8 IVI, 29-30. 2 o distruggere. La tecnologia, certo, ha rivoluzionato il mondo, ci ha liberati dalla fatica, dall’isolamento, dalla lentezza, dalle offese della natura, dalle malattie. Ma quella stessa tecnologia ha creato la bomba atomica, ha ammorbato il mondo, avvelenato la natura. L’elettronica poi ci ha fatto varcare le colonne d’Ercole, uscire dall’angusto Mediterraneo, dato sicuramente nuove conoscenze, ma insieme ci ha immesso in un oceano tempestoso di messaggi, ci ha staccati dalla realtà, ci ha risospinti nella caverna platonica o meglio nell’incantato palazzo di Circe, dove avvengono le mutazioni più degradanti.9 Odisseo, dunque, rappresenta l’archetipo dell’homo technologicus, responsabile di mali estremi. 10 Per altro, egli non è solo individualmente responsabile della costruzione del cavallo, ma è anche compartecipe della colpa collettiva degli Achei, che hanno scatenato la guerra di Troia, la guerra, «questo grande cataclisma».11 Il tema odissiaco della guerra e della colpa soggettiva degli eroi achei, in primis di Odisseo, è interpretato da Consolo come metafora dei mali e delle colpe della modernità, con la precisazione che le colpe della modernità non sono soggettive, come quelle di Odisseo e degli altri duci greci, ma oggettive. Con amaro pessimismo scrive Consolo: I mostri non sorgono più dal mare, dalla profondità del subconscio, ma sono mostri concreti, reali, che tutti noi abbiamo creato (tutti noi abbiamo scatenato le guerre, creato i campi di sterminio, le pulizie etniche, lasciamo morire per fame la stragrande maggioranza dell’umanità…). Nessun viaggio penitenziale e liberatorio è ormai possibile. Itaca non è più raggiungibile.12 Come Itaca, così la Sicilia, l’Itaca dello scrittore, non è più raggiungibile, perché l’isola è stata distrutta dal potere politico-mafioso. I due mostri dell’Odissea, Scilla e Cariddi, acquattati sulle opposte coste dello Stretto, sono la zoomorfizzazione del cavallo di legno, il suo contrappasso.13 Partendo da questa visione negativa della modernità, di matrice sociale e politica, Consolo perviene ad una radicale concezione pessimistica del destino dell’uomo e della sua storia esistenziale; e gli elementi fondamentali di questa desolata Weltanshauung egli attinge da una sua peculiare interpretazione dell’Odissea: «Ma tutta l’Odissea, sappiamo, è una metafora della vita. Casualmente nasciamo in un’Itaca dove tramiamo i nostri affetti, dove piantiamo i nostri olivi, dove attorno all’olivo costruiamo il nostro talamo nuziale, dove generiamo i nostri figli. “La racine de l’Odyssée c’est un olivier” dice Paul Claudel».14 Consolo, rimodulando la frase di Claudel, afferma che alla radice dell’odissea moderna è l’olivastro, richiamando i vv. 476-485 del libro V dell’Odissea, in cui sono descritti un olivo e un olivastro nati dallo stesso ceppo, sotto i quali si rifugia Ulisse, sbattuto dalle onde sull’isola dei Feaci.15 L’olivo selvatico è per Consolo metafora di tempeste e naufragi, inganni, regressioni, perdite; insomma, è simbolo del ritorno del barbarico e mostruoso mondo dei Ciclopi.16 È questa l’intelaiatura culturale e ideologica da cui prendono luce e significato le opere di Consolo, in particolare quelle degli ultimi anni: L’olivo e l’olivastro (1994), Lo Spasimo di Palermo (1998), La mia isola è Las Vegas (2012). I primi due libri sono strettamente interconnessi. Come scrive lo stesso Consolo,17 il primo è una sorta di proemio, di antefatto del secondo. Suoi temi dominanti sono la centralità geografica della Sicilia, nuova Itaca, nel mare Mediterraneo, la 9 Ivi, 32-33. 10 IVI, 29-30. 11 Ivi, 21.12 Ivi, 22. 13 Ivi, 22-23. 14 Ivi, 24. Per la citazione di P. Claudel, cfr. L’Odyssée, Préface de P. CLAUDEL, Introduction et notes de J.BÉRARD, Traduction de V. BÉRARD, Paris, Gallimard, 1973. 15 Di qui il titolo del libro L’olivo e l’olivastro, che ha in epigrafe i vv. 476-482 del libro V dell’Odissea. 16 CONSOLO – NICOLAO, Il viaggio di Odisseo…, 24. 17 Ivi, 20.3 ricchezza e la molteplicità culturale dell’isola, la presenza in essa di indelebili testimonianze della colonizzazione e della civiltà greca: la Sicilia, insomma, è non solo l’ombelico geografico del Mediterraneo, ma anche il crocevia di viaggi e migrazioni, l’approdo di diverse etnie e civiltà. Prefigurazione di questa varietà e mobilità culturale è l’Odissea, il cui protagonista attraversa tutto il Mediterraneo e, secondo alcune fonti antiche e medievali,18 si spinge oltre le colonne d’Ercole sulle coste meridionali atlantiche dell’ Iberia, vedendo e conoscendo molti popoli e i loro costumi.19 Altro Leitmotiv del libro, e in generale di tutta l’opera consoliana, è il drammatico contrasto tra l’età dell’oro della Sicilia e il catastrofico scadimento del tempo presente. L’opera si articola in diciassette capitoli, ciascuno dei quali offre un racconto autonomo. Consolo considera la navigazione di Ulisse secondo una duplice prospettiva: in una dimensione orizzontale il viaggio è da oriente verso occidente, nel Mediterraneo; ma, una volta immerso nella vastità del mare, Ulisse compie il suo viaggio in verticale, nell’ipogeo della memoria, dove il reale si sfalda e insorgono paure e rimorsi. Ulisse, l’inventore del mostro tecnologico, il cavallo, compie un viaggio di espiazione per purificarsi dagli orrori e dalle colpe della guerra di Troia, causa di morti e distruzioni. L’eroe affronta la prova suprema nell’attraversare lo stretto, tra Scilla e Cariddi: Una metafora diventa quel braccio di mare, quel fiume salmastro, una metafora dell’esistenza: lo stretto obbligato, il tormentato passaggio in cui l’uomo può perdersi, perdere la ragione, imbestiandosi, o la vita contro lo scoglio o dentro il vortice d’una natura matrigna, feroce; o salvarsi, uscire dall’orrido caos, dopo il passaggio cruciale, e approdare, lasciata l’utopia feacica, nell’Itaca della realtà e della storia, della ragione e degli affetti. Metafora di quel che riserva la vita a chi è nato per caso nell’isola dai tre angoli: epifania, periglioso sbandare nella procella del mare, nell’infernale natura; salvezza possibile dopo tanto travaglio, approdo a un’amara saggezza, a una disillusa intelligenza.20 Queste riflessioni di Consolo sullo stretto aprono la strada alla descrizione della devastante rovina che è stata provocata nell’ isola dal dissennato uso degli strumenti tecnologici ed elettronici, ultime proliferazioni della nefasta invenzione del cavallo di Troia. In più di un capitolo Consolo delinea il quadro spaventoso di una Sicilia stuprata e deturpata da nuovi proci. Crudamente realistica e orrifica è la rappresentazione degli scempi perpetrati nella piana di Milazzo, «uno dei più incantevoli teatri dell’intera Sicilia»,21 come scriveva nell’ Ottocento lo storico siciliano Piaggia. Dopo avere ricordato la sacrilega uccisione delle intoccabili vacche del Sole, compiuta dai compagni di Ulisse, Consolo evoca un analogo sacrilegio del tempo presente: Ai milazzesi è stato distrutto per sempre, verso la fine degli anni Cinquanta, quell’“incantevole” teatro, come è stato distrutto agli augustani, ai siracusani, ai gelesi. Sulla piana dove pascolavano gli armenti del Sole, dove si coltivava il gelsomino, è sorta una vasta e fitta città di silos, di tralicci, di ciminiere che perennemente vomitano fiamme e fumo, una metallica, infernale città di Dite che tutto ha sconvolto e avvelenato: terra, cielo, mare, menti, cultura.22 È uno scenario apocalittico di distruzione e di morte. Con un inquietante collegamento transtestuale,23 Consolo inserisce nella narrazione le parole di un operaio miracolosamente sfuggito alla morte in un incidente verificatosi nella raffineria di Milazzo. Allo scrittore, tutto 18 Cfr. M. CORTI, Introduzione, in CONSOLO – NICOLAO, Il viaggio di Odisseo…, VI. 19 Cfr. Od. I, 3. 20 CONSOLO, L’olivo e l’olivastro…, 17.
21 IVI, 23.
22 Ibidem. 23 Sulla diffusa transtestualità nell’opera di Consolo, che spesso si spinge fino all’autoplagio, cfr. DARAG O’CONNELL, Consolo narratore e scrittore palincestuoso, in «Quaderni d’Italia» 13, 2008,163-164, 174, 180- 182.4 immerso nel racconto odissiaco, si presenta ovvia l’analogia tra lo scempio delle vacche del Sole e la strage degli operai di Milazzo: come le pelli delle vacche sgozzate strisciavano prodigiosamente e muggivano le loro carni, sia quelle cotte intorno agli spiedi, sia quelle crude,24 così i superstiti sperano «che le nere pelli dei compagni striscino, svolazzino nelle notti di rimorsi e sudori dei petrolieri, urlino le membra di dolore e furore nei sogni dei ministri».25 A questo terrificante quadro della rovina presente si collega e insieme si contrappone il panorama della Sicilia felix di un tempo, ricca di fermenti culturali, che possono diventare l’inizio di una catarsi, a somiglianza del viaggio liberatorio di Ulisse. Emblematici, a tale riguardo, sono alcuni capitoli. Così, nel capitolo XI, in cui Consolo, con un ardito volo di fantasia, immagina un viaggio di Caravaggio a Siracusa per incontrare l’amico e discepolo Mario Minniti, al tema centrale del fecondo intreccio di civiltà si associa il motivo, appena accennato, dell’esilio dei siciliani dalla loro terra: Il tono scarno e grave, ermetico e dolente vorrebbe avere d’Ungaretti o tutti i toni degli innumerevoli poeti per sciogliere […] un canto di nostalgia d’emigrato a questa città della memoria sua e collettiva, a questa patria d’ognuno ch’è Siracusa, ognuno che conserva cognizione dell’umano, della civiltà più vera, della cultura. Canto di nostalgia come quello delle compagne d’Ifigenia, schiave nella Tauride di pietre e d’olivastri. Ché questa è oggi la condizione nostra d’esiliati in una terra inospitale, cacciati da un’umana Siracusa, dalla città che continuamente si ritrae, scivola nel passato, si fa Atene e Argo, Costantinopoli e Alessandria, che ruota attorno alla storia, alla poesia, poesia che da essa muove, ad essa va, di poeti che si chiamano Pindaro Simonide Bacchilide Virgilio Ovidio Ibn Hamdĩs esule a Majorca.26 Chi scioglie il canto di nostalgia per Siracusa è lo stesso Consolo, simbolo di ogni viaggiatore in esilio, Odisseo della modernità. Dalla grecità classica, che è la lente culturale attraverso cui sono guardate la storia e la e la civiltà letteraria di ogni popolo, egli si spinge fino a Ibn Hamdĩs, il poeta arabo-siciliano, nativo di Siracusa, dell’XI-XII secolo, esule dalla sua città a causa della conquista normanna. Figura per antonomasia dell’esule è Ifigenia, trasportata da Artemide nella Tauride, dove regnava il barbaro re Toante, secondo la vicenda rappresentata nell’Ifigenia in Tauride di Euripide. I tre poeti lirici greci viaggiarono molto: seguendo la rotta di Ulisse, vennero nell’isola del Sole, a Siracusa, alla corte di Ierone, e nei loro carmi celebrarono il re, la Sicilia, Siracusa. Dai poeti greci a Ibn Hamdĩs, a Ungaretti, il canto dei poeti celebra Siracusa. La Cattedrale siracusana di S. Lucia, in cui è «incastonato il tempio di Atena, la dea dell’olivo e dell’olio, del nutrimento e della luce, della ragione e della sapienza, guida del reduce, soccorso dell’errante»,27 è simbolo della civiltà cosmopolitica della città, dei traffici plurietnici del suo porto, verso cui convergono tutte le rotte del Mediterraneo, il mare che «solcò la nera barca d’Ulisse, che solcarono le navi dei Corinzi che vennero a fondare Siracusa».28 Nell’ampia e variegata prospettiva culturale di Consolo Siracusa assurge a simbolo di città europea nel cuore del Mediterraneo. Qui venne Guy de Maupassant; qui venne e morì il “Pindaro germanico”, August von Platen: la sua tomba è nel parco di Villa Landolina, dietro il museo dove è custodita la Venere Anadiomene, espressione suprema della Bellezza greca, amata e cantata dal poeta tedesco.29 Ma il il presente ha oltraggiato e sfigurato i luoghi della memoria. Il reduce di Siracusa, ossia Consolo, per rappresentare la decadenza di questa città, con raffinata dottrina, vivificata da sincero pathos, incastona nel racconto un passo della Historia turco-byzantina di Ducas, che scrive un compianto per la caduta di Costantinopoli, nella mirabile versione di un anonimo traduttore 24 Cfr Od. XII, 394-396.
25 CONSOLO, L’olivo e l’olivastro…, 23. 26 Ivi, 74. 27 Ivi, 73. 28 Ivi, 80. 29 Ivi, 88-89. 5 veneto.30 Siracusa e Costantinopoli alle due estremità del Mediterraneo: l’una devastata dai moderni barbari, l’altra occupata dai turchi. Accanto a Siracusa Consolo esplora la storia, la composita cultura, il fascino e la rovina di altre città dell’isola. Nel capitolo VI si snoda, lungo le pendici dell’Etna, una fantasmagoria di personaggi moderni e antichi, in un’ambigua dimensione atemporale. Fra tutti emerge Empedocle di Agrigento, il filosofo che, secondo la tradizione, si sarebbe gettato nei crateri dell’Etna, per dare credito alla diceria che fosse diventato un dio;31 accanto al filosofo compare Pausania, il giovane amato, a cui il filosofo dedica il poema Sulla natura.32 Empedocle e Pausania propongono ampie citazioni dalla tragedia in un atto Catarsi, che Consolo scrisse nel 1989 e che nel novembre di quell’anno andò in scena al teatro Stabile di Catania.33 Le autocitazioni sembrano dare un ritmo desultorio al capitolo, ma, ad una lettura attenta, emerge chiaro il disegno di un mosaico, che ha come motivo conduttore «la tragedia senza soluzione, la colpa, il dolore senza catarsi».34 In alcuni capitoli la tecnica dell’agglutinamento di vari nuclei narrativi perviene a risultati di forte concentrazione tematica, soprattutto in relazione alla cultura classica. Così, nel capitolo I, è raccontato il viaggio di un giovane meccanico di Gibellina dalla Sicilia a Milano: quel giovane è il Doppelgänger di Consolo stesso, che, nella narrazione, passando repentinamente alla sua vicenda autobiografica, ai suoi viaggi a Milano, dove era già Vittorini, così conclude il racconto, alludendo a se stesso: Un lungo tempo uguale, di orrori, fughe, follie, vergogne, un infinito tempo di rimorsi. Alzò le vele un tempo e abbandonò altre macerie. Come un vecchio lazzarone ferma ora la gente, invitati alla festa di nozze e, senza opportunità e ritegno, si confessa: – Sì, sono io l’astuto inventore degli inganni, il guerriero spietato, l’ambiguo indovino, il re privato dell’onore, il folle massacratore degli armenti, sono io l’assassino di mia figlia.35 Consolo allude velatamente a personaggi dell’epos omerico: Ulisse, Achille, Tiresia o Calcante, Menelao,Aiace, Agamennone. Ora lo scrittore non è più soltanto un altro Odisseo, ma si rispecchia in altri personaggi omerici, tutti colpiti da un avverso destino e segnati da colpe individuali e collettive. L’olivo e l’olivastro, che aveva preso inizio dal viaggio emigratorio di un giovane meccanico di Gibellina, si chiude, secondo la tecnica della Ringkomposition, con la storia dello stesso emigrante, che alla fine va a lavorare nelle cave di Meirengen, presso Basilea, e non torna più in Sicilia, l’Itaca negata. L’antica Gibellina non esiste più, sepolta sotto un manto di macerie, distrutta dal terremoto del Belice. Al suo posto sorgono «le architetture della città costruita dai proci, il labirinto dello spaesamento, della squadra, del compasso, dello scoramento, della malinconia, dell’ansia perenne».36 Volgendo lo sguardo indietro, nella storia ebraica, Consolo trova un cupo 30 Ivi, 93. L’inizio del Lamento sulla città caduta di Ducas, insieme con tre versi di Jacopo da Lentini, è premesso in epigrafe al romanzo Retablo: V. CONSOLO, Retablo, Milano, Oscar Mondadori, 2000, 5 (I edizione: Palermo, Sellerio, 1987). 31 Cfr. DIOGENE LAERZIO, Vite e dottrine dei più celebri filosofi, a cura di G. REALE, Milano, Bompiani, 2005, 1001 (VIII, 69) 32 Ivi, 993 (VIII, 60); I Presocratici, a cura di Giovanni Reale, Milano, Bompiani, 2006, 649 (EMPEDOCLE 1). 33 Catarsi, tragedia in un atto, fu pubblicata insieme con due atti unici rispettivamente di Bufalino e Sciascia in Trittico, a cura di A. DI GRADO e G. LAZZARO DANZUSO, Catania, Sanfilippo, 1989. Cfr. Vincenzo Consolo, Spettacolo di fuoco avvolto nel mito, in «Corriere della Sera», 21 luglio 2001, 17.; G. TRAINA, Vincenzo Consolo…, 31-32. 34 V. CONSOLO, Per una metrica della memoria, in G. ADAMO (a cura di), La parola scritta e pronunziata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo, Prefazione di G. FERRONI, S, Cesario di Lecce, Manni, 2006, 187. 35 CONSOLO, L’olivo e l’olivastro…, 11. 36 CONSOLO, L’olivo e l’olivastro…, 130 6 riscontro allo scempio di Gibellina nella tragedia di Masada, narrata da Giuseppe Flavio.37 E nella sua potente fantasia, di ascendenza pasoliniana, i romani, che entrano nel forte di Masada, si trasfigurano in violenti motociclisti, che sfrecciano sulle rovine di Gibellina: «I romani, con tute di pelle, con caschi, irrompono sopra motociclette, corrono rombando dentro le crepe del cretto, squarciano il buio con fari. Trovano corpi, fiamme, silenzio».38 La frase conclusiva dell’Olivo e l’oleastro prelude significativamente alla Stimmung che domina nel successivo romanzo Lo Spasimo di Palermo, a cui in epigrafe sono premessi i vv. 196-198 del Prometeo incatenato eschileo: «Corifea Rivela tutto, grida il tuo racconto… / Prometeo Il racconto è dolore, / ma anche il silenzio è dolore».39 A questa iniziale citazione eschilea fa da controcanto una citazione omerica, dal libro VIII dell’Odissea (vv. 577-578), in cui a Odisseo, che piange ascoltando il canto di Demodoco sulla caduta di Troia, Alcinoo chiede: «Di’ perché piangi e nel tuo animo gemi / quando odi la sorte…».40 Le due citazioni preannunciano per il protagonista Gioacchino Martinez un destino «d’atroce perdita, di pena, di sconfitta».41 Egli è un novello Prometeo, incatenato alla rupe scoscesa delle sue sconfitte e sofferenze, e, al tempo stesso, un novello Odisseo sventurato, esule dalla sua Itaca/Sicilia, ramingo in paesi lontani. Lo stesso titolo del romanzo richiama chiaramente il destino di Palermo,42 della Sicilia e di tutti coloro che in Sicilia sono nati, segnati, come Mauro, il figlio di Gioacchino, «dalla nascita nell’isola, nell’assurdo della storica stortura, prigione dell’offesa, deserto della ragione, dissolvimento, spreco di vite, d’ogni umano bene».43 Il titolo è stato suggerito all’autore da una tela di Raffaello, La caduta di Cristo sul cammino del Calvario, chiamata a Palermo Lo Spasimo di Sicilia, tela dipinta originariamente per la chiesa palermitana di Santa Maria dello Spasimo e poi ceduta al re Filippo II per la sua cappella dell’Alcazar di Madrid. Consolo riporta la descrizione del quadro fatta da un anonimo siciliano, il quale scrive che la scena dell’incontro di Cristo con la Vergine, accompagnata da Giovanni e dalle Marie, è così viva e perfetta, che il pittore le diede il nome di “sgomento della Vergine e Spasimo del Mondo”. «In progressione – commenta Consolo – andava dunque questo Spasimo, da Palermo, alla Sicilia, al mondo».44 Nel romanzo è narrata la storia dello scrittore Gioacchino Martinez e della sua famiglia, in particolare della moglie Lucia e del figlio Mauro. Il racconto, in undici capitoli, cronologicamente procede, per così dire, a zig-zag, giustapponendo segmenti narrativi appartenenti a tempi diversi. Temi conduttori sono l’allontanamento dalla Sicilia, l’inesorabile perdita degli affetti e la conseguente solitudine, il tragico tramonto di un’Itaca felice, per sempre distrutta da nuovi e più disumani proci. Il figlio del protagonista, arrestato in Italia per partecipazione a gruppi terroristici, riesce a fuggire con la sua compagna Daniela a Parigi, dove frequentemente si reca Gioacchino, per rivedere «quel figlio che si negava a ogni confidenza, tentativo di racconto, chiarimento».45 Mauro respinge il padre e con lui tutti i padri di quella generazione che non ha fatto la guerra, ma il dopoguerra, che dopo il disastro avrebbe dovuto 37 FLAVIO GIUSEPPE, Guerra giudaica, a cura di G: VITUCCI, Milano, Mondadori, 2008, 484-499 (VII, 8, 2 – 9, 2). 38 CONSOLO, L’olivo e l’olivastro…, 132. Nelle pagine culminanti nella rievocazione di Masada C.RICCARDI [Inganni e follie della storia: lo stile lirico tragico della narrativa di Consolo, in E. PAPA (a cura di), Atti delle giornate di studio in onore di V. Consolo, Siracusa, 2-3 maggio 2003, San Cesario di Lecce, Manni, 2004, 101- 102] ha messo in luce elementi strutturali della tragedia greca. 39 La traduzione italiana è di Consolo. 40 V. CONSOLO, Lo Spasimo di Palermo, Milano, Oscar Mondadori, 2013, 59 (I edizione: Scrittori italiani,Mondadori, 1998), Come è precisato a p. 111, la traduzione italiana è di G. A. Privitera. Per la correlazione di questa citazione omerica con la concezione di Consolo della «narrazione poematica», cfr. O’CONNELL, Consolo narratore e scrittore palincestuoso…, 177-179. 41 CONSOLO, Lo Spasimo di Palermo…, 54. 42 Per la percezione consoliana della realtà palermitana, cfr. S. PERRELLA, In fondo al mondo. Conversazione in Sicilia con Vincenzo Consolo, Messina, Mesogea, 2014, 30-33. 43 CONSOLO, Lo Spasimo di Palermo…, 74. 44 Ivi, 94 45 IVI, 35.7 ricostruire il paese, «formare una nuova società, una civile, giusta convivenza».46 E invece, come dice Mauro al padre, il paese è sempre «nel marasma, nel fascismo inveterato, nell’ingerenza del pretame, nella mafia statuale».47 Al ristorante parigino, dove Mauro e Daniela accompagnano il padre, questi osservando attentamente i compagni di Mauro, ricostruisce nella sua mente il quadro di un naufragio generale, che ha coinvolto la generazione dei padri e quella dei figli: Provò pena per quei naufraghi, rematori sulla galea dell’illusione e dell’azzardo, vittime della follia del capitano, della ferocia del nostromo, superstiti d’un tempo di speranza, prigionieri d’uno slancio, d’una idea pietrificata, esuli sfuggiti alla condanna, privati del ritorno. Per quelli seppelliti nelle galere, uccisi dalle droghe, transfughi negli assoluti, metafisiche di conforto o apocalissi di catarsi. E ancora per i cinici, barattieri d’ideali e dignità, accattoni di condoni e di prebende. Pena per una generazione incenerita da un potere criminale, figlia di padri illusi, finiti anch’essi nei più diversi naufragi.48 I viaggi di Gioacchino, nella prima parte del romanzo, sono diretti dalla Sicilia verso il continente, prima a Milano, dove si stabilisce con la famiglia, e poi in Francia. Ogni viaggio «era tempesta, tremito, perdita, dolore, incanto e oblio, degrado, colpa sepolta, rimorso, assillo senza posa».49 Nel capitolo ottavo ha inizio il viaggio di ritorno, il nostos verso la Sicilia. Gioacchino lascia Milano, vista nella prospettiva delle peregrinazioni di Odisseo: «Qui la babele, il chiasso, la caverna dell’inganno, il loto dell’oblio, l’eea dei filtri, della mutazione, del grugnito inverecondo».50 Ma, come Consolo aveva dichiarato nel Viaggio di Odisseo, non è più possibile nessun viaggio di catarsi, Itaca non è più raggiungibile, perché non esiste più. La Sicilia è un «pantano», «luogo infetto», una «terra priva ormai di speranza, nel dominio della mafia».51 Lo stesso antico Mediterraneo, un tempo solcato dalle navi dei coloni greci, simbolo dell’incontro di diverse culture, è ormai un mare devastato.52 Palermo, la città dove torna Gioacchino, l’ Odisseo disincantato del nostos infausto, è irrimediabilmente deturpata dal «sacco mafioso».53 Martinez-Consolo ne delinea un quadro apocalittico:Intrigo d’ogni storia, teatro di storture, iniquità, divano di potenti, càssaro dei criati, villena degli apparati, osterio di fanatismo, tribunale impietoso, stanza della corda, ucciardone della nequizia, kalsa del degrado, cortile della ribellione, spasimo della cancrena, loggia della setta, casaprofessa della tenebra, monreale del mantello bianco. Congiura, contagio e peste in ogni tempo.54 L’esistenza del reduce deluso, sofferente, disperato si conclude tragicamente in un attentato mafioso, che stronca la vita di un magistrato, di un innocente fioraio, dello stesso protagonista. Conclusione amara, intrisa di scorato pessimismo. E tuttavia Consolo non ha perduto una sia pur fioca speranza di risorgere: la salvezza può venire dalla poesia. «Per la memoria, la poesia, l’umanità si è trasfigurata, è salita sull’Olimpo della bellezza e del valore».55 46 Ivi, 105. 47 Ivi, 32. 48 Ivi, 32. 49 Ivi, 83. 50 Ivi, 79. 51 Ivi, 65.52 Ivi, 89. 53 Ivi, 83. 54 Ivi, 102. Sui variegati registri linguistci di Consolo, cfr. G. ALVINO, La lingua di Vincenzo Consolo, in ID., Tra linguistica e letteratura, «Quaderni pizzutiani» 4-5, Roma, Fondazione Antonio Pizzuto, 1998. 55 CONSOLO, Lo Spasimo di Palermo…, 44.
8 Moduli strutturali della visione di Consolo della realtà siciliana e mediterranea ricorrono anche in alcuni racconti della raccolta La mia isola è Las Vegas.56 Nel racconto Le vele apparivano a Mozia,57 in cui lo scrittore narra un’escursione, compiuta da lui insieme con Clerici, Guttuso e altri amici, sui siti archeologici da Segesta ad Agrigento, vengono in primo piano l’antica città fenicia di Mozia sull’isolotto di S.Pantaleo e i suoi straordinari reperti, testimonianza emblematica della ricca e variegata storia della Sicilia, della sua civiltà plurietnica, della sua centralità geografica e culturale nel contesto dei paesi bagnati dal Mediterraneo. Il vero protagonista di questo racconto è «la stupenda statua in tunica trasparente del cosiddetto ragazzo di Mozia»58. Intorno a questa statua Consolo elabora una fantasia letteraria tra autocitazione e suggestione eliotiana. Ricorda che nel suo precedente libro Retablo59 aveva immaginato che il protagonista, il pittore, portasse via dall’isola la statua e che questa, nel corso di una burrascosa traversata verso Trapani, cadesse in fondo al mare. L’episodio di Retablo richiama alla memoria dello scrittore i versi della quarta e penultima sezione di The Waste Land di T. S. Eliot intitolata Death by Water, in cui è tratteggiata la morte a mare di Phlebas, maturo marinaio fenicio, un tempo giovane e bello. Mozia è l’isola dove approdano le navi dei colonizzatori fenici, cariche di mercanzie, il luogo in cui si incrociano le civiltà dei semiti, dei greci e dei romani, ombelico del Mediterraneo e crocevia delle sue rotte.60 Consolo fa sparire in fondo al mare il ragazzo di Mozia, perché gli appare dissonante rispetto alla mercantile civiltà fenicia: […] quella statua di marmo mi sembrò una discrepanza, un’assurdità, una macchia bianca nel tessuto rosso della fenicia Mozia; mi sembrò una levigatezza in contrasto alla rugosità delle arenarie dei Fenici, uno squarcio, una pericolosa falla estetica nel concreto, prammatico fasciame dei mercanti venuti dal levante. Come l’arte, infine, un lusso, una mollezza nel duro, aspro commercio quotidiano della vita.61 Analoga trama tematica è nel racconto Arancio, sogno e nostalgia.62 Qui il Leitmotiv è dato dagli agrumi siciliani, considerati nella loro lunga storia, dalla prima origine in Oriente al loro arrivo in Occidente e, lungo le rotte del Mediterraneo, nell’isola di Sicilia, «che, nel centro di questo mare, ha avuto tutte le invasioni, ma ha accolto e sviluppato tutte le civiltà e culture»63 Dai greci ai bizantini, dagli arabi ai catalani e fino a tempi recenti, gli agrumi sono stati sempre diffusamente coltivati in Sicilia, poiché in quest’isola, simile all’omerico orto di Alcinoo e all’ariostesco Paradiso Terrestre, hanno trovato il loro clima ideale: questi alberi, arancio o limone o cedro, sono diventati il simbolo d’un Sud di antica civiltà, «accanto al tempio dorico, alla cavea di granito d’un teatro, al luminoso pario d’una Venere».64 Ed è per gli agrumi che la Sicilia è diventata il paese del sogno, vagheggiato da Goethe nella lirica «Kennst du das Land, wo die Zitronen blühn» e da Stendhal nella Vie de Henri Brulard.65 56 V. CONSOLO, La mia isola è Las Vegas, Milano, Mondadori, 2012. In questo volume, l’ultimo voluto e concepito da Consolo, sono raccolti racconti precedentemente pubblicati o inediti. 57 Il racconto fu pubblicato per la prima volta in «Il Gambero rosso», supplemento di «il manifesto», 5-6 giugno 1988. 58 CONSOLO, La mia isola è Las Vegas…, 127. 59 Cfr. CONSOLO, Retablo…, 89-94. 60 Sul mare come culla e crocevia di civiltà, cfr. le riflessioni dello stesso Consolo in PERRELLA, In fondo al mondo. Conversazione in Sicilia con Vincenzo Consolo…, 67-69. 61 CONSOLO, La mia isola è Las Vegas…, 127.62 Il racconto fu pubblicato per la prima volta in «Sicilia Magazine», dicembre 1988, 35-46 (con traduzione inglese a fronte). 63 CONSOLO, La mia isola è Las Vegas…, 130. 64 Ivi, 129. 65 Ivi,129, 132. La poesia di Goethe apre il terzo libro di Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato, traduzione di A. RHO ed E. CASTELLANI, Milano, Adelphi, 2006, 127. Per la citazione di STENDHAL, cfr. Vie de Henri Brulard, Édition établie sur le manuscrit, présentée et annotée par B. DIDIER, Paris, Gallimard, 9 Il racconto si conclude con l’amara constatazione che oggi gli agrumi in Sicilia sono mandati al macero, sono schiacciati sotto le ruspe, simbolo, questa volta, di un degrado civile e sociale. Lo scrittore pone a sé e al lettore una sconfortata domanda: «Non ci sarà più storia per gli agrumi, per gli aranci siciliani, per questo pomo così antico, così mitico, per questo frutto dei poveri e dei reali?».66 Questa grave nota di amarezza e di sfiducia di fronte alla mutata situazione del tempo presente costituisce la Stimmung di un altro racconto, Il mare, del 2005.67 Consolo, nato in un paese marino sulla costa tirrenica di Sicilia, si sente profondamente legato al mare, con il quale ha un rapporto ancestrale e vivificante. Ma il mare di Sicilia, tutto il Mediterraneo, non è più quello di una volta. La conclusione del racconto è di un’attualità inquietante, ha quasi l’intonazione di una lucida profezia: Luoghi tremendi, di tragedie e di pene, e di vergogna per noi, come Porto Palo o Lampedusa, dove i pescatori tirano nelle reti cadaveri di poveri “clandestini” annegati. Questo odierno terribile Canale di Sicilia, questo Mediterraneo di miti e di storia, è divenuto oggi un mare di dolore, un mare di morte. E sono, sì, sempre attuali le parole di Fernand Braudel: “In tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato, e vi conosce tutte le miserie, gli orrori e le santità degli universi concentrazionari”.68 E tuttavia, anche se le aporie del tempo presente sembrano offuscare il panorama sociale e ambientale del mondo del Mediterraneo, secondo Consolo, la salvezza è ancora possibile, ove si dia spazio al linguaggio della letteratura e della poesia e si riscoprano i valori perenni della civiltà nel suo lungo cammino da Omero agli scrittori e agli artisti più rappresentativi del mondo contemporaneo.69 1973, 92-93: «Ce qui me frappa beaucoup alors, c’est que nous étions venus […] d’un pays [l’Italie], où les oranges croissant en pleine terre. Quel pays de délices, pensais-je!». 66 CONSOLO, La mia isola è Las Vegas…, 133. Per la citazione di F. BRAUDEL, cfr. Civiltà e imperi del
Mediterraneo nell’età di Filippo II, Torino, Einaudi, 1986, vol. II, 921-922. 67 Questo racconto è stato pubblicato per la prima volta in CONSOLO, La mia isola è Las Vegas…, 220-222. 68 Ivi, 221-222. 69 Cfr. CONSOLO – NICOLAO, Il viaggio di Odisseo…, 38-43
I cantieri dell’italianistica. Ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI secolo. Atti del XVIII congresso dell’ADI – Associazione degli Italianisti (Padova, 10-13 settembre 2014), a cura di Guido Baldassarri, Valeria Di Iasio, Giovanni Ferroni, Ester Pietrobon, Roma, Adi editore, 2016
Palermo, città raccontate da scrittori – Vincenzo Consolo
Palermo è rossa. Palermo è una bambina. Rossa come immaginiamo fosse Tiro o Sidone, fosse Cartagine, com’era la porpora dei Fenici. Bambina, perché dormiente e ferma, compiaciuta della sua bellezza, da sempre dominata. Rigogliosa e molle, si stende in una conca difesa a semicerchio da alti colli che a sud la difendono dai venti africani, che verso il mare terminano nei due baluardi del monte Cofano e del monte Pellegrino (il più bel promontorio del mondo, una detta di Goethe). Questa conca così protetta permette alle piante, anche alle più esotiche e rare, di attecchire e crescere, o di degenerare, come succede alle rose Paul Neyron del Giardino del Principe di Salina. Parliamo di questa conca al presente, ma è al passato che dobbiamo riferirci, poiché ormai un’orrenda colata di cemento ha coperto la famosa Conca d’oro, spegnendo come dice Rosario Assunto, una luce sul mondo. Palermo è stata, oltre che preistorica e sicana, punica o fenicia, greca, latina e bizantina. Ma non rimane nulla di questo suo vario passato (qualche vago nome: Sotto i fenici sembra si chiamasse Ziz, fiore); non rimangono stele di tufo o statue di Astarte, non colonne di marmo per dei dell’Olimpo. Quasi tutti i reperti archeologici chiusi nel suo museo provengono da altri siti: Himera Solunto, Selinunte, Lilibeo… Palermo comincia a essere realtà storicizzabile dal Momento in cui sbarcarono in Sicilia (827 d.C.), tutta invadendola, “come uno sciame d’api “, dice il monaco Erchemperto, i Musulmani. I cui Emiri scelsero Palermo, che chiamarono Balarm, come sede del diwan e come Capitale dei Tre Valli di Sicilia. Sotto i Musulmani, Palermo s’ingrandisce e abbellisce, diviene quella Città di commerci e di agi che contende il primato nel Mediterraneo a Cordoba o a Quairouan.
Palermo, col suo nome greco Panormos, “tutto-porto”, non aveva col mare in verità gran rapporto. Era costruita su un altura, bagnata alla base dai due torrenti Kemonia e Papireto, difesa da mura;. Altura che è ancora ogga la parte più monumentale della città. Da allora, e per tutto il periodo romano e bizantino, la città non subì cambiamenti. Lo straripamento dei brevi confini, dalle anguste mura, avviene col dominio musulmano. Ai siciliani, ai Greci, ai Longobardi, agli Ebrei si uni ora una Nuova, nutrita popolazione di Arabi, Berberi, Persiani, Negri. Questi abitanti così vari, di razza, di costume, di lingua, di religione fa di Palermo la prima grande citta cosmopolita dell’Alto Medioevo. Uscita dalle mura, la citta si espande verso il mare, verso l’antico porto, la Cala, dove ora s’alza la nuova cittadella fortificata, con il palazzo dell’emiro e l’arsenale, e dove intorno sorge il quartiere della Kalsa che, con quello degli Schiavoni, del Borgo Nuovo, degli Ebrei, forma la nuova faccia di Palermo. Sotto i Musulmani, Palermo diviene un importante emporio di scambi; Il suo porto è uno scalo d’obbligo per i pellegrini che dalla Spagna si recano alla Mecca. E la città delle trecento moschee, dei numerosissimi bagni Pubblici, dei brulicanti suk. Un’eco di questi mercati si ha in quelli odierni della Vucciria, di Ballarà (Suk-el-Balhars), del Capo, dei Luttarini (Suk-el-Attarin ). Questa Palermo, divenuta più monumentale sotto i Normanni e Svevi- maestranze bizantine, arabe e normanne crearono insieme capolavori di architettura come la Cappella Palatina, la Cattedrale, S.Giovanni degli Eremiti, Santa Maria dell’Ammiraglio e il Duomo di Monreale; crearono fascinose dimore per i regnanti del Nord, ville suburbane che si chiamavano Zisa, Favara, Cuba-, questa Palermo, con la sua singolare aura normanna e moresca, con le sue chiese-moschee, con i suoi mosaici, i suoi chiostri, i suoi giardini, le sue squillanti cupole rosse, sopravvisse per secoli, trapassò l’epoca angioina e quella aragonese, in cui le potenti famiglie feudali –Ventimiglia, Chiaramonte, Sclafani, Palizzi, Rosso, Alagona, Peralta, Abatellis- costruirono i loro palazzi- fortezze, le loro regge; sopravvisse ai Vicerè Spagnoli e Borboni, e arrivò quasi intatta fino all’Ottocento. Alla fine del ‘500, viene aperta, a incrocio della più importante via esistente, Càssaro o Toledo, che dall’alto della cittadella scende fino al mare, la via Maqueda. Le due vie tagliano ortogonalmente la città, la dividono in quattro quartieri , in quattro labirinti. E all’incrocio viene costruita la barocca piazza Vigliena o dei Quattro Canti. Questa, assieme alla Cattedrale, al Palazzo Reale, alla piazza dei Bologni, del Pretorio, della Marina, al Foro Borbonico, fu uno dei teatri che più affascinò i viaggiatori, italiani e stranieri, del Sette e Ottocento. All’epoca dei re e viceré, di Principi e Baroni, successe quella borghese dei Florio, che significa imprenditoria commerciale, industriale, finanziaria. Ma Florio significa anche rinnovato fervore edilizio, significa architettura e ristrutturazione urbanistica dei due Basile, di Giachery, di Damiani Almeyda; e nuovi palazzi, ville, teatri, boulevards, giardini e piazze, in quel neo-barocco che è lo stile liberty. Tramontata l’era dei Florio, non è stato che sonno e abbandono, ma soprattutto cieca, violenta distruzione. Alle bombe americane del ’43, di cui parla Lampedusa che distrussero uno dei centri storici più vasti e interessanti del Mediterraneo, si aggiunse, a partire dagli anni sessanta, il tritolo e il dominio sulla città della mafia. Mafia e potere politico, in trionfale, perfetta simbiosi, che devastarono, cancellarono la vecchia Palermo, ne costruirono un’altra di volgare, offensiva prepotenza, lasciando al centro intatte le macerie della guerra.
Il tritolo poi non servì più ad abbattere ville liberty, palazzi storici, distruggere giardini per costruire casermoni, ma a compiere stragi, a sterminare chi contro la mafia cominciò a lottare. Ma questa è la storia d’appena ieri che conosciamo tutti.
Vincenzo Consolo
Milano, 28 marzo 1997
Zeppelin, città raccontate da scrittori
I libri di diario.