LEGGERE E SCRIVERE IL MEDITERRANEO


di Ada Bellanova
Fornire una definizione del Mediterraneo non è un compito semplice. Mare – e contesto – in perenne trasformazione, come dimostra la sua storia ecologica, esso resiste ad ogni generalizzazione1 . Si può certamente tentare la strada della determinazione strettamente geografica ma si deve riconoscere che a poco serve dire che si tratta di un mare semichiuso su cui si affacciano vari popoli, diversi tra loro eppure simili per la loro posizione e per la condivisione di problemi e risorse. Si deve poi ammettere che il cosiddetto ecosistema mediterraneo ha subito trasformazioni profonde nel corso dei millenni: eliminazione di boschi e foreste, aumento della popolazione, sfruttamento delle risorse, mutamenti climatici, cambiamenti di fauna e flora2 . Le trasformazioni, tra l’altro, contraddistinguono anche la storia della rappresentazione. L’idealizzazione del passato classico che ha sedotto innumerevoli viaggiatori non esiste più e il Mediterraneo si rivela contesto dalle molte facce, non facilmente assimilabile al solo mondo europeo o occidentale3 . Perciò, come tentare una definizione? Cos’è veramente mediterraneo? Se la politica europea contemporanea ha ridotto la questione al problema della frontiera, al rischio di nuove invasioni barbariche4 , ragion per cui il mare è diventato spazio delle indesiderate migra-
1 La complessità del Mediterraneo è centrale nei recenti studi di Mediterranean ecocriticism. Si veda a proposito S. Iovino, Introduction: Mediterranean ecocriticism, or a Blueprint for Cultural Amphibians, in “Ecozon@”, 4.2, 2013, pp. 1-14, in particolare a p. 4. 2 Ibidem. La Iovino propone il caso dell’importazione di tutta una serie di piante e prodotti nel regno della vitis vinifera e dell’olea europaea, con conseguente profondissime sulla cosiddetta dieta mediterranea (si pensi a pomodoro, riso, caffè ecc.). 3 Ivi, p. 5. 4 Si veda a proposito il saggio di C. Resta, Geofilosofia del Mediterraneo, Mesogea, Messina 2012. Sul Mediterraneo come confine, frontiera anche A. Le-
zioni di masse di disperati, tra cui possono nascondersi pericolosi attentatori, e luogo di inevitabile sepoltura, un vero cimitero, di quanti non arrivano a compiere la traversata a bordo di gommoni e imbarcazioni di fortuna, gli intellettuali hanno mantenuto il Mediterraneo al centro di un vivace dibattito culturale. Dibattito che prova a mettere in discussione gli stereotipi. Rischiose sono infatti le immagini rassicuranti dell’idillio naturalistico e della civiltà dell’accoglienza da una parte oppure, all’estremo opposto, quelle fosche della violenza e della sopraffazione. Da una parte il paradiso turistico a buon mercato, le spiagge seducenti, l’esotismo della porta accanto, dall’altra quello della mafia, dell’estorsione, della corruzione delle classi dirigenti, della mancanza di sicurezza, dell’estremismo. L’una e l’altra immagine non sono che la faccia legale e quella illegale dell’inserimento subalterno del Sud nel mondo dello sviluppo, ai suoi margini, “laddove i modelli seducenti proposti dalle capitali del Nord-ovest si decompongono fino a diventare deformi”5 . Tali riduttive determinazioni trascurano la reale complessità del Mediterraneo, che, non a caso, Braudel tenta di definire nel segno della molteplicità e con l’espressione “crocevia eteroclito”6 . Questo spazio, quindi, non consiste soltanto in una teoria di paesaggi, addirittura non lo si può dire neppure mare unico, perché esso è piuttosto un insieme di mari. Nemmeno si esaurisce nell’elenco di tanti popoli diversi perché essi sono entrati spesso in relazione, avvicendandosi su uno stesso spazio o su spazi confinanti, si sono mescolati, hanno plasmato il territorio, anche come spazio dell’immaginazione, e continuano a farlo, rendendo impossibile una reductio ad unum. Ragion per cui Matvejevic può affermare che non esiste una sola cultura mediterranea, ma ce ne sono invece molte, caratterizzate da tratti simili e da differenze, mai assoluti o costanti7 .
 ogrande, La frontiera, Feltrinelli, Milano 2017, che indaga sulla condizione dei migranti. 5 F. Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, Bari 1996, pp. 3-4. 6 F. Braudel, Mediterraneo, in Id. (a cura di), Il Mediterraneo. Lo spazio la storia gli uomini le tradizioni, trad. it. di E. De Angeli, Bompiani, Milano 1987, pp. 7-8. 7 P. Matvejevic, Il Mediterraneo e l’Europa, Garzanti, Milano 1998, p. 31. Si veda anche Id., Quale Mediterraneo, quale Europa?, in F. Cassano, D. Zolo (a cura di), L’alternativa mediterranea, Feltrinelli Milano, 2007, p. 436:
 L’incontro ha sempre comportato delle criticità, in primis una diffusa e pressoché costante conflittualità8 : come scrive Braudel, “in tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato”9 . Ma il contesto mediterraneo non si configura solo come spazio di guerra: nei secoli le civiltà dominanti non hanno potuto cancellare del tutto quelle sottomesse; si sono sempre attivati meccanismi di contaminazione, dialogo, stratificazione. Allora forse la sua “essenza profonda”10 sta nell’esempio che esso può offrire della convivenza tra culture differenti. Solo tale approccio all’alterità può permettere al Mediterraneo, “mare tra le terre”, di essere non confine, limite, ma luogo di relazione e di incontro11. Il problema è anche di politica europea, o dovrebbe esserlo, non solo per il timore della violazione da parte dei migranti. Il legame tra Europa e Mediterraneo infatti esiste, sebbene venga sistematicamente messo in ombra dalla prevalente prospettiva mitteleuropea, ritenuta vincente dal punto di vista economico12. Considerare la “via” mediterranea significa, secondo Franco Cassano, valorizzare le differenze, la varietà che l’ossessione di uno sviluppo a tutti i costi nega. Significa porsi il problema della gestione degli spazi, laddove gli spazi ospitano un patrimonio “verticale”, incredibilmente stratificato, e quello della cura dell’ambiente e del paesaggio, impedendo che questi siano solo preda dell’abusivismo selvaggio. Significa affrontare la questione dello scambio e della convivenza tra vecchi e nuovi abitanti. Ciò va fatto, ed è un’opportunità, non solo per “custodire forme d’esistenza diverse da quella dominante” ma anche per “tutelare la stessa modernità dal suo avvolgimento in una spirale senza ritorno”
13. “l’insieme mediterraneo è composto da molti sottoinsiemi che sfidano o rifiutano le idee unificatrici”. 8 P. Matvejevic, Mediterraneo. Un nuovo breviario, trad. it.di S. Ferrari, Garzanti, Milano 1993, p. 19. 9 F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, trad. it. di C. Pischedda, Einaudi, Torino 1976, pp. 921-922. 10 Id., Mediterraneo, cit., p. 9. 11 Ancora Braudel a proposito della definizione del Mediterraneo come grande strada per trasportare uomini e merci (Id., Storia, misura del mondo, cit. p. 105). 12 F. Cassano, Tre modi di vedere il Sud, Il Mulino, Bologna 2009, pp. 20-24. 13 Id., Il pensiero meridiano, cit., p. 7. Ma si veda anche Id., Paeninsula: l’Italia da ritrovare, Laterza, Roma 1998, pp. 10-11.

1. Lo spazio mediterraneo per Consolo

La scelta di Norma Bouchard e Massimo Lollini di seguire il criterio della mediterraneità nell’antologia del 200614 riflette la centralità dell’interesse di Consolo per la “lettura e la scrittura” dello spazio mediterraneo15. Andando oltre gli stereotipi, la linea interpretativa e rappresentativa dell’autore evidenzia tormento e ricchezza di un contesto complesso, che rifugge qualunque generalizzazione. Parlare della questione e dello spazio mediterraneo significa per Consolo parlare del Sud e, in particolare, della Sicilia. La riflessione sulla complessità del Mediterraneo si innesta dunque sulle considerazioni a proposito della varietà e della molteplicità che caratterizzano la storia, l’ambiente, il patrimonio siciliani. Estremamente significativo appare nell’isola il flusso incessante di energie umane e culturali16, che hanno condizionato e condizionano il paesaggio, accostando e sovrapponendo più identità17. Allo stesso modo l’intero Mediterraneo è amalgama, crocevia di popoli differenti, non solo territorio della conflittualità ma anche patrimonio ricchissimo, possibilità della relazione e dello scambio18: sì scenario di devastazione, dove la tecnologia ha perso la sua funzione antropologica e ha generato mostri che distruggono le antiche città, trasformandole in
 14 V. Consolo, Reading and Writing the Mediterranean, a cura di N. Bouchard e M. Lollini, University of Toronto Press, Toronto-Buffalo-London 2006). Si veda il chiarimento nel saggio introduttivo: N. Bouchard, M. Lollini, Introduction: Vincenzo Consolo and His Mediterranean Paradigm, pp. 3-48, a p. 14. Sull’interesse di Consolo per il Mediterraneo si veda anche N. Bouchard, Vincenzo Consolo’s Mediterranean Journeys: From Sicily to the Global South(s), cit. 15 Sul tema anche l’antologia postuma, V. Consolo, Mediterraneo. Viaggiatori e migranti, Edizioni dell’Asino, Roma 2016. 16 C. Gallo, Cultural crossovers in the Sicily of Vincenzo Consolo, in “US-China Foreign Language”, gennaio 2016, vol. 14, n.1, pp. 49-56. 17 Emblematico Uomini e paesi dello zolfo, in Di qua dal faro, pp. 981-982: “Ora qui, per inciso, vogliamo notare che la storia, la storia siciliana, abbia come voluto imitare la natura: un’infinità, un campionario di razze, di civiltà, sono passate per l’isola senza mai trovare tra loro amalgama, fusione, composizione, ma lasciando ognuna i suoi segni”. 18 Tale visione è centrale anche nella riflessione di F. Cassano (i già citati Paeninsula, Il pensiero meridiano, Tre modi di vedere il Sud). Non a caso la scrittura di Consolo e quella di Cassano affiancate espongono il punto di vista italiano per “Rappresentare il Mediterraneo”, collana Mesogea (V. Consolo, F. Cassano, Rappresentare il Mediterraneo, cit.).
moderne metropoli, luoghi di intolleranza politica, religiosa e razziale, ma allo stesso tempo archivio di eredità preziose19. Dunque olivastro e olivo insieme. Ed è per tutelare ‘l’olivo’ che Consolo procede in direzione di un ripensamento dei consolidati effetti della globalizzazione20. L’imposizione dell’economia ritenuta vincente e l’emarginazione dei vari sistemi tradizionali producono inevitabilmente l’aberrante negazione della molteplicità che caratterizza l’identità mediterranea e la rottura degli utili equilibri preesistenti. L’autore dunque riflette sulla gestione degli spazi e della cultura e legge il fenomeno migratorio non come superamento di un limite ma come occasione di scambio che trasforma e vivifica. Nell’ottica di un recupero delle tradizioni e della molteplicità a rischio vanno guardate le scelte linguistiche che recuperano frammenti della Sicilia greca, bizantina, araba, normanna, ovvero le impronte delle lingue parlate un tempo nel Mediterraneo. L’imperativo della salvezza di linguaggi e dialetti dall’oblio si traduce in un plurilinguismo in cui non ci sono parole inventate ma parole scoperte e riscoperte, in un’operazione di riscatto della memoria e, quindi, di ricerca delle radici, dell’identità21. Se la rappresentazione del Mediterraneo risulta ambivalente, anche Ulisse, l’eroe mediterraneo per eccellenza, ha una natura duplice. Il personaggio omerico, associato da Consolo all’uomo contemporaneo, non è l’eroe del ritorno, è piuttosto il migrante: il nóstos gli è costantemente negato, perché nell’approdo all’isola egli scopre il sovvertimento, incontra le macerie di Troia anziché il palazzo di Itaca, ed è condannato perciò ad un esilio senza fine. La sua peregrinazione lo porta a contatto con le varie forme di violenza della modernità nei confronti di piccoli e grandi luoghi, in Sicilia e fuori dalla Sicilia. In ciò il viaggio diventa meditazione sulle proprie responsabilità: insieme all’ansia di scoperta e conoscenza,
 è 19 N. Bouchard, M. Lollini, Introduction: Vincenzo Consolo and His Mediterranean Paradigm, cit., pp. 3-48, a p. 18. 20 Si veda l’intervista con A. Prete (Il Mediterraneo oggi: un’intervista, in “Gallo Silvestre”, 1996, p. 63). 21 G. Traina, Vincenzo Consolo, cit., p. 130. F. Cassano in Rappresentare il Mediterraneo parla di recupero da parte di Consolo di un’antica dimensione sacra della lingua, mediante lo scavo nel passato del Mediterraneo (V. Consolo, F. Cassano, Rappresentare il Mediterraneo, cit., p. 57).
evidenziato il senso di colpa e il rimorso per l’abuso della tecnologia che distrugge patrimoni e vite umane22. Le tappe del viaggio cantato da Omero, a loro volta, come già evidenziato, diventano tessere per comporre l’immagine del mondo contemporaneo. Il mito ha avuto un suo innegabile ruolo nella costruzione dell’identità mediterranea23 perché, sorto da una radice geografica, ha a sua volta modificato e condizionato la percezione collettiva dello spazio, confluendo nel patrimonio di tutti, come è accaduto nei casi esemplari di Scilla e Cariddi o dell’Etna. Ma racconti e leggende antichi legati al territorio possono dire qualcosa di nuovo, possono mettere in luce la stortura: questa è l’operazione a cui si dedica Consolo, ribadendo il legame tra la piana delle vacche del Sole e la Milazzo dell’esplosione o evidenziando l’associazione tra regno dei Lestrigoni e area industriale siracusana. Proprio proponendo il mito originale, allora, enfatizzandone alcuni aspetti, l’autore è capace di trasmettere una denuncia che lamenta la profonda metamorfosi subita dai luoghi: riesce cioè a produrre un’immagine critica dello spazio contemporaneo.

 1.1 Nel segno della varietà del mare

 Consolo si sente figlio della varietà, dei passaggi, degli incroci di popoli che si sono avvicendati sulla sua terra. Perciò, nella straniante Milano, cerca il conforto dell’umanità colorata, varia, di corso Buenos Aires. A Nord egli cerca il suo Mediterraneo e lo trova negli arabi, nei tunisini, negli egiziani, nei marocchini, negli altri africani, lo trova nel “bruno meridionale”: in questa “ondata di mediterraneità” si immerge e si riconcilia, ci si distende come in una spiaggia di sole del Sud24.
 22 Sulla figura di Ulisse e il suo rapporto con il Mediterraneo nell’opera di Consolo si vedano alcune riflessioni di M. Lollini (M. Lollini, Intrecci mediterranei. La testimonianza di Vincenzo Consolo moderno Odisseo, cit, pp. 24-43 o anche l’introduzione, scritta con N. Bouchard, all’antologia Reading and Writing the Mediterranean, N. Bouchard, M. Lollini, Introduction: Vincenzo Consolo and His Mediterranean Paradigm, cit., pp. 19-21). Ma si vedano anche le affermazioni dello stesso Consolo in Fuga dall’Etna, cit., pp. 50-52. 23 B. Westphal (a cura di), Le rivage des mythes. Une géocritique méditerranéenne. Le lieu et son muthe, Pulim, Limoges 2001. 24 “Io che sono di tante razze e che non appartengo a nessuna razza, frutto dell’estenuazione bizantina, del dissolvimento ebraico, della ritrazione ara-
La similitudine esalta la presenza della varietà umana con tutta la sua gamma di neri e bruni qualificandola come occasione, in una Milano grigia al di là dello stereotipo, di sperimentare la mediterraneità. L’accostamento è significativo perché l’esperienza della “spiaggia al primo tiepido sole” è molto mediterranea, tanto più per Consolo, nato e cresciuto in una località di mare. La vita a Sant’Agata di Militello, “paese marino”, “borgo in antico di pescatori”25 gli ha permesso di avere una precoce familiarità con la spiaggia26. “La visione costante del mare” ha scandito l’infanzia, di giochi, bagni e gite sui gozzi. Sulla riva di una contrada poco nota sono approdati guerra e cadaveri della grande Storia27. Perciò lo spazio mediterraneo non può che configurarsi, sulla base dell’esperienza personale, come “mare”. Il tempo del mito che contraddistingue la percezione del mare delle Eolie viene poi superato nella frequentazione di altre coste, altri porti, altri arcipelaghi: il Mediterraneo non è più quello della giovinezza, non solo perché sono mutati i toponimi, le coordinate, ma anche perché a guardarlo ora è un adulto, con una prospettiva nuova, di cronista e narratore, e perché sempre più ristretto è lo spazio della bellezza, e delusione e amarezza nascono dalla coscienza di un patrimonio a rischio di estinzione, vampirizzato dall’indu,
del seppellimento etiope, io, da una svariata commistione nato per caso bianco con dentro mutilazioni e nostalgie. Mi crogiolavo e distendevo dentro questa umanità come sulla spiaggia al primo, tiepido sole del mattino”, Porta Venezia, in La mia isola è Las Vegas, pp. 112-113. Nello stesso testo (p. 114) gli eritrei che, ai tavoli di un ristorante, mangiano tutti con le mani da uno stesso grande piatto centrale il tipico zichinì gli ricordano l’uso delle famiglie contadine siciliane di una volta. Anche nell’osservazione di questo gesto c’è il conforto del recupero di un’identità, specialmente nel confronto con un Nord tanto diverso. Poco più avanti anche la musica, in un bar egiziano, suggerisce legami, suscita l’evocazione dell’identità mediterranea (Ivi, p. 115). 25 Il mare, in La mia isola è Las Vegas, p. 220. 26 La grande vacanza orientale-occidentale, in La mia isola è Las Vegas, pp. 163-169, a p. 165. Molte le dichiarazioni a proposito di una vita “anfibia”, vissuta cioè a stretto contatto con l’acqua. “Sono stato un bambino anfibio, vissuto più nell’acqua che nella terraferma” (La Musa inquieta, in “L’Espresso”, 15 aprile 1991). 27 Il mare, in La mia isola è Las Vegas, pp. 220-221; La grande vacanza orientale-occidentale, in La mia isola è Las Vegas, pp. 164-165. Nella caratterizzazione del Mediterraneo, a partire dal paese natale, si intrecciano memorie personali e dati della storia ufficiale: lo scorrere del tempo plasma i luoghi, oggettivamente e nella ricezione personale dell’autore.
 -strializzazione selvaggia, o dello scenario di nuove guerre, nuove violenze, nuova morte. È negato l’idillio della vita libera e bella con la vista costante delle isole del dio, e risulta stravolto orrendamente anche il lavoro dell’uomo: i pescatori non tirano più nelle reti il pesce azzurro, bensì cadaveri di clandestini28.

1.2 Tra olivo e olivastro: il patrimonio e la violenza

Pur consapevole della varietà e della complessità che lo caratterizzano, Consolo percepisce lo spazio mediterraneo come un mondo unico e vi rintraccia caratteri ricorrenti, corrispondenze e somiglianze. Memoria di paesaggi noti, conoscenze geografiche, storia della rappresentazione si intrecciano nel proporre associazioni relative al patrimonio naturalistico, considerazioni sulle fragilità degli spazi urbani e sui problemi ecologici. A permettere, in Arancio sogno e nostalgia, la definizione del Mediterraneo come regno solare degli aranci, è l’esperienza della pervasività di una coltivazione, che caratterizza fortemente il paesaggio, dalla Sicilia alla Grecia, dal Maghreb alla Spagna. Riconosciuto come traccia artistica, segno di civiltà, ma anche come straordinario catalizzatore di gratificanti percezioni sensoriali – il colore vibrante dei frutti e delle foglie, l’odore e il sapore –, l’arancio è per Consolo, al di là del facile e consolidato stereotipo di un Sud di agrumi e sole capace di attirare i viaggiatori stranieri, sogno di un Eden perduto, simbolo cioè, nel confronto con coordinate geografiche stravolte dall’industrializzazione, come nel caso della Conca d’oro palermitana, di un’integrità ecologica e culturale, di uno spazio sano in cui piante odorose possono ancora fare mostra di sé accanto alle rovine del passato29.
 Della tipica vegetazione mediterranea conserva notazioni il diario del viaggio in Jugoslavia: i pini piegati fino al mare, gli ulivi, i fichi, le vigne non segnano solo il paesaggio balcanico, ma anche quello greco, siciliano, turco, e si può inferire che anche il gesto
28 Il mare, in La mia isola è Las Vegas, pp. 221-222. 29 Arancio, sogno e nostalgia, in “Sicilia Magazine”, dicembre 1988, pp. 35-46, ora in La mia isola è Las Vegas, pp. 128-133. La citazione è alle pp. 128-129.
della donna che stende i frutti ad essiccare richiami ricordi di altre geografie più familiari30.
Nel resoconto della visita in Palestina nel 2002 poi Consolo scrive di “un paesaggio […] di colline rocciose e desertiche, che somiglia all’altopiano degli Iblei in Sicilia”31. Ma oltre al profilo fisico del territorio, a suggerire accostamenti sono gestualità e dolore delle donne per i combattenti morti: nei movimenti e nel lamento si colgono i tratti della tragedia greca, la cerimonia funebre di tutto il Mediterraneo32.
Città, anche distanti, sono accomunate dalla difficoltà di reggersi sul proprio passato, dalla fatica nella gestione della verticalità, della stratificazione, dal segno della decadenza a contatto con la modernità. Il paesaggio urbanistico mediterraneo risulta perciò inserito nella riflessione ecologica sullo spazio siciliano. Le case semicrollate nel reticolo delle viuzze della Casbah di Algeri evocano l’immagine del centro storico di Palermo33 e quasi topos diventano la crescita disordinata e veloce, l’invasione dei nuovi palazzi, il traffico, nel paesaggio urbano siracusano o in quello di Salonicco34. In L’olivo e l’olivastro dalla meditazione sulla decadenza della città di Siracusa, già accostata ad altre città del Mediterraneo, Atene, Argo, Costantinopoli, Alessandria35, scaturisce il racconto di
 30 Ma questa è Sarajevo o Assisi?, in “L’Espresso”, 30 ottobre 1997. Si tratta del racconto del viaggio fatto a Sarajevo con altri intellettuali italiani per restituire la visita di un anno prima da parte di otto membri del Circolo 99 (di Sarajevo). 31 Madre Coraggio, in La mia isola è Las Vegas, p. 196. Il testo, uscito per la prima volta in italiano in V. Consolo et al., Viaggio in Palestina, Nottetempo, Roma 2003, ma già apparso precedentemente online, anche in francese, è il resoconto del viaggio in Palestina in qualità di membro del Parlamento internazionale degli scrittori. 32 Madre Coraggio, in La mia isola è Las Vegas, p. 197. Consolo si riferisce alla cerimonia funebre mediterranea così com’è codificata in Morte e pianto rituale di E. De Martino che infatti ricorda. Ivi, p. 199. 33 Orgogliosa Algeri tra mitra e coltello, in “Il Messaggero”, 20 settembre 1993. 34 Ne abbiamo già parlato per Siracusa. Si veda invece quello che Consolo scrive di Salonicco in Neró metallicó: “città moderna, piena di luci, di insegne, di manifesti pubblicitari, di quartieri appena costruiti come d’una città che è stata invasa da immigrati, che in poco tempo ha moltiplicato i suoi abitanti. E piena di traffico” (Neró metallicó, in Il corteo di Dioniso, La Lepre edizioni, Roma 2009, p. 9). 35 L’olivo e l’olivastro, p. 820.
una visita lungo la costa africana, a Ustica36. Il ricordo si sofferma in particolare sulle rovine e, a sorpresa, sul basilico profumato che cresce in abbondanza tra le pietre e i mosaici. Quello che è apparentemente un particolare senza importanza serve però a definire un patrimonio di piccole cose, comune a tutto il Mediterraneo37. L’Ustica di Consolo è rovine e basilico. Ma tutto il Mediterraneo in qualche modo è Ustica. Tutto il Mediterraneo è fatto di “piccoli luoghi antichi e obliati” come Ustica, in cui la natura si intreccia con la memoria del passato38. Ma il rischio della dimenticanza è in agguato, l’incuria è già realtà, e il ricordo diventa occasione di meditazione amara: nell’enumerazione di antiche città, nell’anafora del verbo “ricordare”, Consolo si trasforma in un “presbite di mente” tutto rivolto verso il passato, si trasforma in “infimo Casella” tutto proteso verso qualcosa che non c’è più39. Se l’anima del musico appena giunta sulla spiaggia del Purgatorio mostra ancora un grande attaccamento alla vita terrena, tanto da slanciarsi verso Dante, memore dell’antico affetto, e la stessa canzone dantesca da lui intonata è all’insegna della nostalgia, il riferimento evidenzia proprio il legame che Consolo sente con il passato, con ciò che non esiste più, come la vita terrena per le anime purganti. Ma la sovrapposizione non è perfetta: il richiamo alla canzone Amor che ne la mente mi ragiona è immediatamente contraddetto dal “Non più, odia ora” e il canto non ha nulla della dolcezza del regno del Purgatorio, ma piut36 Ivi, p. 836. 37 Ibidem. 38 I mosaici e il basilico di Utica sono già ricordati in un passo di Malophoros, in un elenco di caratteristici e rapidi ritratti di piccoli luoghi carichi di passato, dalla Sicilia alla Grecia al Nord Africa: Malophoros, in Le pietre di Pantalica, pp. 574-575. Dello stesso tono la precedente osservazione sulle “stazioncine solitarie remote, di luoghi antichi, sacri, come quella di Segesta, di Cartaghe-Hannibal, di Pompei o di Olimpia” che sanno essere “commoventi, hanno ormai anche loro qualcosa di antico, di sacro” (p. 574). Omaggio ai “piccoli luoghi antichi e obliati” sono per lo più gli interventi apparsi su “L’Espresso” tra il 1981 e il 1982, dedicati a centri poco noti, come Miraglia, Valverde, Galati o Filosofiana. Il tono di questi articoli è però di solito quasi giocoso, un invito al godimento delle bellezze e delle ricchezze sconosciute, anche gastronomiche. Luogo antico e fuori dai soliti canali turistici (non segnalata sulla “Guide Bleu”) è anche Dion, stesa nella pianura ai piedi del Monte Olimpo a cui sono dedicate alcune pagine in Neró Metallicó (Il corteo di Dioniso, cit., pp. 19-20). 39 L’olivo e l’olivastro, p. 837.
tosto una rabbia infernale, un tono che pretenderebbe “rime aspre e chiocce”:

No, non più. Odia ora. Odia la sua isola terribile, barbarica, la sua terra di massacro, d’assassinio, odia il suo paese piombato nella notte, l’Europa deserta di ragione. Odia questa Costantinopoli saccheggiata, questa Alessandria bruciata, quest’Atene, Tebe, Milano, Orano appestate, questa Messina, Lisbona terremotate, questa Conca d’oro coperta da un sudario di cemento, il giardino delle arance insanguinate. Odia questo teatro dov’è caduta la pietà, questa scena dov’è stata sgozzata Ifigenia, quest’Etna, questa Tauride di squadracce dove si consumano merci e vite, si svende onore, decenza, lingua, cultura, intelligenza…40

 Dai toni nostalgici Consolo passa a quelli indignati di un coro antico e professa odio prima nei confronti della sua Sicilia, diventata “terribile, barbarica, terra di massacro”, una Tauride percorsa da “squadracce”, poi verso l’Europa e verso l’intero Mediterraneo. Il dramma in atto ha proporzioni gigantesche e il riferimento ai simboli della tragedia euripidea ne sancisce la gravità: sulla cavea è stata sgozzata Ifigenia, si è prodotto cioè il sacrificio dei sacrifici, la morte della sacerdotessa che Artemide aveva voluto salva, la morte dell’esiliata e, con lei, la morte di ogni forma di giustizia, cultura, rispetto. Il presente è una Tauride senza speranza. All’attentato nei confronti del patrimonio naturalistico e culturale si accompagna la violenza contro la vita umana, in svariate forme: il Mediterraneo è, per Consolo, spazio della conflittualità. La Palermo di Le pietre di Pantalica, in preda alle lotte di mafia, è come Beirut41: le bombe, i kalashnikov, gli efferati omicidi, il sangue sparso dai killer lasciano tra le strade siciliane il disastro dei campi di battaglia e spingono all’associazione con quell’altra violenza, in atto dall’altra parte dello stesso mare, della guerra che porta alla distruzione della capitale libanese. Comiso, poi, coi suoi missili Cruise, rappresenta la minaccia costante della violenza tra popoli a cui neppure le proteste dei pacifisti, bloccate brutalmente, possono opporsi. Nel racconto eponimo di Le pietre di Pantalica, mentre il paese “folgorato dal sole”, quasi fosse “uno di quei vuoti gusci dorati di cicala”, è tutto ripiegato nel suo torpore estivo,
40 Ibidem. 41 Le pietre di Pantalica, in Le pietre di Pantalica, p. 625.
poco più in là l’aeroporto, nella campagna deserta, accoglie i lavori per l’installazione. Alla sola vista del cancello con la scritta “Zona militare-Divieto d’accesso” emerge la tremenda apocalittica considerazione: “Non resterà di noi neanche una vuota, dorata carcassa, come quella della cicala scoppiata nella luce d’agosto. Non resterà compagna, figlio o amico; ricordo, memoria; libro, parola”42. Quasi a dire che troppo in là è andato l’uomo. Nel testo successivo, che porta nel titolo il toponimo, le cicale – ancora loro – che cantano nel sole estivo enfatizzano la pace e la fiacca che prelude alla carica delle forze dell’ordine sui dimostranti43. Di fronte al degrado della violenza – guerra per difendere la possibilità di fare la guerra – e di fronte alla speculazione edilizia e all’inquinamento, l’unica consolazione possibile viene a Consolo dalle rovine immerse nella natura, ovvero dal valore di un patrimonio naturalistico e culturale. Come ad Utica e ancor di più che ad Ustica, negli Iblei a Cava d’Ispica, a poca distanza da Comiso: qui ci sono “le migliaia di grotte scavate dall’uomo, le abitazioni, le chiese, le necropoli della preistoria, della storia più antica dei Siculi, dei Greci, dei Romani, dei Bizantini, di quelli di pochi anni passati”, qui c’è “un cammino bordato dai bastoni fioriti delle agavi, dagli ulivi, dai fichi, dai pistacchi, dai carrubi”44. E fuori dalla Sicilia? Una serie di articoli scritti a partire dagli anni Novanta denuncia una violenza connaturata in numerosi luoghi del Mediterraneo. Teatro del nascente integralismo è il Maghreb, l’Algeria in particolare, dove Consolo nel maggio 1991
 42 Ivi, p. 623. 43 Più tardi, nell’atto unico Pio La Torre, Consolo accenna al coinvolgimento della mafia siciliana e americana nell’affare dei missili (Pio La Torre, cit., p. 65) e offre un’immagine amara della nuova Comiso, che contrasta con il passato nell’offesa dell’inquinamento selvaggio e della minaccia di una guerra (Ivi, p. 77). 44 Comiso, in Le pietre di Pantalica, pp. 637-638. Il testo si chiude con una visita alla necropoli bizantina di Cava d’Ispica. C’è la luna e, guardandola, Consolo ricorda la preghiera della Norma belliniana: “Casta diva, che inargenti / queste sacre, antiche piante…”. Dichiara di non sapere il motivo del ricordo. In realtà la memoria ha a che fare, più o meno volutamente, con Zanzotto, nella cui opera la presenza della Norma è significativa: in più di un’occasione il poeta, riferendosi alla luna, allude alle parole della sacerdotessa (un esempio su tutti l’Ipersonetto: “Casta diva” o “sembiante”, A. Zanzotto, Tutte le poesie, cit., p. 571).
scorge il rischio che “il mistico linguaggio della preghiera” si stravolga nel “mortale linguaggio delle armi”45. Uno “scenario apocalittico, sconvolgente”46 caratterizza poi la Sarajevo del 1997. Il “paesaggio di macerie” che si mostra allo sguardo mano a mano che gli italiani in visita si inoltrano nell’entroterra, con la guida di Matvejevic, impressiona ancor di più per il contrasto con il quieto profilo mediterraneo della costa, dove non c’è traccia di guerra e dove Consolo ritrova la vegetazione della sua terra. La città distrutta evoca le dure immagini del Trionfo della morte di Bruegel o quelle di Los desastres de la guerra di Goya47; i suoi resti, accostati a quelli di Assisi appena colpita dal terremoto, si fanno ammonimento, metafora “del nostro scadimento”: “siamo scivolati sul ciglio della voragine paurosa della natura”, ovvero è scomparsa la civiltà. Infernale è infine la Palestina, visitata da Consolo con altri membri del PIE nel 2002 48. Nella descrizione del tragitto che da Tel Aviv conduce a Ramallah, l’accostamento del paesaggio a quello siciliano si rompe all’apparizione dei check point e delle mitragliatrici, e sempre più nel procedere verso la striscia di Gaza si moltiplicano i segni di rovina e lutto, pur nella prorompente vitalità dei “nugoli di bambini dagli occhi neri”49, al punto che il percorso in direzione dei villaggi di Khan Yunus
45 Quei parabolizzati che sognano l’Italia, in “Corriere della sera”, 20 giugno 1991; Orgogliosa Algeri tra mitra e coltello, cit. Si veda anche la prefazione al libro di poesie di Mokthar Sakhri (Poesie, Libro italiano, Ragusa 2000). L’esperienza giornalistica ritorna nel romanzo Lo Spasimo di Palermo (pp. 903-905): Chino Martinez nel giardino della moschea di Parigi ripensa allo sciopero di Algeri, al mitra e al Corano degli integralisti. Sui fondamentalismi nel Mediterraneo si veda anche l’intervista con A. Prete, Il Mediterraneo oggi: un’intervista, cit., pp. 65-66. Sul fondamentalismo di matrice islamica e in particolare sull’attacco alle torri gemelle, Consolo si esprime manifestando un’accesa critica nei confronti di Oriana Fallaci, evidenziando da una parte che non serve reagire con la violenza e che molti sono i vantaggi dell’incrocio tra culture, come insegna la storia siciliana (l’intervista a cura di G. Caldiron, Lo scrittore siciliano Vincenzo Consolo risponde a Oriana Fallaci “Parole che conducono alla violenza”, in “Liberazione”, 2 ottobre 2001). 46 Ma questa è Sarajevo o Assisi, cit. 47 Sempre a proposito della guerra in Jugoslavia il riferimento all’opera di Goya compare in La morte infinita, in “Il Messaggero”, 6 febbraio 1994. 48 Madre Coraggio, in La mia isola è Las Vegas, pp. 195-200. 49 Ivi, p. 197.
e Rafah pare “una discesa nei gironi infernali”50. L’immagine più forte, quasi un simbolo, è però quella della resistenza eroica di una madre: ad aprire e chiudere il resoconto del viaggio è la figura della donna di Ramallah51, “imponente, dalla faccia indurita”, che vende nepitella raccolta nei luoghi selvatici e che di certo abita nel campo profughi, forse ha figli che combattono.

1.3 Mediterraneo come spazio di migrazioni


 Nella rappresentazione offerta da Consolo l’immagine del Mediterraneo come spazio di migrazioni appare fondamentale e questo, oltre che per una chiara consapevolezza storica, per un’attenta lettura della contemporaneità. Divenuto, nei fatti, confine, limite, addirittura cimitero a causa della grande quantità di morti rimasti imprigionati nelle “carrette”, il mare potrebbe essere, invece, occasione di arricchimento in virtù dello scambio tra popoli. È un’immagine ideale, eppure realizzabile, quella che Consolo propone, insistendo su una storia di civiltà, quella siciliana in particolare, che ha la radice della sua grandezza proprio nell’incontro tra le differenze: ora che l’isola è divenuta luogo di approdo dei migranti che provano a sfuggire alla guerra, alla persecuzione o alla povertà, non si deve dimenticare che il progresso, quello vero, è sempre figlio dell’arricchimento che proviene dall’alterità. Lo dimostrano gli straordinari effetti della dominazione araba in Sicilia, a cui Consolo riconosce, sulla base di un ricco corredo di fonti e seguendo l’opinione di Sciascia, addirittura un valore fondante in termini di identità: i tratti tipici della sicilianità, ovvero lingua, letteratura, arte, agricoltura, cucina e persino fisionomia, risentono tutti del passato arabo52. Non
50 Ivi, p. 199. 51 Ivi, p. 195 e 200. 52 Estremamente rappresentativa appare a proposito la sezione Sicilia e oltre in Di qua dal faro e, in particolare, il saggio introduttivo, La Sicilia e la cultura araba. Il saggio si apre con alcune considerazioni sul legame tra la poesia della scuola siciliana e le qaside dei siculo-arabi, ancora attivi nell’isola sotto i Normanni (La Sicilia e la cultura araba, in Di qua dal faro, pp. 1187- 1192, a p. 1187) e riflette poi su diversi aspetti dell’influenza araba, ad esempio sulla rinascita economica e sullo spirito di tolleranza (p. 1189). Significativi nel testo i rimandi a Sciascia (in particolare alle pp. 1188-1189). Ricordo che il rapporto tra Sciascia e il mondo arabo costituisce un ambito ricco di spunti suggestivi. Significativa è la conclusione del saggio di apertura de La corda
 a caso l’insistenza sulla presenza degli Arabi nell’isola si traduce nella frequente celebrazione delle innovazioni in ambito agricolo, tecnico, delle trasformazioni in ambito artistico-culturale. Di “rinascimento” parla Consolo, non perdendo occasione per evidenziare i lasciti, le tracce ancora vive nella contemporaneità siciliana. La lussureggiante Palermo, ad esempio, non avrebbe chiese-moschee, castelli, palazzi e giardini seducenti, non avrebbe aranceti se non ci fossero stati gli Arabi. Lo spazio insomma risulta segnato profondamente da questa “migrazione”. Sorprendenti riescono ad essere poi – afferma Consolo – gli incroci della storia, e Mazara, che ridiventa araba nel Novecento per il massiccio arrivo dei tunisini, aveva già nel momento del primo approdo dell’827 l’Africa nel suo nome, Mazar, traccia dell’antica presenza cartaginese. Come a dire che è sempre stato normale per i popoli spostarsi, il mare non è di nessuno, non può essere veramente limite, e la terra non reca un marchio di possesso ma molti strati di identità che il tempo e i popoli plasmano, partendo, arrivando. Se innumerevoli sono le eredità, anche visibili, tangibili, sebbene a rischio, del passato arabo, scomparsa del tutto risulta per Consolo la scelta della tolleranza e della convivenza tra culture, confermata anche dai normanni che non vollero eliminare la civiltà che li aveva preceduti, ma la integrarono e la valorizzarono. Perciò l’immagine del Mediterraneo come spazio di equilibrio e coesistenza tra le alterità non è solo parentesi del passato ma anche un’aspirazione, un esempio positivo da opporre a quanti insistono sui rischi dello scontro tra culture53.
 Che l’arrivo di nuovi popoli produca progresso è poi testimoniato per l’autore anche da migrazioni più antiche come dimostra pazza (1970), Sicilia e sicilitudine, in cui l’autore traccia un collegamento ideale tra Salvatore Quasimodo e un poeta arabo di otto secoli precedente, Ibn Hamdis, siciliano di Noto, accomunati dai toni con cui hanno fatto poesia della pena profonda dell’esilio (L. Sciascia, Sicilia e sicilitudine, in Id. La corda pazza, cit., pp. 11-17). Sulla questione particolarmente interessanti risultano anche le osservazioni contenute in uno degli scritti del Canton Ticino, su Tomasi di Lampedusa, apparso su “Libera Stampa” il 27 gennaio 1959, ora raccolto in Troppo poco pazzi (L. Sciascia, Marx Manzoni eccetera e il Gattopardo, in R. Martinoni, a cura di, Leonardo Sciascia nella libera e laica Svizzera, Olschki, Firenze 2011, pp. 102-104 alle pp. 102-103). 53 Nell’ultima intervista Consolo riflette proprio sull’ignoranza di chi solleva lo scontro di civiltà e accosta integralismo e islam (V. Pinello, op. cit.).
l’entusiastica rappresentazione della Sicilia come museo a cielo aperto, che accoglie rovine antiche, città greche, elime, puniche. Ma numerosi sono anche i riferimenti alla nascita delle colonie, a volte molto precisi, con indicazione dell’ecista, del territorio di origine, degli sviluppi della vicenda coloniale54, sulla base dei dati forniti da fonti antiche, come l’opera di Tucidide55, o su testi più recenti che rinviano però alla storiografia greca. E ciò non solo nei testi saggistici: anche le prove narrative offrono una rappresentazione della Sicilia e del Mediterraneo che ne valorizza l’aspetto di crocevia di popoli. Concentrandosi sulle migrazioni dell’antichità, i testi impostano un implicito confronto con gli spostamenti di oggi, riconoscendovi ragioni identiche o simili, ovvero guerra, fame, difficoltà economiche. In particolare, ne L’olivo e l’olivastro56, Consolo si sofferma sull’emigrazione megarese verso la parte orientale dell’isola. La visita ai resti di Megara Hyblaea, oggetto dell’amorevole culto del giovane Salvo e dei suoi, mentre è in corso l’assedio della cannibalica civiltà industriale del polo siracusano, suscita un’entusiastica rievocazione dell’opera dell’ecista Lamis, dell’idea di uguaglianza e progresso dei coloni, della fertilità e della geometria nella suddivisione del terreno in lotti57. All’enfasi sulla fondazione Consolo
 54 Ad esempio, Che non consumi tu tempo vorace, cit., p. 12; I muri d’Europa, in L. Restuccia, G.S. Santangelo, Scritture delle migrazioni: passaggi e ospitalità, Palumbo, Palermo 2008, p. 25. 55 L’archaiologhia siceliota del VI libro si apre con una sintesi storica a proposito dei più antichi popoli locali, a partire dai misteriosi Lestrigoni e Ciclopi, cui segue un quadro preciso delle migrazioni dalla Grecia e delle successive fondazioni. Consolo rinvia a Tucidide per la fondazione di Messina, l’antica Zancle (Vedute dallo stretto di Messina, in Di qua dal faro, p. 1045) e infatti il dato è rintracciabile in Tuc. VI 4,5. Ricava probabilmente dallo storico greco anche il dato relativo alla fondazione di Siracusa da parte dell’ecista Archia (Tuc. VI 3), ricordato in La dimora degli Dei (cit., p. 14). Oltre alla fonte tucididea si può riconoscere anche quella di Diodoro Siculo, esplicitata per la colonizzazione greca delle Eolie (Isole dolci del dio, cit., p. 21). 56 L’olivo e l’olivastro, p. 783. 57 Tucidide parla dell’arrivo dei Megaresi (Tuc. VI 4, 1-2) ma non riporta quest’ultimo dato della lottizzazione, che invece si ricava dai rilievi archeologici. A proposito si veda H. Tréziny, De Mégare Hyblaea à Sélinonte, de Syracuse à Camarine: le paysage urbain des colonies et de leurs sous-colonies, in M. Lombardo, F. Frisone (a cura di), Atti del convegno Colonie di colonie: le fondazioni subcoloniali greche tra colonizzazione e colonialismo, Lecce, 22-24 giugno 2006, Congedo editore, Galatina-Martina Franca, 2009,
 aggiunge il plauso per le capacità che i Megaresi, scacciati dai Corinzi di Siracusa, dimostrarono, affrontando l’ignoto della Sicilia occidentale dove fondarono Selinunte. Le sue parole trasfigurano il neutro dato storico di Tucidide (VI 4, 2) attribuendo all’opera dei coloni i tratti di una straordinaria epopea58. I resti della civiltà greca di Megara e Selinunte, dunque, risultano monito contro lo straniamento che viene dalla degenerazione economica e culturale. La coscienza dell’identità trascurata dello spazio e della civiltà che l’ha costruita, originariamente straniera, immigrata, ma secondo le fonti storiche “progredita”, costringe l’attenzione sul rischio della perdita in termini di biodiversità culturale, e l’interesse per gli antichi coloni greci diventa traccia ecocritica. Ha a che fare con la volontà di valorizzare il passato greco dell’isola anche il ricorso al mito. Oltre al viaggio di Ulisse, Consolo ama ricordare la vicenda di Demetra, la madre disperata che, in cerca di sua figlia Kore, vaga per il Mediterraneo59, leggenda molto siciliana, in virtù dei luoghi coinvolti: ad Enna c’era l’antica sede della dea60, e proprio lì si svolse il rapimento di Kore, mentre poco più a
 pp. 163-164; M. Gras, H. Tréziny, Mégara Hyblaea: le domande e le risposte, in Alle origini della magna Grecia, Mobilità migrazioni e fondazioni, Atti del cinquantesimo convegno di studi sulla Magna Grecia, Taranto 1-4 ottobre 2010, Stampa Sud, Mottola 2012, pp. 1133-1147. 58 L’olivo e l’olivastro, pp. 783-784, ma anche Retablo, p. 432; La Sicilia passeggiata, pp. 94-95; Malophoros, in Le pietre di Pantalica, p. 578. 59 Più volte Consolo esibisce citazioni dall’Inno a Demetra (nella traduzione di F. Cassola del 1975). In Retablo ad esempio (Retablo, p. 409) i primi due versi (“Demetra dalle belle chiome, dea veneranda, io comincio a cantare, / e con lei la figlia dalle belle caviglie, che Aidoneo / rapì”) sono esempio di suprema poesia per Clerici che sta sperimentando, nell’esperienza sublime dell’accoglienza da parte di Nino Alaimo, tra l’altro dedito al culto di una Grande Madre mediterranea, una sorta di possessione divina. La Sicilia passeggiata (p. 7) si apre con un’epigrafe tratta dall’Inno (Inno a Demetra, vv. 401-403) che pone l’attenzione sull’esito felice della vicenda, ovvero sul momento del ricongiungimento delle dee e sul ritorno della primavera; più avanti nel testo invece (La Sicilia passeggiata, p. 57) leggiamo anche i vv. 305-311 che descrivono l’amarezza di Demetra dopo la perdita della figlia e le conseguenze nefaste per gli uomini. In L’olivo e l’olivastro (p. 843) i versi 40-44 inquadrano i luoghi come scenario del vagabondaggio sofferente di Demetra. 60 La Sicilia passeggiata, p. 58; L’olivo e l’olivastro, p. 822. Al tradizionale luogo del culto di Demetra Consolo si riferisce anche nella prefazione al
Sud, nell’area dello zolfo, la tradizione colloca il regno di Plutone61. La scelta autoriale chiama in causa le dinamiche di rappresentazione del Mediterraneo, ma anche l’identità profonda degli spazi geografici, evidentemente compromessa con il mito. Immaginario collettivo e prospettiva razionalizzante si intrecciano, nell’evidenziare il legame esistente tra Sicilia e Grecia, tra due differenti rive di uno stesso mare. Il culto e il mito, infatti, sarebbero conseguenza della colonizzazione greca62.
Nel mito personale di un mondo antico vivace, fatto di intrecci e incroci alla presenza greca si aggiunge quella cartaginese o quella elima. La vicenda di quest’ultimo popolo, in bilico tra storia e mito, ha a che fare, già secondo Tucidide (VI 2), con l’arrivo in Sicilia dei Troiani: lo storico riferisce che la migrazione, successiva al crollo di Ilio, ebbe come effetto lo stanziamento in territori prossimi a quelli dei Sicani e tale vicinanza portò alla denominazione unica di Elimi per i due popoli; i centri più importanti di questa nuova civiltà furono Segesta e Erice. Consolo, pur conoscendo sicuramente il dato riportato dallo storico, è più sensibile in questo caso alla fonte poetica virgiliana. In La Sicilia passeggiata, ad esempio, il mistero sull’origine di Segesta – o Egesta – richiama i versi 755-758 del V libro dell’Eneide che proprio alla ktisis fanno riferimento63. La quale ktisis si conclude con la fondazione del tempio della dea Venere sulla vetta del monte Erice, com’è ricordato dai vv. 759-760 del V libro virgiliano che Consolo sceglie di citare in La Sicilia passeggiata (“Poi vicino alle stelle, in vetta all’Erice, fondano / un tempio a Venere Idalia”)64, quasi invitando a seguire nell’area occiden
volume di F. Fontana dedicato a Morgantina (V. Consolo, Che non consumi tu tempo vorace, cit., p. 11-13) 61 Consolo ricorda questa associazione tra mito e luogo geografico in La Sicilia passeggiata, p. 62; Uomini e paesi dello zolfo, in Di qua dal faro, p. 985. 62 Molti gli studi sulla questione che evidenziano la difficoltà di definire la reale provenienza del culto di Demetra e Kore. Si veda ad esempio P. Anello, Sicilia terra amata dalle dee, in T. Alfieri Tonini (a cura di), Mythoi siciliani in Diodoro, Atti del seminario di studi, Università degli studi di Milano, 12-13 febbraio 2007 = in “Aristonothos, scritti per il mediterraneo antico”, 2, 2008, pp. 9-24. 63 La Sicilia passeggiata, p. 106. 64 Ivi, p. 108. Consolo precisa il dato poetico aggiungendo che in realtà il tempio è antecedente all’arrivo dei Troiani: parla infatti di un sacello sicano, elimo o fenicio già dedicato al culto della dea dell’amore. Si fa riferimento al tempio anche in Retablo (Retablo, p. 458) e in L’olivo e l’olivastro (L’olivo e l’olivastro, p. 860), dove ritroviamo la citazione dei versi dell’Eneide. In L’olivo e l’olivastro sono ricordati “il bosco e la spiaggia del funerale,
 tale dell’isola le orme del passaggio di Enea, sulla base delle indicazioni fornite dall’Eneide: un cammino attento potrebbe permettere di scoprire non solo l’area sacra ericina ma anche il bosco consacrato ad Anchise, la spiaggia dei sacrifici e delle gare65. La scelta di citare proprio i versi del rito di fondazione è interessante perché evidenzia la fusione tra popolazione straniera migrante, i Troiani, e popolazione locale, gli Elimi66. Da tutto ciò risulta evidente per Consolo che gli incontri, gli scambi tra popoli di culture diverse sono stati da sempre causa del cammino della civiltà, e che la chiusura, il rifiuto dell’ignoto che arriva da fuori, è perdita, regressione67. Perciò, egli, servendosi di una frase di Zanzotto, “Ci troviamo oggi tra un mare di catarro e un mare di sperma”, descrive il vecchio continente come perennemente arroccato nelle sue posizioni. “Vecchia” davvero è l’Europa, vecchia l’Italia, non solo per l’età media della popolazione, ma per una cecità di fronte all’arrivo delle masse disperate dei profughi che non riconosce la ricchezza dell’accoglienza e addirittura produce morboso attaccamento ai privilegi, difesi con pericolosi atteggiamenti xenofobi68. All’imperativo dell’accoglienza umanitaria, a cui implicitamente alludono nell’articolo Gli ultimi disperati del canale di Sicilia le immagini tremende del mare-cimitero (“bare di
delle gare in onore d’Anchise” (Ivi, p. 861), menzionati anche in Lo spazio in letteratura (Di qua dal faro, p. 1241). Al mito dell’arrivo dei Troiani in Sicilia si riferisce anche in Retablo l’onomastica relativa al fiume “Criniso o Scamandro” (p. 415). 65 Virgilio narra che Enea, fermatosi presso Drepano – l’attuale Trapani – dopo la parentesi di Cartagine, viene ospitato da Aceste e, con lui e i suoi, celebra gli onori funebri in onore di Anchise, lì seppellito un anno prima. Alla ospitalità già ricevuta da parte di Aceste si riferisce Aen. I 195. La morte di Anchise invece è accennata in Aen. III 707-710. Gli onori funebri in suo onore e i giochi successivi sono al centro del V libro (vv 42-103 e 104-603). 66 Dopo che le donne, istigate da Giunone, hanno dato fuoco alle navi (Aen. V 604-699), l’eroe, ispirato dalla visione di suo padre, decide di fondare una nuova città che sarà abitata da una parte del suo seguito e dai troiani dell’isola. Aceste e i suoi, infatti, che sono già in Sicilia (Aen. V 30 e 35-41) appartengono ad un’antica stirpe troiana. 67 Quando i Lombardi emigrarono in Sicilia, in “Corriere della Sera”, 4 maggio 1991. 68 Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, in “La Repubblica”, 18 settembre 2007. La frase di Zanzotto è ripresa da A. Zanzotto, In questo progresso scorsoio. Conversazione con M. Breda, cit., pp. 68-69. Il poeta la usa per commentare la situazione dell’Italia, sospesa tra “un’Europa invecchiante e le esplosioni demografiche vicine”.
ferro nei fondali del mare”) e dell’orrenda pesca dei morti (“i corpi degli annegati nelle reti dei pescatori siciliani”), si accompagna nella prospettiva autoriale l’invito ad una valutazione delle possibilità economiche e culturali che derivano dai flussi di migranti69. Estremamente significativo nel dibattito risulta per Consolo il caso della doppia migrazione da e verso il Maghreb. C’è stato un tempo lontano in cui il braccio di mare tra la Sicilia e le coste africane non era “frontiera, barriera fra due mondi, ma una via di comunicazione e di scambio”70, un tempo in cui era normale per i lavoratori di Sicilia, di Calabria o di Sardegna cercare fortuna nelle terre degli “infedeli”. Tale familiarità tra i due mondi è stata confermata dall’emigrazione ottocentesca, intellettuale e borghese prima, poi anche di braccianti dell’Italia meridionale, verso le coste nordafricane71. Si tratta di un fenomeno che sta molto a cuore a Consolo72. Non a caso egli lo accoglie nella narrazione di Nottetempo, casa per casa.
 69 Negli stimoli offerti dall’emigrazione contemporanea Consolo scorge una possibilità di rinascita anche letteraria: così nell’intervista con A. Bartalucci (A. Bartalucci, op. cit., pp. 201-204, a p. 204). 70 Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, p. 1193. Consolo si è soffermato prima sulla seconda novella della quinta giornata del Decameron di Boccaccio che propone il tranquillo soggiorno di pescatori cristiani, trapanesi, nella musulmana Tunisia. Ma si veda anche in Retablo l’incontro di Clerici, accompagnato dal fido Isidoro e dal brigante, con Spelacchiata e i suoi compagni barbareschi, che si traduce in uno scambio di cerimonie (Retablo, pp. 438-440). L’episodio tiene conto dell’affinità culturale e della consuetudine dei rapporti tra paesi mediterranei. A proposito del valore della “rotta per Cartagine”, ovvero dell’attenzione consoliana per le relazioni storiche di contiguità e vicinanza tra Sicilia e Nord Africa, P. Montefoschi, Vincenzo Consolo: ritorno a Cartagine, in Id., Il mare al di là delle colline. Il viaggio nel Novecento letterario italiano, Carocci, Roma 2012, pp. 54-60; specificamente sull’episodio di Spelacchiata in Retablo, p. 55. 71 A proposito dell’emigrazione italiana in Tunisia si veda lo studio di F. Blandi: F. Blandi Appuntamento a La Goulette, Navarra Editore, Palermo 2012. 72 Del fenomeno Consolo fornisce dati precisi in diverse occasioni. Si veda in particolare Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, pp. 1195-1196; Il Mediterraneo tra illusione e realtà, integrazione e conflitto nella storia e in letteratura, in G. Interlandi (a cura di), La salute mentale nelle terre di mezzo. Per costruire insieme politiche di inclusione nel Mediterraneo, Atti del Convegno di Psichiatria Democratica, Caltagirone, 12-13 marzo 2009, numero monografico di “Fogli di informazione”, terza serie, 13-14, gennaio-giugno 2010, pp. 5-7.
La fuga di Petro, nuovo Enea73, si inserisce proprio nel contesto storico della migrazione verso l’Africa settentrionale. La sua vicenda non è eccezionale, se non forse per le motivazioni, ma rientra nella normalità di un flusso migratorio consolidato74. La stessa presenza del personaggio storico di Paolo Schicchi, con cui Petro ha un breve colloquio sulla nave, obbedisce alla storicità del fenomeno. L’anarchico siciliano, infatti, non fu il solo a cercare rifugio in Tunisia per ragioni politiche: esisteva sulla sponda sud del Mediterraneo una nutrita comunità di antifascisti e addirittura una vera e propria comunità anarchica siciliana a Tunisi75.
 Il romanzo si chiude proprio con l’arrivo dall’altra parte del mare: i colori, le architetture, la vegetazione e gli uccelli sanciscono l’approdo ad un nuovo inizio, proprio come accadeva a coloro che emigravano in Tunisia76. Il nuovo spazio su cui si affaccia la nave si carica di attese, di possibilità, innesca un confronto con il passato, con la terra abbandonata, accende speranze, suscita decisioni. Petro lascia significativamente cadere in mare il libro che l’anarchico Schicchi gli ha consegnato durante il viaggio, a sancire il suo rifiuto per ogni forma di violenza, la sua volontà di essere “solo come un emigrante, in cerca di lavoro, casa, di rispetto”77.
La prospettiva di chi guarda e vive il passaggio ad un nuovo spazio definisce e ridefinisce i contorni della realtà, quella che ha lasciato e quella a cui va incontro. La Tunisia non è per Petro un luogo neutro e nemmeno lo è la Sicilia. Allo stesso modo la terra di partenza e la Milano dell’arrivo vengono ridiscusse nell’esperienza
73 Non a caso il capitolo finale reca l’epigrafe virgiliana Longa tibi exilia et vastum maris aequor arandum (Aen. II 780) che permette di associare la Sicilia in preda all’alba fascista ad una Ilio in rovina e Petro in fuga all’eroe costretto a cercare una nuova terra. 74 Nottetempo, casa per casa, p. 752. Nell’intervista con Gambaro (F. Gambaro, V. Consolo, op. cit., p. 102) Consolo evidenzia l’importanza degli scambi tra le due rive del Mediterraneo, proprio a partire della vicenda degli italiani emigrati, perché essi permettono un arricchimento culturale e letterario. 75 Nottetempo, casa per casa, pp. 753-754. A proposito della comunità italiana in Tunisia si veda lo studio di Marinette Pendola (Gli italiani di Tunisia. Storia di una comunità (XIX-XX secolo), Ed. Umbra, “I Quaderni del Museo dell’emigrazione”, Foligno, 2007), curatrice anche del sito www.italianiditunisia.com, denso di informazioni storiche. 76 Nottetempo, casa per casa, p. 755. 77 Ibidem.
di migrazione che conduce i meridionali, negli anni del miracolo economico, alla volta del Nord. Come accade, d’altronde, allo stesso Consolo che, sebbene non si muova per fame ma per realizzazione intellettuale, sperimenta il passaggio, vive una ridefinizione dei luoghi. L’insistenza dell’autore sulla presenza significativa degli italiani in Maghreb e sugli innumerevoli scambi avvenuti tra l’una e l’altra riva del mare fin dal Medioevo va considerata in relazione al suo interesse per quell’emigrazione africana in Italia che ha avuto origine negli anni Sessanta e che non si è più arrestata. Le riflessioni a tal proposito sono estremamente lucide e inquadrano precocemente la questione. I primi lavoratori tunisini, forniti del semplice passaporto con il visto turistico e sprovvisti di quell’autorizzazione che permetteva un regolare contratto di lavoro, giungevano in Sicilia nel 1968. La presenza di questi primi immigrati, costretti a ritornare in patria alla scadenza del visto turistico, rispondeva alla domanda di lavoro a buon mercato da parte di proprietari terrieri e di armatori, per i quali reclutare questa manodopera e sfruttarne la condizione abusiva era senza dubbio un vantaggio. Ai primi immigrati si aggiunsero allora parenti e amici e il fenomeno si allargò78. “L’emigrazione in Italia dei poveri del Terzo Mondo”79 ha inizio a Mazara, proprio lì dove il 17 giugno 827 – ricorda Consolo citando Amari – sbarcavano i musulmani, città splendida e prestigiosa secondo il geografo Idrisi80. A distanza di secoli, scomparsa la bellezza del passato, dopo che miseria e crollo avevano generato quell’altra migrazione, “di pescatori, muratori, artigiani, contadini di là dal mare, a La Goulette di Tunisi, nelle campagne di Soliman, di Sousse, di Biserta”81, il miracolo economico degli anni Sessanta attivava di nuovo la rotta dal Nord Africa82.
78 Sul fenomeno si veda A. Cusumano, Il ritorno infelice, Sellerio, Palermo 1978. Consolo lo cita in diverse occasioni, ad esempio, Il ponte sul canale di Sicilia, Di qua dal faro, p. 1197. 79 L’olivo e l’olivastro, p. 865. 80 Ivi, p. 864. 81 Ivi, p. 865. 82 Ibidem. Si veda anche Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, pp. 1197-1198. Molti gli articoli sul caso di Mazara, ad esempio I guasti del miracolo, cit.; Morte per acqua, cit; “Ci hanno dato la civiltà”, cit. Ancora precedente l’articolo uscito su “Sans frontières” nel 1980 che si sofferma sulla storia di Mazara prima di concentrarsi sulla quarta guerra punica o guerra
L’inversione di rotta, di cui Consolo evidenzia la specularità rispetto a quella italiana, va a riempire i vuoti lasciati dall’altro flusso migratorio, quello dei meridionali verso il Nord, e, anche se il caso di Mazara ha una sua indiscussa esemplarità, il fenomeno, come si è detto, già all’origine riguarda un po’ tutto il trapanese: una terra che ha più di un tratto in comune con la regione di partenza83. Ma mentre, accennando alla somiglianza geografica e culturale delle due rive del Mediterraneo, riporta l’attenzione sulla vicinanza tra i popoli e sui risvolti positivi dello scambio del passato, Consolo lascia emergere la stortura del presente e individua in questa nuova migrazione l’inizio di una lunga serie di episodi di xenofobia e persecuzione84. Gli immigrati maghrebini, infatti, a Mazara in maniera significativa, ma anche altrove, divennero presto oggetto di sfruttamento, divennero strumento di speculazione politica, furono vittime di razzismo, caccia, di rimpatrio coatto. Nel 1999, in Di qua dal faro Consolo già lamenta l’assenza di previsioni, progettazioni, di accordi tra governi85. La vicenda dei tunisini del trapanese e quella di tutti coloro che hanno attraversato e attraversano le acque del Mediterraneo – ma in alcune pagine il discorso si estende al mondo intero – alla ricerca di una nuova vita sono parte di un’unica drammatica storia scandita dalle tragedie quotidiane di corpi senza vita86.
del pesce i cui protagonisti erano proprio i tunisini immigrati della casbah: Quatrième guerre punique, in “Sans frontières”, 30 settembre 1980. 83 Alla somiglianza tra Italia meridionale e Nord Africa Consolo fa riferimento in“Ci hanno dato la civiltà”, cit.. Sulla questione anche un articolo del 1981, Immigration africaine en Italie (“Sans frontières”, 3 gennaio 1981): l’Italia è la prima tappa dei migranti per necessità geografiche ma anche perché è una terra non veramente straniera. 84 L’olivo e l’olivastro, p. 865; Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, p. 1197. Nel precedente I guasti del miracolo (cit.) Consolo rileva lo scandalo del dopo terremoto di Mazara (7 giugno 1981): ai tunisini vengono negate le tende, perché stranieri e perché non votanti e quindi ininfluenti nelle imminenti elezioni regionali. 85 Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, pp. 1197-1198. 86 Uomini sotto il sole, in Di qua dal faro, p. 1202. In particolare l’espressione “d’altri, scoperti, gettati in pasto ai pescecani” allude ad un episodio specifico, già tema del racconto Memoriale di Basilio Archita (Le pietre di Pantalica, pp. 639-646): nel maggio 1984, l’equipaggio della nave Garyfallia, che al comando di Antonis Plytzanopoulos era salpata dal porto di Mombasa da poche ore, si rese colpevole della morte, in mare aperto, proprio in pasto ai
L’ombra del mito antico si affaccia a rappresentare il destino dei migranti: essi ripetono l’esilio di Ulisse, ma soprattutto sono Enea in fuga da una terra in fiamme, oppure sono Troiane, fatte schiave e costrette ad allontanarsi dalla propria patria87.
La condizione degli esseri umani nel mare nostrum sembra così trovare una sintesi nella citazione da Braudel – “in tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato”88–, originariamente riferita all’età di Filippo II. Ma ancor di più i versi eliotiani di Morte per acqua, che ritornano con frequenza sorprendente nei testi giornalistici e nelle prove narrative, riescono a parlare della realtà contemporanea. Già in Retablo l’episodio in cui la statua dell’efebo di Mozia si perde nel mare suscita la riflessione su un’altra perdita, che è ben più grave, quella delle vite umane che in ogni tempo si sono spente e si spengono nell’acqua, “sciolte nelle ossa” come Phlebas il fenicio89. In L’olivo e l’olivastro la citazione si lega esplicitamente alla memoria di un fatto di cronaca: nel 1981 il giovane Bugawi, vittima del naufragio del Ben Hur di Mazara, rimane in fondo al mare e “una corrente sottomarina / gli spolpò le
 pescecani, di un gruppo di clandestini. I migranti non vengono sacrificati solo nel Mediterraneo: la vicenda, infatti, come ricorda anche la voce narrante del racconto, il siciliano Basilio Archita, si svolge al largo delle coste del Kenia. I responsabili sono un “manipolo di orribili greci, dai denti guasti e le braccia troppo corte, mostri assetati di sangue e di violenza” (S. Giovanardi, Imbroglio siciliano, in “La Repubblica”, 2 novembre 1988; Id., Le pietre di Pantalica, in S. Zappulla Muscarà, Narratori siciliani del secondo dopoguerra, cit., pp. 179-182), insomma non hanno niente a che fare con i valori dell’antica Grecia. E anche la citazione di Kavafis, in bocca ad uno di loro, stride nel confronto con il terribile delitto. 87 Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, cit., o in I muri d’Europa, cit., p. 25. Entrambi i testi si aprono con citazione dalle Troiane di Euripide (vv. 45-47) e dall’Eneide di Virgilio (II 707-710). 88 Ad esempio a conclusione di Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, p. 1198; Il mare, in La mia isola è Las Vegas, p. 222; Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, cit.; I muri d’Europa, cit., p. 30; nel discorso al convegno per Psichiatria democratica, Il Mediterraneo tra illusione e realtà, integrazione e conflitto nella storia e in letteratura, cit. La citazione è tratta da F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II (F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, cit., pp. 981-982). 89 Retablo, p. 453.
ossa in sussurri”90. Ma anche i naufraghi di Scoglitti91 sono Phlebas il fenicio, e lo sono tutti i morti del Mediterraneo, tutti quelli che le carrette stracariche e le responsabilità umane hanno lasciato affogare92. Dal 2002 in poi Consolo interviene in maniera decisa e con la consueta indignazione sull’intensificarsi del fenomeno migratorio e sulle responsabilità della politica. Già un testo del ‘90 evidenzia l’ampliamento smisurato del braccio di mare tra Sicilia e Nord Africa, ovvero, la distanza economica creatasi tra i due mondi93. Ancora di più gli articoli successivi, suscitati in particolare dalla legge Bossi Fini, si concentrano sul contrasto evidentissimo, soprattutto a Lampedusa e nelle altre Pelasgie, tra l’opulenza del turismo nella natura incontaminata e la disperazione dell’approdo dei migranti94. Il procedimento antifrastico con cui Consolo si finge sostenitore delle ragioni dei ricchi vacanzieri contro gli sbarchi invadenti degli stranieri evidenzia lo stridere dei due mondi: “Ma lì, a Lampedusa, inopinatamente vi giungono anche, mannaggia, gli emigranti clandestini”95. Così la bella Lampedusa diventa nuovamente scenario di guerra contro l’infedele, come nel poema ariostesco. Se la Lipadusa del Furioso, “piena d’umil mortelle e di ginepri / ioconda solitudi
90 L’episodio è rievocato, con citazione da Eliot, in L’olivo e l’olivastro, pp. 865-866. Nel giugno del 1981 appena dopo il terremoto che aveva colpito Mazara, gli armatori ebbero fretta di rimandare in acqua le navi. Nel naufragio del Ben Hur morirono cinque mazaresi e due tunisini. L’identità di questi rimase ignota per diversi giorni: un indizio della condizione di sfruttamento e illegalità in cui lavoravano gli stranieri. Sullo stesso episodio, sempre con riferimento a Phlebas il fenicio, si veda il già citato Morte per acqua, cit., o “Ci hanno dato la civiltà”, cit. 91 Dedicato ai morti per acqua, in “L’Unità”, 29 settembre 2002. La citazione dei versi di Eliot chiude l’articolo e, che mi risulti, è l’unico caso in cui il passo è riportato per intero. Consolo si riferisce a quanto avvenuto il 24 settembre 2002: uno scafista abbandona a 300 metri dalla spiaggia di Scoglitti il suo carico di migranti; le onde impediscono l’approdo, muoiono 14 persone. 92 Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, cit., o in I muri d’Europa, cit., p. 29. Meno esplicito il riferimento a Eliot in Immigrati avanzi del mare, in “L’Unità”, 18 giugno 2003, dove è l’aggettivo “spolpato” (“qualche corpo gonfio o spolpato finisce nelle reti dei pescatori”) che allude a Phlebas il fenicio. 93 Cronache di poveri venditori di strada, cit. 94 Il mondo di Bossi Fini stupido e spietato, in “L’Unità”, 29 agosto 2002. 95 Ibidem.
ne e remota / a cervi, a daini, a caprioli, a lepri”96, ospita il triplice duello di Orlando, Brandimarte e Oliviero contro i saracini Gradasso, Agramante e Sobrino, nel Duemila l’isola, divenuta da “remoto scoglio”, “meta ambitissima del turismo esclusivo”, è luogo d’approdo di pescherecci e gommoni che rovesciano il loro carico di clandestini: “i nuovi turchi, i nuovi invasori saracini”97. E – ancora è dominante l’antifrasi –, se non ci sono gli antichi paladini a combatterli e neppure le navi militari auspicate da Bossi, c’è però il mare “quel fascinoso mare azzurro e trasparente che d’improvviso s’infuria e travolge ogni gommone o peschereccio”98. Tanto più assurde si rivelano le leggi per gestire gli arrivi e, se già prima della Bossi Fini, Consolo lamentava la violazione sistematica dei diritti dell’uomo, dopo il 2002 è ancora più duro. Bersaglio polemico sono le nuove normative, più rigide di quelle previste dalla legge Martelli o dalla Turco-Napolitano: le nuove disposizioni prevedono che le carrette siano bloccate in acque extraterritoriali, “forse anche speronate e affondate. Con tutto il loro carico umano”99. Bersaglio polemico sono i centri di prima accoglienza che – scrive – non meriterebbero questo nome, perché piuttosto di lager si tratta, luoghi atroci, di violenza e umiliazione100. Bersaglio polemico è la diffusione di sentimenti xenofobi, suscitati dalla politica nella mentalità comune, ben rappresentata dall’io narrante del racconto eponimo di La mia isola è Las Vegas che invoca la costruzione di muri d’acciaio per arrestare la marea dei migranti101. In quest’ottica di critica alla nuova legge e all’inadempienza del dovere morale verso i migranti va letta la netta opposizione di Consolo al progetto di un museo della migrazione a Lampedusa, promosso nel 2004 dalla deputata regionale dell’Udc Giusy Savarino. A lei l’autore si rivolge pubblicamente dalle pagine di “La
96 Ariosto, Orlando Furioso, XL 45 vv. 3-4. Il passo è ricordato da Consolo in Lampedusa è l’ora delle iene, “L’Unità”, 28 giugno 2003. Ma si veda anche Isole dolci del dio, cit., pp. 33-35. 97 Lampedusa è l’ora delle iene, cit. 98 Ibidem. 99 Il mondo di Bossi Fini stupido e spietato, cit. 100 Ibidem ma anche Immigrati avanzi del mare, cit. 101 La mia isola è Las Vegas, in La mia isola è Las Vegas, p. 217.
Repubblica”, accusando l’ipocrisia profonda di una tale iniziativa102 e riflettendo su quanto sia irrimediabilmente compromessa l’identità dello spazio mediterraneo. Che cosa rimane del mare di miti e storia? Che cosa della mirabile convivenza tra culture diverse? Il monito dei reperti archeologici, delle narrazioni risulta poca cosa di fronte al mutamento dello sguardo collettivo sancito da leggi xenofobe e lager mascherati da centri di accoglienza: il mare si è fatto frontiera, confine, che gli altri, gli stranieri, non devono superare. Ed è contemporaneamente cimitero, spazio del sacrificio, della tragedia. Perciò il progetto di un museo a Lampedusa, l’isoletta dell’ariostesca lotta contro l’infedele, è, per Consolo, strumento di una retorica ipocrita, che non è giusto appoggiare: che senso avrebbe un monumento all’emigrazione, quando proprio i migranti vengono combattuti, respinti, lasciati morire in mare? Ma, d’altra parte, è il mondo intero ad aver subito una metamorfosi: si è mutato agli occhi dell’autore in un “im-mondo”, ovvero negazione di se stesso, perché preda della follia. La ripetizione dell’aggettivo “nostro”, associato sia allo spazio stravolto che alla massa di cadaveri, assume, nel testo in versi Frammento, toni accusatori, richiamando gli esseri umani alle proprie responsabilità nei confronti della morte di innocenti.

Nostri questi morti dissolti
nelle fiamme celesti,
questi morti sepolti
sotto tumuli infernali,
nostre le carovane d’innocenti
sopra tell di ceneri e di pianti.
Nostro questo mondo di follia.
 Quest’im-mondo che s’avvia…
103

102 Solo un monumento per gli immigrati, in “La Repubblica”, 21 agosto 2004. Sulla questione Consolo si era già espresso qualche giorno prima: Perché non voglio quel museo, in “La Repubblica”, 19 agosto 2004. 103 Frammento, in Per una Carta “visiva” dei Diritti civili, Viennepierre, Milano 2001, anche in “Microprovincia”, 48, gennaio-dicembre 2010, p. 5.

Purché ci resti Itaca: nelle radici una speranza per domani. La voce di Consolo

Ada Bellanova

Purché ci resti Itaca:

nelle radici una speranza per dopodomani.

La voce di Consolo.

1. Ripensare i luoghi in forma di idillio. Il dramma di Ulisse e di Ifigenia.

            Senza la letteratura Itaca sarebbe semplicemente una piccola isola greca nel Mediterraneo. Invece Omero, la tradizione, le invenzioni letterarie l’hanno resa il luogo per eccellenza delle radici e della memoria, la patria ritrovata dopo un lungo viaggio: l’hanno trasformata in simbolo[1].

            Ulisse in viaggio, intento ad affrontare pericoli, mostri e tempeste, porta con sé l’immagine di Itaca luogo del cuore, patria perfetta, a cui desidera a tutti i costi tornare. Una polarità netta si crea tra il mondo minaccioso – e avventuroso – e il nucleo accogliente e protettivo della patria e della casa. Eppure Ulisse, una volta sbarcato, è costretto a interrogarsi subito sull’identità della terra, sullo scarto tra il sogno che ha cullato durante la lunga distanza e la realtà[2]. Molte cose infatti sono cambiate: lui non è più lo stesso e Itaca è mutata, non solo per i soprusi dei Proci, ma anche perché il tempo ha segnato la sua geografia a tal punto da conferirle un paesaggio nuovo, diverso. Per queste ragioni, e non solo per l’intervento di Atena, Ulisse si guarda intorno e, smarrito, si pone la domanda: «Dove sono capitato?». Sebbene il finale dell’Odissea risulti confortante – l’eroe ottiene di nuovo il suo ruolo di re dopo la sconfitta dei Proci e l’intesa del talamo con Penelope – sorge il dubbio che l’Itaca ritrovata sia un po’ deludente rispetto al sogno e alla nostalgia. Perché altrimenti Ulisse sceglierebbe, come insegna l’altra tradizione, di ripartire? Non dovrebbe godersi la terra tanto amata? Il fatto è che, come scrive Jankelevitch, la nostalgia, per l’esule – per qualunque esule –, è insanabile, inestinguibile[3]. Già nel momento del primo distacco dalla patria ha inizio un cambiamento, nel luogo e nell’individuo, che non permette di colmare la distanza, in alcun modo, neppure nell’opportunità di un ritorno. 

            Ifigenia a sua volta, la sfortunata figlia di Agamennone, salva ma costretta all’esilio tra i feroci Tauri autori di sacrifici umani, non fa altro che sognare la sua Argo: una reggia preziosa, in cui è stata bambina, principessa, ma ormai, senza che lei lo sappia, luogo insanguinato dagli omicidi, la morte del padre per mano di sua madre, quella di sua madre per mano di suo fratello. La Tauride – anche in questo caso la responsabilità è della letteratura – assume la connotazione di una terra selvaggia, priva di ogni forma di civiltà: la dolente sacerdotessa greca, pur investita dell’autorità religiosa, non può far altro che sciogliere il suo canto d’esilio, insieme alle schiave sue compagne. È la trama dell’Ifigenia in Tauride euripidea: l’autore antico ha composto una tragedia che recita il dramma della nostalgia, la stessa di Ulisse. La città lontana di Argo, nella mente di chi vive l’esilio, ovvero la protagonista e, con lei, il coro, assume i tratti di uno spazio desiderato e armonioso, un territorio caro, in cui rispecchiarsi e ritrovarsi: è emblema della Grecia della civiltà. Eppure, come dicevo, la terra lontana non è affatto così come l’esule se la dipinge e, anche di fronte al lieto fine, mentre Ifigenia e il fratello ritrovato salpano dalla Tauride ostile e si allontanano dai sacrifici, c’è da augurarsi che non ci sia nessun ritorno a casa. Ritrovare Argo infatti non è possibile e il ritorno può essere estremamente traumatico.

           Il mito e la letteratura, proponendo una caratteristica veste per certi luoghi reali, li trasformano in simboli, metafore efficaci anche per la contemporaneità e per il nostro modo di vivere gli spazi.

            Ne sa qualcosa Vincenzo Consolo che in tutta la sua opera pone l’accento sul suo esilio nel Nord e sull’irredimibile nostalgia per la Sicilia lontana, patria del ricordo, e perciò idealizzata nella distanza, come in un’odissea contemporanea, tra le nebbie di una Milano grigia che ha più di un tratto in comune con la Tauride euripidea. L’olivo e l’olivastro (1994) e poi anche Lo Spasimo di Palermo (1998) descrivono un ritorno doloroso che ha i tratti di un incauto procedere tra le rovine di una patria in fiamme. Nel primo libro, che reca già nel titolo l’omaggio e la simbolizzazione degli spazi omerici – nell’Odissea olivo e olivastro segnano lo spazio del naufragio di Ulisse sulla costa dei Feaci – al giovane migrante siciliano che, fuggito dal terremoto di Gibellina – ecco Enea che abbandona un’Ilio compromessa – prova a ritornare dopo tanti anni, il nóstos è negato: Itaca non c’è più, fuor di metafora, perché la vecchia città è scomparsa sotto il sudario di cemento del Cretto di Burri, e la nuova, con la Stella texana che segna l’ingresso nel Belice, è, per dirla con le parole di Consolo, «costruita dai Proci»[4], non ha insomma molto a che fare con la tanto sospirata patria delle radici. Nel secondo, poi, veramente amaro è il ritorno del protagonista, lo scrittore Chino Martinez, a Palermo: la città degli anni Novanta, già compromessa dalla ferocia della speculazione edilizia, dal sacco che ha cementificato la Conca d’oro, deve fare i conti con la violenza mafiosa, esemplificata dalla drammatica esplosione finale in via d’Astorga che allude in maniera netta alla strage di via d’Amelio. A queste opere possono essere aggiunte moltissime pagine, come il testo eponimo di Le pietre di Pantalica, che piange il degrado – culturale, ambientale – dello scenario della bianca Siracusa, chiamando in causa i simboli della tragedia euripidea[5], tradotta tra l’altro proprio da Consolo con Del Corno[6], che è messa in scena nel teatro antico. L’autore fa del suo vissuto il motore dell’invenzione narrativa: la sua personale prospettiva interpreta gli spazi e li reinventa sul piano letterario. In questo processo Itaca e Argo rimandano a un mondo che non c’è più: un universo intatto, in armonia, cancellato da una modernità incivile e snaturante, e divenuto un perenne labirinto fitto di mostri e pericoli, una Tauride in cui si sacrificano gli innocenti. Nella prospettiva consoliana allora non è solo la Milano affarista ad assumere i tratti di luogo ostile: l’osservazione dell’intero spazio della contemporaneità – l’Italia, il Mediterraneo con i suoi naufraghi e ogni luogo in cui il migrante è perseguitato, ferito, il paesaggio mortificato dagli incendi, dall’industrializzazione, da un turismo becero e superficiale – denuncia una perdita irreparabile in termini di valori e identità[7]. La polarità non è più, o comunque non solo, tra lo spazio fisico dell’esilio e la terra delle radici, ma tra lo spazio del presente, omologante e svilente, e quello del passato, in cui è ancora possibile un equilibrio.

2. Proteggere le radici.

Io sono una forza del Passato.

Solo nella tradizione è il mio amore.

Vengo dai ruderi, dalle chiese,

dalle pale d’altare, dai borghi

abbandonati […]

       P.P. Pasolini[8]

            Eppure, affrontato il rischio della rottura dell’idillio, si può scoprire che Itaca non è del tutto allo sfacelo e che sulle colonne di Argo si può ricostruire. Conviene però prendere coscienza del punto a cui siamo arrivati. Conviene ripartire dalle radici, ritrovare angoli vivi del paesaggio, lasciarsi ispirare da quanto di buono essi comunicano. Il che non vuol dire smettere di vedere le criticità di ciò che è stato: significa valorizzare ciò che può essere valorizzato e trovare una nuova via alternativa all’omologazione e allo sfruttamento.

            La vera letteratura ha questo di utile, ci svela a noi stessi, e le pagine di Consolo parlano a tutti e di tutti, toccano le corde del legame doloroso o vivificante che abbiamo con gli spazi e tentano di fare chiarezza su questioni grandi e urgenti: invitano cioè ad una consapevolezza ambientale nel senso più ampio dell’espressione come unica strada non solo per non perdere il luogo, ma anche per non perdere noi stessi.

           Trovo illuminante la sua riflessione sulla Sicilia e sul Mediterraneo: nell’amarezza di fronte allo scempio, di fronte ai facili stereotipi che semplificano lo spazio, lo appiattiscono – il seducente paradiso a buon mercato da una parte, il degrado, i sotterfugi dall’altro –, avvallati in maniera semplicistica da un certo tipo di informazione e da un certo tipo di politica, l’autore rivendica il valore della complessità. Lo spazio ha molte facce, molte sfumature, la bellezza ha una sua indubbia fragilità.

            Nella sua rappresentazione dello spazio individuiamo la valorizzazione di alcune isole di sopravvivenza: gli Iblei con l’arte intatta degli apicoltori e i Nebrodi coi pascoli verdissimi non sono semplice idillio, Itaca e Argo del ricordo in cui sarebbe meglio non tornare mai, ma un esempio di risposta concreta alla crisi del paesaggio e dell’identità contemporanea. Descrivendo la miracolosa armonia tra uomo e natura, la ricchezza ambientale – piante, animali –, tradizioni gastronomiche e saperi antichi, che caratterizzano queste oasi di sopravvivenza, Consolo valorizza una Sicilia quasi arcaica. In ciò non rifiuta il progresso in sé, piuttosto evidenzia la necessità che esso non faccia perdere all’uomo la sua identità storica e culturale, come è invece accaduto nel caso della violenta industrializzazione dell’isola. Mette cioè in evidenza che i luoghi non sono uno sfondo e che, se smettono di essere quello che sono – fagocitati dall’omologazione, da interessi economici, dalla costruzione di barriere –, inevitabili e funeste sono le conseguenze anche sugli esseri umani. Così strettamente interrelate sono l’identità degli uomini e quella degli spazi.

            La sua opera invita dunque – e in ciò risiede, secondo me, la grande attualità del messaggio consoliano – a conservare le radici, a prendercene cura, perché solo nella salvaguardia di ciò che è rimasto possiamo sperare di non perdere noi stessi.

            Il passato – come insegnava anche Pasolini nella sua strenua definizione dell’ambiente storico e umano come territorio composito e stratificato nel tempo, insieme universo linguistico, identità dei luoghi, creazione artistica – può non essere un ricordo perduto: può anzi configurarsi come forza a cui attingere.

            Mi piace pensare che nei versi di Accordi,con l’ignoto tu, Consolo alluda ad un’identità sua e di tutti i figli del Mediterraneo, un’identità nata da una relazione vecchia di secoli con la terra, le piante, i muri a secco, con i paesaggi: tolto tutto questo, cosa saremmo?

Sei nato dal carrubo

e dalla pietra

da madre ebrea

e da padre saraceno.

S’è indurita la tua carne

alle sabbie tempestose

del deserto,

affilate si sono le tue ossa

sui muri a secco

della masseria

Brillano granatini

sul tuo palmo

per le punture

delle spinesante[9].

            Solo se ripartiamo da questo, allora, da ‘Itaca’, attraverso un cammino, senz’altro faticoso, difficile, di consapevolezza degli spazi e della nostra relazione con essi, possiamo avere qualche opportunità di sopravvivere anche noi. Possiamo avere qualche speranza, se non per domani, almeno per dopodomani. 


[1]A. Montandon, Itaque au fil du temps, in B. Westphal (a cura di), Le rivage des mythes. Une géocritique mediterranéenne. Le lieu et son mythe, Pulim, Limoges 2001, pp. 18-36.

[2]Odissea XIII 200-202.

[3]V. Jankélévitch, L’irréversible et la nostalgie, Flammarion, Paris 1983, pp. 370-371.

[4]V. Consolo, L’olivo e l’olivastro, in Id., L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, Mondadori, Milano 2015, p. 869.

[5]V. Consolo, Le pietre di Pantalica, in Id., Le pietre di Pantalica, in Id., L’opera completa, cit., pp. 615-621.

[6]Ifigenia fra i Tauri, trad. di Vincenzo Consolo e Dario Del Corno, Istituto Nazionale del Dramma Antico -XXVII ciclo di spettacoli classici (27 maggio-4 luglio 1982), INDA, Siracusa 1982.

[7]«Non si ritorna più nei luoghi da cui si è partiti, perché quelli non sono più i luoghi che noi abbiamo lasciato. Non si è più di nessun luogo», V. Consolo, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Donzelli, Roma 1993, p. 69. Dello stesso tono sono le affermazioni di Consolo nell’intervista con D. Calcaterra: «Una volta che si è partiti i ritorni sono impossibili. Qualsiasi ritorno, anche quello di Odisseo, dopo l’allontanamento, non riesce a colmare il distacco […] Nell’assenza si è consumato un duplice mutamento: dell’individuo e del luogo d’origine. Si prova una gran pena quando non riconosci più la tua terra, e la metamorfosi acquista la drammatica cifra dell’inesorabile degrado, della perdita, dello smarrimento. Ogni ritorno è dunque dolore. […] Oggi siamo tutti degli Ulissidi, degli erranti, espropriati del proprio luogo della memoria. Viviamo nell’indefinito, senza sicuri punti di riferimento, senza segni, intorno a noi c’è un mare da cui non s’intravede alcun approdo possibile, e d’altra parte non vediamo più la sponda da cui siamo partiti. Il destino dell’uomo contemporaneo è quello dell’errante, che ha perso la propria identità, la propria patria» (D. Calcaterra, Vincenzo Consolo, le parole, il tono, la cadenza, Prova d’autore, Catania 2007, pp. 20-22).

[8]P.P. Pasolini, 10 giugno 1962, in Poesie mondane, in Poesia in forma di rosa, in Id., Tutte le poesie, a cura di W. Siti, 2 voll., Mondadori, Milano 2003, I, p. 1099.

[9]Accordi. Poesie inedite, a cura di Claudio Masetta Milone e F. Zuccarello , Zuccarello editore, Sant’Agata di Militello 2015.
pubblicato “La macchina sognante” (28 dicembre 2020)

Tragedie siciliane : La Tauride di Vincenzo Consolo

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Addolorata Bellanova

TRAGEDIE SICILIANE: LA TAURIDE DI VINCENZO CONSOLO

Nel 1982 viene rappresentata nel teatro di Siracusa, per la regia di Lamberto Puggelli, l’Ifigenia fra i Tauri.1 La traduzione della tragedia, commissionata dall’INDA, è frutto del lavoro di stretta collaborazione tra Vincenzo Consolo e Dario Del Corno: uno scrittore moderno e un filologo.2 Volendo perciò proporre delle osservazioni sulle modalità di lavoro del primo e sul suo specifico contributo al risultato finale si incorre inevitabilmente in più di una difficoltà. Si possono comunque individuare delle tracce significative del lavoro di Consolo e si può inoltre riflettere sulle conseguenze che questa traduzione ha avuto nella produzione dello scrittore. Intanto, alcune premesse. A fronte delle indiscutibili professionalità e competenza del filologo, già espresse nel confronto con vari testi dell’antichità classica e nello studio del teatro antico, quali competenze ha Consolo nella traduzione e, nello specifico, nella traduzione dalle lingue classiche? Quali competenze ha per affrontare il testo arduo della tragedia euripidea? Sarà meglio specificarlo subito: Consolo non è un traduttore e non è un grecista. Le sue nozioni di greco risalgono alla formazione ricevuta da ragazzo presso il liceo di Barcellona Pozzo di Gotto. Ma l’incontro adolescenziale con la lingua e la letteratura antica deve essere stato per lui estremamente significativo. In particolare Consolo ama ricordare il fascino delle tragedie classiche messe in scena al teatro di Siracusa 3 e confessa una grande passione per Omero e per gli storici greci.4 Inoltre pur nell’imperfetta padronanza eitesti che il suo «grecuccio»5 gli permette, la frequentazione delle opere ricordate,oltre che la consapevolezza della sua identità siciliana e mediterranea,gli fa maturare una grande sensibilità nei confronti del mondo antico. Già prima di quest’opera di traduzione, Consolo ha ben chiaro quanto sia importante il legame tra la Sicilia e la cultura greca, nonché il valore fondante che la civiltà sorta nella Grecia antica ha avuto per l’intero Mediterraneo. Inoltre, anche se nelle prime opere mancano riferimenti espliciti al mondo antico, vi si può riconoscere già la spiccata propensione al plurilinguismo, la volontà di scavare e recuperare la memoria delle lingue mediterranee, quindi anche, in qualche modo, la memoria del greco, aspetto che caratterizzerà poi tutta la sua produzione. Queste osservazioni preliminari evidenziano il limite delle competenze tecniche di Consolo relativamente alla lingua del testo di partenza. Sottolineano però anche la sua spiccata sensibilità nei confronti della cultura greca e chiariscono la sua cifra stilistica, ovvero la grande ricchezza linguistica, in contrasto con la tendenza omologante contemporanea (in particolare bersaglio polemico è la lingua televisiva). Ciò ha il suo peso nel risultato finale della traduzione dell’Ifigenia, rappresenta cioè l’apporto propriamente consoliano al lavoro sul testo. 3 Consolo ha modo di conoscere la città e di innamorarsene proprio in occasione di una gita scolastica per le rappresentazioni teatrali, come racconta nell’articolo Siracusa, il mio primo talismano, in «L’Unità», 14 settembre 1989. 4 «E mi ricordai del tempo […] in cui per Omero, i tragici, per Erodoto, Diodoro, Tucidide, ero preso dalla passione per l’antico […]» (Vincenzo Consolo, Malophòros, in Id., Le pietre di Pantalica, Milano, Mondadori, 2012, pp. 83-94, a p. 91). Diverse le versioni dell’Odissea possedute e consultate da Consolo, come testimoniano le citazioni dalla traduzione di Giovanna Bemporad e da quella di Aurelio Privitera (ad esempio in Vincenzo Consolo, L’olivo e l’olivastro, Milano, Mondadori, 2012, pp. 3, 14, 15, 17, 22, 34). 5 L’uso di questo termine lascia evincere la consapevolezza che l’autore ha delle sue limitate competenze nella comprensione del greco antico (Vincenzo Consolo, Le pietre di Pantalica, in Id., Le pietre di Pantalica, cit., pp. 125-138, a p. 127).

Qualche nota sulla traduzione Veniamo alla traduzione. Come si sa, alla versione del mito che racconta del sacrificio della figlia di Agamennone, necessario perché le navi achee salpino alla volta di Troia, la tragedia di cui l’autore si occupa insieme a Del Corno preferisce l’altra, altrettanto nota, secondo la quale Ifigenia non muore ed è trasferita dalla dea Artemide nella lontana terra dei Tauri, mentre sull’altare acheo viene sgozzata una cerva. Nonostante sia salva, la figlia del re dei re ha un destino tragico: è infatti condannata a vivere in un luogo inospitale. La Tauride è terra sconosciuta, il mare è tempestoso, gli abitanti uccidono esseri umani in onore degli dèi. La distanza di Ifigenia dalla popolazione locale è enfatizzata dal suo ruolo di sacerdotessa. Poca cosa è la compagnia delle schiave greche. Il dolore dell’essere lontana dalla propria patria – dove si stanno svolgendo eventi ignoti, forse sciagure – è complicato dall’arrivo di Oreste, fratello bambino nella memoria, ora cresciuto e perciò irriconoscibile, straniero e quindi vittima ideale sull’altare dei barbari. L’intreccio è risolto in maniera romanzesca con l’agnizione tra fratello e sorella e la partenza dalla terra selvaggia, mediante l’appoggio della dea Atena. A parte una diffusa tendenza a esplicitare i riferimenti del mito sostituendo epiteti, perifrasi o termini generici,6 colpisce nella versione di Consolo e Del Corno la volontà di realizzare una traduzione poetica, attraverso l’uso di una lingua non colloquiale, arcaizzante e ricca dal punto di vista retorico, a tratti anche più del testo di partenza, che enfatizza la solennità della tragedia. In particolare si nota un elevato numero di anastrofi, che conservano quelle euripidee o sono apporto originale della traduzione: ad esempio, all’ inizio del primo monologo di Ifigenia, «e Atreo generò» traduce ἐξ ἧς Ἀτρεὺς ἔβλαστεν, ovvero «da lei nacque Atreo» (v. 3);7 «Attento sto», nella prima battuta di Pilade, traduce ὁρῶ (v. 68) che poteva essere reso più letteralmente con «Sto attento», «guardo»;8 «gli altari, le bianche colonne dei templi / di sangue umano s’arrossano»9 introduce l’inversione nel testo 6 Ad esempio l’espressione «Ulisse» piuttosto che «figlio di Laerte» per la traduzione del 533 (Euripide, Ifigenia fra i Tauri, cit., p. 30); «Simplegadi» invece che «azzurre rupi» per il 746 (ivi, p. 43) o ancora «Alcione» per «uccello» al v. 1089 (ivi, p. 62). In questi riferimenti, come in quelli che seguono, segnalo la pagina per una più comoda consultazione del testo: nella traduzione di Consolo e Del Corno manca infatti l’indicazione dei versi. 7 Ivi, p. 7.  8 Ivi, p. 9.  9 Ivi, p. 23.
τέγγει / βωμοὺς καὶ περικίονας / ναοὺς αἷμα βρότειον (vv. 404-406) che alla lettera andrebbe reso con «sangue umano bagna gli altari e le colonne del tempio».10 Effetto arcaizzante ha anche l’introduzione dell’ipallage nella traduzione «quando poi si aprirà l’occhio scuro della notte»,11 assente nel testo greco (v. 110 ὅταν δὲ νυκτὸς ὄμμα λυγαίας μόληι, «quando si schiuderà l’occhio della notte scura»). Ci troviamo di fronte ad una traduzione che difficilmente può definirsi letterale e che a tratti trasforma decisamente la sintassi del testo di partenza. È forse abilità poetica piuttosto che acribia filologica quella che traduce i 201-202 σπεύδει δ’ ἀσπούδαστ’ / ἐπὶ σοὶ δαίμων con «Atroce zelo un demone / dimostra contro di te»,12 mentre con una maggiore fedeltà al testo greco il passo andrebbe reso «Un demone sollecita per te / eventi non desiderabili » oppure, come traduce Albini nell’edizione Garzanti, «un demone affretta contro di te / eventi cui vorresti sottrarti».13 In queste scelte si può riconoscere la penna di Consolo? In realtà, anche se la tentazione di ricondurle alla sua grande ricerca linguistica può avere un senso, non possiamo affermarlo con certezza.Lo stesso dicasi per la scelta di una serie di termini che afferiscono alla sfera semantica della pazzia e che possono essere conseguenza della sensibilità particolare che Consolo ha per il problema della malattia psichica. Ricordiamo che il tema sarà centrale negli ultimi romanzi (la famiglia del protagonista Petro Marano in Nottetempo, casa per casa, del 1992; la moglie di Chino Martinez ne Lo Spasimo di Palermo, uscito nel 1998). Per il v. 211 leggiamo «immolata alla follia del padre»14 ma è piuttosto «vergogna», «onta», e, solo raramente, «demenza», il significato di λώβαι. Anche nella traduzione dei vv. 932 e 933 (l’argomento è il tormento causato a Oreste dalle Erinni) la scelta dei termini «convulsioni» e «attacchi» non è scontata.15 Lo stesso dicasi per l’uso di «follia» al v. 991 (πόνων),16 o per «pazzia» al v. 1031 (ἀνίαις),17 che sono un rafforzamento del testo greco dove piuttosto si parla di «sofferenza, fatica». Va però ricordato che la figura di Oreste tormentato dalle 10 La traduzione proposta per un confronto è quella di Albini nell’edizione Garzanti: Euripide, Ifigenia in Tauride-Baccanti, trad. di U. Albini, Milano, Garzanti, 1989, p. 140. 11 Euripide, Ifigenia fra i Tauri, cit., p. 11.  12 Ivi, p. 14.  13 Ivi, p. 128.  14 Ivi, p. 14. 15 Ivi, p. 53. 16 Ivi, p. 56. 17 Ivi, p. 58. Erinni, a cui si riferiscono per lo più i passi ricordati, ha molto a che fare con la follia. Perciò, anche se c’è da parte di Consolo una spiccata attenzione per il tema, la scelta di termini che enfatizzano la pazzia può essere frutto di una decisione condivisa. Diverso è il caso di tre interventi singolari che innestano nella traduzione arcaizzante tracce piuttosto evidenti di sicilianità, rispondendo in maniera netta al proposito consoliano di recupero delle lingue perdute o a rischio. Il primo è nel lungo discorso di Ifigenia al coro. Dopo il sogno angosciante che le ha fatto presumere la morte di Oreste, sogno su cui quasi si apre la tragedia, la donna dichiara la sua intenzione di fare sacrifici per il fratello. I versi 159-166 sono resi in questo modo nella traduzione di Consolo e Del Corno: […] Per lui voglio bagnare la terra di offerte, versare dalla coppa dei morti il latte di brade giovenche, lo spesso vino di Bacco e il miele ambrato delle api: mistura consòlo dei morti.18 L’originale consòlo traduce θελκτήρια, che ha il significato letterale di «che mitiga, che lenisce» e si riferisce alle offerte liquide da versare per il fratello morto. Il termine non va inteso come italiano arcaico per ‘consolazione’, piuttosto vi si deve riconoscere un rimando all’uso funerario, tipico dell’Italia meridionale e quindi della Sicilia, dell’offerta di cibo alla famiglia di un morto. Ma al di là della traduzione non certo usuale, la scelta di consòlo fa pensare a una σφραγίς vera e propria per l’evidente evocazione del nome dell’autore. Netto contributo di Consolo è anche l’uso del termine nutríco, sicilianismo che traduce ἐπιμαστίδιον (v. 231)19 ovvero ‘lattante’ (anche in questo caso è Ifigenia che parla, ricordando il fratello ancora bambino). E neppure è casuale la preferenza della parola zagara («zagara sacra dell’ulivo d’argento »), al posto di un più letterale ‘virgulto’ o ‘germoglio’ (‘virgulto del glauco ulivo’, ‘fiore dell’ulivo azzurro’) per θαλλόν (v. 1101),20 scelta che si fonda su un uso raro, specialmente siciliano, del termine zagara, di solito riferito al fiore degli agrumi, anche per le infiorescenze degli alberi di olivo.  18 Ivi, p. 13.  19 Ivi, p. 15.  20 Ivi, p. 62.  

  1. La forza dei nuclei tematici euripidei
    Lungo sarebbe il discorso a proposito dell’influenza della tragedia antica sull’ideologia di Consolo,21 sempre più evidente con il passare degli anni. Ma in questo caso ci occupiamo specificamente degli effetti prodotti dalla meditazione profonda sul testo dell’Ifigenia fra i Tauri. L’esperienza vissuta con Del Corno è definita «vivificante» in Le pietre di Pantalica, testo eponimo della raccolta del 1988, che proprio con il racconto della rappresentazione dell’Ifigenia a Siracusa si apre. In più Consolo aggiunge: «Avevo provato una sensazione di ritorno, ritorno alla giovinezza, al grecuccio del liceo sepolto dentro di me, ritorno alla terra natale, alla cultura d’origine, all’origine della cultura».22 La traduzione di un testo antico dunque, e specificamente la traduzione dell’Ifigenia, acquista un grande significato per lo scrittore. In particolare sono i nuclei tematici dell’opera antica ad assumere un grande peso nell’ opera consoliana. Il lavoro di riflessione sui temi è già testimoniato dal breve testo Tradurre l’Ifigenia, scritto a quattro mani con Del Corno, per accompagnare la traduzione. Opponendosi alla definizione di tragedia a lieto fine, abbastanza ricorrente a proposito dei drammi euripidei (si veda l’intervento provvidenziale del deus ex machina), i due traduttori riconoscono piuttosto nell’Ifigenia fra i 21 Consolo valorizza la via lirica del coro tragico, perché ritiene che questa sia l’unica rimasta,venute meno le possibilità di comunicazione reale con il pubblico. A proposito si veda Per una metrica della memoria, relazione tenuta dall’autore nel gennaio del 1996 presso il Centro Studi sul Classicismo di San Gimignano, nel quadro delle attività accademiche dell’Istituto italiano per gli Studi Filosofici di Napoli. Il testo ha trovato varie collocazioni, ad esempio Vincenzo Consolo, Per una metrica della memoria, in «Cuadernos de Filología Italiana», iii (1996),249-259. Alla luce di questa considerazione del coro tragico, vanno interpretati gli “a parte”,frequenti soprattutto in Nottetempo, casa per casa e in Lo Spasimo di Palermo. Sulla questione è utile anche consultare Alessandro Di Prima, La strategia del coro. Intervista a Vincenzo Consolo,in «Versodove», iv (2001), 13, pp. 68-71. Gli ultimi romanzi adottano inoltre epigrafi da tragedie antiche (epigrafe dall’Antigone sofoclea al IV capitolo di Nottetempo, epigrafe iniziale dal Prometeo incatenato eschileo a Lo Spasimo di Palermo). Tragedia o metatragedia può dirsi poi Catarsi del 1989. La critica ha spesso accennato alla questione. Più specifici ad esempio Luca Canali, Che schiaffo la furia civile di Consolo, in «L’Unità», 7 ottobre 1998; Carla Riccardi, Inganni e follie della storia: lo stile liricotragico della narrativa di Consolo, in Atti delle giornate di studio in onore di Vincenzo Consolo, a cura di E. Papa, San Cesario di Lecce, Manni, 2004, pp. 81- 111; Domenico Calc
    , Vincenzo Consolo. Le parole, il tono, la cadenza, Catania, Prova d’autore, 2007, pp. 65-66. 22 Consolo, Le pietre di Pantalica, cit., p. 127. Tauri «una tragedia di personaggi senza futuro». Solo a «una vuota e immota sopravvivenza fisica» possono aspirare Ifigenia e Oreste, perché essi sono bloccati nella loro identità di esclusi: Ifigenia rimarrà per sempre incatenata al suo destino di vergine sacerdotessa:di esclusa, di diversa, di relegata, non importa se fra i selvaggi abitatori della Tauride, o sulle sacre terrazze di Brauron; Oreste infine liberato dagli spettri del matricidio – nel cui tormento e nel disperato movimento era tuttavia la sua grandezza – sarà impegnato forse solo a cancellare il ricordo del suo furore.23 E sono per di più ancorati al loro passato, all’attimo del sacrificio Ifigenia, a quello del delitto Oreste. Il loro esilio, che non è solo esilio nella Tauride,ma esilio dalla vita, è condiviso dalle donne del coro. Le ancelle, espulse dalla civiltà greca in una terra barbara, inospitale, rischiano la perdita della loro identità culturale. Per salvarsi ricorrono alla memoria. Da questa scaturisce il canto, ovvero l’alto lirismo corale, in netta contrapposizione alla lingua, al mondo dei barbari (Toante, il mandriano, la guardia). Nei confronti del testo tragico, e di ogni altra tragedia antica, i traduttori riconoscono un debito di cultura e civiltà da parte della cultura e della civiltà del presente. E non mancano di individuare l’attualità del tema dell’esilio e della perdita di identità:24 Che di tutto questo la traduzione sia riuscita a salvaguardare e ad evocare qualche accenno, è la speranza di chi ad essa ha lavorato, con amore: trovando in questo lavoro la soddisfazione di rileggere quel passato che ha orientato la nostra storia, e scoprendo la terribile attualità di questa, come di ogni altra tragedia. Il nostro è tempo di esuli da patrie e identità culturali perdute, di lingue cancellate; è tempo di immobilità e di futuri deserti, di rimpianto per le mancate realizzazioni.25
    23 Vincenzo Consolo, Dario Del Corno, Tradurre l’Ifigenia, nel libretto di scena di Euripide, Ifigenia fra i Tauri. 24 Proprio alla comprensione dell’importanza di tale tema saranno da ascrivere alcune scelte di traduzione, che enfatizzano la  condizione dell’esilio: ad esempio «terra estrema, desolata » invece che ‘ignota, inospitale’, più letterale ma meno forte nella connotazione della Tauride, per ἄγνωστον ἐς γῆν ἄξενον al v. 94 (Euripide, Ifigenia fra i Tauri, cit., p. 10); oppure «mare fatale agli stranieri» al posto di ‘mare inospitale’ per πόντον ἄξενον al v. 341 (ivi, 20). 25 Consolo, Del Corno, Tradurre l’Ifigenia, cit. In Le pietre di Pantalica, sull’esilio, Consolo aggiunge:mi era apparsa, questa, come la tragedia dell’emigrazione, dell’esilio. Esilio d’Ifigenia e delle donne del coro da una terra umana, civile, in una terra disumana, barbara; tragedia della regressione e dello smarrimento,della perdita della propria cultura e della propria lingua, della perdita dell’identità. E Ifigenia e le donne del coro non fanno che sciogliere canti di nostalgia per la patria perduta, di dolore per la condizione in cui sono cadute.
    26 Questi sono, dunque, i nuclei di significato forti rintracciati nella tragedia antica. I personaggi euripidei e la terra straniera vengono accolti come simboli nell’opera di Consolo, e diventano uno strumento per parlare della contemporaneità. È prima di tutto l’autore a essere lontano dalla patria: lontano dalla Sicilia per la sua scelta di vivere al Nord, ma anche lontano da un altro tipo di patria, quella ideale della cultura e della civiltà, ormai negata dal presente. Ne scaturisce la condanna ad una Tauride senza speranza. Ma è anche in generale l’uomo contemporaneo a vivere l’esperienza dell’esilio in una realtà che snatura, che priva dell’identità negando i valori, la civiltà. Tauride, dunque, è la Milano della realtà, che ha tradito l’utopia ispirata negli anni della giovinezza da Vittorini e dagli altri scrittori emigrati: la città del Nord, che era parsa valida alternativa all’immobilismo dell’isola con la sua promessa di vitalità culturale, si è rivelata, agli occhi dell’intellettuale migrante, gretta, inospitale, luogo di perdita della memoria, campo fertile per l’attecchimento di ideologie razziste.27 La Sicilia a sua volta assume nella distanza i tratti di un’Argo del desiderio, sospirata, ma in cui sarebbe meglio non tornare mai: la tragedia euripidea, non a caso, si ferma alla fuga dalla terra straniera e tace sul ritorno, che non può che essere tragico, perché la reggia ha subito troppi lutti, ha visto troppi orrori e, perciò, tra le sue mura la ricomposizione dell’identità sarà impossibile. Il simbolo euripideo si sovrappone a quello omerico di Itaca, che è per antonomasia la patria della nostalgia. Ma se nel poema epico il ritorno di 26 Consolo, Le pietre di Pantalica, cit., p. 127. 27 L’accostamento è esplicito in Id., Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Roma, Donzelli, 1993, p. 62. Ma Consolo sottolinea lo straniamento generato dalla grande città del Nord in molte altre occasioni, in particolare nelle pagine di Retablo o de Lo Spasimo di Palermo. Ulisse è scandito dalle tappe rassicuranti del sostegno di Atena e dei fedeli,del riconoscimento della cicatrice, dell’intesa del talamo, fino alla sconfitta dei Proci, così non è per Consolo: la Sicilia può essere Itaca, come può essere Argo, solo nella distanza,28 quindi nel ricordo che idealizza e preserva l’immagine del passato; nel momento dell’approdo la patria si rivela diversa,stravolta, preda dei pretendenti, nuova terra d’esilio. È diventata Tauride, dunque, terra straniera, perché non esiste più la civiltà di un tempo: non è più possibile ricomporre l’identità nel ritorno perché tutto è orrendamente mutato. La violenza e la sopraffazione, il miracolo economico «indecente» 29 hanno cambiato il paesaggio, i rapporti umani, hanno annientato i segni di sapienza e cultura locali. Non si ritorna più nei luoghi da cui si è partiti, perché quelli non sono più i luoghi che noi abbiamo lasciato. Non si è più di nessun luogo.30 Le Itache non esistono, i luoghi del ritorno non esistono. Una volta che li si è abbandonati è impossibile tornare. Il nóstos non è un’esperienza semplice. Quando si va via, succede qualcosa nel tempo in cui si è lontani,e non si può mitizzare ciò che si è lasciato. E tornando si ritrova il peggio del peggio… I cambiamenti che ho trovato tornando in Sicilia, non sono certo miglioramenti. Quel libro [L’olivo e l’olivastro] vuole essere una registrazione del mio dolore per la perdita della Sicilia, per il processo generale di imbarbarimento… Io ho sempre desiderato di lavorare, magari in forma teatrale, intorno ad un personaggio, Ifigenia… Penso a questa donna, che il padre voleva uccidere, presa e portata in un luogo barbaro,lei che, figlia di un re, viene da Argo… E invece va a fare la sacerdotessa in Tauride dove deve compiere anche sacrifici umani. Per vent’anni ci rimane,subendo, proprio a livello culturale, una regressione terribile… E le resta quest’immagine di Argo, questa nostalgia… l’idea di coloro che ha 28 Si veda a proposito della forza di questo simbolo quanto afferma Jankélévitch in L’irreversible et la nostalgie (Vladimir Jankélévitch, L’irréversible et la nostalgie, Paris, Flammarion, 1983, pp. 370-371). Secondo il filosofo, anche l’eroe omerico è deluso nell’approdo a Itaca, che pure ha tanto desiderato. Il suo dramma, lo stesso che appartiene a tutti coloro che vivono lontano dalla propria terra, consiste in un sentimento di nostalgia perenne,non sanabile, a causa del cambiamento che il tempo ha prodotto nella patria e nell’ individuo. L’Itaca in cui torna Ulisse, infatti, è diversa da quella che l’eroe ha abbandonato partendo per la guerra di Troia. A nulla serve che, stando a quello che il mito racconta, i nemici vengano sconfitti, il vincolo coniugale sia ribadito, l’equilibrio ristabilito: non si torna indietro. 29 L’espressione è di Consolo (Il miracolo indecente, in «L’Unità», 9 novembre 2003). 30 Id., Fuga dall’Etna…, cit., p. 69. lasciato. Quando torna però la madre è stata assassinata, il padre pure, e non trova nemmeno più i suoi ricordi… Secondo me niente si può ricucire una volta che è stato strappato… Il dolore del ritorno può essere insopportabile. Meglio star fuori.31
    Tauride in Sicilia Cercherò di mostrare, attraverso esempi concreti tratti dall’opera di Consolo, quali esiti abbia avuto la traduzione della tragedia in termini di riuso dei simboli da essa veicolati. Mi riferisco in particolare a Argo e Tauride.Un primo caso è rintracciabile nel già citato Le pietre di Pantalica, che si apre con la rievocazione della messa in scena della tragedia Ifigenia fra i Tauri di Euripide all’interno del teatro di Siracusa32, e propone, alternando toni lirici e saggistici, una riflessione sulla forza simbolica degli elementi tragici per esprimere la contemporaneità, in particolare quella siciliana.La sacralità poetica dei versi euripidei in scena è esemplificata da Consolo attraverso la citazione di due passi: nel primo è Ifigenia che parla e rievoca il sacrificio voluto dal padre (vv. 361-371), il secondo invece è una delle manifestazioni di nostalgia del coro, che accompagna la decisione della sacerdotessa di fuggire con Oreste e Pilade (vv. 1094-1101).33 Il confronto tra la solennità dei versi antichi e la misera scenografia urbana genera amarezza e indignazione:31 Monica Gemelli, Felice Piemontese, Vincenzo Consolo (intervista), in L’invenzione della realtà. Conversazioni sulla letteratura e altro, Napoli, A. Guida, 1994, pp. 29-48, a p. 47. 32 Del teatro Consolo offre una descrizione suggestiva in apertura del testo (Le pietre di Pantalica, cit., p. 125). A proposito si veda Paola Capponi, Della luce e della visibilità. Considerazioni in margine all’opera di Vincenzo Consolo, in «Quaderns d’Italià», (2005), 10, pp. 49-61, a 57. 33 «No, no, quest’orrore mai potrò cancellarlo! / Quante volte protesi le mani al viso del padre, / alle ginocchia; e m’aggrappavo implorando. / “Padre, padre! Che nozze nefaste / apparecchi per me; e mentre mi uccidi, / la madre e le donne di Argo cantano per me / l’imeneo, e tutta la reggia risuona di flauti: / ma io muoio, e sei tu a darmi la morte. / Morte era dunque il mio sposo, non Achille Pelide, / che tu mi avevi promesso. E sul carro / a nozze di sangue mi hai tratta, snaturato!”»; «Io, alcione senz’ali, con te / gareggio nel lamento / di nostalgia per l’Ellade in festa, / per Artemide propizia ai parti / che sui pendii del Cinto ha dimora / presso la palma frondosa, / l’alloro splendente / e la zagara sacra dell’olivo d’argento ». I due passi sono citati in Consolo, Le pietre di Pantalica, cit., p. 128. La traduzione è da Euripide, Ifigenia fra i Tauri, cit., pp. 21 e 62. in questi alti momenti e in altri, nel teatro greco di Siracusa era tutto un clamore di clacson di automobili, trombe di camion, fischi di treni, scoppiettio di motorette, sgommate, stridore di freni, grattare di marce, un sibilare acuto di sirene antifurto, un gracchiare d’altoparlante d’un vicino lunapark … Attorno al teatro, dietro la scena, dietro il fondale di pini e cipressi il paesaggio sonoro di Siracusa era orribile, inquinato, selvaggio, barbarico, in confronto al quale, il fragore del mare inospitale contro gli scogli della Tauride era un notturno di Chopin.34 La Siracusa di un tempo, bellissima, emblema di sublime grazia, vera civiltà, città per lo più silenziosa in cui l’udito era sollecitato solo dai richiami dei venditori ambulanti, che per la sua luce e la sua compostezza ha fatto innamorare il giovane Consolo nel 1950, ora non esiste più. Al silenzio di un tempo si oppone lo squallore sonoro del presente,35 rispetto al quale «il fragore del mare inospitale contro gli scogli della Tauride era un notturno di Chopin». A ciò si aggiunge la miseria visiva: appena oltre il teatro, «strade, superstrade, tralicci, ciminiere serrano la città»36 e, ancora oltre, «un paesaggio di ferro e di fuoco, di maligni vapori, di pesanti caligini»,37 ovvero le raffinerie di petrolio e le industrie chimiche di Melilli e Priolo, mentre il centro storico, «la bellissima città medievale, rinascimentale e barocca, la città ottocentesca e quella dell’inizio del Novecento è completamente degradata: una città marcia, putrefatta»,38 e i luoghi più belli e unici sono andati perduti.39 Alla tragedia antica rappresentata, dunque, corrisponde un’altra tragedia, quella reale, che scaturisce dall’impero industriale e dalla trascuratezza moderna che colonizzano la Sicilia e imbarbariscono ciò che un tempo era modello di equilibrio e bellezza: è la tragedia della dissoluzione di una civiltà di cui la Siracusa del passato era simbolo. Il ritorno alla patria d’elezione – quella in cui Consolo aveva pensato di andare a vivere – è devastante, della scoperta che dell’immagine del ricordo non c’è più nulla. Siracusa 34 Consolo, Le pietre di Pantalica, cit., pp. 128-129. 35 Fernando Gioviale, L’isola senza licantropi. ‘Regressione’ e ‘illuminazione’ nella scrittura di Vincenzo Consolo, in Scrivere la Sicilia. Vittorini ed oltre. Atti del Convegno di Siracusa 16-17 dicembre 1983, Siracusa, Ediprint, 1985, pp. 123-132, a p. 124. Sullo squallore che caratterizza persino Siracusa Consolo si esprime anche in Flauti di reggia o fischi di treno, in «Il Messaggero », 19 luglio 1982, testo riutilizzato con alcune variazioni in Le pietre di Pantalica. 36 Consolo, Le pietre di Pantalica, cit., p. 129. 37 Ibidem. 38 Ibidem. 39 «Le Latomie non sono più che cave aride e polverose, l’Orecchio di Dionisio un insignificante cunicolo, la Fonte Aretusa una pozzanghera fetida, il Fiume Ciane un rigagnolo avvelenato dove il suo famoso papiro sta lentamente morendo…» (ibidem). è idealmente accostata all’Argo del sogno e della nostalgia di Ifigenia, un luogo che non esiste più perché stravolto dall’orrore dell’omicidio. La terra straniera è sicuramente luogo inospitale di sofferenze e di nostalgia, ma l’Argo è ancora più barbara della Tauride. Ah Ifigenia, ah Oreste, ah Pilade, ah ancelle della sacerdotessa d’Artemide, quale disinganno, quale altro dolore per voi che tanto avete bramato la patria lontana! V’auguro, mentre veleggiate felici verso la Grecia, che venti e tempeste vi sospingano altrove, che mai possiate vedere Argo, distrutta durante il vostro esilio, ridotta a rovine, a barbara terra, più barbara della Tauride che avete lasciato. Vi resti solo la parola, la parola d’Euripide, a mantenere intatta, nel ricordo, quella vostra città.40 L’apostrofe amara ai personaggi della tragedia è in realtà meditazione sulla propria vicenda personale. Vi si accompagna l’affermazione della sacralità della parola, della letteratura, della memoria, che è fonte di valori contro l’insipienza che avanza e che è forse l’unica opportunità di preservare ciò che sta irrimediabilmente svanendo.41 Una riflessione dai toni simili è in L’olivo e l’olivastro dove l’esule, ovvero lo stesso Consolo, che vuole cantare la perduta Siracusa afferma di cercare versi da parodo tragica che siano dotati del tono grave di Ungaretti e di tutti gli altri poeti che si sono confrontati con la città. «Calava a Siracusa senza luna la notte e l’acqua plumbea e ferma nel suo fosso riappariva, 40 Ivi, p. 130. 41 Si veda a proposito Mario Minarda, La lente bifocale. Itinerari stilistici e conoscitivi nell’opera di Vincenzo Consolo, Gioiosa Marea, Pungitopo, 2014, p. 106. All’affermazione del valore della poesia si accompagna, anche in virtù di un giudizio scettico e pessimista sulla realtà, il dubbio a proposito del senso della traduzione e della messa in scena di una tragedia antica oggi. Ciò lo porta persino a commentare le scelte registiche, in particolare la scelta di esibire nel finale la dea Atena, deus ex machina, in una gabbia appesa ad un’autogru: «Se proprio voleva essere attuale, perché il regista non ha fatto calare dal cielo, pendente da un elicottero d’argento, la dea Atena, perché non giungere, come il barone di Münchhausen, a cavallo di un missile, d’uno di quelli che stanno installando qui, nella vicina Comiso? E non si chiamano appunto, questi missili, missili di teatro, del teatro d’Europa?» (Consolo, Le pietre di Pantalica, cit., p. 26). L’amaro sarcasmo punta il dito non contro regista e trovata scenica in sé quanto piuttosto su una contemporaneità scottante. Così la tragedia antica e quella contemporanea finiscono con il sovrapporsi mentre Consolo richiama un’altra sciagura, quella della base missilistica di Comiso su cui si concentra poi in Comiso (Id., Comiso, in Id., Le pietre di Pantalica, cit., pp. 139-144). soli andavamo dentro la rovina, un cordaro si mosse dal remoto». Il tono scarno e grave, ermetico e dolente vorrebbe avere d’Ungaretti o tutti i doni degli innumerevoli poeti per sciogliere, muovendo il passo come in parodo sopra le lastre di una piccola piazza, contro il tufo chiaro delle case, in vista, oltre la balaustrata che cinge la fontana, il forte d’Aretusa, del porto Grande e del Plemmirio, della foce dell’Anapo e del Ciane, in vista del bianco tavolato degli Iblei, sciogliere un canto di nostalgia d’emigrato a questa città della memoria sua e collettiva, a questa patria d’ognuno ch’è Siracusa, ognuno che conserva cognizione dell’umano, della civiltà più vera, della cultura. Canto di nostalgia come quello delle compagne di Ifigenia, schiave nella Tauride di pietre e d’olivastri. Ché questa è oggi la condizione nostra, d’esiliati in una terra inospitale, cacciati da un’umana Siracusa, dalla città che continuamente si ritrae, scivola nel passato, si fa Atene e Argo, Costantinopoli e Alessandria, che ruota attorno alla storia, alla poesia, poesia che da essa muove, ad essa va, di poeti che si chiamano Pindaro Simonide Bacchilide Virgilio Ovidio Ibn Hamdis esule a Majorca.42 Il richiamo ai versi ungarettiani di Ultimi cori per la terra promessa, che non a caso erano scelti anche come epigrafe al testo di Le pietre di Pantalica («Soli andavamo dentro la rovina»), enfatizza l’amarezza delle immagini tragiche. In una ideale tragedia che abbia come scenografia i luoghi simbolo della città, la poesia ungarettiana può forse avere la forza di una parodo della nostalgia, può cioè descrivere una condizione di sofferenza certamente personale ma che riguarda tutti coloro che rimpiangono «la civiltà più vera, la cultura». L’espressione del dolore di quest’esilio richiama di nuovo i personaggi e le immagini euripidee e il modello della parodo è fornito dal coro di donne greche dell’Ifigenia fra i Tauri.43 La solitudine «dentro la rovina» dei versi di Ungaretti attualizza lo sradicamento della Tauride euripidea e la 42 Id., L’olivo e l’olivastro, cit., p. 74. Sul passo si veda Roberta Delli Priscoli, Il mare, l’isola, il viaggio negli ultimi libri di Vincenzo Consolo, in I cantieri dell’italianistica. Ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI secolo. Atti del XVIII congresso dell’ADI, Padova 10-13 settembre 2014, a cura di G. Baldassari, V. Di Iasio, G. Ferroni, E. Pietrobon, Roma, Adi Editore, 2016, 1-10, alle pp. 3-5.43 Dopo il prologo e dopo l’uscita di scena di Oreste e Pilade, Ifigenia rientra accompagnata dal coro. Questa sezione rappresenta il nucleo centrale della prima parte della tragedia:Ifigenia è travolta dal lutto (pensa di aver perduto suo fratello) e prevede nuove sciagure, le schiave greche sono costrette a intonare canti barbari («Canto in risposta ai tuoi canti. / accompagnerò la mia padrona / con barbara cadenza in modo asiatico»; Euripide, Ifigenia fra i Tauri, cit., p. 14) ma sono solidali con lei, ne condividono la nostalgia e il lamento, deprecano l’inospitalità del mare della Tauride, ricordano con amarezza la patria che sono state costrette ad abbandonare.La meditazione si fa universale nell’accostamento ad altri luoghi del passato e del Mediterraneo mentre Siracusa incarna «la storia dell’umana civiltà e del suo tramonto».44 Qualche pagina più avanti la Tauride euripidea di nuovo viene utilizzata per parlare del degrado contemporaneo. Dalla meditazione sulla città di Siracusa scaturisce il racconto di una visita al di là del mare, lungo la costa africana. Tra i ricordi del passaggio alle rovine di Utica – «bassi muretti,pavimenti d’umili mosaici, qualche vasca, nudi ed esposti, in mezzo a tutta la vastità deserta intorno» –45 più del riferimento quasi inevitabile al Catone latino e a quello dantesco, colpisce la memoria delle piantine di un basilico profumatissimo che cresce in abbondanza tra le pietre e i mosaici e che viene poi offerto in dono da un vecchio arabo sorridente. Un particolare apparentemente senza importanza, che però, mentre riporta dall’aulico piano storico letterario a quello più concreto e tangibile degli usi e della gastronomia, definisce il prezioso patrimonio di piccole cose del Mediterraneo: Tra le pietre e i mosaici era un soave esalare di profumo di basilico riccio e fitto dentro vasche, vasi di terracotta. Era il profumo delle estati dei pomodori, delle cipolle, dei cetrioli, del basilico che i vecchi, uscendo per le strade sul tramonto, freschi e bianchi nelle camicie di cotone, mettevano all’orecchio; era di una intensità tale che si torceva nel profumo dolce e speziato della cannella.46 L’Utica di Consolo è rovine e basilico. Ma tutto il Mediterraneo in qualche modo è Utica. Tutto il Mediterraneo è fatto di «piccoli luoghi antichi e obliati» come Utica, in cui la natura si intreccia in maniera straordinaria con la memoria del passato.47 Proprio per questo, per la dimenticanza, per 44 Consolo, L’olivo e l’olivastro, cit., p. 73. Identica espressione in Id., La dimora degli Dei, in Vincenzo Consolo, Giuseppe Voza, Salvatore Russo, La terra di Archimede, con fotografie di M. Jodice, Palermo, Sellerio, 2001, pp. 3-16, a p. 14. Significativo in L’olivo e l’olivastro è l’accostamento della decadenza di Siracusa alla caduta di Costantinopoli: nel testo infatti è inserito un passo della Historia turco byzantina di Ducas (Consolo, L’olivo e l’olivastro, cit., p. 93) che contiene un lamento per la fine della città. Siracusa in preda al degrado dei moderni barbari dunque è come Costantinopoli in mano ai turchi. 45 Consolo, L’olivo e l’olivastro, cit., p. 91.46 Ivi, pp. 91-92.47 I mosaici e il basilico di Utica sono già ricordati in un passo di Malophòros, in un elenco di caratteristici e rapidi ritratti di piccoli luoghi carichi di passato, dalla Sicilia alla Grecia al Nord Africa: «Ci sono ormai posti remoti, intatti, non dissacrati, posti che smemorano del presente, che rapiscono nel passato? Io avevo provato questo rapimento a Tindari, affacciato alla balaustra della terrazza sul vertiginoso precipizio sotto cui si stende la spiaggia sinuosa l’incuria e l’anonimato di tanti tesori, la meditazione diventa amara: nell’enumerazione di antiche città, nell’anafora del verbo «ricordare», Consolo si trasforma in un «presbite di mente» tutto rivolto verso il passato, si trasforma in «infimo Casella» tutto proteso verso qualcosa che non c’è più: Ricordò i piccoli luoghi antichi e obliati, bagnati da quel Mediterraneo, ricordò Tindari, Solunto, Camarina, Eraclea, Mozia, Nora e Argo, Thuburdo Majius, Cirene, Leptis Magna, Tipaza… Ricordò la spianata delle moschee davanti al porto, il bagno d’Algeri […]. Pensò d’essere divenuto un confuso uomo, un presbite di mente che guarda al remoto ormai perduto, si ritrae in continuo dal presente, vecchio e scontento, di non essere in quel mondo che ombra, sagoma di nebbia, spirito lento, anima ancora carica di spoglia,nostalgia, infimo Casella smarrito sulla marina che arditamente intona versi alti, canta «Amor che ne la mente mi ragiona». No, non più. Odia ora. Odia la sua isola terribile, barbarica, la sua terra di massacro, d’assassinio, odia il suo paese piombato nella notte, l’Europa deserta di ragione. Odia questa Costantinopoli saccheggiata, questa Alessandria bruciata, quest’Atene, Tebe, Milano, Orano appestate, questa Messina, Lisbona terremotate, questa Conca d’oro coperta da un sudario di cemento, il giardino delle arance insanguinate. Odia questo teatro dov’è caduta la pietà, questa scena dov’è stata sgozzata Ifigenia, quest’Etna, questa Tauride di squadracce dove si consumano merci e vite, si svende onore, decenza, lingua, cultura, intelligenza…48 sa coi laghi marini, e sulla strada verso il teatro e il ginnasio, dove davanti alle casupole costruite coi blocchi di arenaria dei ruderi stavano vecchine, tutte nere e con bianchi fazzoletti damascati in testa, a filare come le Parche. L’avevo provato a Segesta, seduto sui gradini del tempio, in faccia all’orrido da cui saliva il gorgoglio delle acque del Kàggera; nel tragico silenzio di Micene, rotto dal suono di campani di greggi invisibili; nella sperduta piccola Utica, fra gli umili mosaici e il basilico che odorava di cannella; e qui a Selinunte, la prima volta che vi giunsi, in treno appunto, tantissimi anni avanti» (Id., Malophòros, cit., p. 89). Dello stesso tono la precedente osservazione sulle «stazioncine solitarie remote, di luoghi antichi,sacri, come quella di Segesta, di Cartaghe-Hannibal, di Pompei o di Olimpia» che sanno essere «commoventi, hanno ormai anche loro qualcosa di antico, di sacro» (ivi, p. 88). Omaggio ai «piccoli luoghi antichi e obliati» sono per lo più gli interventi apparsi su «L’Espresso» tra il 1981 e il 1982, dedicati a centri poco noti, come Miraglia, Valverde, Galati o Filosofiana. Il tono di questi articoli è però di solito quasi giocoso, un invito al godimento delle bellezze e delle ricchezze sconosciute. Come luogo antico e fuori dai soliti canali turistici è presentata anche Dion, stesa nella pianura ai piedi del Monte Olimpo (Id., Neró Metallicó, Roma, La lepre edizioni, 2009, pp. 31-32).48 Id., L’olivo e l’olivastro, cit., pp. 92-93. Il riferimento a Casella evidenzia il legame che Consolo sente con il passato, con ciò che non esiste più. Ma la sovrapposizione non è perfetta: il richiamo alla canzone Amor che ne la mente mi ragiona è immediatamente contraddetto dal «No, non più. Odia ora» e il canto non ha nulla della dolcezza
    del regno del Purgatorio, ma piuttosto una rabbia infernale, un tono che pretenderebbe «rime aspre e chiocce».Dai toni nostalgici Consolo passa a quelli indignati di un coro antico e professa odio prima nei confronti della sua Sicilia, diventata «terribile, barbarica,terra di massacro», una Tauride percorsa da «squadracce», poi verso l’Europa e verso l’intero Mediterraneo. Il dramma in atto ha proporzioni gigantesche e il riferimento ai simboli della tragedia euripidea sancisce la gravità della speculazione edilizia, dell’azione mafiosa: sulla cavea è stata sgozzata Ifigenia, si è prodotto cioè il sacrificio dei sacrifici, la morte della sacerdotessa che Artemide aveva voluto salva, la morte dell’esiliata e, con lei, la morte di ogni forma di giustizia, cultura, rispetto. Il presente è una Tauride senza speranza. Ai simboli euripidei Consolo ricorre anche in L’ape iblea. Elegia per Noto,testo teatrale del 1998,49 in cui all’elogio nei confronti della città che seppe rialzarsi dal disastroso terremoto del 1693 con la prodigiosa fantasia del barocco si sostituisce l’amarezza di fronte al degrado contemporaneo. Proprio per evidenziare la decadenza, l’incuria, Consolo introduce il lamento in prima persona di una Ifigenia smarrita, prima esiliata «nel fragore industriale», che è quello del polo siracusano, quindi di ritorno ad un’Argo di arnie e miele dove però non trova né arnie né miele, ma una «città / perduta, ottenebrata», «una Sarajevo / di lenta erosione»,50 un luogo cioè in cui non è possibile la ricomposizione dell’identità: L’Atride snaturato, la sorte avversa,bandì lontano,in terra stranea inospitale, regno d’ogni crudezza, scialo.Nei recessi bui, nel fragore industriale,bramai ognor la casa,conca di memoria brace di speranza.49 Uscito nel 2002, nel volume Oratorio, insieme a Catarsi (Id., Oratorio, Lecce, Manni, 2002).50 Ivi, p. 57.Vergine indurita, torno ora in Argo, all’alta reggia, alla chiara pietra, all’arnia, al miele. Torno e, oh, cieca m’aggiro nella città perduta,
  2.   ottenebrata, chiese, conventi vacui, deserte, mute le piazze.51Il mito della figlia di un Agamennone snaturato evidenzia la tragedia di Noto. Il riferimento forza la tradizione nel descrivere il ritorno di Ifigenia che però nulla realizza della tanto sospirata speranza: se al polo industriale ben si adatta l’immagine di Tauride dell’esilio, gli Iblei di api e miele invece non possono più essere la patria del sogno, l’alveare della memoria, e sono piuttosto un’Argo deludente. Nella amara scoperta dell’involuzione della propria patria, alla tragedia di Ifigenia si sovrappone quella di Antigone. La mancanza di cura del patrimonio culturale si configura come un’azione sacrilega, empia, come l’atto di un «Creonte  dissennato», che mette al di sopra delle leggi divine la sua autorità di despota.Chiusa nel mio nero,sola sulla scalea,piango per l’oltraggio,l’ingiustizia, l’empietà d’un Creonte dissennato.52 Quest’uso dei simboli tragici antichi per parlare di drammi siciliani ne testimonia la forza, intatta nonostante i secoli. Dell’esperienza “vivificante” della traduzione dell’Ifigenia fra i Tauri Consolo conserva figure e modelli, capaci di commentare il contemporaneo,53 in una prospettiva che privilegia 51 Ivi, pp. 57-58.  52 Ivi, p. 58. 53 La Di Legami (Flora Di Legami, Vincenzo Consolo, Marina di Patti, Pungitopo, 1990, 48-49) sottolinea soprattutto che per Consolo la scelta della tragedia più romanzesca dell’antichità equivale ad un ripetuto interrogarsi sulla natura e sul significato del narrare. L’Ifigenia euripidea dunque sarebbe per l’autore anche metafora della condizione straniata dell’intellettuale a tu per tu con una parola sempre più svuotata di senso, in esilio come Ifigenia e Oreste. Si veda anche Minarda, La lente bifocale…, cit., pp. 104-106: il critico evidenzia i luoghi noti, quindi la Sicilia, Milano, il Mediterraneo, e che si allarga facilmente al mondo intero.Al di là dell’interesse tematico c’è il riconoscimento della grandezza formale della poesia antica, la ricchezza di una lingua perduta, in grado di veicolare un complesso di valori. Ciò spinge Consolo a usare i versi euripidei anche per commentare gli eventi di Palermo, la strage di via d’Amelio. Il buio della lunga notte dell’infelice paese, lo strazio per le esequie funebri delle vittime, richiama le parole della poesia vera, la sola che dia «luce e sollievo nei momenti più bui e insostenibili»,54 ovvero alcuni versi dall’Ifigenia fra i Tauri.Vorremmo usare parole alte, degne, essendo le nostre fatalmente povere,consunte, parole prese dai libri delle antiche religioni o dai poemi immortali,dalle tragedie greche, per poter commentare gli eventi di Palermo, lamentare lo strazio per le esequie funebri dei cinque uomini giusti dilaniati dal tritolo insieme a un giudice giusto, e non per infiorare pietosamente, come si fa con le corone, la realtà tremenda, ma perché le parole ispirate e pure dei salmi o dei grandi poeti ci sembrano quelle che al di sopra di tutte diano luce e sollievo nei momenti nostri più bui e insostenibili. «Strazio da strazio nasce, / poiché le alate cavalle volsero il corso / e il sole altrove sospinse / l’occhio sacro del giorno», recita un coro di Euripide.55 Le parole dell’Ifigenia commentano i fatti – lo strazio sorto dalle limitazioni in merito ai funerali per le vittime – e rappresentano l’ultimo baluardo possibile contro la perdita dell’identità. Ecco spiegato allora il senso della traduzione di una tragedia greca nel presente, quando il mondo antico muore e sembra che non debba restare «neanche una vuota, dorata carcassa, come quella della cicala scoppiata nella luce d’agosto».56 Come le donne greche del coro dell’Ifigenia fra i Tauri che cercano di salvare la loro identità attraverso la memoria, Consolo ricorre alla poesia antica contro la Tauride del presente: è la sua tragedia siciliana. come il dramma del riconoscimento identitario tra i fratelli diventi nell’opera di Consolo il dramma collettivo del riconoscersi a stento nei disagi del presente. 54 Vincenzo Consolo, La lunga notte di questo infelice paese, in «L’Unità», 23 luglio 1992, ora in Id., Cosa loro, a cura di N. Messina, Milano, Bompiani, 2017, pp. 117-120, a p. 117. 55 Ibidem. 56 Id., Le pietre di Pantalica, cit., p. 132.__ 1 Euripide, Ifigenia fra i Tauri, trad. di V. Consolo e D. Del Corno, Istituto Nazionale del Dramma Antico, XXVII ciclo di spettacoli classici (27 maggio-4 luglio 1982), Siracusa, INDA, Nello stesso libretto anche le Supplici di Eschilo, tradotte da Scevola Mariotti e Giuseppe Di Martino. 2 Secondo Giusto Monaco, allora direttore dell’INDA, il duplice contributo, con competenze e sensibilità differenti, è garanzia di un felice risultato: «Per ciò che riguarda le traduzioni, il felice risultato dell’esperimento fatto nel ciclo precedente ha suggerito di confermare il metodo dell’affidamento di ciascun dramma a due autori, un filologo e uno scrittore di teatro moderno», in Giusto Monaco, Tra rigore culturale e aperture sociali, breve articolo che accompagna il libretto con le tragedie. Già negli anni precedenti infatti la traduzione dell’opera messa in scena era stata il risultato della collaborazione di due professionalità differenti: nel 1980 Umberto Albini e Vico Faggi avevano tradotto le Trachinie di Sofocle, Vincenzo di Benedetto e Agostino Lombardo Le Baccanti di Euripide. La scelta viene confermata nel 1984 con il Filottete di Maricla Boggio e Agostino Massaracchia.Da Levia Gravia quaderni annuali (2018)

Tradurre l’ Ifigenia – Vincenzo Consolo e Dario Del Corno

Tradurre l’ Ifigenia

Tragedia “a lieto fine” l’Ifigenia fra i Tauri, come si usa dire anche per altri drammi di Euripide?
Piuttosto, tragedia di personaggi senza futuro che non sia quello di una vuota e immota sopravvivenza fisica.
Ifigenia rimarrà per sempre incatenata al suo destino di vergine sacerdotessa:
di esclusa, di diversa – di relegata, non importa se fra i selvaggi abitatori della Tauride,
o sulle sacre terrazze di Brauron; Oreste infine liberato dagli spettri del matricidio – nel cui tormento e nel disperato movimento era tuttavia la sua grandezza – sarà impegnato forse solo a cancellare il ricordo del suo furore. Questa vita che non è vita affermano di bramare, finalmente, i due protagonisti: ma nel periodo estremo dell’avventura  fra i Tauri, il loro pensiero corre continuamente al passato. La loro memoria è tratta dall’orrore atroce e sublime che per entrambi  fu la vera tragedia: l’altare di Aulide per Ifigenia, il delitto contro la madre di Oreste. Allora si è bruciato il loro destino; e da allora esse sono dei sopravvissuti.

 Il tempo si è fermato, nell’animo di Oreste e Ifigenia, dall’evento fatale che ha fissato la loro identità: e giovani come allora essi continuano a dirsi, anche se molti anni ormai sono trascorsi.
Sull’orrore del ricordo prevale forse, non detto, il rimpianto per quel momento, in cui essi furono i personaggi di una tragedia, non di un romanzo. Che sia lecito leggere, in quest’Ifigenia, anche al rimpianto, da parte di una Grecia avviata verso L’Ellenismo, per il tempo irrimediabilmente concluso, contrassegnato dalla scoperta della vita e della sua pienezza – la tragedia appunto? Insieme, il dramma euripideo pervaso dal senso della cristallizzazione. E gli dei si accaniscono a salvare i protagonisti, a continuare i loro destini, condannandoli a un’immobilità senz’altro più crudele degli strazi di Prometeo, di Aiace e Medea.
La tragedia dell’esilio, che è stato per lunghi anni la sorte di Ifigenia e di Oreste, è condivisa dalle donne del coro. Ifigenia e le sue ancelle, cadute dalla civiltà dell’Ellade nella barbarie di una terra inospitale, dall’umano al disumano, sentono in quest’esilio il rischio di perdita della loro identità culturale.
Per salvarsi ricorrono alla memoria; e dalla memoria scaturisce il canto, l’alto lirismo degli stasimi. Dall’altra parte stanno i barbari: Toante, il mandriano, la guardia – un mondo diverso e una lingua diversa.
Ma oltre questa più evidente dicotomia, altri livelli intermedi sono nel linguaggio della tragedia dissimulati in  un regime di rigorosa economia stilistica secondo i modi del teatro greco.
Che di tutto questo la traduzione sia riuscita a salvaguardare e ed evocare qualche accenno, e la speranza di chi ad essa ha lavorato, con amore: trovando in questo lavoro la soddisfazione di rileggere quel passato che ha orientato la nostra storia, e scoprendo la terribile attualità di questa, come di ogni altra tragedia. Il nostro è tempo di esuli da patrie e identità culturali perdute, di lingue cancellate; è tempo di immobilità e di futuri deserti, di rimpianto per le mancate realizzazioni. In quest’epoca priva di tragedia, piena di evento grafia  e di informazione, Euripide testimonia ancora l’aspro proposito di capire la vita, e di accettarla.

Vincenzo Consolo
Dario Del Corno

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Istituto Nazionale del Dramma Antico
XXVII Ciclo di spettacoli classici
27 maggio – 4 luglio 1982
Siracusa 1982