Ada
Bellanova
Purché ci resti Itaca:
nelle radici una speranza per dopodomani.
La voce di Consolo.
1. Ripensare i luoghi in forma di idillio. Il
dramma di Ulisse e di Ifigenia.
Senza la letteratura
Itaca sarebbe semplicemente una piccola isola greca nel Mediterraneo. Invece
Omero, la tradizione, le invenzioni letterarie l’hanno resa il luogo per
eccellenza delle radici e della memoria, la patria ritrovata dopo un lungo
viaggio: l’hanno trasformata in simbolo[1].
Ulisse in viaggio,
intento ad affrontare pericoli, mostri e tempeste, porta con sé l’immagine di
Itaca luogo del cuore, patria perfetta, a cui desidera a tutti i costi tornare.
Una polarità netta si crea tra il mondo minaccioso – e avventuroso – e il
nucleo accogliente e protettivo della patria e della casa. Eppure Ulisse, una
volta sbarcato, è costretto a interrogarsi subito sull’identità della terra,
sullo scarto tra il sogno che ha cullato durante la lunga distanza e la realtà[2].
Molte cose infatti sono cambiate: lui non è più lo stesso e Itaca è mutata, non
solo per i soprusi dei Proci, ma anche perché il tempo ha segnato la sua
geografia a tal punto da conferirle un paesaggio nuovo, diverso. Per queste
ragioni, e non solo per l’intervento di Atena, Ulisse si guarda intorno e,
smarrito, si pone la domanda: «Dove sono capitato?». Sebbene il finale dell’Odissea
risulti confortante – l’eroe ottiene di nuovo il suo ruolo di re dopo la
sconfitta dei Proci e l’intesa del talamo con Penelope – sorge il dubbio che
l’Itaca ritrovata sia un po’ deludente rispetto al sogno e alla nostalgia.
Perché altrimenti Ulisse sceglierebbe, come insegna l’altra tradizione, di
ripartire? Non dovrebbe godersi la terra tanto amata? Il fatto è che, come
scrive Jankelevitch, la nostalgia, per l’esule – per qualunque esule –, è
insanabile, inestinguibile[3].
Già nel momento del primo distacco dalla patria ha inizio un cambiamento, nel
luogo e nell’individuo, che non permette di colmare la distanza, in alcun modo,
neppure nell’opportunità di un ritorno.
Ifigenia a sua volta,
la sfortunata figlia di Agamennone, salva ma costretta all’esilio tra i feroci
Tauri autori di sacrifici umani, non fa altro che sognare la sua Argo: una
reggia preziosa, in cui è stata bambina, principessa, ma ormai, senza che lei
lo sappia, luogo insanguinato dagli omicidi, la morte del padre per mano di sua
madre, quella di sua madre per mano di suo fratello. La Tauride – anche in
questo caso la responsabilità è della letteratura – assume la connotazione di
una terra selvaggia, priva di ogni forma di civiltà: la dolente sacerdotessa
greca, pur investita dell’autorità religiosa, non può far altro che sciogliere
il suo canto d’esilio, insieme alle schiave sue compagne. È la trama dell’Ifigenia
in Tauride euripidea: l’autore antico ha composto una tragedia che recita
il dramma della nostalgia, la stessa di Ulisse. La città lontana di Argo, nella
mente di chi vive l’esilio, ovvero la protagonista e, con lei, il coro, assume
i tratti di uno spazio desiderato e armonioso, un territorio caro, in cui
rispecchiarsi e ritrovarsi: è emblema della Grecia della civiltà. Eppure, come
dicevo, la terra lontana non è affatto così come l’esule se la dipinge e, anche
di fronte al lieto fine, mentre Ifigenia e il fratello ritrovato salpano dalla
Tauride ostile e si allontanano dai sacrifici, c’è da augurarsi che non ci sia
nessun ritorno a casa. Ritrovare Argo infatti non è possibile e il ritorno può
essere estremamente traumatico.
Il mito e la letteratura,
proponendo una caratteristica veste per certi luoghi reali, li trasformano in
simboli, metafore efficaci anche per la contemporaneità e per il nostro modo di
vivere gli spazi.
Ne sa qualcosa Vincenzo
Consolo che in tutta la sua opera pone l’accento sul suo esilio nel Nord e
sull’irredimibile nostalgia per la Sicilia lontana, patria del ricordo, e
perciò idealizzata nella distanza, come in un’odissea contemporanea, tra le
nebbie di una Milano grigia che ha più di un tratto in comune con la Tauride
euripidea. L’olivo e l’olivastro (1994) e poi anche Lo Spasimo di
Palermo (1998) descrivono un ritorno doloroso che ha i tratti di un incauto
procedere tra le rovine di una patria in fiamme. Nel primo libro, che reca già
nel titolo l’omaggio e la simbolizzazione degli spazi omerici – nell’Odissea
olivo e olivastro segnano lo spazio del naufragio di Ulisse sulla costa dei
Feaci – al giovane migrante siciliano che, fuggito dal terremoto di Gibellina –
ecco Enea che abbandona un’Ilio compromessa – prova a ritornare dopo tanti
anni, il nóstos è negato: Itaca non c’è più, fuor di metafora, perché la
vecchia città è scomparsa sotto il sudario di cemento del Cretto di Burri, e la
nuova, con la Stella texana che segna l’ingresso nel Belice, è, per dirla con
le parole di Consolo, «costruita dai Proci»[4],
non ha insomma molto a che fare con la tanto sospirata patria delle radici. Nel
secondo, poi, veramente amaro è il ritorno del protagonista, lo scrittore Chino
Martinez, a Palermo: la città degli anni Novanta, già compromessa dalla ferocia
della speculazione edilizia, dal sacco che ha cementificato la Conca d’oro,
deve fare i conti con la violenza mafiosa, esemplificata dalla drammatica
esplosione finale in via d’Astorga che allude in maniera netta alla strage di
via d’Amelio. A queste opere possono essere aggiunte moltissime pagine, come il
testo eponimo di Le pietre di Pantalica, che piange il degrado –
culturale, ambientale – dello scenario della bianca Siracusa, chiamando in
causa i simboli della tragedia euripidea[5],
tradotta tra l’altro proprio da Consolo con Del Corno[6],
che è messa in scena nel teatro antico. L’autore fa del suo vissuto il motore
dell’invenzione narrativa: la sua personale prospettiva interpreta gli spazi e
li reinventa sul piano letterario. In questo processo Itaca e Argo rimandano a
un mondo che non c’è più: un universo intatto, in armonia, cancellato da una
modernità incivile e snaturante, e divenuto un perenne labirinto fitto di
mostri e pericoli, una Tauride in cui si sacrificano gli innocenti. Nella
prospettiva consoliana allora non è solo la Milano affarista ad assumere i
tratti di luogo ostile: l’osservazione dell’intero spazio della contemporaneità
– l’Italia, il Mediterraneo con i suoi naufraghi e ogni luogo in cui il
migrante è perseguitato, ferito, il paesaggio mortificato dagli incendi,
dall’industrializzazione, da un turismo becero e superficiale – denuncia una
perdita irreparabile in termini di valori e identità[7].
La polarità non è più, o comunque non solo, tra lo spazio fisico dell’esilio e
la terra delle radici, ma tra lo spazio del presente, omologante e svilente, e
quello del passato, in cui è ancora possibile un equilibrio.
2. Proteggere le radici.
Io sono
una forza del Passato.
Solo
nella tradizione è il mio amore.
Vengo
dai ruderi, dalle chiese,
dalle
pale d’altare, dai borghi
abbandonati […]
P.P.
Pasolini[8]
Eppure, affrontato il
rischio della rottura dell’idillio, si può scoprire che Itaca non è del tutto
allo sfacelo e che sulle colonne di Argo si può ricostruire. Conviene però
prendere coscienza del punto a cui siamo arrivati. Conviene ripartire dalle
radici, ritrovare angoli vivi del paesaggio, lasciarsi ispirare da quanto di
buono essi comunicano. Il che non vuol dire smettere di vedere le criticità di
ciò che è stato: significa valorizzare ciò che può essere valorizzato e trovare
una nuova via alternativa all’omologazione e allo sfruttamento.
La vera letteratura ha
questo di utile, ci svela a noi stessi, e le pagine di Consolo parlano a tutti
e di tutti, toccano le corde del legame doloroso o vivificante che abbiamo con
gli spazi e tentano di fare chiarezza su questioni grandi e urgenti: invitano
cioè ad una consapevolezza ambientale nel senso più ampio dell’espressione come
unica strada non solo per non perdere il luogo, ma anche per non perdere noi
stessi.
Trovo illuminante la sua
riflessione sulla Sicilia e sul Mediterraneo: nell’amarezza di fronte allo
scempio, di fronte ai facili stereotipi che semplificano lo spazio, lo
appiattiscono – il seducente paradiso a buon mercato da una parte, il degrado,
i sotterfugi dall’altro –, avvallati in maniera semplicistica da un certo tipo
di informazione e da un certo tipo di politica, l’autore rivendica il valore
della complessità. Lo spazio ha molte facce, molte sfumature, la bellezza ha
una sua indubbia fragilità.
Nella sua
rappresentazione dello spazio individuiamo la valorizzazione di alcune isole di
sopravvivenza: gli Iblei con l’arte intatta degli apicoltori e i Nebrodi coi
pascoli verdissimi non sono semplice idillio, Itaca e Argo del ricordo in cui
sarebbe meglio non tornare mai, ma un esempio di risposta concreta alla crisi
del paesaggio e dell’identità contemporanea. Descrivendo la miracolosa armonia
tra uomo e natura, la ricchezza ambientale – piante, animali –, tradizioni
gastronomiche e saperi antichi, che caratterizzano queste oasi di
sopravvivenza, Consolo valorizza una Sicilia quasi arcaica. In ciò non rifiuta
il progresso in sé, piuttosto evidenzia la necessità che esso non faccia
perdere all’uomo la sua identità storica e culturale, come è invece accaduto
nel caso della violenta industrializzazione dell’isola. Mette cioè in evidenza
che i luoghi non sono uno sfondo e che, se smettono di essere quello che sono –
fagocitati dall’omologazione, da interessi economici, dalla costruzione di
barriere –, inevitabili e funeste sono le conseguenze anche sugli esseri umani.
Così strettamente interrelate sono l’identità degli uomini e quella degli
spazi.
La sua opera invita
dunque – e in ciò risiede, secondo me, la grande attualità del messaggio
consoliano – a conservare le radici, a prendercene cura, perché solo nella
salvaguardia di ciò che è rimasto possiamo sperare di non perdere noi stessi.
Il passato – come
insegnava anche Pasolini nella sua strenua definizione dell’ambiente storico e
umano come territorio composito e stratificato nel tempo, insieme universo
linguistico, identità dei luoghi, creazione artistica – può non essere un
ricordo perduto: può anzi configurarsi come forza a cui attingere.
Mi piace pensare che nei
versi di Accordi,con l’ignoto tu, Consolo alluda ad un’identità
sua e di tutti i figli del Mediterraneo, un’identità nata da una relazione
vecchia di secoli con la terra, le piante, i muri a secco, con i paesaggi:
tolto tutto questo, cosa saremmo?
Sei nato
dal carrubo
e dalla
pietra
da madre
ebrea
e da
padre saraceno.
S’è
indurita la tua carne
alle
sabbie tempestose
del
deserto,
affilate
si sono le tue ossa
sui muri
a secco
della masseria
Brillano granatini
sul tuo palmo
per le
punture
delle
spinesante[9].
Solo se ripartiamo da
questo, allora, da ‘Itaca’, attraverso un cammino, senz’altro faticoso,
difficile, di consapevolezza degli spazi e della nostra relazione con essi, possiamo
avere qualche opportunità di sopravvivere anche noi. Possiamo avere qualche
speranza, se non per domani, almeno per dopodomani.
[1]A. Montandon,
Itaque au fil du temps, in B. Westphal (a cura di), Le rivage des
mythes. Une géocritique mediterranéenne. Le lieu et son mythe, Pulim, Limoges 2001, pp. 18-36.
[2]Odissea XIII 200-202.
[3]V.
Jankélévitch, L’irréversible et la nostalgie, Flammarion, Paris 1983,
pp. 370-371.
[4]V.
Consolo, L’olivo e l’olivastro, in Id., L’opera completa, a cura e con un
saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre,
Mondadori, Milano 2015, p. 869.
[5]V.
Consolo, Le pietre di Pantalica, in Id., Le pietre di Pantalica,
in Id., L’opera completa, cit., pp. 615-621.
[6]Ifigenia
fra i Tauri, trad. di Vincenzo Consolo e Dario Del Corno,
Istituto Nazionale del Dramma Antico -XXVII ciclo di spettacoli classici (27
maggio-4 luglio 1982), INDA, Siracusa 1982.
[7]«Non si
ritorna più nei luoghi da cui si è partiti, perché quelli non sono più i luoghi
che noi abbiamo lasciato. Non si è più di nessun luogo», V. Consolo, Fuga
dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Donzelli, Roma
1993, p. 69. Dello stesso tono sono le affermazioni di Consolo nell’intervista
con D. Calcaterra: «Una volta che si è partiti i ritorni sono impossibili.
Qualsiasi ritorno, anche quello di Odisseo, dopo l’allontanamento, non riesce a
colmare il distacco […] Nell’assenza si è consumato un duplice mutamento:
dell’individuo e del luogo d’origine. Si prova una gran pena quando non
riconosci più la tua terra, e la metamorfosi acquista la drammatica cifra
dell’inesorabile degrado, della perdita, dello smarrimento. Ogni ritorno è
dunque dolore. […] Oggi siamo tutti degli Ulissidi, degli erranti,
espropriati del proprio luogo della memoria. Viviamo nell’indefinito, senza
sicuri punti di riferimento, senza segni, intorno a noi c’è un mare da cui non
s’intravede alcun approdo possibile, e d’altra parte non vediamo più la sponda
da cui siamo partiti. Il destino dell’uomo contemporaneo è quello dell’errante,
che ha perso la propria identità, la propria patria» (D. Calcaterra, Vincenzo
Consolo, le parole, il tono, la cadenza, Prova d’autore, Catania 2007, pp.
20-22).
[8]P.P.
Pasolini, 10 giugno 1962, in Poesie mondane, in Poesia in
forma di rosa, in Id., Tutte le poesie, a cura di W. Siti, 2 voll.,
Mondadori, Milano 2003, I, p. 1099.
[9]Accordi. Poesie inedite, a cura di Claudio Masetta Milone e F. Zuccarello , Zuccarello editore, Sant’Agata di Militello 2015.
pubblicato “La macchina sognante” (28 dicembre 2020)