LEGGERE E SCRIVERE IL MEDITERRANEO


di Ada Bellanova
Fornire una definizione del Mediterraneo non è un compito semplice. Mare – e contesto – in perenne trasformazione, come dimostra la sua storia ecologica, esso resiste ad ogni generalizzazione1 . Si può certamente tentare la strada della determinazione strettamente geografica ma si deve riconoscere che a poco serve dire che si tratta di un mare semichiuso su cui si affacciano vari popoli, diversi tra loro eppure simili per la loro posizione e per la condivisione di problemi e risorse. Si deve poi ammettere che il cosiddetto ecosistema mediterraneo ha subito trasformazioni profonde nel corso dei millenni: eliminazione di boschi e foreste, aumento della popolazione, sfruttamento delle risorse, mutamenti climatici, cambiamenti di fauna e flora2 . Le trasformazioni, tra l’altro, contraddistinguono anche la storia della rappresentazione. L’idealizzazione del passato classico che ha sedotto innumerevoli viaggiatori non esiste più e il Mediterraneo si rivela contesto dalle molte facce, non facilmente assimilabile al solo mondo europeo o occidentale3 . Perciò, come tentare una definizione? Cos’è veramente mediterraneo? Se la politica europea contemporanea ha ridotto la questione al problema della frontiera, al rischio di nuove invasioni barbariche4 , ragion per cui il mare è diventato spazio delle indesiderate migra-
1 La complessità del Mediterraneo è centrale nei recenti studi di Mediterranean ecocriticism. Si veda a proposito S. Iovino, Introduction: Mediterranean ecocriticism, or a Blueprint for Cultural Amphibians, in “Ecozon@”, 4.2, 2013, pp. 1-14, in particolare a p. 4. 2 Ibidem. La Iovino propone il caso dell’importazione di tutta una serie di piante e prodotti nel regno della vitis vinifera e dell’olea europaea, con conseguente profondissime sulla cosiddetta dieta mediterranea (si pensi a pomodoro, riso, caffè ecc.). 3 Ivi, p. 5. 4 Si veda a proposito il saggio di C. Resta, Geofilosofia del Mediterraneo, Mesogea, Messina 2012. Sul Mediterraneo come confine, frontiera anche A. Le-
zioni di masse di disperati, tra cui possono nascondersi pericolosi attentatori, e luogo di inevitabile sepoltura, un vero cimitero, di quanti non arrivano a compiere la traversata a bordo di gommoni e imbarcazioni di fortuna, gli intellettuali hanno mantenuto il Mediterraneo al centro di un vivace dibattito culturale. Dibattito che prova a mettere in discussione gli stereotipi. Rischiose sono infatti le immagini rassicuranti dell’idillio naturalistico e della civiltà dell’accoglienza da una parte oppure, all’estremo opposto, quelle fosche della violenza e della sopraffazione. Da una parte il paradiso turistico a buon mercato, le spiagge seducenti, l’esotismo della porta accanto, dall’altra quello della mafia, dell’estorsione, della corruzione delle classi dirigenti, della mancanza di sicurezza, dell’estremismo. L’una e l’altra immagine non sono che la faccia legale e quella illegale dell’inserimento subalterno del Sud nel mondo dello sviluppo, ai suoi margini, “laddove i modelli seducenti proposti dalle capitali del Nord-ovest si decompongono fino a diventare deformi”5 . Tali riduttive determinazioni trascurano la reale complessità del Mediterraneo, che, non a caso, Braudel tenta di definire nel segno della molteplicità e con l’espressione “crocevia eteroclito”6 . Questo spazio, quindi, non consiste soltanto in una teoria di paesaggi, addirittura non lo si può dire neppure mare unico, perché esso è piuttosto un insieme di mari. Nemmeno si esaurisce nell’elenco di tanti popoli diversi perché essi sono entrati spesso in relazione, avvicendandosi su uno stesso spazio o su spazi confinanti, si sono mescolati, hanno plasmato il territorio, anche come spazio dell’immaginazione, e continuano a farlo, rendendo impossibile una reductio ad unum. Ragion per cui Matvejevic può affermare che non esiste una sola cultura mediterranea, ma ce ne sono invece molte, caratterizzate da tratti simili e da differenze, mai assoluti o costanti7 .
 ogrande, La frontiera, Feltrinelli, Milano 2017, che indaga sulla condizione dei migranti. 5 F. Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, Bari 1996, pp. 3-4. 6 F. Braudel, Mediterraneo, in Id. (a cura di), Il Mediterraneo. Lo spazio la storia gli uomini le tradizioni, trad. it. di E. De Angeli, Bompiani, Milano 1987, pp. 7-8. 7 P. Matvejevic, Il Mediterraneo e l’Europa, Garzanti, Milano 1998, p. 31. Si veda anche Id., Quale Mediterraneo, quale Europa?, in F. Cassano, D. Zolo (a cura di), L’alternativa mediterranea, Feltrinelli Milano, 2007, p. 436:
 L’incontro ha sempre comportato delle criticità, in primis una diffusa e pressoché costante conflittualità8 : come scrive Braudel, “in tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato”9 . Ma il contesto mediterraneo non si configura solo come spazio di guerra: nei secoli le civiltà dominanti non hanno potuto cancellare del tutto quelle sottomesse; si sono sempre attivati meccanismi di contaminazione, dialogo, stratificazione. Allora forse la sua “essenza profonda”10 sta nell’esempio che esso può offrire della convivenza tra culture differenti. Solo tale approccio all’alterità può permettere al Mediterraneo, “mare tra le terre”, di essere non confine, limite, ma luogo di relazione e di incontro11. Il problema è anche di politica europea, o dovrebbe esserlo, non solo per il timore della violazione da parte dei migranti. Il legame tra Europa e Mediterraneo infatti esiste, sebbene venga sistematicamente messo in ombra dalla prevalente prospettiva mitteleuropea, ritenuta vincente dal punto di vista economico12. Considerare la “via” mediterranea significa, secondo Franco Cassano, valorizzare le differenze, la varietà che l’ossessione di uno sviluppo a tutti i costi nega. Significa porsi il problema della gestione degli spazi, laddove gli spazi ospitano un patrimonio “verticale”, incredibilmente stratificato, e quello della cura dell’ambiente e del paesaggio, impedendo che questi siano solo preda dell’abusivismo selvaggio. Significa affrontare la questione dello scambio e della convivenza tra vecchi e nuovi abitanti. Ciò va fatto, ed è un’opportunità, non solo per “custodire forme d’esistenza diverse da quella dominante” ma anche per “tutelare la stessa modernità dal suo avvolgimento in una spirale senza ritorno”
13. “l’insieme mediterraneo è composto da molti sottoinsiemi che sfidano o rifiutano le idee unificatrici”. 8 P. Matvejevic, Mediterraneo. Un nuovo breviario, trad. it.di S. Ferrari, Garzanti, Milano 1993, p. 19. 9 F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, trad. it. di C. Pischedda, Einaudi, Torino 1976, pp. 921-922. 10 Id., Mediterraneo, cit., p. 9. 11 Ancora Braudel a proposito della definizione del Mediterraneo come grande strada per trasportare uomini e merci (Id., Storia, misura del mondo, cit. p. 105). 12 F. Cassano, Tre modi di vedere il Sud, Il Mulino, Bologna 2009, pp. 20-24. 13 Id., Il pensiero meridiano, cit., p. 7. Ma si veda anche Id., Paeninsula: l’Italia da ritrovare, Laterza, Roma 1998, pp. 10-11.

1. Lo spazio mediterraneo per Consolo

La scelta di Norma Bouchard e Massimo Lollini di seguire il criterio della mediterraneità nell’antologia del 200614 riflette la centralità dell’interesse di Consolo per la “lettura e la scrittura” dello spazio mediterraneo15. Andando oltre gli stereotipi, la linea interpretativa e rappresentativa dell’autore evidenzia tormento e ricchezza di un contesto complesso, che rifugge qualunque generalizzazione. Parlare della questione e dello spazio mediterraneo significa per Consolo parlare del Sud e, in particolare, della Sicilia. La riflessione sulla complessità del Mediterraneo si innesta dunque sulle considerazioni a proposito della varietà e della molteplicità che caratterizzano la storia, l’ambiente, il patrimonio siciliani. Estremamente significativo appare nell’isola il flusso incessante di energie umane e culturali16, che hanno condizionato e condizionano il paesaggio, accostando e sovrapponendo più identità17. Allo stesso modo l’intero Mediterraneo è amalgama, crocevia di popoli differenti, non solo territorio della conflittualità ma anche patrimonio ricchissimo, possibilità della relazione e dello scambio18: sì scenario di devastazione, dove la tecnologia ha perso la sua funzione antropologica e ha generato mostri che distruggono le antiche città, trasformandole in
 14 V. Consolo, Reading and Writing the Mediterranean, a cura di N. Bouchard e M. Lollini, University of Toronto Press, Toronto-Buffalo-London 2006). Si veda il chiarimento nel saggio introduttivo: N. Bouchard, M. Lollini, Introduction: Vincenzo Consolo and His Mediterranean Paradigm, pp. 3-48, a p. 14. Sull’interesse di Consolo per il Mediterraneo si veda anche N. Bouchard, Vincenzo Consolo’s Mediterranean Journeys: From Sicily to the Global South(s), cit. 15 Sul tema anche l’antologia postuma, V. Consolo, Mediterraneo. Viaggiatori e migranti, Edizioni dell’Asino, Roma 2016. 16 C. Gallo, Cultural crossovers in the Sicily of Vincenzo Consolo, in “US-China Foreign Language”, gennaio 2016, vol. 14, n.1, pp. 49-56. 17 Emblematico Uomini e paesi dello zolfo, in Di qua dal faro, pp. 981-982: “Ora qui, per inciso, vogliamo notare che la storia, la storia siciliana, abbia come voluto imitare la natura: un’infinità, un campionario di razze, di civiltà, sono passate per l’isola senza mai trovare tra loro amalgama, fusione, composizione, ma lasciando ognuna i suoi segni”. 18 Tale visione è centrale anche nella riflessione di F. Cassano (i già citati Paeninsula, Il pensiero meridiano, Tre modi di vedere il Sud). Non a caso la scrittura di Consolo e quella di Cassano affiancate espongono il punto di vista italiano per “Rappresentare il Mediterraneo”, collana Mesogea (V. Consolo, F. Cassano, Rappresentare il Mediterraneo, cit.).
moderne metropoli, luoghi di intolleranza politica, religiosa e razziale, ma allo stesso tempo archivio di eredità preziose19. Dunque olivastro e olivo insieme. Ed è per tutelare ‘l’olivo’ che Consolo procede in direzione di un ripensamento dei consolidati effetti della globalizzazione20. L’imposizione dell’economia ritenuta vincente e l’emarginazione dei vari sistemi tradizionali producono inevitabilmente l’aberrante negazione della molteplicità che caratterizza l’identità mediterranea e la rottura degli utili equilibri preesistenti. L’autore dunque riflette sulla gestione degli spazi e della cultura e legge il fenomeno migratorio non come superamento di un limite ma come occasione di scambio che trasforma e vivifica. Nell’ottica di un recupero delle tradizioni e della molteplicità a rischio vanno guardate le scelte linguistiche che recuperano frammenti della Sicilia greca, bizantina, araba, normanna, ovvero le impronte delle lingue parlate un tempo nel Mediterraneo. L’imperativo della salvezza di linguaggi e dialetti dall’oblio si traduce in un plurilinguismo in cui non ci sono parole inventate ma parole scoperte e riscoperte, in un’operazione di riscatto della memoria e, quindi, di ricerca delle radici, dell’identità21. Se la rappresentazione del Mediterraneo risulta ambivalente, anche Ulisse, l’eroe mediterraneo per eccellenza, ha una natura duplice. Il personaggio omerico, associato da Consolo all’uomo contemporaneo, non è l’eroe del ritorno, è piuttosto il migrante: il nóstos gli è costantemente negato, perché nell’approdo all’isola egli scopre il sovvertimento, incontra le macerie di Troia anziché il palazzo di Itaca, ed è condannato perciò ad un esilio senza fine. La sua peregrinazione lo porta a contatto con le varie forme di violenza della modernità nei confronti di piccoli e grandi luoghi, in Sicilia e fuori dalla Sicilia. In ciò il viaggio diventa meditazione sulle proprie responsabilità: insieme all’ansia di scoperta e conoscenza,
 è 19 N. Bouchard, M. Lollini, Introduction: Vincenzo Consolo and His Mediterranean Paradigm, cit., pp. 3-48, a p. 18. 20 Si veda l’intervista con A. Prete (Il Mediterraneo oggi: un’intervista, in “Gallo Silvestre”, 1996, p. 63). 21 G. Traina, Vincenzo Consolo, cit., p. 130. F. Cassano in Rappresentare il Mediterraneo parla di recupero da parte di Consolo di un’antica dimensione sacra della lingua, mediante lo scavo nel passato del Mediterraneo (V. Consolo, F. Cassano, Rappresentare il Mediterraneo, cit., p. 57).
evidenziato il senso di colpa e il rimorso per l’abuso della tecnologia che distrugge patrimoni e vite umane22. Le tappe del viaggio cantato da Omero, a loro volta, come già evidenziato, diventano tessere per comporre l’immagine del mondo contemporaneo. Il mito ha avuto un suo innegabile ruolo nella costruzione dell’identità mediterranea23 perché, sorto da una radice geografica, ha a sua volta modificato e condizionato la percezione collettiva dello spazio, confluendo nel patrimonio di tutti, come è accaduto nei casi esemplari di Scilla e Cariddi o dell’Etna. Ma racconti e leggende antichi legati al territorio possono dire qualcosa di nuovo, possono mettere in luce la stortura: questa è l’operazione a cui si dedica Consolo, ribadendo il legame tra la piana delle vacche del Sole e la Milazzo dell’esplosione o evidenziando l’associazione tra regno dei Lestrigoni e area industriale siracusana. Proprio proponendo il mito originale, allora, enfatizzandone alcuni aspetti, l’autore è capace di trasmettere una denuncia che lamenta la profonda metamorfosi subita dai luoghi: riesce cioè a produrre un’immagine critica dello spazio contemporaneo.

 1.1 Nel segno della varietà del mare

 Consolo si sente figlio della varietà, dei passaggi, degli incroci di popoli che si sono avvicendati sulla sua terra. Perciò, nella straniante Milano, cerca il conforto dell’umanità colorata, varia, di corso Buenos Aires. A Nord egli cerca il suo Mediterraneo e lo trova negli arabi, nei tunisini, negli egiziani, nei marocchini, negli altri africani, lo trova nel “bruno meridionale”: in questa “ondata di mediterraneità” si immerge e si riconcilia, ci si distende come in una spiaggia di sole del Sud24.
 22 Sulla figura di Ulisse e il suo rapporto con il Mediterraneo nell’opera di Consolo si vedano alcune riflessioni di M. Lollini (M. Lollini, Intrecci mediterranei. La testimonianza di Vincenzo Consolo moderno Odisseo, cit, pp. 24-43 o anche l’introduzione, scritta con N. Bouchard, all’antologia Reading and Writing the Mediterranean, N. Bouchard, M. Lollini, Introduction: Vincenzo Consolo and His Mediterranean Paradigm, cit., pp. 19-21). Ma si vedano anche le affermazioni dello stesso Consolo in Fuga dall’Etna, cit., pp. 50-52. 23 B. Westphal (a cura di), Le rivage des mythes. Une géocritique méditerranéenne. Le lieu et son muthe, Pulim, Limoges 2001. 24 “Io che sono di tante razze e che non appartengo a nessuna razza, frutto dell’estenuazione bizantina, del dissolvimento ebraico, della ritrazione ara-
La similitudine esalta la presenza della varietà umana con tutta la sua gamma di neri e bruni qualificandola come occasione, in una Milano grigia al di là dello stereotipo, di sperimentare la mediterraneità. L’accostamento è significativo perché l’esperienza della “spiaggia al primo tiepido sole” è molto mediterranea, tanto più per Consolo, nato e cresciuto in una località di mare. La vita a Sant’Agata di Militello, “paese marino”, “borgo in antico di pescatori”25 gli ha permesso di avere una precoce familiarità con la spiaggia26. “La visione costante del mare” ha scandito l’infanzia, di giochi, bagni e gite sui gozzi. Sulla riva di una contrada poco nota sono approdati guerra e cadaveri della grande Storia27. Perciò lo spazio mediterraneo non può che configurarsi, sulla base dell’esperienza personale, come “mare”. Il tempo del mito che contraddistingue la percezione del mare delle Eolie viene poi superato nella frequentazione di altre coste, altri porti, altri arcipelaghi: il Mediterraneo non è più quello della giovinezza, non solo perché sono mutati i toponimi, le coordinate, ma anche perché a guardarlo ora è un adulto, con una prospettiva nuova, di cronista e narratore, e perché sempre più ristretto è lo spazio della bellezza, e delusione e amarezza nascono dalla coscienza di un patrimonio a rischio di estinzione, vampirizzato dall’indu,
del seppellimento etiope, io, da una svariata commistione nato per caso bianco con dentro mutilazioni e nostalgie. Mi crogiolavo e distendevo dentro questa umanità come sulla spiaggia al primo, tiepido sole del mattino”, Porta Venezia, in La mia isola è Las Vegas, pp. 112-113. Nello stesso testo (p. 114) gli eritrei che, ai tavoli di un ristorante, mangiano tutti con le mani da uno stesso grande piatto centrale il tipico zichinì gli ricordano l’uso delle famiglie contadine siciliane di una volta. Anche nell’osservazione di questo gesto c’è il conforto del recupero di un’identità, specialmente nel confronto con un Nord tanto diverso. Poco più avanti anche la musica, in un bar egiziano, suggerisce legami, suscita l’evocazione dell’identità mediterranea (Ivi, p. 115). 25 Il mare, in La mia isola è Las Vegas, p. 220. 26 La grande vacanza orientale-occidentale, in La mia isola è Las Vegas, pp. 163-169, a p. 165. Molte le dichiarazioni a proposito di una vita “anfibia”, vissuta cioè a stretto contatto con l’acqua. “Sono stato un bambino anfibio, vissuto più nell’acqua che nella terraferma” (La Musa inquieta, in “L’Espresso”, 15 aprile 1991). 27 Il mare, in La mia isola è Las Vegas, pp. 220-221; La grande vacanza orientale-occidentale, in La mia isola è Las Vegas, pp. 164-165. Nella caratterizzazione del Mediterraneo, a partire dal paese natale, si intrecciano memorie personali e dati della storia ufficiale: lo scorrere del tempo plasma i luoghi, oggettivamente e nella ricezione personale dell’autore.
 -strializzazione selvaggia, o dello scenario di nuove guerre, nuove violenze, nuova morte. È negato l’idillio della vita libera e bella con la vista costante delle isole del dio, e risulta stravolto orrendamente anche il lavoro dell’uomo: i pescatori non tirano più nelle reti il pesce azzurro, bensì cadaveri di clandestini28.

1.2 Tra olivo e olivastro: il patrimonio e la violenza

Pur consapevole della varietà e della complessità che lo caratterizzano, Consolo percepisce lo spazio mediterraneo come un mondo unico e vi rintraccia caratteri ricorrenti, corrispondenze e somiglianze. Memoria di paesaggi noti, conoscenze geografiche, storia della rappresentazione si intrecciano nel proporre associazioni relative al patrimonio naturalistico, considerazioni sulle fragilità degli spazi urbani e sui problemi ecologici. A permettere, in Arancio sogno e nostalgia, la definizione del Mediterraneo come regno solare degli aranci, è l’esperienza della pervasività di una coltivazione, che caratterizza fortemente il paesaggio, dalla Sicilia alla Grecia, dal Maghreb alla Spagna. Riconosciuto come traccia artistica, segno di civiltà, ma anche come straordinario catalizzatore di gratificanti percezioni sensoriali – il colore vibrante dei frutti e delle foglie, l’odore e il sapore –, l’arancio è per Consolo, al di là del facile e consolidato stereotipo di un Sud di agrumi e sole capace di attirare i viaggiatori stranieri, sogno di un Eden perduto, simbolo cioè, nel confronto con coordinate geografiche stravolte dall’industrializzazione, come nel caso della Conca d’oro palermitana, di un’integrità ecologica e culturale, di uno spazio sano in cui piante odorose possono ancora fare mostra di sé accanto alle rovine del passato29.
 Della tipica vegetazione mediterranea conserva notazioni il diario del viaggio in Jugoslavia: i pini piegati fino al mare, gli ulivi, i fichi, le vigne non segnano solo il paesaggio balcanico, ma anche quello greco, siciliano, turco, e si può inferire che anche il gesto
28 Il mare, in La mia isola è Las Vegas, pp. 221-222. 29 Arancio, sogno e nostalgia, in “Sicilia Magazine”, dicembre 1988, pp. 35-46, ora in La mia isola è Las Vegas, pp. 128-133. La citazione è alle pp. 128-129.
della donna che stende i frutti ad essiccare richiami ricordi di altre geografie più familiari30.
Nel resoconto della visita in Palestina nel 2002 poi Consolo scrive di “un paesaggio […] di colline rocciose e desertiche, che somiglia all’altopiano degli Iblei in Sicilia”31. Ma oltre al profilo fisico del territorio, a suggerire accostamenti sono gestualità e dolore delle donne per i combattenti morti: nei movimenti e nel lamento si colgono i tratti della tragedia greca, la cerimonia funebre di tutto il Mediterraneo32.
Città, anche distanti, sono accomunate dalla difficoltà di reggersi sul proprio passato, dalla fatica nella gestione della verticalità, della stratificazione, dal segno della decadenza a contatto con la modernità. Il paesaggio urbanistico mediterraneo risulta perciò inserito nella riflessione ecologica sullo spazio siciliano. Le case semicrollate nel reticolo delle viuzze della Casbah di Algeri evocano l’immagine del centro storico di Palermo33 e quasi topos diventano la crescita disordinata e veloce, l’invasione dei nuovi palazzi, il traffico, nel paesaggio urbano siracusano o in quello di Salonicco34. In L’olivo e l’olivastro dalla meditazione sulla decadenza della città di Siracusa, già accostata ad altre città del Mediterraneo, Atene, Argo, Costantinopoli, Alessandria35, scaturisce il racconto di
 30 Ma questa è Sarajevo o Assisi?, in “L’Espresso”, 30 ottobre 1997. Si tratta del racconto del viaggio fatto a Sarajevo con altri intellettuali italiani per restituire la visita di un anno prima da parte di otto membri del Circolo 99 (di Sarajevo). 31 Madre Coraggio, in La mia isola è Las Vegas, p. 196. Il testo, uscito per la prima volta in italiano in V. Consolo et al., Viaggio in Palestina, Nottetempo, Roma 2003, ma già apparso precedentemente online, anche in francese, è il resoconto del viaggio in Palestina in qualità di membro del Parlamento internazionale degli scrittori. 32 Madre Coraggio, in La mia isola è Las Vegas, p. 197. Consolo si riferisce alla cerimonia funebre mediterranea così com’è codificata in Morte e pianto rituale di E. De Martino che infatti ricorda. Ivi, p. 199. 33 Orgogliosa Algeri tra mitra e coltello, in “Il Messaggero”, 20 settembre 1993. 34 Ne abbiamo già parlato per Siracusa. Si veda invece quello che Consolo scrive di Salonicco in Neró metallicó: “città moderna, piena di luci, di insegne, di manifesti pubblicitari, di quartieri appena costruiti come d’una città che è stata invasa da immigrati, che in poco tempo ha moltiplicato i suoi abitanti. E piena di traffico” (Neró metallicó, in Il corteo di Dioniso, La Lepre edizioni, Roma 2009, p. 9). 35 L’olivo e l’olivastro, p. 820.
una visita lungo la costa africana, a Ustica36. Il ricordo si sofferma in particolare sulle rovine e, a sorpresa, sul basilico profumato che cresce in abbondanza tra le pietre e i mosaici. Quello che è apparentemente un particolare senza importanza serve però a definire un patrimonio di piccole cose, comune a tutto il Mediterraneo37. L’Ustica di Consolo è rovine e basilico. Ma tutto il Mediterraneo in qualche modo è Ustica. Tutto il Mediterraneo è fatto di “piccoli luoghi antichi e obliati” come Ustica, in cui la natura si intreccia con la memoria del passato38. Ma il rischio della dimenticanza è in agguato, l’incuria è già realtà, e il ricordo diventa occasione di meditazione amara: nell’enumerazione di antiche città, nell’anafora del verbo “ricordare”, Consolo si trasforma in un “presbite di mente” tutto rivolto verso il passato, si trasforma in “infimo Casella” tutto proteso verso qualcosa che non c’è più39. Se l’anima del musico appena giunta sulla spiaggia del Purgatorio mostra ancora un grande attaccamento alla vita terrena, tanto da slanciarsi verso Dante, memore dell’antico affetto, e la stessa canzone dantesca da lui intonata è all’insegna della nostalgia, il riferimento evidenzia proprio il legame che Consolo sente con il passato, con ciò che non esiste più, come la vita terrena per le anime purganti. Ma la sovrapposizione non è perfetta: il richiamo alla canzone Amor che ne la mente mi ragiona è immediatamente contraddetto dal “Non più, odia ora” e il canto non ha nulla della dolcezza del regno del Purgatorio, ma piut36 Ivi, p. 836. 37 Ibidem. 38 I mosaici e il basilico di Utica sono già ricordati in un passo di Malophoros, in un elenco di caratteristici e rapidi ritratti di piccoli luoghi carichi di passato, dalla Sicilia alla Grecia al Nord Africa: Malophoros, in Le pietre di Pantalica, pp. 574-575. Dello stesso tono la precedente osservazione sulle “stazioncine solitarie remote, di luoghi antichi, sacri, come quella di Segesta, di Cartaghe-Hannibal, di Pompei o di Olimpia” che sanno essere “commoventi, hanno ormai anche loro qualcosa di antico, di sacro” (p. 574). Omaggio ai “piccoli luoghi antichi e obliati” sono per lo più gli interventi apparsi su “L’Espresso” tra il 1981 e il 1982, dedicati a centri poco noti, come Miraglia, Valverde, Galati o Filosofiana. Il tono di questi articoli è però di solito quasi giocoso, un invito al godimento delle bellezze e delle ricchezze sconosciute, anche gastronomiche. Luogo antico e fuori dai soliti canali turistici (non segnalata sulla “Guide Bleu”) è anche Dion, stesa nella pianura ai piedi del Monte Olimpo a cui sono dedicate alcune pagine in Neró Metallicó (Il corteo di Dioniso, cit., pp. 19-20). 39 L’olivo e l’olivastro, p. 837.
tosto una rabbia infernale, un tono che pretenderebbe “rime aspre e chiocce”:

No, non più. Odia ora. Odia la sua isola terribile, barbarica, la sua terra di massacro, d’assassinio, odia il suo paese piombato nella notte, l’Europa deserta di ragione. Odia questa Costantinopoli saccheggiata, questa Alessandria bruciata, quest’Atene, Tebe, Milano, Orano appestate, questa Messina, Lisbona terremotate, questa Conca d’oro coperta da un sudario di cemento, il giardino delle arance insanguinate. Odia questo teatro dov’è caduta la pietà, questa scena dov’è stata sgozzata Ifigenia, quest’Etna, questa Tauride di squadracce dove si consumano merci e vite, si svende onore, decenza, lingua, cultura, intelligenza…40

 Dai toni nostalgici Consolo passa a quelli indignati di un coro antico e professa odio prima nei confronti della sua Sicilia, diventata “terribile, barbarica, terra di massacro”, una Tauride percorsa da “squadracce”, poi verso l’Europa e verso l’intero Mediterraneo. Il dramma in atto ha proporzioni gigantesche e il riferimento ai simboli della tragedia euripidea ne sancisce la gravità: sulla cavea è stata sgozzata Ifigenia, si è prodotto cioè il sacrificio dei sacrifici, la morte della sacerdotessa che Artemide aveva voluto salva, la morte dell’esiliata e, con lei, la morte di ogni forma di giustizia, cultura, rispetto. Il presente è una Tauride senza speranza. All’attentato nei confronti del patrimonio naturalistico e culturale si accompagna la violenza contro la vita umana, in svariate forme: il Mediterraneo è, per Consolo, spazio della conflittualità. La Palermo di Le pietre di Pantalica, in preda alle lotte di mafia, è come Beirut41: le bombe, i kalashnikov, gli efferati omicidi, il sangue sparso dai killer lasciano tra le strade siciliane il disastro dei campi di battaglia e spingono all’associazione con quell’altra violenza, in atto dall’altra parte dello stesso mare, della guerra che porta alla distruzione della capitale libanese. Comiso, poi, coi suoi missili Cruise, rappresenta la minaccia costante della violenza tra popoli a cui neppure le proteste dei pacifisti, bloccate brutalmente, possono opporsi. Nel racconto eponimo di Le pietre di Pantalica, mentre il paese “folgorato dal sole”, quasi fosse “uno di quei vuoti gusci dorati di cicala”, è tutto ripiegato nel suo torpore estivo,
40 Ibidem. 41 Le pietre di Pantalica, in Le pietre di Pantalica, p. 625.
poco più in là l’aeroporto, nella campagna deserta, accoglie i lavori per l’installazione. Alla sola vista del cancello con la scritta “Zona militare-Divieto d’accesso” emerge la tremenda apocalittica considerazione: “Non resterà di noi neanche una vuota, dorata carcassa, come quella della cicala scoppiata nella luce d’agosto. Non resterà compagna, figlio o amico; ricordo, memoria; libro, parola”42. Quasi a dire che troppo in là è andato l’uomo. Nel testo successivo, che porta nel titolo il toponimo, le cicale – ancora loro – che cantano nel sole estivo enfatizzano la pace e la fiacca che prelude alla carica delle forze dell’ordine sui dimostranti43. Di fronte al degrado della violenza – guerra per difendere la possibilità di fare la guerra – e di fronte alla speculazione edilizia e all’inquinamento, l’unica consolazione possibile viene a Consolo dalle rovine immerse nella natura, ovvero dal valore di un patrimonio naturalistico e culturale. Come ad Utica e ancor di più che ad Ustica, negli Iblei a Cava d’Ispica, a poca distanza da Comiso: qui ci sono “le migliaia di grotte scavate dall’uomo, le abitazioni, le chiese, le necropoli della preistoria, della storia più antica dei Siculi, dei Greci, dei Romani, dei Bizantini, di quelli di pochi anni passati”, qui c’è “un cammino bordato dai bastoni fioriti delle agavi, dagli ulivi, dai fichi, dai pistacchi, dai carrubi”44. E fuori dalla Sicilia? Una serie di articoli scritti a partire dagli anni Novanta denuncia una violenza connaturata in numerosi luoghi del Mediterraneo. Teatro del nascente integralismo è il Maghreb, l’Algeria in particolare, dove Consolo nel maggio 1991
 42 Ivi, p. 623. 43 Più tardi, nell’atto unico Pio La Torre, Consolo accenna al coinvolgimento della mafia siciliana e americana nell’affare dei missili (Pio La Torre, cit., p. 65) e offre un’immagine amara della nuova Comiso, che contrasta con il passato nell’offesa dell’inquinamento selvaggio e della minaccia di una guerra (Ivi, p. 77). 44 Comiso, in Le pietre di Pantalica, pp. 637-638. Il testo si chiude con una visita alla necropoli bizantina di Cava d’Ispica. C’è la luna e, guardandola, Consolo ricorda la preghiera della Norma belliniana: “Casta diva, che inargenti / queste sacre, antiche piante…”. Dichiara di non sapere il motivo del ricordo. In realtà la memoria ha a che fare, più o meno volutamente, con Zanzotto, nella cui opera la presenza della Norma è significativa: in più di un’occasione il poeta, riferendosi alla luna, allude alle parole della sacerdotessa (un esempio su tutti l’Ipersonetto: “Casta diva” o “sembiante”, A. Zanzotto, Tutte le poesie, cit., p. 571).
scorge il rischio che “il mistico linguaggio della preghiera” si stravolga nel “mortale linguaggio delle armi”45. Uno “scenario apocalittico, sconvolgente”46 caratterizza poi la Sarajevo del 1997. Il “paesaggio di macerie” che si mostra allo sguardo mano a mano che gli italiani in visita si inoltrano nell’entroterra, con la guida di Matvejevic, impressiona ancor di più per il contrasto con il quieto profilo mediterraneo della costa, dove non c’è traccia di guerra e dove Consolo ritrova la vegetazione della sua terra. La città distrutta evoca le dure immagini del Trionfo della morte di Bruegel o quelle di Los desastres de la guerra di Goya47; i suoi resti, accostati a quelli di Assisi appena colpita dal terremoto, si fanno ammonimento, metafora “del nostro scadimento”: “siamo scivolati sul ciglio della voragine paurosa della natura”, ovvero è scomparsa la civiltà. Infernale è infine la Palestina, visitata da Consolo con altri membri del PIE nel 2002 48. Nella descrizione del tragitto che da Tel Aviv conduce a Ramallah, l’accostamento del paesaggio a quello siciliano si rompe all’apparizione dei check point e delle mitragliatrici, e sempre più nel procedere verso la striscia di Gaza si moltiplicano i segni di rovina e lutto, pur nella prorompente vitalità dei “nugoli di bambini dagli occhi neri”49, al punto che il percorso in direzione dei villaggi di Khan Yunus
45 Quei parabolizzati che sognano l’Italia, in “Corriere della sera”, 20 giugno 1991; Orgogliosa Algeri tra mitra e coltello, cit. Si veda anche la prefazione al libro di poesie di Mokthar Sakhri (Poesie, Libro italiano, Ragusa 2000). L’esperienza giornalistica ritorna nel romanzo Lo Spasimo di Palermo (pp. 903-905): Chino Martinez nel giardino della moschea di Parigi ripensa allo sciopero di Algeri, al mitra e al Corano degli integralisti. Sui fondamentalismi nel Mediterraneo si veda anche l’intervista con A. Prete, Il Mediterraneo oggi: un’intervista, cit., pp. 65-66. Sul fondamentalismo di matrice islamica e in particolare sull’attacco alle torri gemelle, Consolo si esprime manifestando un’accesa critica nei confronti di Oriana Fallaci, evidenziando da una parte che non serve reagire con la violenza e che molti sono i vantaggi dell’incrocio tra culture, come insegna la storia siciliana (l’intervista a cura di G. Caldiron, Lo scrittore siciliano Vincenzo Consolo risponde a Oriana Fallaci “Parole che conducono alla violenza”, in “Liberazione”, 2 ottobre 2001). 46 Ma questa è Sarajevo o Assisi, cit. 47 Sempre a proposito della guerra in Jugoslavia il riferimento all’opera di Goya compare in La morte infinita, in “Il Messaggero”, 6 febbraio 1994. 48 Madre Coraggio, in La mia isola è Las Vegas, pp. 195-200. 49 Ivi, p. 197.
e Rafah pare “una discesa nei gironi infernali”50. L’immagine più forte, quasi un simbolo, è però quella della resistenza eroica di una madre: ad aprire e chiudere il resoconto del viaggio è la figura della donna di Ramallah51, “imponente, dalla faccia indurita”, che vende nepitella raccolta nei luoghi selvatici e che di certo abita nel campo profughi, forse ha figli che combattono.

1.3 Mediterraneo come spazio di migrazioni


 Nella rappresentazione offerta da Consolo l’immagine del Mediterraneo come spazio di migrazioni appare fondamentale e questo, oltre che per una chiara consapevolezza storica, per un’attenta lettura della contemporaneità. Divenuto, nei fatti, confine, limite, addirittura cimitero a causa della grande quantità di morti rimasti imprigionati nelle “carrette”, il mare potrebbe essere, invece, occasione di arricchimento in virtù dello scambio tra popoli. È un’immagine ideale, eppure realizzabile, quella che Consolo propone, insistendo su una storia di civiltà, quella siciliana in particolare, che ha la radice della sua grandezza proprio nell’incontro tra le differenze: ora che l’isola è divenuta luogo di approdo dei migranti che provano a sfuggire alla guerra, alla persecuzione o alla povertà, non si deve dimenticare che il progresso, quello vero, è sempre figlio dell’arricchimento che proviene dall’alterità. Lo dimostrano gli straordinari effetti della dominazione araba in Sicilia, a cui Consolo riconosce, sulla base di un ricco corredo di fonti e seguendo l’opinione di Sciascia, addirittura un valore fondante in termini di identità: i tratti tipici della sicilianità, ovvero lingua, letteratura, arte, agricoltura, cucina e persino fisionomia, risentono tutti del passato arabo52. Non
50 Ivi, p. 199. 51 Ivi, p. 195 e 200. 52 Estremamente rappresentativa appare a proposito la sezione Sicilia e oltre in Di qua dal faro e, in particolare, il saggio introduttivo, La Sicilia e la cultura araba. Il saggio si apre con alcune considerazioni sul legame tra la poesia della scuola siciliana e le qaside dei siculo-arabi, ancora attivi nell’isola sotto i Normanni (La Sicilia e la cultura araba, in Di qua dal faro, pp. 1187- 1192, a p. 1187) e riflette poi su diversi aspetti dell’influenza araba, ad esempio sulla rinascita economica e sullo spirito di tolleranza (p. 1189). Significativi nel testo i rimandi a Sciascia (in particolare alle pp. 1188-1189). Ricordo che il rapporto tra Sciascia e il mondo arabo costituisce un ambito ricco di spunti suggestivi. Significativa è la conclusione del saggio di apertura de La corda
 a caso l’insistenza sulla presenza degli Arabi nell’isola si traduce nella frequente celebrazione delle innovazioni in ambito agricolo, tecnico, delle trasformazioni in ambito artistico-culturale. Di “rinascimento” parla Consolo, non perdendo occasione per evidenziare i lasciti, le tracce ancora vive nella contemporaneità siciliana. La lussureggiante Palermo, ad esempio, non avrebbe chiese-moschee, castelli, palazzi e giardini seducenti, non avrebbe aranceti se non ci fossero stati gli Arabi. Lo spazio insomma risulta segnato profondamente da questa “migrazione”. Sorprendenti riescono ad essere poi – afferma Consolo – gli incroci della storia, e Mazara, che ridiventa araba nel Novecento per il massiccio arrivo dei tunisini, aveva già nel momento del primo approdo dell’827 l’Africa nel suo nome, Mazar, traccia dell’antica presenza cartaginese. Come a dire che è sempre stato normale per i popoli spostarsi, il mare non è di nessuno, non può essere veramente limite, e la terra non reca un marchio di possesso ma molti strati di identità che il tempo e i popoli plasmano, partendo, arrivando. Se innumerevoli sono le eredità, anche visibili, tangibili, sebbene a rischio, del passato arabo, scomparsa del tutto risulta per Consolo la scelta della tolleranza e della convivenza tra culture, confermata anche dai normanni che non vollero eliminare la civiltà che li aveva preceduti, ma la integrarono e la valorizzarono. Perciò l’immagine del Mediterraneo come spazio di equilibrio e coesistenza tra le alterità non è solo parentesi del passato ma anche un’aspirazione, un esempio positivo da opporre a quanti insistono sui rischi dello scontro tra culture53.
 Che l’arrivo di nuovi popoli produca progresso è poi testimoniato per l’autore anche da migrazioni più antiche come dimostra pazza (1970), Sicilia e sicilitudine, in cui l’autore traccia un collegamento ideale tra Salvatore Quasimodo e un poeta arabo di otto secoli precedente, Ibn Hamdis, siciliano di Noto, accomunati dai toni con cui hanno fatto poesia della pena profonda dell’esilio (L. Sciascia, Sicilia e sicilitudine, in Id. La corda pazza, cit., pp. 11-17). Sulla questione particolarmente interessanti risultano anche le osservazioni contenute in uno degli scritti del Canton Ticino, su Tomasi di Lampedusa, apparso su “Libera Stampa” il 27 gennaio 1959, ora raccolto in Troppo poco pazzi (L. Sciascia, Marx Manzoni eccetera e il Gattopardo, in R. Martinoni, a cura di, Leonardo Sciascia nella libera e laica Svizzera, Olschki, Firenze 2011, pp. 102-104 alle pp. 102-103). 53 Nell’ultima intervista Consolo riflette proprio sull’ignoranza di chi solleva lo scontro di civiltà e accosta integralismo e islam (V. Pinello, op. cit.).
l’entusiastica rappresentazione della Sicilia come museo a cielo aperto, che accoglie rovine antiche, città greche, elime, puniche. Ma numerosi sono anche i riferimenti alla nascita delle colonie, a volte molto precisi, con indicazione dell’ecista, del territorio di origine, degli sviluppi della vicenda coloniale54, sulla base dei dati forniti da fonti antiche, come l’opera di Tucidide55, o su testi più recenti che rinviano però alla storiografia greca. E ciò non solo nei testi saggistici: anche le prove narrative offrono una rappresentazione della Sicilia e del Mediterraneo che ne valorizza l’aspetto di crocevia di popoli. Concentrandosi sulle migrazioni dell’antichità, i testi impostano un implicito confronto con gli spostamenti di oggi, riconoscendovi ragioni identiche o simili, ovvero guerra, fame, difficoltà economiche. In particolare, ne L’olivo e l’olivastro56, Consolo si sofferma sull’emigrazione megarese verso la parte orientale dell’isola. La visita ai resti di Megara Hyblaea, oggetto dell’amorevole culto del giovane Salvo e dei suoi, mentre è in corso l’assedio della cannibalica civiltà industriale del polo siracusano, suscita un’entusiastica rievocazione dell’opera dell’ecista Lamis, dell’idea di uguaglianza e progresso dei coloni, della fertilità e della geometria nella suddivisione del terreno in lotti57. All’enfasi sulla fondazione Consolo
 54 Ad esempio, Che non consumi tu tempo vorace, cit., p. 12; I muri d’Europa, in L. Restuccia, G.S. Santangelo, Scritture delle migrazioni: passaggi e ospitalità, Palumbo, Palermo 2008, p. 25. 55 L’archaiologhia siceliota del VI libro si apre con una sintesi storica a proposito dei più antichi popoli locali, a partire dai misteriosi Lestrigoni e Ciclopi, cui segue un quadro preciso delle migrazioni dalla Grecia e delle successive fondazioni. Consolo rinvia a Tucidide per la fondazione di Messina, l’antica Zancle (Vedute dallo stretto di Messina, in Di qua dal faro, p. 1045) e infatti il dato è rintracciabile in Tuc. VI 4,5. Ricava probabilmente dallo storico greco anche il dato relativo alla fondazione di Siracusa da parte dell’ecista Archia (Tuc. VI 3), ricordato in La dimora degli Dei (cit., p. 14). Oltre alla fonte tucididea si può riconoscere anche quella di Diodoro Siculo, esplicitata per la colonizzazione greca delle Eolie (Isole dolci del dio, cit., p. 21). 56 L’olivo e l’olivastro, p. 783. 57 Tucidide parla dell’arrivo dei Megaresi (Tuc. VI 4, 1-2) ma non riporta quest’ultimo dato della lottizzazione, che invece si ricava dai rilievi archeologici. A proposito si veda H. Tréziny, De Mégare Hyblaea à Sélinonte, de Syracuse à Camarine: le paysage urbain des colonies et de leurs sous-colonies, in M. Lombardo, F. Frisone (a cura di), Atti del convegno Colonie di colonie: le fondazioni subcoloniali greche tra colonizzazione e colonialismo, Lecce, 22-24 giugno 2006, Congedo editore, Galatina-Martina Franca, 2009,
 aggiunge il plauso per le capacità che i Megaresi, scacciati dai Corinzi di Siracusa, dimostrarono, affrontando l’ignoto della Sicilia occidentale dove fondarono Selinunte. Le sue parole trasfigurano il neutro dato storico di Tucidide (VI 4, 2) attribuendo all’opera dei coloni i tratti di una straordinaria epopea58. I resti della civiltà greca di Megara e Selinunte, dunque, risultano monito contro lo straniamento che viene dalla degenerazione economica e culturale. La coscienza dell’identità trascurata dello spazio e della civiltà che l’ha costruita, originariamente straniera, immigrata, ma secondo le fonti storiche “progredita”, costringe l’attenzione sul rischio della perdita in termini di biodiversità culturale, e l’interesse per gli antichi coloni greci diventa traccia ecocritica. Ha a che fare con la volontà di valorizzare il passato greco dell’isola anche il ricorso al mito. Oltre al viaggio di Ulisse, Consolo ama ricordare la vicenda di Demetra, la madre disperata che, in cerca di sua figlia Kore, vaga per il Mediterraneo59, leggenda molto siciliana, in virtù dei luoghi coinvolti: ad Enna c’era l’antica sede della dea60, e proprio lì si svolse il rapimento di Kore, mentre poco più a
 pp. 163-164; M. Gras, H. Tréziny, Mégara Hyblaea: le domande e le risposte, in Alle origini della magna Grecia, Mobilità migrazioni e fondazioni, Atti del cinquantesimo convegno di studi sulla Magna Grecia, Taranto 1-4 ottobre 2010, Stampa Sud, Mottola 2012, pp. 1133-1147. 58 L’olivo e l’olivastro, pp. 783-784, ma anche Retablo, p. 432; La Sicilia passeggiata, pp. 94-95; Malophoros, in Le pietre di Pantalica, p. 578. 59 Più volte Consolo esibisce citazioni dall’Inno a Demetra (nella traduzione di F. Cassola del 1975). In Retablo ad esempio (Retablo, p. 409) i primi due versi (“Demetra dalle belle chiome, dea veneranda, io comincio a cantare, / e con lei la figlia dalle belle caviglie, che Aidoneo / rapì”) sono esempio di suprema poesia per Clerici che sta sperimentando, nell’esperienza sublime dell’accoglienza da parte di Nino Alaimo, tra l’altro dedito al culto di una Grande Madre mediterranea, una sorta di possessione divina. La Sicilia passeggiata (p. 7) si apre con un’epigrafe tratta dall’Inno (Inno a Demetra, vv. 401-403) che pone l’attenzione sull’esito felice della vicenda, ovvero sul momento del ricongiungimento delle dee e sul ritorno della primavera; più avanti nel testo invece (La Sicilia passeggiata, p. 57) leggiamo anche i vv. 305-311 che descrivono l’amarezza di Demetra dopo la perdita della figlia e le conseguenze nefaste per gli uomini. In L’olivo e l’olivastro (p. 843) i versi 40-44 inquadrano i luoghi come scenario del vagabondaggio sofferente di Demetra. 60 La Sicilia passeggiata, p. 58; L’olivo e l’olivastro, p. 822. Al tradizionale luogo del culto di Demetra Consolo si riferisce anche nella prefazione al
Sud, nell’area dello zolfo, la tradizione colloca il regno di Plutone61. La scelta autoriale chiama in causa le dinamiche di rappresentazione del Mediterraneo, ma anche l’identità profonda degli spazi geografici, evidentemente compromessa con il mito. Immaginario collettivo e prospettiva razionalizzante si intrecciano, nell’evidenziare il legame esistente tra Sicilia e Grecia, tra due differenti rive di uno stesso mare. Il culto e il mito, infatti, sarebbero conseguenza della colonizzazione greca62.
Nel mito personale di un mondo antico vivace, fatto di intrecci e incroci alla presenza greca si aggiunge quella cartaginese o quella elima. La vicenda di quest’ultimo popolo, in bilico tra storia e mito, ha a che fare, già secondo Tucidide (VI 2), con l’arrivo in Sicilia dei Troiani: lo storico riferisce che la migrazione, successiva al crollo di Ilio, ebbe come effetto lo stanziamento in territori prossimi a quelli dei Sicani e tale vicinanza portò alla denominazione unica di Elimi per i due popoli; i centri più importanti di questa nuova civiltà furono Segesta e Erice. Consolo, pur conoscendo sicuramente il dato riportato dallo storico, è più sensibile in questo caso alla fonte poetica virgiliana. In La Sicilia passeggiata, ad esempio, il mistero sull’origine di Segesta – o Egesta – richiama i versi 755-758 del V libro dell’Eneide che proprio alla ktisis fanno riferimento63. La quale ktisis si conclude con la fondazione del tempio della dea Venere sulla vetta del monte Erice, com’è ricordato dai vv. 759-760 del V libro virgiliano che Consolo sceglie di citare in La Sicilia passeggiata (“Poi vicino alle stelle, in vetta all’Erice, fondano / un tempio a Venere Idalia”)64, quasi invitando a seguire nell’area occiden
volume di F. Fontana dedicato a Morgantina (V. Consolo, Che non consumi tu tempo vorace, cit., p. 11-13) 61 Consolo ricorda questa associazione tra mito e luogo geografico in La Sicilia passeggiata, p. 62; Uomini e paesi dello zolfo, in Di qua dal faro, p. 985. 62 Molti gli studi sulla questione che evidenziano la difficoltà di definire la reale provenienza del culto di Demetra e Kore. Si veda ad esempio P. Anello, Sicilia terra amata dalle dee, in T. Alfieri Tonini (a cura di), Mythoi siciliani in Diodoro, Atti del seminario di studi, Università degli studi di Milano, 12-13 febbraio 2007 = in “Aristonothos, scritti per il mediterraneo antico”, 2, 2008, pp. 9-24. 63 La Sicilia passeggiata, p. 106. 64 Ivi, p. 108. Consolo precisa il dato poetico aggiungendo che in realtà il tempio è antecedente all’arrivo dei Troiani: parla infatti di un sacello sicano, elimo o fenicio già dedicato al culto della dea dell’amore. Si fa riferimento al tempio anche in Retablo (Retablo, p. 458) e in L’olivo e l’olivastro (L’olivo e l’olivastro, p. 860), dove ritroviamo la citazione dei versi dell’Eneide. In L’olivo e l’olivastro sono ricordati “il bosco e la spiaggia del funerale,
 tale dell’isola le orme del passaggio di Enea, sulla base delle indicazioni fornite dall’Eneide: un cammino attento potrebbe permettere di scoprire non solo l’area sacra ericina ma anche il bosco consacrato ad Anchise, la spiaggia dei sacrifici e delle gare65. La scelta di citare proprio i versi del rito di fondazione è interessante perché evidenzia la fusione tra popolazione straniera migrante, i Troiani, e popolazione locale, gli Elimi66. Da tutto ciò risulta evidente per Consolo che gli incontri, gli scambi tra popoli di culture diverse sono stati da sempre causa del cammino della civiltà, e che la chiusura, il rifiuto dell’ignoto che arriva da fuori, è perdita, regressione67. Perciò, egli, servendosi di una frase di Zanzotto, “Ci troviamo oggi tra un mare di catarro e un mare di sperma”, descrive il vecchio continente come perennemente arroccato nelle sue posizioni. “Vecchia” davvero è l’Europa, vecchia l’Italia, non solo per l’età media della popolazione, ma per una cecità di fronte all’arrivo delle masse disperate dei profughi che non riconosce la ricchezza dell’accoglienza e addirittura produce morboso attaccamento ai privilegi, difesi con pericolosi atteggiamenti xenofobi68. All’imperativo dell’accoglienza umanitaria, a cui implicitamente alludono nell’articolo Gli ultimi disperati del canale di Sicilia le immagini tremende del mare-cimitero (“bare di
delle gare in onore d’Anchise” (Ivi, p. 861), menzionati anche in Lo spazio in letteratura (Di qua dal faro, p. 1241). Al mito dell’arrivo dei Troiani in Sicilia si riferisce anche in Retablo l’onomastica relativa al fiume “Criniso o Scamandro” (p. 415). 65 Virgilio narra che Enea, fermatosi presso Drepano – l’attuale Trapani – dopo la parentesi di Cartagine, viene ospitato da Aceste e, con lui e i suoi, celebra gli onori funebri in onore di Anchise, lì seppellito un anno prima. Alla ospitalità già ricevuta da parte di Aceste si riferisce Aen. I 195. La morte di Anchise invece è accennata in Aen. III 707-710. Gli onori funebri in suo onore e i giochi successivi sono al centro del V libro (vv 42-103 e 104-603). 66 Dopo che le donne, istigate da Giunone, hanno dato fuoco alle navi (Aen. V 604-699), l’eroe, ispirato dalla visione di suo padre, decide di fondare una nuova città che sarà abitata da una parte del suo seguito e dai troiani dell’isola. Aceste e i suoi, infatti, che sono già in Sicilia (Aen. V 30 e 35-41) appartengono ad un’antica stirpe troiana. 67 Quando i Lombardi emigrarono in Sicilia, in “Corriere della Sera”, 4 maggio 1991. 68 Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, in “La Repubblica”, 18 settembre 2007. La frase di Zanzotto è ripresa da A. Zanzotto, In questo progresso scorsoio. Conversazione con M. Breda, cit., pp. 68-69. Il poeta la usa per commentare la situazione dell’Italia, sospesa tra “un’Europa invecchiante e le esplosioni demografiche vicine”.
ferro nei fondali del mare”) e dell’orrenda pesca dei morti (“i corpi degli annegati nelle reti dei pescatori siciliani”), si accompagna nella prospettiva autoriale l’invito ad una valutazione delle possibilità economiche e culturali che derivano dai flussi di migranti69. Estremamente significativo nel dibattito risulta per Consolo il caso della doppia migrazione da e verso il Maghreb. C’è stato un tempo lontano in cui il braccio di mare tra la Sicilia e le coste africane non era “frontiera, barriera fra due mondi, ma una via di comunicazione e di scambio”70, un tempo in cui era normale per i lavoratori di Sicilia, di Calabria o di Sardegna cercare fortuna nelle terre degli “infedeli”. Tale familiarità tra i due mondi è stata confermata dall’emigrazione ottocentesca, intellettuale e borghese prima, poi anche di braccianti dell’Italia meridionale, verso le coste nordafricane71. Si tratta di un fenomeno che sta molto a cuore a Consolo72. Non a caso egli lo accoglie nella narrazione di Nottetempo, casa per casa.
 69 Negli stimoli offerti dall’emigrazione contemporanea Consolo scorge una possibilità di rinascita anche letteraria: così nell’intervista con A. Bartalucci (A. Bartalucci, op. cit., pp. 201-204, a p. 204). 70 Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, p. 1193. Consolo si è soffermato prima sulla seconda novella della quinta giornata del Decameron di Boccaccio che propone il tranquillo soggiorno di pescatori cristiani, trapanesi, nella musulmana Tunisia. Ma si veda anche in Retablo l’incontro di Clerici, accompagnato dal fido Isidoro e dal brigante, con Spelacchiata e i suoi compagni barbareschi, che si traduce in uno scambio di cerimonie (Retablo, pp. 438-440). L’episodio tiene conto dell’affinità culturale e della consuetudine dei rapporti tra paesi mediterranei. A proposito del valore della “rotta per Cartagine”, ovvero dell’attenzione consoliana per le relazioni storiche di contiguità e vicinanza tra Sicilia e Nord Africa, P. Montefoschi, Vincenzo Consolo: ritorno a Cartagine, in Id., Il mare al di là delle colline. Il viaggio nel Novecento letterario italiano, Carocci, Roma 2012, pp. 54-60; specificamente sull’episodio di Spelacchiata in Retablo, p. 55. 71 A proposito dell’emigrazione italiana in Tunisia si veda lo studio di F. Blandi: F. Blandi Appuntamento a La Goulette, Navarra Editore, Palermo 2012. 72 Del fenomeno Consolo fornisce dati precisi in diverse occasioni. Si veda in particolare Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, pp. 1195-1196; Il Mediterraneo tra illusione e realtà, integrazione e conflitto nella storia e in letteratura, in G. Interlandi (a cura di), La salute mentale nelle terre di mezzo. Per costruire insieme politiche di inclusione nel Mediterraneo, Atti del Convegno di Psichiatria Democratica, Caltagirone, 12-13 marzo 2009, numero monografico di “Fogli di informazione”, terza serie, 13-14, gennaio-giugno 2010, pp. 5-7.
La fuga di Petro, nuovo Enea73, si inserisce proprio nel contesto storico della migrazione verso l’Africa settentrionale. La sua vicenda non è eccezionale, se non forse per le motivazioni, ma rientra nella normalità di un flusso migratorio consolidato74. La stessa presenza del personaggio storico di Paolo Schicchi, con cui Petro ha un breve colloquio sulla nave, obbedisce alla storicità del fenomeno. L’anarchico siciliano, infatti, non fu il solo a cercare rifugio in Tunisia per ragioni politiche: esisteva sulla sponda sud del Mediterraneo una nutrita comunità di antifascisti e addirittura una vera e propria comunità anarchica siciliana a Tunisi75.
 Il romanzo si chiude proprio con l’arrivo dall’altra parte del mare: i colori, le architetture, la vegetazione e gli uccelli sanciscono l’approdo ad un nuovo inizio, proprio come accadeva a coloro che emigravano in Tunisia76. Il nuovo spazio su cui si affaccia la nave si carica di attese, di possibilità, innesca un confronto con il passato, con la terra abbandonata, accende speranze, suscita decisioni. Petro lascia significativamente cadere in mare il libro che l’anarchico Schicchi gli ha consegnato durante il viaggio, a sancire il suo rifiuto per ogni forma di violenza, la sua volontà di essere “solo come un emigrante, in cerca di lavoro, casa, di rispetto”77.
La prospettiva di chi guarda e vive il passaggio ad un nuovo spazio definisce e ridefinisce i contorni della realtà, quella che ha lasciato e quella a cui va incontro. La Tunisia non è per Petro un luogo neutro e nemmeno lo è la Sicilia. Allo stesso modo la terra di partenza e la Milano dell’arrivo vengono ridiscusse nell’esperienza
73 Non a caso il capitolo finale reca l’epigrafe virgiliana Longa tibi exilia et vastum maris aequor arandum (Aen. II 780) che permette di associare la Sicilia in preda all’alba fascista ad una Ilio in rovina e Petro in fuga all’eroe costretto a cercare una nuova terra. 74 Nottetempo, casa per casa, p. 752. Nell’intervista con Gambaro (F. Gambaro, V. Consolo, op. cit., p. 102) Consolo evidenzia l’importanza degli scambi tra le due rive del Mediterraneo, proprio a partire della vicenda degli italiani emigrati, perché essi permettono un arricchimento culturale e letterario. 75 Nottetempo, casa per casa, pp. 753-754. A proposito della comunità italiana in Tunisia si veda lo studio di Marinette Pendola (Gli italiani di Tunisia. Storia di una comunità (XIX-XX secolo), Ed. Umbra, “I Quaderni del Museo dell’emigrazione”, Foligno, 2007), curatrice anche del sito www.italianiditunisia.com, denso di informazioni storiche. 76 Nottetempo, casa per casa, p. 755. 77 Ibidem.
di migrazione che conduce i meridionali, negli anni del miracolo economico, alla volta del Nord. Come accade, d’altronde, allo stesso Consolo che, sebbene non si muova per fame ma per realizzazione intellettuale, sperimenta il passaggio, vive una ridefinizione dei luoghi. L’insistenza dell’autore sulla presenza significativa degli italiani in Maghreb e sugli innumerevoli scambi avvenuti tra l’una e l’altra riva del mare fin dal Medioevo va considerata in relazione al suo interesse per quell’emigrazione africana in Italia che ha avuto origine negli anni Sessanta e che non si è più arrestata. Le riflessioni a tal proposito sono estremamente lucide e inquadrano precocemente la questione. I primi lavoratori tunisini, forniti del semplice passaporto con il visto turistico e sprovvisti di quell’autorizzazione che permetteva un regolare contratto di lavoro, giungevano in Sicilia nel 1968. La presenza di questi primi immigrati, costretti a ritornare in patria alla scadenza del visto turistico, rispondeva alla domanda di lavoro a buon mercato da parte di proprietari terrieri e di armatori, per i quali reclutare questa manodopera e sfruttarne la condizione abusiva era senza dubbio un vantaggio. Ai primi immigrati si aggiunsero allora parenti e amici e il fenomeno si allargò78. “L’emigrazione in Italia dei poveri del Terzo Mondo”79 ha inizio a Mazara, proprio lì dove il 17 giugno 827 – ricorda Consolo citando Amari – sbarcavano i musulmani, città splendida e prestigiosa secondo il geografo Idrisi80. A distanza di secoli, scomparsa la bellezza del passato, dopo che miseria e crollo avevano generato quell’altra migrazione, “di pescatori, muratori, artigiani, contadini di là dal mare, a La Goulette di Tunisi, nelle campagne di Soliman, di Sousse, di Biserta”81, il miracolo economico degli anni Sessanta attivava di nuovo la rotta dal Nord Africa82.
78 Sul fenomeno si veda A. Cusumano, Il ritorno infelice, Sellerio, Palermo 1978. Consolo lo cita in diverse occasioni, ad esempio, Il ponte sul canale di Sicilia, Di qua dal faro, p. 1197. 79 L’olivo e l’olivastro, p. 865. 80 Ivi, p. 864. 81 Ivi, p. 865. 82 Ibidem. Si veda anche Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, pp. 1197-1198. Molti gli articoli sul caso di Mazara, ad esempio I guasti del miracolo, cit.; Morte per acqua, cit; “Ci hanno dato la civiltà”, cit. Ancora precedente l’articolo uscito su “Sans frontières” nel 1980 che si sofferma sulla storia di Mazara prima di concentrarsi sulla quarta guerra punica o guerra
L’inversione di rotta, di cui Consolo evidenzia la specularità rispetto a quella italiana, va a riempire i vuoti lasciati dall’altro flusso migratorio, quello dei meridionali verso il Nord, e, anche se il caso di Mazara ha una sua indiscussa esemplarità, il fenomeno, come si è detto, già all’origine riguarda un po’ tutto il trapanese: una terra che ha più di un tratto in comune con la regione di partenza83. Ma mentre, accennando alla somiglianza geografica e culturale delle due rive del Mediterraneo, riporta l’attenzione sulla vicinanza tra i popoli e sui risvolti positivi dello scambio del passato, Consolo lascia emergere la stortura del presente e individua in questa nuova migrazione l’inizio di una lunga serie di episodi di xenofobia e persecuzione84. Gli immigrati maghrebini, infatti, a Mazara in maniera significativa, ma anche altrove, divennero presto oggetto di sfruttamento, divennero strumento di speculazione politica, furono vittime di razzismo, caccia, di rimpatrio coatto. Nel 1999, in Di qua dal faro Consolo già lamenta l’assenza di previsioni, progettazioni, di accordi tra governi85. La vicenda dei tunisini del trapanese e quella di tutti coloro che hanno attraversato e attraversano le acque del Mediterraneo – ma in alcune pagine il discorso si estende al mondo intero – alla ricerca di una nuova vita sono parte di un’unica drammatica storia scandita dalle tragedie quotidiane di corpi senza vita86.
del pesce i cui protagonisti erano proprio i tunisini immigrati della casbah: Quatrième guerre punique, in “Sans frontières”, 30 settembre 1980. 83 Alla somiglianza tra Italia meridionale e Nord Africa Consolo fa riferimento in“Ci hanno dato la civiltà”, cit.. Sulla questione anche un articolo del 1981, Immigration africaine en Italie (“Sans frontières”, 3 gennaio 1981): l’Italia è la prima tappa dei migranti per necessità geografiche ma anche perché è una terra non veramente straniera. 84 L’olivo e l’olivastro, p. 865; Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, p. 1197. Nel precedente I guasti del miracolo (cit.) Consolo rileva lo scandalo del dopo terremoto di Mazara (7 giugno 1981): ai tunisini vengono negate le tende, perché stranieri e perché non votanti e quindi ininfluenti nelle imminenti elezioni regionali. 85 Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, pp. 1197-1198. 86 Uomini sotto il sole, in Di qua dal faro, p. 1202. In particolare l’espressione “d’altri, scoperti, gettati in pasto ai pescecani” allude ad un episodio specifico, già tema del racconto Memoriale di Basilio Archita (Le pietre di Pantalica, pp. 639-646): nel maggio 1984, l’equipaggio della nave Garyfallia, che al comando di Antonis Plytzanopoulos era salpata dal porto di Mombasa da poche ore, si rese colpevole della morte, in mare aperto, proprio in pasto ai
L’ombra del mito antico si affaccia a rappresentare il destino dei migranti: essi ripetono l’esilio di Ulisse, ma soprattutto sono Enea in fuga da una terra in fiamme, oppure sono Troiane, fatte schiave e costrette ad allontanarsi dalla propria patria87.
La condizione degli esseri umani nel mare nostrum sembra così trovare una sintesi nella citazione da Braudel – “in tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato”88–, originariamente riferita all’età di Filippo II. Ma ancor di più i versi eliotiani di Morte per acqua, che ritornano con frequenza sorprendente nei testi giornalistici e nelle prove narrative, riescono a parlare della realtà contemporanea. Già in Retablo l’episodio in cui la statua dell’efebo di Mozia si perde nel mare suscita la riflessione su un’altra perdita, che è ben più grave, quella delle vite umane che in ogni tempo si sono spente e si spengono nell’acqua, “sciolte nelle ossa” come Phlebas il fenicio89. In L’olivo e l’olivastro la citazione si lega esplicitamente alla memoria di un fatto di cronaca: nel 1981 il giovane Bugawi, vittima del naufragio del Ben Hur di Mazara, rimane in fondo al mare e “una corrente sottomarina / gli spolpò le
 pescecani, di un gruppo di clandestini. I migranti non vengono sacrificati solo nel Mediterraneo: la vicenda, infatti, come ricorda anche la voce narrante del racconto, il siciliano Basilio Archita, si svolge al largo delle coste del Kenia. I responsabili sono un “manipolo di orribili greci, dai denti guasti e le braccia troppo corte, mostri assetati di sangue e di violenza” (S. Giovanardi, Imbroglio siciliano, in “La Repubblica”, 2 novembre 1988; Id., Le pietre di Pantalica, in S. Zappulla Muscarà, Narratori siciliani del secondo dopoguerra, cit., pp. 179-182), insomma non hanno niente a che fare con i valori dell’antica Grecia. E anche la citazione di Kavafis, in bocca ad uno di loro, stride nel confronto con il terribile delitto. 87 Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, cit., o in I muri d’Europa, cit., p. 25. Entrambi i testi si aprono con citazione dalle Troiane di Euripide (vv. 45-47) e dall’Eneide di Virgilio (II 707-710). 88 Ad esempio a conclusione di Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, p. 1198; Il mare, in La mia isola è Las Vegas, p. 222; Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, cit.; I muri d’Europa, cit., p. 30; nel discorso al convegno per Psichiatria democratica, Il Mediterraneo tra illusione e realtà, integrazione e conflitto nella storia e in letteratura, cit. La citazione è tratta da F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II (F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, cit., pp. 981-982). 89 Retablo, p. 453.
ossa in sussurri”90. Ma anche i naufraghi di Scoglitti91 sono Phlebas il fenicio, e lo sono tutti i morti del Mediterraneo, tutti quelli che le carrette stracariche e le responsabilità umane hanno lasciato affogare92. Dal 2002 in poi Consolo interviene in maniera decisa e con la consueta indignazione sull’intensificarsi del fenomeno migratorio e sulle responsabilità della politica. Già un testo del ‘90 evidenzia l’ampliamento smisurato del braccio di mare tra Sicilia e Nord Africa, ovvero, la distanza economica creatasi tra i due mondi93. Ancora di più gli articoli successivi, suscitati in particolare dalla legge Bossi Fini, si concentrano sul contrasto evidentissimo, soprattutto a Lampedusa e nelle altre Pelasgie, tra l’opulenza del turismo nella natura incontaminata e la disperazione dell’approdo dei migranti94. Il procedimento antifrastico con cui Consolo si finge sostenitore delle ragioni dei ricchi vacanzieri contro gli sbarchi invadenti degli stranieri evidenzia lo stridere dei due mondi: “Ma lì, a Lampedusa, inopinatamente vi giungono anche, mannaggia, gli emigranti clandestini”95. Così la bella Lampedusa diventa nuovamente scenario di guerra contro l’infedele, come nel poema ariostesco. Se la Lipadusa del Furioso, “piena d’umil mortelle e di ginepri / ioconda solitudi
90 L’episodio è rievocato, con citazione da Eliot, in L’olivo e l’olivastro, pp. 865-866. Nel giugno del 1981 appena dopo il terremoto che aveva colpito Mazara, gli armatori ebbero fretta di rimandare in acqua le navi. Nel naufragio del Ben Hur morirono cinque mazaresi e due tunisini. L’identità di questi rimase ignota per diversi giorni: un indizio della condizione di sfruttamento e illegalità in cui lavoravano gli stranieri. Sullo stesso episodio, sempre con riferimento a Phlebas il fenicio, si veda il già citato Morte per acqua, cit., o “Ci hanno dato la civiltà”, cit. 91 Dedicato ai morti per acqua, in “L’Unità”, 29 settembre 2002. La citazione dei versi di Eliot chiude l’articolo e, che mi risulti, è l’unico caso in cui il passo è riportato per intero. Consolo si riferisce a quanto avvenuto il 24 settembre 2002: uno scafista abbandona a 300 metri dalla spiaggia di Scoglitti il suo carico di migranti; le onde impediscono l’approdo, muoiono 14 persone. 92 Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, cit., o in I muri d’Europa, cit., p. 29. Meno esplicito il riferimento a Eliot in Immigrati avanzi del mare, in “L’Unità”, 18 giugno 2003, dove è l’aggettivo “spolpato” (“qualche corpo gonfio o spolpato finisce nelle reti dei pescatori”) che allude a Phlebas il fenicio. 93 Cronache di poveri venditori di strada, cit. 94 Il mondo di Bossi Fini stupido e spietato, in “L’Unità”, 29 agosto 2002. 95 Ibidem.
ne e remota / a cervi, a daini, a caprioli, a lepri”96, ospita il triplice duello di Orlando, Brandimarte e Oliviero contro i saracini Gradasso, Agramante e Sobrino, nel Duemila l’isola, divenuta da “remoto scoglio”, “meta ambitissima del turismo esclusivo”, è luogo d’approdo di pescherecci e gommoni che rovesciano il loro carico di clandestini: “i nuovi turchi, i nuovi invasori saracini”97. E – ancora è dominante l’antifrasi –, se non ci sono gli antichi paladini a combatterli e neppure le navi militari auspicate da Bossi, c’è però il mare “quel fascinoso mare azzurro e trasparente che d’improvviso s’infuria e travolge ogni gommone o peschereccio”98. Tanto più assurde si rivelano le leggi per gestire gli arrivi e, se già prima della Bossi Fini, Consolo lamentava la violazione sistematica dei diritti dell’uomo, dopo il 2002 è ancora più duro. Bersaglio polemico sono le nuove normative, più rigide di quelle previste dalla legge Martelli o dalla Turco-Napolitano: le nuove disposizioni prevedono che le carrette siano bloccate in acque extraterritoriali, “forse anche speronate e affondate. Con tutto il loro carico umano”99. Bersaglio polemico sono i centri di prima accoglienza che – scrive – non meriterebbero questo nome, perché piuttosto di lager si tratta, luoghi atroci, di violenza e umiliazione100. Bersaglio polemico è la diffusione di sentimenti xenofobi, suscitati dalla politica nella mentalità comune, ben rappresentata dall’io narrante del racconto eponimo di La mia isola è Las Vegas che invoca la costruzione di muri d’acciaio per arrestare la marea dei migranti101. In quest’ottica di critica alla nuova legge e all’inadempienza del dovere morale verso i migranti va letta la netta opposizione di Consolo al progetto di un museo della migrazione a Lampedusa, promosso nel 2004 dalla deputata regionale dell’Udc Giusy Savarino. A lei l’autore si rivolge pubblicamente dalle pagine di “La
96 Ariosto, Orlando Furioso, XL 45 vv. 3-4. Il passo è ricordato da Consolo in Lampedusa è l’ora delle iene, “L’Unità”, 28 giugno 2003. Ma si veda anche Isole dolci del dio, cit., pp. 33-35. 97 Lampedusa è l’ora delle iene, cit. 98 Ibidem. 99 Il mondo di Bossi Fini stupido e spietato, cit. 100 Ibidem ma anche Immigrati avanzi del mare, cit. 101 La mia isola è Las Vegas, in La mia isola è Las Vegas, p. 217.
Repubblica”, accusando l’ipocrisia profonda di una tale iniziativa102 e riflettendo su quanto sia irrimediabilmente compromessa l’identità dello spazio mediterraneo. Che cosa rimane del mare di miti e storia? Che cosa della mirabile convivenza tra culture diverse? Il monito dei reperti archeologici, delle narrazioni risulta poca cosa di fronte al mutamento dello sguardo collettivo sancito da leggi xenofobe e lager mascherati da centri di accoglienza: il mare si è fatto frontiera, confine, che gli altri, gli stranieri, non devono superare. Ed è contemporaneamente cimitero, spazio del sacrificio, della tragedia. Perciò il progetto di un museo a Lampedusa, l’isoletta dell’ariostesca lotta contro l’infedele, è, per Consolo, strumento di una retorica ipocrita, che non è giusto appoggiare: che senso avrebbe un monumento all’emigrazione, quando proprio i migranti vengono combattuti, respinti, lasciati morire in mare? Ma, d’altra parte, è il mondo intero ad aver subito una metamorfosi: si è mutato agli occhi dell’autore in un “im-mondo”, ovvero negazione di se stesso, perché preda della follia. La ripetizione dell’aggettivo “nostro”, associato sia allo spazio stravolto che alla massa di cadaveri, assume, nel testo in versi Frammento, toni accusatori, richiamando gli esseri umani alle proprie responsabilità nei confronti della morte di innocenti.

Nostri questi morti dissolti
nelle fiamme celesti,
questi morti sepolti
sotto tumuli infernali,
nostre le carovane d’innocenti
sopra tell di ceneri e di pianti.
Nostro questo mondo di follia.
 Quest’im-mondo che s’avvia…
103

102 Solo un monumento per gli immigrati, in “La Repubblica”, 21 agosto 2004. Sulla questione Consolo si era già espresso qualche giorno prima: Perché non voglio quel museo, in “La Repubblica”, 19 agosto 2004. 103 Frammento, in Per una Carta “visiva” dei Diritti civili, Viennepierre, Milano 2001, anche in “Microprovincia”, 48, gennaio-dicembre 2010, p. 5.

La Sicilia tra mito e storia. Da Sant’Agata a Cefalù. La Gnoseologia dei luoghi nell’opera di Vincenzo Consolo

CONSOLO, Vincenzo

Paola Villani

Sesto di otto figli, nacque a Sant’Agata di Militello (Messina)  il 18 febbraio 1933, da Calogero (1898-1962) e Maria Giallombardo (1900-88).

Il padre, commerciante alimentare e poi piccolo imprenditore con la nascita della ditta ‘Fratelli Consolo Cereali’ nel 1939, trasmise al figlio i tratti di un’etica rigorosa, dimostrata anche contro la mafia, la quale nell’immediato dopoguerra veniva organizzando in tutta la Sicilia il controllo delle attività economiche.

Anche evocando il celebre testo di Luigi Pirandello sulla propria nascita nella contrada del Caos, Consolo ricordò i luoghi d’infanzia, le sue origini e la sua prima educazione nel romanzo d’esordio, La ferita dell’aprile (Milano 1963), dedicato «con pudore» a suo padre, scomparso proprio in quell’anno.

Iniziava una progressiva centralità della Sicilia nella sua personalità di uomo e di scrittore, di intellettuale al bivio tra saggistica e letteratura, in una contaminazione di ‘generi’ che ha sempre distinto le sue pagine e che trova in Leonardo Sciascia, maestro dell’ibridismo, un decisivo modello.

La sua terra di origine si rivela come presenza «ossessiva», con un forte valore identitario, storico ma anche simbolico, che segna in parte il destino di uno scrittore «anfibio», tra terra e mare, tra passato e presente. Sicilia come luogo, tema, personaggio, persino struttura narrativa; quasi ad annodare, in una profonda corrispondenza e circolarità, i fili dell’amplissimo e diversificato corpus letterario dello scrittore, da La ferita dell’aprile al postumo La mia isola è Las Vegas: «tutti i romanzi, se ordinati in base alla cronologia dei fatti descritti o allusi, compongono, per momenti decisivi, una storia della Sicilia degli ultimi duecentocinquant’anni» (C. Segre, Un profilo di V. C., in V. Consolo, L’opera completa, a cura di G. Turchetta, Milano, 2015, p. XIV). Questa sicilianità «ostinata» e «implacabile» (v. G. Turchetta, Da un luogo bellissimo e tremendo, ibid., pp. XXV-LXXIV, con partic. riferimento a p. XXV) emerge spesso nella declinazione, tematica e metaforica, del viaggio, che è spostamento fisico ma anche attraversamento di tempi e luoghi, sfida all’ignoto e continua tensione verso un altrove; nella duplice direzione della partenza e del nostos che richiama il grande archetipo omerico, l’Odissea, il «poema in cui per la prima volta si apre davanti ai nostri occhi lo spazio mediterraneo» (Lo spazio in letteratura, in Di qua dal faro, poi in L’opera completa, cit., p. 1239). Eppure, «nella modernità, le colpe non sono più soggettive, ma oggettive, sono della storia. I mostri non sorgono più dal mare, dalla profondità del subconscio, ma sono mostri concreti, reali, che tutti noi abbiamo creato […] Itaca non è più raggiungibile. Questo, secondo me, lo scrittore oggi ha il compito di dire, di narrare» (in V. Consolo – M. Nicolao, Il viaggio di Odisseo, introd. di M. Corti, Milano 1999, p. 22). Nel tragico confronto tra passato mitico e desolato presente, la sua terra gli appare aver perso tutti i connotati di un approdo. Si ripropone la sofferta diaspora, e il doloroso ritorno, degli scrittori meridionali; la «dolorosa saggezza» e la «disperata intelligenza» di cui Consolo ragiona ne Le pietre di Pantalica, come declinazione personale del paradigma della «intelligenza siciliana» di Vitaliano Brancati. Non è un caso se nel laboratorio della scrittura, oltre alla lezione di Italo Calvino o Cesare Pavese, affiora il realismo lirico-fantastico di Elio Vittorini o la prosa di cose di Giovanni Verga, Federico De Roberto, ma anche Pirandello.

Gli anni della guerra per il giovanissimo Vincenzo trascorsero relativamente tranquilli fino al 1943, quando gli americani, in preparazione dello sbarco, diedero avvio a massicci bombardamenti che coinvolsero la zona di Sant’Agata, sulla linea strategica Messina-Palermo, e che costrinsero la famiglia Consolo a ‘sfollare’ in campagna, nella contrada di Vallebruca. Dopo le scuole medie all’istituto salesiano Guglielmo Marconi, l’assenza di scuole pubbliche di grado secondario lo condusse nel 1947 al primo allontanamento da casa, per frequentare il liceo-ginnasio salesiano Luigi Valli a Barcellona Pozzo di Gotto, a ottanta chilometri da Sant’Agata. Era già chiara la sua passione per la lettura. Nelle pause scolastiche approfittava di un cugino del padre, Peppino Consolo, che possedeva una pur scarna biblioteca con alcuni classici della letteratura, da Manzoni a Hugo o Balzac, ai romanzieri russi.

Negli anni liceali si collocano i primi esercizi di scrittura, anche su suggestione di due letture che si rivelarono decisive: Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini e Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi. Iniziava allora una lunga ricerca sulle lingue, anche antiche. La sperimentazione di nuovi codici, registri e linguaggi si veniva costituendo in una «ideologia» precisa e insieme fluida e mai conclusa, tradotta in racconto con I linguaggi del bosco (in Le pietre di Pantalica, poi in L’opera completa, cit., pp. 606-612).

Nell’autunno del 1952 giunse il primo trasferimento, «traumatico», a Milano, per frequentare la facoltà di giurisprudenza dell’Università Cattolica. Fu in quei primi anni universitari che conobbe Basilio Reale, l’amico Silo che lo introdusse alla casa editrice Mondadori (cfr. Sirene siciliane, Palermo 1986; poi in Di qua dal faro, cit.), e Lucio Piccolo, il «barone magico» delle Pietre di Pantalica: «grande poeta di sconfinata cultura, cugino e antagonista di Tomasi di Lampedusa. Fu lui a insegnarmi la vera letteratura, la poesia e, insieme, a farmi amare certi libri di erudizione provinciale, ottocentesca, storie, guide, cataloghi, ‘pieni di insospettabile poesia’ diceva, che furono miniere lessicali per me» (Fuga dall’Etna, Roma 1993, p. 18).

Costretto a interrompere gli studi per assolvere gli obblighi del servizio militare (dapprima a Orvieto e poi a Roma), riprese il percorso universitario nel 1957, stavolta a Messina, per laurearsi quindi nel 1960 discutendo una tesi in filosofia del diritto dal titolo «La crisi attuale di diritti della persona umana».

I PRIMI GRANDI ROMANZI

Il primo testo a stampa risale al 1957, Un sacco di magnolie, apparso a firma «Enzo Consolo» nella rivista La parrucca (poi in La mia isola è Las Vegas, a cura di N. Messina, Milano 2012, pp. 8-10) che vantava collaboratori come Umberto Eco, Giorgio Manganelli o Edoardo Sanguineti. Il suo esordio come romanziere è invece La ferita dell’aprile (cit.) che, dopo lunga gestazione, apparve nel 1963 per Mondadori nella collana «Il Tornasole» di Niccolò Gallo e Vittorio Sereni, con l’assistenza redazionale di Raffaele Crovi: «Mi sono ritrovato fatalmente nel solco sperimentale di Gadda e Pasolini, di D’Arrigo e Mastronardi, anche. Non era ancora apparso all’orizzonte il Gruppo ’63, dal quale in ogni caso mi avrebbe tenuto ben lontano un forte senso di appartenenza alla tradizione letteraria» (Fuga dall’Etna, cit., p. 15). Forse anche per quella coincidenza cronologica con le spinte avanguardistiche, il romanzo quasi sfuggì all’attenzione di critica e di lettori. Suscitò invece l’interesse di Sciascia, al quale Consolo aveva inviato il libro allegando una lettera nella quale gli dichiarava il suo debito come scrittore. Era l’inizio di una salda e duratura amicizia, alla quale Consolo dedicò numerose pagine, molte delle quali raccolte nella sezione Intorno a Leonardo Sciascia del volume Di qua dal faro (cit., pp. 1161-1184).

La ferita dell’aprile, «poemetto narrativo» da leggersi anche come Bildungsroman autobiografico, costituisce un unicum nella carriera dello scrittore. Nel racconto della vita di un paese siciliano e delle lotte politiche del dopoguerra, la narrazione in prima persona (di cui Consolo non usufruì nei romanzi successivi) è impostata cronologicamente come diario di un anno scolastico e mette in scena i turbamenti dell’uscita dall’infanzia, nell’intreccio tra vicende personali dei protagonisti e storia d’Italia.

Sin dall’esordio emerge con forza, nella scrittura, quella centralità della parola che ha connotato fortemente l’intera sua produzione, fino a consacrarlo come ‘autore difficile’, ‘enigmatico’: «Mi ponevo […] sul crinale della sperimentazione, mettendo in campo una scrittura fortemente segnata dall’impasto linguistico» (in Adamo, 2006, p. 183).

L’attento lettore e saggista seguiva da vicino il dibattito sulla letteratura contemporanea. A segnare profondamente quella stagione fu anche la pubblicazione in Rinascita, del noto saggio di Pasolini, Nuove questioni linguistiche, apparso nel dicembre 1964, alla vigilia della pubblicazione del primo capitolo del Sorriso dell’ignoto marinaio, e anche della stesura di Il pane (1964), dei racconti Grandine come neve, Befana di novembre (1965) e Triangolo e Luna (1966), poi inclusi in La mia isola è Las Vegas (cit.).

Nel 1964 prese a scrivere per L’Ora di Palermo, giornale allora diretto da Vittorio Nisticò; era l’inizio di una lunga collaborazione che lo impegnò fino al 1975 e poi ancora dal 1977 al 1991, e che vide Consolo anche titolare di una rubrica di successo, «Fuori casa», inaugurata nel dicembre 1968. Nel racconto Per un po’ d’erba ai margini del feudo (in L’Ora, 16 aprile 1966, poi incluso da Sciascia nell’antologia Narratori siciliani curata per Mursia insieme con Salvatore Guglielmino), forte anche della lettura del fortunato saggio di Hans Magnus Enzensberger Letteratura come storiografia (in Il Menabò, 1966, n. 9), inaugurava un nuovo modo narrativo, fondato sull’intreccio tra fiction e storia, racconto e documenti, che avrebbe poi preso corpo nel suo maggiore romanzo.

Nello stesso 1966 si collocano per Consolo viaggi significativi: uno nella valle del Belice, che torna nel racconto del 1984, Il drappo rosso con le spighe d’oro, e la trasferta a Parigi con Sciascia, il quale nello stesso 1966 aveva dato vita al premio Brancati di Zafferana Etnea coinvolgendo, oltre ad Alberto Moravia, Dacia Maraini e Pier Paolo Pasolini, anche i siciliani Ignazio Buttitta, Lucio Piccolo e naturalmente Consolo.

Nel 1967, l’anno nel quale Pasolini pubblicava in Nuovi Argomenti la prosa poetica di Lucio Piccolo L’esequie della luna da cui nacque lo spunto per Lunaria, Consolo vinse un concorso per la RAIInterruppe quindi l’insegnamento nelle scuole secondarie di secondo grado e, nel gennaio 1968, prese servizio presso la sede di Milano. Era un trasferimento destinato a essere definitivo, che segnò la vita e l’opera dello scrittore. Ad accoglierlo in azienda fu, tra gli altri, Caterina Pilenga, che aveva apprezzato il suo poco noto romanzo La ferita dell’aprile e che divenne compagna della vita, e moglie con rito civile dal 1986.

Quel trasferimento, in quel «momento di acuta storia», per l’acceso dibattito politico e culturale e per il duro conflitto sociale, fu una decisiva cesura, uno snodo sul quale spesso Consolo avrebbe riflettuto, non senza ripensamenti. Era una declinazione tragica del tema del contrasto di dimensione spazio-temporale, la sua protesta contro luoghi e tempi rispetto ai quali si sarebbe spesso sentito estraneo: la Milano di allora, l’«attiva, mercatora» città, e in particolare la RAI, «completamente ipotecata dal potere politico, dalla mafia partitica».

Pur mai rinunciando al suo carattere anarcoide, che lo portò non di rado ad aperte contestazioni, quella del servizio pubblico televisivo fu in effetti una postazione privilegiata per penetrare il paesaggio della letteratura contemporanea che Consolo lettore e critico ben conosceva; in una posizione insieme scomoda ma anche centrale di giornalista, che rivive nel personaggio Antonio Crisafi del racconto La pallottola in testa (poi in La mia isola è Las Vegas, cit., pp. 157-162).

Stabilitosi a Milano, Consolo prese a frequentare la casa sui Navigli della compagna di Vittorini, Ginetta Varisco, un cenacolo culturale animato tra gli altri da Carlo Bo, Italo Calvino, Paolo Volponi e Salvatore Quasimodo. Intanto lesse, destinati a incidere il suo percorso di scrittura, Manifesto per un nuovo teatro di Pasolini, pubblicato in Nuovi Argomenti, e Appunti sulla narrativa come processo combinatorio di Calvino, apparso in ‘Nuova Corrente’.

In quel ‘caldo’ 1968 aveva anche inviato a Paragone, la rivista diretta da Roberto Longhi e Anna Banti, un racconto intitolato Il sorriso dell’ignoto marinaio: si trattava del primo capitolo del futuro capolavoro, che tuttavia non venne accolto dalla rivista e apparve in Nuovi Argomenti, per volontà di Enzo Siciliano, nell’ultimo numero della stessa annata.

Nel 1975, dopo il rallentamento subìto negli anni precedenti, l’attività giornalistica s’intensificò. Nell’autunno del 1976 Consolo iniziò a collaborare anche con La Stampa e Il Corriere di Sicilia; dal dicembre 1977 con il Corriere della sera e, dal 1980, col Messaggero. Era un lavoro che non solo non si interruppe ma che, attraverso l’impegno profuso in numerosi quotidiani e periodici, anche stranieri, si prospettò infine come possibile impegno esclusivo: «Ho cercato di lasciare Milano nel 1975, perché non volevo più scrivere, non volevo più fare lo scrittore […]. Mi sono detto ‘farò il giornalista a vita’, perché mi sembra importante fare il giornalista, soprattutto in una città di frontiera com’era Palermo a quell’epoca» (in Pintor, 2006, p. 252).

Era la vigilia dell’uscita del romanzo, che avrebbe fatto conoscere Consolo al grande pubblico. Nell’autunno del 1975, infatti, all’insaputa dell’autore, apparve l’edizione Manusè del Sorriso dell’ignoto marinaio, per interessamento della compagna Caterina e di Sciascia, con un’acquaforte di Renato Guttuso. Dopo diverse proposte editoriali, e con un crescente interesse di pubblico e di critica, il romanzo apparve in versione definitiva nel 1979 per Einaudi, la casa editrice con la quale collaborava dal 1976 su proposta dell’amica Elsa Morante e dello stesso Giulio Einaudi; mentre già si diffondevano le traduzioni e mentre la RAI commissionò un progetto (mai realizzato) di sceneggiatura allo stesso Consolo e al regista Salvatore Maira.

Il romanzo richiama nel titolo il sorriso enigmatico raffigurato nel Ritratto di ignoto di Antonello da Messina. L’intreccio prende corpo intorno a tre elementi, che si fanno nuclei narrativi: il fascino esercitato dalla preziosa tavoletta pittorica ammirata già nell’estate del 1949 presso la Casa-museo Mandralisca; l’interesse per la storia della rivolta contadina di Alcàra Li Fusi, innescata dall’arrivo di Garibaldi; l’inchiesta sui cavatori di pietra pomice delle isole Eolie ammalati di silicosi. Ne vien fuori una complessa architettura narrativa, più volte letta come anti-Gattopardo; pur con moduli espressivi e pur da postazioni ideologiche e artistiche molto differenti, al centro di entrambi i romanzi è la Sicilia percorsa dai moti risorgimentali, liberata (o occupata) dai Mille. In tale prospettiva, Il sorriso può intendersi come epigono della tradizione del racconto storico siciliano per ridisegnare l’epopea risorgimentale sullo sfondo del quadro storico-sociale negli anni dello sbarco garibaldino: una tradizione «sempre critica, antirisorgimentale», che da Verga, attraverso De Roberto e Pirandello, arrivava a Sciascia e Tomasi di Lampedusa. La complessità strutturale e stilistica giustifica la lunga gestazione del testo. La trasposizione del tempo storico all’immediato presente, la riflessione sulla lingua e la stessa tessitura linguistica, impastata di dialetti e gerghi tecnici, sembrano confermare la natura più autentica della narrativa di un autore che, sul modello di Zola, «abdica, per così dire, alla sua condizione di letterato per divenire intellettuale, ‘politico’» (Letteratura e potere, [1979], in Di qua dal faro, cit., p. 1168); la decisione di «non scrivere in italiano» era una forma di «ribellione alle norme» e alla storia, una «uccisione del padre» (in Sinibaldi, 1988, p. 12).

Nella contaminazione tra inserti documentari e narrazioni d’autore, in una costante sovrascrittura per la quale è stata richiamata la tecnica chirurgica del «trapianto» (O’ Connell, 2008, p. 165), il romanzo evoca le sperimentazioni novecentesche, il pastiche gaddiano o lo sperimentalismo pasoliniano, pur con una declinazione personalissima, a tratti neobarocca; in una raffinatezza strutturale, di carattere anche simbolico, che si rivela in una «costruzione a chiocciola», concentrica e labirintica, sulla quale ha insistito un fortunato saggio di Cesare Segre (Segre, 1987). A sostenere questo complesso impianto è, però, anche la grande tradizione del romanzo storico, e naturalmente il suo primo modello, il Manzoni dei Promessi sposi e della Storia della colonna infame.

Continuava intanto l’attività di scrittura come protesta e insieme documento, in quei caldi ‘anni di piombo’, di attentati e inchieste, che Consolo tradusse anche in racconto nel riuscito Un giorno come gli altri (1981) inserito poi da Enzo Siciliano nel «Meridiano» dei Racconti italiani del Novecento.

GLI ANNI OTTANTA E IL DITTICO BAROCCO DI LUNARIA E RETABLO

Anche sull’onda del successo del Sorriso, negli anni Ottanta Consolo intensificò l’attività di scrittura nella ricerca di nuove forme espressive, come mostra l’ampio ventaglio di progetti ai quali lavorò: un singolare romanzo giallo, Morte del giardiniere (1981); un libro saggistico sul Movimento indipendentista siciliano (1981); l’ipotesi di una sceneggiatura sulla vita di Giovanni Pascoli, alla quale si dedicò a Roma nel 1982 con Vincenzo Cerami per un film che avrebbe dovuto esser realizzato da Marco Bellocchio; il progetto di una inchiesta su una vicenda criminale degli anni Cinquanta (i frati estorsori di Mazzarino, primo nucleo narrativo di Le pietre di Pantalica); la traduzione, insieme con Dario Del Corno, di Ifigenia fra i Tauri di Euripide, che andò in scena nel 1982 al Teatro antico di Siracusa.

Nel novembre 1983 discusse con l’allora giovanissimo regista Roberto Andò il progetto di un testo teatrale tratto dal citato poemetto in prosa di Lucio Piccolo, Le esequie della luna; ne nacque invece Lunaria, favola teatrale ambientata nella Palermo settecentesca che apparve nei «Nuovi Coralli» di Einaudi (Torino 1985) e che gli valse il premio Pirandello.

La scrittura degli anni Ottanta sembra, almeno in parte, allontanarsi dalle ardite sperimentazioni formali e linguistiche del Sorriso. Tanto Lunaria (cit.) quanto Retablo (Palermo, 1987) sembrano aprirsi a forme più distese, costruite su vicende ambientate in un Settecento colmo di riferimenti storici e insieme estraneo a documentazioni rigorose, con una libertà di invenzione che mancava alle opere precedenti.

Nella profonda tensione etica, la scrittura si sarebbe liberata dallo scavo della realtà autobiografica e storica proprio con Lunaria, che può anche leggersi come semplice allegoria della solitudine dello scrittore. Nella Palermo settecentesca si muove il malinconico Viceré Casimiro, che sogna la caduta della luna, turbato da fantasmi di una diversa realtà, in una visione che si fa presagio che s’invera. Con un’apertura della prosa verso la poesia, quella poesia alla quale pure Consolo si dedicò (Accordi. Poesie inedite di V.C., a cura di F. Zuccarello – C. Massetta Milone, S. Agata di Militello 2015), ‘Lunaria’ vira decisamente in direzione del fantastico, ma anche del conte philosophique, che però attinge alla fortunata tradizione popolare del cuntu, come anche alle suggestioni del teatro barocco, Calderón de la Barca in testa (cfr. Di Legami, 1990, p. 28). Nel giugno 1986 l’opera andò per la prima volta in scena, a Roma, con la Cooperativa Quarta espressione, costituita da giovani diplomati dell’Accademia drammatica Silvio d’Amico.

Si moltiplicava, intanto, la rete di relazioni significative (da José Saramago ad Alberto Moravia), mentre proseguiva con Sciascia una salda amicizia, che lo spinse a pubblicare un articolo (Difficile mestiere scrivere da uomo libero, in Il Messaggero, 27 gennaio 1987), in difesa dello scrittore di Racalmuto travolto dalle polemiche suscitate da I professionisti dell’antimafia, apparso nel Corriere della sera il 10 gennaio 1987.

In seguito all’insistente invito di Elvira Sellerio, nell’estate del 1987 Consolo raggiunse Palermo per lavorare a Retablo, che apparve (dopo l’anticipazione di alcuni capitoli in la Repubblica) nell’ottobre 1987, con cinque disegni di Fabrizio Clerici. Retablo riscosse grande successo di pubblico e gli valse il premio Grinzane Cavour e il premio Racalmare. Nel 1997 Sebastiano Romano ne realizzò una lettura scenica a Milano, nella chiesa sconsacrata di San Paolo Converso, per la regia di Richi Ferrero e dello stesso Romano. Una versione teatrale, scritta da Ugo Ronfani, andò in scena nel 2001 al teatro stabile di Catania e poi a Milano.

L’opera segna per molti aspetti uno snodo all’interno della produzione di Consolo che, sensibile agli esiti della narrativa italiana e straniera (da Calvino a Manganelli, da Perec a Borges), pone al centro della narrazione romanzesca una stringente interrogazione sulla scrittura. Nella reiterata sovrapposizione tra storia e invenzione, persone e personaggi, Retablo, che richiama l’arte pittorica sin dal titolo, segue le vicende di un intellettuale e artista in fuga da Milano verso la Sicilia alla ricerca della matrice culturale e umana della donna che ama, Teresa Blasco (nella storia, la madre di Giulia Beccaria). Intorno al protagonista-pittore si dipana un intreccio tra letteratura e arti visive, ormai divenuto centrale nella scrittura di Consolo (Cuevas, Ut pictura: el imaginario iconografico en la obra de V. C., in Cuevas, 2005, pp. 63-77); fino a una immaginazione visiva che punta sulla centralità dei luoghi, in una personale geografia esistenziale. Retablo infatti è costruito sul modello odeporico, che richiama, per rinnovarla, la tradizione dei racconti del Grand Tour oltre che del modello classico del nostos, che utilizzò poi anche nelle narrazioni successive, nella opposizione geostorica Milano-Sicilia.

Il 1989 segnò per Consolo il ritorno alla forma tragica, con un testo redatto insieme con gli amici Gesualdo Bufalino e Leonardo Sciascia, Trittico appunto, andato in scena al teatro stabile di Catania il 3 novembre 1989 per la regia di Antonio Calenda (poi in volume, Catania 1989). L’atto unico di Consolo, Catarsi, si accompagnava a La panchina di Bufalino e a Quando non arrivarono i nostri, rielaborazione drammaturgica di una novella di Sciascia.

LA TRILOGIA DEGLI ANNI NOVANTA

La sincera passione civile, declinata spesso nel segno della protesta, non si tradusse mai nella partecipazione attiva alla politica – nonostante i ripetuti inviti a una sua candidatura avanzati dal Partito comunista italiano (PCI) di Achille Occhetto – ma certo animò la sua scrittura, nella battaglia ingaggiata tra le parole e le cose. All’indomani dell’assassinio del giudice Rosario Livatino, il 21 settembre 1990, in un acceso clima di rivendicazioni e polemiche, decise di dimettersi dalla giuria del premio Racalmare, che intanto era stato intitolato a Sciascia, scomparso l’anno precedente.

È nel segno di questa protesta che si inserisce anche lo studio e il racconto della Sicilia, che Consolo continuava a osservare e denunciare: l’isola tra mito e storia, la terra dalla quale idealmente non riuscì mai a separarsi, sul piano intellettuale e artistico, eppure nella quale non tornò mai a vivere. È in questa prospettiva che può leggersi quella che sembra configurarsi quasi come trilogia: Nottetempo, casa per casa (Milano 1992), L’olivo e l’olivastro (ibid. 1994) e Lo spasimo di Palermo (ibid. 1998), sotto il segno del definitivo tramonto dell’utopia, nell’accentuazione di una dimensione simbolica della storia e della realtà.

Dopo una serie di ritratti di scrittori lombardi realizzati in RAI nel 1991 con il titolo Tracciati (Piero Chiara, Carlo Emilio Gadda, Lucio Mastronardi, Ada Negri, Vittorio Sereni, Delio Tessa e Giovanni Testori), nel 1992 Nottetempo, casa per casa (cit.), che fu insignito con il Premio Strega, rappresentò un ritorno al romanzo storico, come già forse, in parte, Le pietre di Pantalica (Milano 1988), stratificato e multigenere, la cui struttura tripartita (Teatro, Persone, Eventi) rimandava ancora una volta al teatro.

Al progetto narrativo di Nottetempo Consolo lavorava almeno dalla fine degli anni Sessanta, quando aveva cominciato a raccogliere materiali e documenti sul risorgimento in Sicilia, sulla strage di Alcàra Li Fusi e sulla Cefalù degli anni Venti alle prese con il controverso caso del “santone” Aleister Crowley. L’opera sembra segnare il secondo tempo di una ideale lunga storia della Sicilia, una fase successiva al Risorgimento del Sorriso e precedente agli anni Novanta di Lo spasimo di Palermo (1998). «In Nottetempo ho voluto far vedere come il fascismo fosse figlio della follia, la follia privata del protagonista e quella pubblica della Storia, il ricorso al satanismo che voleva distruggere il cristianesimo di una società malata: tutti segni oscuri e premonitori, come quelli che vediamo oggi con il ritorno a queste ridicole forme di esorcismo, questi fondamentalismi, questi revanscismi» (in Parazzoli, 1998, p. 28).

Continuava la sua forte militanza civile: le proteste contro l’elezione di Formentini a sindaco di Milano, o le dimissioni, all’indomani della nomina, il 10 settembre 1993, dalla carica di presidente del consiglio di amministrazione del teatro stabile di Palermo, in polemica con il direttore artistico Pietro Carriglio, ritenuto «intellettuale organico alla DC di Salvo Lima».

Questa forte militanza proseguì con maggiore libertà dopo il suo collocamento in pensione dalla RAI, nel 1993. In seguito alla vittoria di Silvio Berlusconi alle elezioni politiche, Consolo aderì al Forum Manifesto democratico 1994, promosso da Cesare Segre, Raffaele Fiengo e Corrado Stajano. Intanto, il 25 giugno di quell’anno partecipò a un dibattito coordinato da Renato Nisticò da cui sarebbe nato il testo Fuga dall’Etna (cit.)nuova testimonianza di una sicilianità che trovò riconoscimento anche nella cittadinanza onoraria di Cefalù, cui seguì, nel 1996, la stessa onorificenza da parte del Comune di Santo Stefano di Camastra. Ed è sempre la Sicilia al centro del volume del 1994, L’olivo e l’olivastro, che nel consueto superamento dei confini di ‘generi’ compiuto da Consolo, nell’intreccio tra poesia e prosa, narrazione e saggismo, che per alcuni richiama l’Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, si presenta come graffiante narrazione di viaggio. Il doloroso ritorno di Odisseo-Consolo verso l’Itaca-Sicilia è «un viaggio in verticale, una discesa negli abissi». Come Retablo, anche L’olivo e l’olivastro conduce il lettore attraverso la Sicilia di un presente degradato, che si confronta con il passato mitico.

Nel dicembre dello stesso 1994 ricevette per il complesso della sua opera narrativa e saggistica il premio internazionale Unione Latina da una giuria composta, tra gli altri, da José Saramago, Jorge Amado, Luigi Malerba.

In questi anni Novanta la presenza internazionale di Consolo si andò rafforzando. Nel 1995, su invito dell’allora presidente Salman Rushdie, divenne membro del Parlament international des écrivains (PIE) di Strasburgo. Tra dicembre 1995 e gennaio 1996 a Parigi andò in scena La crèche de Sicile, rappresentato anche a Palermo l’anno dopo. Il 15 febbraio 1996 il ministro della Cultura francese Philippe Douste-Blazy lo nominò chevalier dans l’Ordre des Arts et des lettres. Ormai anche socio onorario dell’Accademia di Brera, nel 1996 fu inoltre in Argentina con una delegazione di scrittori italiani, su invito dell’Università di Buenos Aires; seguirono quindi viaggi a Strasburgo, Santiago del Cile e nella Bosnia-Erzegovina della guerra.

Alla Sicilia continuano a essere dedicate anche le sue opere mature. Il 19 giugno 1998 venne eseguita al teatro Verdi di Firenze, l’Ape iblea. Elegia per Noto, musicata da Francesco Pennisi (poi, insieme con Catarsi, raccolto nel volume Oratorio, Lecce 2002). Pochi mesi dopo apparve il suo ultimo romanzo, Lo spasimo di Palermo (Milano 1998) che, riprendendo elementi de La ferita dell’aprile, segna come un ritorno all’autobiografismo. La vicenda si svolge nell’anno delle stragi di Capaci e via D’Amelio, i tragici fatti del 1992 ai quali Consolo aveva già dedicato un testo-adattamento della Messa di requiem di Verdi: Dies irae. Requiem da questa Palermo (poi Requiem per le vittime della mafia), eseguita con musiche di vari artisti nella Cattedrale di Palermo il 27 marzo 1993. La vicenda del protagonista-scrittore Gioacchino Martinez e del suo nostos ai luoghi dell’infanzia e giovinezza riscosse grande successo di pubblico e di critica (premio Monreale per la narrativa nel 1998; nonché, l’anno successivo, insignito con il premio Flaiano e il premio Brancati).

La Sicilia è ancora protagonista dell’ampia raccolta di saggi per la quale ipotizzava il titolo Pane di zolfo o Per nascente solfo, che apparve invece con il titolo Di qua dal faro (Milano 1999; premio Nino Martoglio e premio Feronia). Ed è ancora alla cultura popolare isolana che si consacra una sua riscrittura delle Fiabe siciliane raccolte nel 1868-69 dall’etnologa siculo-svizzera Laura Gonzenbach (Roma 1999).

IL SILENZIO DELLO SCRITTORE

Gli ultimi anni di vita sono segnati per Consolo da una dolorosa afasia artistica, che si manifesta come ulteriore declinazione dell’impegno, nella presenza-assenza al suo tempo e nella difficile condizione di un intellettuale «solo perché libero» (Letteratura e potere, cit., p. 1172). Nel marzo 2000 partecipò a una conferenza in difesa di Adriano Sofri, organizzata dal citato PIE con Christian Salmon, Jacques Derrida, Jacqueline Risset e Antonio Tabucchi. Il mese successivo firmò la sua adesione al Manifesto in difesa della lingua italiana promosso tra gli altri da Luigi Manconi, Aldo Masullo, Vittorio Sermonti, nella convinzione che l’Italia «ha perso memoria di sé, della sua storia, della sua identità», e che «l’italiano è divenuta un’orrenda lingua, un balbettio invaso di linguaggi che non esprimono altro che merce e consumo» (Il lungo sonno della lingua, in Il Corriere della sera, 6 giugno 2000).

Dopo esser stato in Francia ospite d’onore dell’Académie française al Prix Italiques, dove lesse la relazione La patria immaginaria, (poi con il titolo I Vespri, i paladini e la patria immaginaria, in Stilos, 1° maggio 2001), nel 2002 si trovò a esprimere per motivi politici – insieme con Umberto Eco e Antonio Tabucchi – il suo rifiuto alla partecipazione al Salon du livre di Parigi come componente della delegazione ufficiale italiana. Nello stesso anno si recò in Palestina con il PIE, per consegnare un appello di pace ad Arafat (cfr. Madre coraggio, poi in La mia isola è Las Vegas, cit., pp. 195-200) e firmò anche un Manifesto contro la islamofobia, che sarebbe stato presentato poi alla Fundación de cultura islámica di Madrid il 30 gennaio 2007.

Intanto, era ascoltato, letto e studiato all’estero: nel 2002 tenne un ciclo di conferenze negli Stati Uniti, mentre si avvicendavano convegni e volumi a lui dedicati: Siracusa, Siviglia e tre convegni all’Università di Valencia per iniziativa di Irene Romera Pintor, traduttrice di opere consoliane. Con il convegno Éthique et écriture tenuto il 25 e 26 ottobre 2002, con la direzione di Dominique Budor (ed. in volume, Parigi 2007), l’Università Sorbonne di Parigi dedicava per la prima volta un convegno a uno scrittore vivente.

Nel 2003 l’Università di Roma «Tor Vergata» gli conferì la laurea honoris causa in lettere: pronunciò una lectio magistralis (La metrica della memoria) che riprendeva una fortunata relazione del 1996Nello stesso anno, dal Ministère de la culture et de la communication francese, fu insignito del grado di officier dans l’Ordre des Arts et des lettres. Una seconda laurea honoris causa, in filologia moderna, gli venne conferita, insieme con Luigi Meneghello, da parte dell’Università di Palermo nel 2007.

Mentre proseguivano le edizioni di romanzi e raccolte di saggi in Europa, negli Stati Uniti e in Canada, a settembre 2004 Consolo iniziò a lavorare a una raccolta di racconti, che apparve postuma nel maggio 2012, a pochi mesi dalla morte, con il titolo La mia isola è Las Vegas, a cura di Nicolò Messina. Dichiarava intanto di lavorare al suo ultimo romanzo, Amor sacro e amor profano, del quale però nell’Archivio Consolo non sono state rinvenute carte.

Nel 2010 Consolo avrebbe dovuto introdurre un’opera di Roberto Saviano (La parola contro la camorra, DVD, Torino 2010) ma, risentito per alcune non condivise dichiarazioni letterarie e politiche del giovane autore, ritirò il suo testo.

Mentre dunque Consolo testimoniava la sua presenza nel segno della denuncia, e spesso del rifiuto, si moltiplicavano le trasposizioni delle sue opere letterarie. Erano transcodificazioni, da intendersi anche come viaggio dei testi, che rispondevano a specifici interessi di un intellettuale sempre attento ai diversi linguaggi artistici, in particolare alla pittura – che tanto attraversava la sua scrittura –, al teatro e soprattutto al cinema, consumato quest’ultimo come rito collettivo, come rievoca nel racconto-saggio scritto in occasione della proiezione di Nuovo cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore (Dal buio, la vita, in Di qua dal faro, cit., pp. 1179-1184). Mentre si arenava il progetto di una riduzione cinematografica dello Spasimo di Palermo, proseguivano adattamenti teatrali delle sue opere. Dopo la versione di Retablo al teatro stabile di Catania, per la stessa regia di Daniela Ardini, Ugo Ronfani scrisse nel luglio 2010 l’adattamento del Sorriso dell’ignoto marinaio, andato in scena a Genova. Al festival di Cannes dello stesso anno venne presentato il progetto cinematografico Vivre ou rien, di Maria Agnès Viala e Giorgio Arlorio, tratto da Lo spasimo di Palermo.

Il 5 giugno del 2011, nonostante fosse affetto da un tumore in stadio avanzato, Consolo si recò personalmente a Ostana (Cuneo) per ricevere il premio Lenga Maire, dedicato alle scritture in lingue minoritarie. Teneva molto al premio, che riconosceva il suo impegno per far rivivere lingue marginali e in via di estinzione.

Morì poco dopo, a Milano, il 21 gennaio 2012. Rifiutando cerimonie pubbliche in fede alla volontà dell’Autore, la moglie Caterina fece celebrare le esequie a Sant’Agata di Militello il 23 gennaio, dove fu seppellito nella cappella di famiglia.

OPERE

Gran parte dei volumi editi sono ora raccolti nel «Meridiano» L’opera completa, a cura di G. Turchetta con un profilo di C. Segre, Milano 2015, da cui si cita e cui si rimanda anche per una esaustiva bibliografia degli scritti (che include articoli, saggi in volume, traduzioni, riscritture e altri scritti sparsi), insieme con una dettagliata bibliografia critica.

Il volume comprende (nell’ordine delle prime edizioni): La ferita dell’aprile, Milano 1963; Il sorriso dell’ignoto marinaio, Torino 1976; Lunaria, ibid. 1985; Retablo, Palermo 1987; Le pietre di Pantalica, Milano 1988; Nottetempo, casa per casa, ibid. 1992; L’olivo e l’olivastro, ibid. 1994; Lo spasimo di Palermo, ibid. 1998; Di qua dal faro, ibid. 1999.

Ci si limita qui a segnalare i volumi non inclusi in quella edizione (anche postumi) e i saggi critici citati: Marina a Tindari. Poesie, Vercelli 1972; V. Consolo – N. Rubino, Fra contemplazione e Paradiso. Suggestioni dello Stretto, Messina 1988; Catarsi, in V. Consolo – G. Bufalino – L. Sciascia, Trittico, a cura di A. Di Grado – G. Lazzaro Damuso, Catania 1989; La Sicilia. Passeggiata, Torino 1991; Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Roma 1993; Neró metallicó, Genova 1994; V. Consolo – M. Nicolao, Il viaggio di Odisseo, introd. di M. Corti, Milano 1999; Il Teatro del Sole. Racconti di Natale, Novara 1999; V. Consolo – F. Cassano, Lo sguardo italiano. Rappresentare il Mediterraneo, Messina 2000; Oratorio, Lecce 2002; Isole dolci del Dio, Brescia 2002; Reading and writing the Mediterranean. Essays by V. C., a cura di N. Bouchard – M. Lollini, Toronto 2006; Il corteo di Dioniso, Roma 2009; Pio La Torre, orgoglio di Sicilia, Palermo 2009; L’attesa, Milano 2010; La mia isola è Las Vegas, a cura di N. Messina, ibid. 2012; Esercizi di cronaca, a cura di S. Grassia, Palermo 2013; Accordi. Poesie inedite di V. C., a cura di F. Zuccarello – C. Masetta Milone, S. Agata di Militello 2015.

FONTI E BIBLIOGRAFIA

M. Sinibaldi, La lingua ritrovata: V. C., in Leggere, II (1988), pp. 8-15; C. Segre, Introduzione a V. Consolo, Il Sorriso dell’ignoto marinaio, Milano 1987, pp. V-XVIII (poi in Id., Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino 1991, pp. 71-86); F. Di Legami, V. C. La figura e l’opera, Marina di Patti 1990; V. C., Nuove Effemeridi, VIII (1995/I), 29 (n. monografico); P. Farinelli, Strategie compositive, motivi e istanze nelle opere di V. C., in Italienisch,  XXXVII (1997), pp. 38-45; F. Parazzoli, Il gioco del mondodialoghi sulla vita, i sogni, le memorie, Cinisello Balsamo 1998, pp. 21-33; G. Traina, V. C., Fiesole 2001; E. Papa, V. C., in Belfagor, LVIII (2003), 2, pp. 179-198; Per V. C., Atti delle giornate di studio… 2003, a cura di E. Papa, San Cesario di Lecce 2004; Leggere V. C. – Llegir V. C., a cura di M.A. Cuevas, in Quaderns d’Italià, X (2005), pp. 5-132; «Lunaria» vent’anni dopo, a cura di I. Romera Pintor, Valencia 2006; La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di V. C., a cura di G. Adamo, San Cesario di Lecce 2006;  V. C. Éthique et écriture, Atti del Convegno… 2002, a cura di D. Budor, Paris 2007; L. Terrusi, L’onomastica nel «Sorriso dell’ignoto marinaio» di V. C., in Il Nome del testo, XIV (2012), pp. 55-63.

L’allontanamento Il viaggio o la fuga?

Il tema del viaggio è un contenuto della realtà extratestuale e dell’immaginario (tanto dell’autore quanto del lettore) che ritorna in opere diverse: si ripete dunque in forme riconoscibili pur articolandosi ogni volta in modi irripetibili all’interno di costruzioni dotate ognuna di una propria individualità. Questo contenuto può riguardare personaggi, passioni, ambienti, eventi, immagini1 . Il viaggio è un evento. In genere si tratta di un accadimento che coinvolge due o più persone: dopo un percorso (di una di esse o di tutte, non importa), esse entrano in contatto fra loro in modo volontario o involontario, programmato in partenza o del tutto casuale2 . Nel 1993 Consolo ammette: I poli poi, per ragioni di vita e per scelta ideologica, si sono allontanati, sono diventati Palermo e Milano. E questi due poli mi hanno fatto essere, oltre che laconico, scrittore scisso, dalla doppia anima, dal doppio accento. Ma forse no, forse allo storicismo del vecchio mondo palermitano ho sostituito lo storicismo dell’attuale mondo milanese3 . I lettori entrano nel mondo della narrazione consoliana attratti non da questa frase tradizionale “C’era una volta” ma tramite un procedimento ben diverso e cioè l’uso della congiunzione che apre la storia. E la chiarìa scialba all’oriente, di là di Sant’Oliva e della Ferla, dall’imo sconfinato della terra sorgeva nel vasto cielo, si spandeva — ogni astro, ogni tempo rinasce alle scadenze, agli effimeri, ai perenti si negano i ritorni, siamo figli del Crudele, pazienza. N, 5 E poi il tempo apre immensi spazi, indifferenti, accresce le distanze, separa, costringe ai commiati — le braccia lungo i fianchi, l’ombra prolissa, procede nel silenzio, crede che un altro gli cammini accanto. SP, 11 Quando la voce del narratore inizia in questo modo, non è difficile, come sostiene Remo Ceserani, “sospendere la sua vita normale, abbandonare il mondo in cui scorre la sua vita e trasferirsi, se si sente attirato dalla voce del narratore e dall’interesse delle vicende narrate […]”4 . Il lettore subito sin dall’inizio ha impressione di affrontare la continuazione della storia già raccontata. Consolo riesce a trasformare il passato, anche quello lontano, in una realtà somigliante agli eventi presenti. Il ciclo della narrativa consoliana ammette la rappresentazione della Sicilia in varie fasi della sua storia. L’azione del romanzo Nottetempo3, casa per casa si svolge a Cefalù, negli anni del sorgere del fascismo. Non è racconto di viaggio, o guida, tuttavia con un viaggio si onclude. Qui Petro vive una sua educazione sentimentale, politica, letteraria, scontando sulla propria pelle lo sforzo del rapporto con una realtà che sfugge ad ogni razionalità, che si lascia dominare da quella “bestia trionfante” che stravolge quel mondo, che sembra fargli perdere antichi equilibri e antichi profumi, e trova nel fascismo la sua più compiuta incarnazione5 . C’è il risentimento verso una patria perduta e le persone che non si accorgono della perdita. E qui non si parla solo di un confine siciliano, ma di un oggi che comprende anche altri luoghi. Certo, il discorso della lingua è chiaro. Consolo ha sempre cercato di scrivere in un’altra lingua ed è quello che ha sempre irritato i critici, il fatto di “uscire dai codici, di disobbedire ai codici”6 .
Il viaggio di Nottetempo, casa per casa, è la fuga di Petro da un mondo nel quale egli vede la civiltà in via di travolgimento e per il quale avverte ormai odio, al punto da fargli maturare una condizione che egli non sa se, ed eventualmente quando, vorrà modificare, e quando eventualmente (“Non so adesso” dice, quasi come Fabrizio Clerici diceva dell’itinerario che avrebbe potuto prendere l’ulteriore sua peregrinazione) perché le ragioni dell’odio sono per lui diverse da quelle che muovono l’anarchico Schicchi, non politiche in senso stretto, non di fazione: e tali ha scelto di mantenerle “in attesa che passi la bufera”, senza fraintendimenti e perciò nello stesso esilio vivendo scostato da Schicchi, nella cui prassi riconosce la stessa matrice che ha causato la sua partenza, “la bestia dentro l’uomo che si scatena ed insorge, trascina nel marasma, la bestia trionfante di quel tremendo tempo, della storia, che partorisce orrori, sofferenze” (N, 170)7 . La partenza di Petro assume un valore emblematico, e in realtà, diventa aterritoriale. 5  Il romanzo Nottetempo, casa per casa contiene il numero maggiore di elementi raffiguranti la nozione di allontanamento: l’allusione all’inespresso, alla ritrazione, al rischio dell’afasia, del silenzio. Pervenuto in prossimità di Tunisi, rimasto solo sul ponte del piroscafo, Petro lascia cadere in mare un libro che l’anarchico gli aveva posto in mano per alimento politico, e pensa ad un suo quaderno, sentendo che, “ritrovata calma, trovate le parole, il tono, la cadenza, avrebbe raccontato, sciolto il grumo dentro, avrebbe dato ragione, nome a tutto quel dolore” (N, 171): un quaderno perciò egli porta con sé quale viatico dell’esilio, dove potrà da lontano nominare il dolore, e perciò — comprendendolo — risolverlo, e questo è tutto il corredo che la sua scelta presuppone8 . Il protagonista di Nottetempo, casa per casa è un esiliato che rompe a un tratto la condizione di esilio attraverso la scrittura, diversamente dagli altri, dal padre, ad esempio, che non può farlo. Il libro si apre con una scena notturna in cui si disegna la figura oggi rara della malinconia, desueta almeno, in cui la depressione si svela nel rapporto con la luna piena: quella del licantropo. La cultura popolare ci ha tramandato vari frammenti intessuti su questa figura, dominata da un dolore insopportabile che equivale ad un esilio. Come dice l’epigrafe della Kristeva posta all’inizio del libro, quel dolore equivale a vivere sotto un sole nero, che può anche stare per l’immagine della luna. È un tentativo di liberazione dell’angoscia attraverso l’animalità, la fuga, la corsa9 . La coscienza del dolore proprio e altrui indica una prospettiva che rende possibile la riflessione su un altra persona. La sofferenza non è qualcosa di peggiore che richiede il rimandere nascosti. Al contrario, è necessario prenderla in considerazione quando si vogliono determinare i limiti del potere umano. Consolo, indicando la sofferenza come l’esperienza fondamentale dell’esistenza, non si discosta dal discorso sempre più urgente sulla condizione degli emarginati nel mondo postmoderno. Così Petro fugge, come Consolo, e “spariva la sua terra mentre egli se ne andava (N, 168). Petro è spinto da una parte dalla forza irrazionale di un fascismo che prometteva giustizia e riscossa, specchietti delle allodole delle dittature incipienti, dall’altra è attratto da quel socialismo-anarchico la cui contestazione, però, gli appare violenta e drasticamente tragica. Decide per una ”fuga”, che non è disimpegno, ma scelta chiara, il che illustra la scena finale: “si ritrovò il libro dell’anarchico, aprì le mani e lo lasciò cadere in mare” (N, 171). La marginalità del gesto, tuttavia, non gli scongiura la necessità della fuga da Cefalù, dalla città che aveva amato nelle cose e nelle persone, e che ora gli era caduta dal cuore “per quello ch’era avvenuto, il sopravvenuto, il dominio che aveva presa la peggiore gente, la più infame, l’ignoranza, la violenza, la caduta d’ogni usanza, rispetto, pietà…” (N, 166); e perciò egli si spinge all’esilio in Tunisia, dove si reca partendo nottetempo da Palermo, su di un vapore che pure nasconde il capo anarchico Paolo Schicchi (altro personaggio reale)10. Anche Consolo, quando si è trasferito a Milano aveva intenzione di raccontare quella Milano dei contadini siciliani che diventano operai. Ben presto capì che per farlo aveva bisogno della distanza della metafora storica. È quello che Cesare Segre acutamente ha sottolineato come peculiarità del suo modo di scrivere: “è il distanziamento, il bisogno di distanziarsi, anche geograficamente”11. Il motivo del viaggio, nel primo lavoro: La ferita dell’aprile, si svolge sul doppio versante del riportarsi all’indietro dell’io narrante al tempo della propria adolescenza, e di un attraversamento di diversi piani linguistici alla ricerca di uno stile che si conquista una propria misura espressiva12. E per restituire alla storia il misterioso e l’ignorato che è nell’uomo e nella collettività, Consolo sceglie fin da questo primo romanzo la dimensione della memoria e l’idea del viaggio13. Il labirinto evidenzia cioè nella sua stessa forma figurale, in quanto metafora assoluta che si sostanzia di un retroterra religioso e mitologico, la struttura del congetturare dialettico, di quel mirare alla fine 10 del processo ermeneutico come al proprio fine, implicito nel viaggioverso-il-centro e nel viaggio-di-ritorno di Teseo come in tutte le successive varianti del mitologema14. In appendice ai capitoli di più acuminato spessore del suo romanzo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Consolo ha inserito, infatti, un ventaglio di documenti storici che fanno corpo organico con la narrazione, esplicitando ciò che essa lascia nel margine dell’intuitivo. Aldo M. Morace sostiene che così viene spezzata l’unità tipica del racconto storico, ma anche la finzione narrativa stessa, in modo da chiamare in causa il lettore, secondo l’esigenza brechtiana dello straniamento e secondo la suggestione adorniana circa la necessità, per l’opera d’arte, di portare impresse nelle proprie strutture formali le stigmate della negatività rinunciando alla forma compatta ed armoniosa che attesterebbe la conciliazione con la società esistente15. Se il romanzo, e in particolare il romanzo storico si esprime attraverso le tensioni formali, come sostiene Flora Di Legami16, la prosa di Consolo corrisponde pienamente a questa immagine. L’autore introduce, trasformato, il topos ottocentesco del manoscritto: esso non è più l’espediente narrativo su cui costruire la trama del romanzo, ma un documento immaginario capace di suffragare, con la sua verosimiglianza linguistica, l’effettualità degli avvenimenti narrati. E così il Mandralisca, mosso dall’ansia di verificare le affermazioni dell’Interdonato, compie un viaggio in alcuni paesi del messinese, che gli farà conoscere le condizioni di miseria e sfruttamento in cui versano i contadini, ma soprattutto lo porterà ad essere testimone diretto dell’insurrezione di Alcara contro i Borboni nel maggio 1860. Quello del Mandralisca risulta un viaggio di tipo vittoriniano, di progressiva maturazione e di crescita etico-politica, ma anche di discesa del nostro tempo. Interviste a Leonardo Sciascia, Vincenzo Consolo, Gesualdo Bufalino, Ignazio Buttita, dal programma radiofonico di Loredana Cacicia e Sergio Palumbo, prodotto e trasmesso da Rai Sicilia nel 1991. Palermo, Officine Grafiche Riunite, 2013, p. 52. L’intellettuale al caffé. Incontri con testimoni e interpreti all’interno delle contraddizioni della storia e della ragione, di cui sperimenta l’impotenza operativa17. Nel contesto della dominazione anche fisica delle nuove forze — come prova di contrapposizione ad esse — appare anche il problema delle riflessioni morali che espongono solo la dimensione degli abusi. Consolo la rievoca tramite l’introduzione della situazione di caos: accanto alle forze naziste spuntano le proteste degli operai, crescono l’incitazione intorno alla Targa Florio e infine la sconfitta degli anarchisti. Questo caos viene preceduto nella narrazione dal segnale riferito alla follia della famiglia Marano, il che suggerisce la conseguente spirale della perdita di senno. Solo la ragione si oppone al regime, al male atavico dell’uomo, alla distruzione della memoria e dei valori della terra e della società18: Ora sembrava che un terremoto grande avesse creato una frattura, aperto un vallo fra gli uomini e il tempo, la realtà, che una smania, un assillo generale, spingesse ognuno nella sfasatura, nella confusione, nell’insania. E corrompeva il linguaggio, stracangiava le parole, il senso loro, il pane si faceva pena, la pasta peste, la pace pece, il senno sonno. N, 140 Il linguaggio, trasgressivo e straniato, arcaicizzante e artificioso, nasce da una spinta molto forte, così da richiedere una strategia di difesa e di allontanamento, e una immersione nella vita “nel suo infinito variare”. È un linguaggio che diviene canto, sonante e alto, fatto di cadenze e ritmi poetici (per esempio, di ben individuabili, ossessivamente presenti, endecasillabi: “E la chia-rì-a scial-ba all’- or-ien-te / di là di Sant’-O-li-ve-del-la Fer-la”)19. Consolo ha spesso affermato di sentirsi parte di una linea della letteratura italiana che proviene dalla Sicilia e che comprende Verga, Pirandello, Vittorini, Brancati, Tomasi di Lampedusa, Sciascia, ma nello stesso tempo ribadisce17 la provenienza da una zona periferica d’Italia. La sua narrazione diventa la testimonianza della credenza nella possibilità dei contributi innovativi alla cultura da quella isolana20. L’abbandono della predominanza del senso della vista a favore dell’abilità del parlare implica la riduzione della distanza rispetto all’oggetto dell’analisi. La facoltà di parlare richiede la mancanza di dominazione e indica invece l’impegno dei processi cognitivi nelle differenti prospettive degli interlocutori. La Sicilia attraversata da Clerici è quella storica del primo Settecento, afflitta da povertà, ignoranza e violenza; e tuttavia i vari paesi diventano contrade dell’anima dove pensieri ed emozioni balzano in primo piano, e i personaggi incontrati hanno sempre consistenza reale e favolosa, come i ladri delle terme segestane. Sono luoghi in cui il narratore sospende il tempo della narrazione per abbandonarsi all’incanto del mondo favoloso e lontano. Lo spazio sociale con i suoi conflitti non è, in questo romanzo, il centro palpitante; lo percorre invece una vibrata inquietudine ed un febbrile desiderio di lontananza21. Nel romanzo Lo spasimo di Palermo l’autore legge una vicenda personale e collettiva, partendo da un tempo che apre immensi spazi. In principio è la lontananza, la terra straniera e il distacco che “costringe ai commiati”22. Nel caso del protagonista del romanzo menzionato, lo scrittore Gioacchino Martinez, cupo e angosciato eroe che vuole rappresentare la realtà senza incanto, che era quello di un sogno infantile, e smuovere altri ricordi. Sono proprio i ricordi che lo devastano e nello stesso tempo lo mantengono in vita: il protagonista torna in Sicilia, da dove se ne era fuggito, per l’impossibilità di opporsi alla violenza, all’ingiustizia. È un affondo nel rammarico, nei dolori della memoria: l’adolescenza nel dopoguerra siciliano, l’amato zio studioso di botanica, l’adorata Lucia che poi sposerà e perderà con strazio, il rifugio in una Milano ritenuta proba, antitesi al ma

rasma 20, gli anni del terrorismo e la pena per il figlio compromesso. Piero Gelli parla direttamente del risveglio di un’illusione: la città civile di Porta, Verri e Beccaria, di Gadda e Montale non esiste più, sommersa dalle acque infette dell’intolleranza e dalla melma della corruzione23. Se si prende per esempio la descrizione dell’albergo che sebbene non sia un luogo sotterraneo, rivela tutta la sua angustia: “La dixième muse era il nome dell’albergo. L’angusto ingresso, il buio corridoio…” (SP, 11). Spostandosi all’indietro nei ricordi assomigliava ai rifugi antiaerei o alle cantine. Dopo il bombardamento all’oratorio Chino ”tornò affannato nell’androne, attraversò il cavedio, discese nel catoio” (SP, 16). È significativo anche che cupi, nascosti ed in profondità siano i luoghi in cui si consuma la relazione fra il padre di Gioacchino e la siracusana. Quindi colpa e menzogna da cui Chino fugge sempre, in modo antonimico, seguendo il percorso contrario, verso la luce e la superficie. È la fuga da una realtà che non vuole conoscere. Una tana sarà anche il luogo prediletto dal ragazzo per i suoi giochi e le sue fughe: “Corse al marabutto, al rifugio incognito e sepolto dal terriccio” (SP, 19). A un certo momento del libro il protagonista parla così: “Non so adesso… Adesso odio il paese, l’isola, odio questa nazione disonorata, il governo criminale, la gentaglia che lo vuole… odio finanche la lingua che si parla”. Mai come adesso la scrittura si ritaglia come il luogo di una distanza difficilmente colmabile in cui non ci sono luoghi cui dedicare una presunta fedeltà: “Dietro queste parole scopertamente riferite all’oggi c’è il risentimento personale di chi scrive verso un luogo che ha dovuto lasciare”24. Una soluzione più simile al concetto di viaggio si può da ricavare nel romanzo Retablo. La seconda sezione del libro, quella centrale o la più distesa, è il diario di viaggio che Clerici scrive per Teresa Blasco, la donna amata, da cui cerca di allontanarsi compiendo la sua “peregrinazione” attraverso la Sicilia. È solo attraverso il “collaudato23 contravveleno della distanza”, infatti, che Clerici riesce a ritrovare quell’“aura irreale o trasognata” che gli consente di dedicarsi alla scrittura e alla pittura (R, 87). E per ottenere il necessario  estraniamento, analogo a quello operato dallo scrittore di Sant’Agata di Militello con il trasferimento a Milano, fungono spesso da testimoni o il cavaliere e l’artista lombardo Clerici, o il mistificatore inglese: Crowley. Lo stile barocco, fitto di sicilianismi, fornisce il coinvolgente e inconfondibile colore locale25.

Title: Rompere il silenzio : i romanzi di Vincenzo Consolo Author: Aneta Chmiel Citation style: Chmiel Aneta. (2015). Rompere il silenzio : i romanzi di Vincenzo Consolo. Katowice : Wydawnictwo Uniwersytetu Śląskiego.

***

1  F. Orlando: Costanti tematiche, varianti estetiche e precedenti storici. In: M. Praz: La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica. Firenze, Sansoni, 2003 [1996], p. VII. 2  R. Luperini: L’incontro e il caso. Narrazioni moderne e destino dell’uomo occidentale. Roma—Bari, Editori Laterza, 2007, pp. 4—8. 168 Capitolo V: L’allontanamento V. Consolo: La poesia e la storia. In: Gli spazi della diversita. Atti del Convegno Internazionale. Rinnovamento del codice narrativo in Italia dal 1945 al 1992. Leuven —Louvain-la Neuve—Namur—Bruxelles, 3—8 maggio 1993. Vol. 2. A cura di S. Vanvolsem, F. Musarra, B. Van den Bossche. Roma, Bulzoni, 1995, pp. 583— 586.4  A. Bernardelli, R. Ceserani: Il testo narrativo. Istruzioni per la lettura e l’interpretazione. Bologna, Il Mulino, 2013, p. 135. Il viaggio o la fuga? 169 G. Ferroni: La sconfitta della notte. “L’Unità” 1992, il 27 aprile. 6  R. Andò: Vincenzo Consolo: La follia, l’indignazione, la scrittura. “Nuove Effemeridi” 1995, n. 29, p. 11. 7  S. Mazzarella: Dell’olivo e dell’olivastro, ossia d’un viaggiatore. “Nuove Effemeridi” 1995, n. 29, p. 63. 170 Capitolo V: ” (N, 168). Petro è spinto da una parte dalla for8  Ibidem, pp. 63—64. 9  R. Andò: Vincenzo Consolo…, pp. 8—9. S. Mazzarella: Dell’olivo e dell’olivastro…, pp. 62—63. 11 V. Consolo: Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia. Roma, Donzelli editore, pp. 9—10. 12 F. Di Legami: Vincenzo Consolo. La figura e l’opera. Marina di Patti, Pungitopo, 1990, p. 12. 13 Ibidem, pp. 7—9. 172 Capitolo V: , 14 Cfr. K. Kerényi: Nel labirinto. Torino, Bollati Boringhieri, 1983, p. 9. 15 Cfr. A.M. Morace: Orbite novecentesche. Napoli, Edizioni Scolastiche Italiane, 2001, pp. 212—213. 16 Cfr. F. Di Legami: Cfr. F. Di Legami: Vincenzo Consolo…, pp. 24—25. 18 Cfr. C. Ternullo: Vincenzo Consolo: dalla Ferita allo Spasimo. Catania, Prova d’Autore, 1998, p. 58. 19 R. Ceserani: Vincenzo Consolo. “Retablo”. “Belfagor” 1988, anno XLIII, Leo S. Olschki, Firenze, pp. 233 — 234. 174 Capitolo V: L’allontanamento cfr. A. Bartalucci: L’orrore e l’attesa. Intervista a Vincenzo Consolo. “Allegoria. Rivista quadrimestrale” 2000, anno XII, nn. 34—35, gennaio—agosto, 21 Cfr. F. Di Legami: Vincenzo Consolo…, p. 40. 22 G. Amoroso: Il notaio della Via Lattea. Narrativa italiana 1996—1998. Caltanisetta—Roma, Salvatore Sciascia Editore, 2000, p. 464. Cfr. P. Gelli: Epitaffio per un Inferno. La rabbia e la speranza di Consolo. “L’Unità” 1998, il 12 ottobre, p. 3. 24 R. Andò: Vincenzo Consolo…, p. 11.

Teriomorfismo e malinconia Una storia notturna della Sicilia: Nottetempo, casa per casa di Consolo Rossend Arqués

copertina-nottetempo

 

Quaderns d’Italià 10, 2005 79-94

Teriomorfismo e malinconia Una storia notturna della Sicilia:
Nottetempo, casa per casa di Consolo

Rossend Arqués

Universitat Autònoma de Barcelona

Abstract

L’articolo vuol essere una lettura di Nottetempo, casa per casa che prende spunto dall’analisi del sostrato mitico e iconografico delle rappresentazioni teriomorfiche più importanti del romanzo (il «luponario» e il «caprone») per sottolineare il cammino del protagonista dall’afasia animale e malinconica in cui è immersa la sua famiglia, e lui stesso, all’accesso al linguaggio accompagnato dalla presa di coscienza della decadenza della società siciliana che coincide anche con il suo esilio. Parda chiavi: Vincenzo Consolo, licantropia, Pan, malinconia, letteratura siciliana.
Abstract

The article aims at providing a reading of Nottetempo, casa per casa, starting with the analysis of the mythological and iconographic substrata of the most significant theriomorphic representations within the novel (the «lycanthrope» and «goat») in order to emphasise the path taken by the protagonist from that animal, melancholy aphasia in  which he and his family are immersed, through to the access to language, accompanied by the growing awareness of the decadence of Sicilian society that also coincides with his exile.

Key words: Vincenzo Consolo, lychanthropy, Pan, melancholy, Sicilian literature.

  1. Nottetempo… all’interno del trittico consoliano
    La notte, la notte mitica, ha tutti gli elementi dell’incubo. Nottetempo, casa
    per casa (1992)1 nella trilogia che ha inizio con Il sorriso dell’ignoto marinaio
    (1976) e si conclude con Lo spasimo di Palermo (1998), occupa il secondo momento del periodo storico che Consolo ha dedicato alla Sicilia, il primo essendo il Risorgimento e gli anni che precedono l’assassinio del giudice Borsellino.
    2 Si tratta di un periodo della storia siciliana (siamo negli anni Venti),quello di Nottetempo, nero come le camicie dei fascisti che piano piano riempiono le piazze dei paesi e delle città d’Italia. Più concretamente, ci troviamo a Cefalú, già scenario de Il sorriso…3 Anni difficili, non solo per le vicende politiche, ma anche e soprattutto per quelle morali, come tanti altri della storia italiana. Consolo ha sempre agito come una memoria attenta e sensibile del passato che viene accostato agli avvenimenti più recenti di cui egli è testimone e interprete. In Nottetempo… Consolo stabilisce implicitamente un nesso tra l’Italia degli anni Venti e quella degli anni Settanta, così come nel Sorriso…tra il Risorgimento e gli anni Sessanta e nello Spasimo…tra gli anni 30 e l’inizio degli anni 90, con le morti di Falcone e Borsellino. Fasi storiche tutte segnate da successive cadute della società isolana e continentale in un pozzo senza uscita e senza possibilità di riemersione. «Traversare la Sicilia intera —scrive Consolo in un articolo intitolato «Paesaggio metafisico di una follia pietrificata »
    4 — , visitare quelle città e quei paesi un tempo vitali per umanità e cultura, carichi dunque, ancora fino a pochi anni addietro, di volontà e di speranza, luoghi che il moderno feticcio dell’accelerazione spasmodica, l’autostrada, ha tagliato fuori dallo spazio (…); visitare oggi Enna, Caltanissetta (…)più che accenderti furori, inutili ormai, ti infonde sconsolazione e pena. Sono paesi che si sono svuotati d’uomini e significato».5 Seguendo gli esempi di Manzoni, Verga e, soprattutto di Tomasi di Lampedusa e Sciascia, l’autore sceglie la formula narrativa del romanzo storico con questo obiettivo: collocare in figure, luoghi e trame del passato problemi e sentimenti del presente, che altrimenti risulterebbero non solo difficili da trattare ma addirittura pericolosi. Ne era ben conscio Calvino quando stabilì un parallelismo tra la narrazione realista e la Medusa. Per sfuggire allo sguardo pietrificante del mostro mitologico non resta nessun altro modo che osservare   la realtà attraverso la corazza-specchio di Perseo. La narrazione storica di Consolo ha questa funzione di corazza-specchio: proprio allontanandosi dal presente, essa è in grado di coglierlo, analizzarlo e giudicarlo, mentre riesce contemporaneamente a immergersi con spirito critico e analitico nel momento storico preso di volta in volta in esame, senza mai tralasciare la dimensione del mito nelle sue diverse sfaccettature, soprattutto di quei miti arcaici che hanno dato essenza e forma alla natura umana e morfologica della terra di Sicilia Come lo stesso Consolo ha dichiarato in «Le interviste d’Italialibri» 2001, anche se molte altre sue opere percorrono episodi ed eventi dell’isola: quello greco (Le pietre di Pantalica), quello dominato dagli spagnoli (Lunaria), quello illuministico (Retablo), ecc.«E Cefalù è stata un approdo, un luogo d’elezione e di passione. Perché Cefalù e non Palermo? Cefalù perché microcosmo, antifona di quel gran mondo che è Palermo […]. Io ho scelto Cafalù. Sono piccoli mondi così ricchi dentro il cui viaggio, la scoperta può non finire mai.» «La corona e le armi», Giornale di Sicilia, 14 marzo 1981.Pubblicato il 19 ottobre 1977 su Il Corriere della sera, cit. da Francesco GIOVIALE, «L’isola senza licantropi», in Id., Scrivere la Sicilia. Vittorini e oltre, Siracusa: Ediprint, 1983, p. 165-176.Lo stesso messaggio possiamo trovarlo in altri articoli e testi suoi. Citiamo a mo’ di esempio «La cultura siciliana è tramontata per sempre», L’Ora, 31 maggio 1982 e «Flauti di reggia o fischi di treno?», Il Messaggero, 19 luglio 1982. lia. Una narrazione storica, cioè, rivolta programmaticamente a evitare ognirealismo politico e storico, e alla ricerca di un nuova lingua letteraria capace di unire, condensare e quindi conservare fuse tra loro tutte quelle tracce. Di questo aveva già parlato Giovanardi in una sua bellissima recensione a Nottetempo…in cui sostiene che piú che a una storia questo romanzo sembra dar vita a una contrapposizione tra due diversi modelli di vita e di cultura, due modelli antropologici da sempre compresenti nello spazio insulare,6 e cioè la cinica accettazione dell’esistente e il pervicace ricorso alla fantasia come fuga dalla realtà.
    7 Ciò detto, però, non si può dimenticare che lo stesso Consolo ha insistito piú volte sulle fratture prodottesi nel tessuto sociale, ambientale e antropologico insulare in periodi concreti della storia siciliana piú recente (si veda a questo proposito il citato articolo Paesaggio metafisico… in un punto del quale leggiamo: «È il paesaggio della nuova umanità siciliana, uguale ormai, per perdita di cultura e di identità, alle altre realtà regionali italiane nate dallo squallore consumistico degli anni del cosiddetto boom economico»).
    8 Per stabilire fin dall’inizio la metodologia di questo mio lavoro, devo informare che la mia lettura di Nottetempo… parte dalle teorie analitiche junghiane e, in particolar modo, di quelle di Hillman, non perché io abbia una particolare predilezione per questo approccio critico, ma perché credo che effettivamente questo testo narrativo, come gran parte dell’opera consoliana, trovi spunto nell’universo degli archetipi di derivazione junghiana.
    9 Stefano GIOVANARDI, «Dalla follia alla scrittura», in La Repubblica, 25 aprile 1992 [ora in Nuove effemeridi, n. 29, 1995, p. 152]. Si vedano anche Giulio FERRONI, «Bestie trionfanti», in L’Unità, 27 aprile 1992 [ora in Nuove effemeridi, n. 29, 1995, p. 153-157]; Francesco GIOVIALE, «L’isola senza licantropi», in Id., Scrivere la Sicilia. Vittorini e oltre, Siracusa: Ediprint, 1983, p. 168; Francesco GIOVIALE, op. cit., p. 168; Lorenzo MONDO, «Invasati e dolenti», in La Stampa, 4 aprile 1992 [ora in Nuove effemeridi, n. 29, 1995, p. 147-148]; Attilio SCUDERI, Scrittura senza fine. Le metafore malinconiche di Vincenzo Consolo, Enna:

Il Lunario, 1997; Giuseppe TRAINA, Vincenzo Consolo, Fiesole: Cadmo, 2001.

  1. L’autore stesso in un articolo del 1986 intitolato «Sirene siciliane» (ora in Vincenzo CONSOLO, Di qua dal faro, Milano, Mondadori, 2001, p. 175-181), tenta di dividere la letteratura siciliana in due grandi rami: «occidentale e orientale, storico e esistenziale, poetico-lirico e prosaico, mitico e razionale, simbolico e metaforico», con tutti gli spostamenti e le contraddizioni del caso, fino ad ipotizzare una letteratura siciliana che riesca a fondere i due mondi: «E poi a me sembra di aver capito che tu, come capita ad alcuni siciliani della specie migliore, sei riuscito a compiere la sintesi di sensi e di ragione — dice La Ciura a Corbera» [i due personaggi del racconto Lighea di Tommasi di Lampedusa]. Quella sintesi che lui stesso tenterà in Nottetempo…, se non in tutta la sua opera.
  1. Un argomento simile si legge nell’articolo di Vincezo CONSOLO, «La cultura siciliana è tramontata per sempre», pubblicato su L’Ora (31 maggio 1982): «Con la seconda rivoluzione industriale, con la rivoluzione tecnologica, con i movimenti umani avvenuti nel nostro Paese in questi ultimi trent’anni, con i cambiamenti antropologici che questi movimenti hanno comportato, sono finite le culture locali, quelle che avevano una loro precisa individualità, una loro storia, una loro realtà «realtà». La cultura siciliana secondo me è tramontata».
  1. L’influsso hillmaniano è accertato. Lo stesso Consolo mi ha informato che un suo amico, Giovanni Reale, analista e filosofo junghiano, l’aveva introdotto a questo tipo di letture, tra cui c’erano anche alcuni libri di HILLMAN di cui qui mi preme sottolineare in particolarmodo, Saggio su Pan, Animali del sogno e Il sogno e il mondo infero. In un articolo intitola
    2. Licantropia: dolore e cosciencia
    Di che notte si tratta e quali sono le creature che vivono quella pittura notturna
    dominata dalla animalità e dal teriomorfismo? Passiamo ad analizzare,
    dunque, dettagliatamente e in profondità le diverse facce della bestialità e le
    funzioni che esse hanno nel testo oggetto della nostra attenzione. Non avrebbe
    senso, infatti, ridurre a una sola tutte le forme di animalità presenti nell’opera,
    omettendo di mettere in luce le differenze morfologiche e mitologiche di ciascuna di loro.
    10 Il romanzo ha inizio con la descrizione di un notturno lunare dominato
    da un uomo in pieno delirio, il cui terribile ululato squarcia il silenzio delle
    tenebre. Dietro a lui vaga attenta e angosciata un’altra figura, che in seguito sapremo essere il figlio, vero protagonista del romanzo. Il licantropo è Marano
    (il cognome derivato dallo spagnolo marrano ci dice delle sue origini di ebreo convertito a forza), padre di Pietro, vedovo. Il suo dolore straziante, insieme a quello di tutta la sua famiglia, è causato sia dal lutto per la perdita della sposa, sia dalla «memoria genetica» della violenza subita dagli antenati ebrei obbligati a cambiare cultura e religione,11 sia dall’ascesa sociale che lui e la sua famiglia hanno recentemente sperimentato grazie all’eredità lasciatagli da un eccentrico possidente locale, una specie di libertario tolstoiano che ha voluto beneficare la famiglia Marano al posto del suo legittimo erede, il nipote imbecille. Questo cambio repentino e non voluto di classe sociale sarà responsabile di una specie di schizofrenia comportamentale, almeno per quei personaggi femminili che si sentono obbligati a osservare scrupolosamente le regole sociali della piccola borghesia, per quanto diverse da quelle in cui sono nati e cresciuti.
    12 Un chiaro esempio di questo ci è offerto dal rifiuto di Lucia non solo di accettare ma neppure di ascoltare la dichiarazione d’amore di Janu, il capraio e amico d’infanzia, ora considerato solo un puzzolente pezzente. La famiglia Marano corrisponde a un catalogo di figure malinconiche, a una «follia dai molti volti», come scrive Segre.
    13 Serafina, la sorella maggiore di Pietro, rappresenta l’immagine stessa della fenomenologia depressiva che la porta all’immobilità corporale, alla pietrificazione autistica o alla schizoto «Sirene siciliane» (ora in Vincenzo CONSOLO, Di qua dal faro, cit., p. 175-181) che prende spunto dal racconto Lighea, di Tomasi di Lampedusa, per parlare di altre sirene siciliane, tra cui Giovanni Reale, leggiamo (p. 181): «Se è vero, come sostiene Hilmann, che la pratica analitica non è altro che poiesis, quella di Reale lo è pienamente». Come fa, invece, Rosalba GALVAGNO, «Destino di una metamorfosi nel romanzo Nottetempo, casa per casa», in Enzo PAPA (a cura di), Per Vincenzo Consolo, San Cesario di Lecce: Manni, 2004, p. 23-58, che considera l’intero testo di Nottetempo… solo dal punto di vista della licantropia, senza avvertire la dialettica tra questa forma di animalità e le altre forme di trasformazione umana in bestia che sono presenti nello stesso testo consoliano.
  1. «Da quel cognome suo forse di rinnegato, di marrano di Spagna o di Sicilia, che significava eredità di ànsime, malinconie, rimorsi dentro le vene» — si legge a p. 42.Come chiarisce Vincenzo CONSOLO in «Le interviste d’Italialibri» 2001. Cesare SEGRE, «Una provvisoria catarsi», in Corriere della sera, 19 aprile 1992 [ora in Nuove effemeridi, n. 29, 1995, p. 150]. frenia catatonica,14 così come ci è stata rappresentata iconograficamente nei secoli.
    15 La figlia minore, Lucia, invece, psichicamente alterata dal nuovo status della sua famiglia, è affetta da una psicosi maniaco-depressiva, in preda, com’è, a un continuo delirio paranoico.16 Parleremo di Pietro in seguito, dedicandogli più ampio spazio, per adesso occupiamoci del padre e del suo male «siciliano», come lo definisce Cervantes nel Persiles (I, 18).17 Non c’è dubbio che la descrizione cervantina, lasciando da parte il particolare del movimento in gruppo («en manada») dei lupi, è presente sia nell’immaginario narrativo di Mal di luna di Pirandello18 che nel testo di Consolo, pur con la presenza in entrambi dell’elemento lunare,19 assente, invece, in Cervantes. Colpisce, «E Serafina, ch’aveva preso il ruolo della madre e poi s’era seduta, fatta muta ogni giorno, immmobile, di pietra, dentro nella scranna, il solo movimento delle dita che sgranano il rosario di poste innumerevoli, di meccaniche preghiere senza soste.» — si legge a 42. Per una tassonomia attuale di questa malattia depressiva si veda Eugenio BORGNA, Malinconia, Milano:Feltrinelli, 1992 e Marie-Claude LAMBOTTE, Esthétique de la mélancolie, Paris: Aubier, 1984.Quest’ultima vede nell’inibizione il tratto più significativo della malinconia moderna.Ricordiamo qui le incisioni del Maestro F. B. (Franz Brun?) (1560), A. Janssens (1623),Feti (1614) o C. Friedrich (1818), si veda Raymond KLIBANSKY, Erwin PANOFSKY, Fritz SAXL, Saturno e la malinconia, Torino: Einaudi, 1983.
  1. Il narratore ci parla della sua malattia a p. 45-48, da dove prendiamo le seguenti frasi: «Lei era innocente, immacolata come la bella madre. E stava ore e ore chiusa nella stanza, avanti alla toletta a pettinarsi» (…) Finché un giorno, un mezzogiorno (…) non si mise a urlare disperata sul balcone, a dire che dappertutto, dietro gli ulivi le rocce il muro la torre le sipale, c’eran uomini nascosti che volevano rapirla, farla perdere, rovinare (…) «Mi parlano, mi parlano!» diceva stringendo la testa fra le mani». «Nell’orecchio, nel cervello, vigliacchi!’e torbidi erano i suoi occhi, più neri nel pallore della faccia.». Per una tassonomia moderna della sua delirante afezione psicotico-paranoica si veda Eugenio BORGNA, Op. cit.«Lo que se ha de entender desto de convertirse en lobos es que hay una enfermedad, a quienlos médicos llaman manía lupina, que es de calidad que, al que la padece, le parece que sehaya convertido en lobo, y se junta con otros heridos del mismo mal, y andan en manadaspor los campos y por los montes, ladrando ya como perros o ya aullando como lobos; despedazanlos árboles, matan a quien encuentran y comen la carne cruda de los muertos, y hoy día sé yo que hay en la isla de Sicilia (que es la mayor del Mediterráneo) gentes deste género,a quienes los sicilianos laman lobos menar, los cuales, antes que les dé tan pestífera enfermedadlo sienten y dicen a los que están junto a ellos que se aparten y huyan dellos, o que losaten o encierren, porque si no se guardan, los hacen pedazos a bocados y los desmenuzan,si pueden, con las uñas, dando terribles y espantosos ladridos.», Miguel de CERVANTES, Lostrabajos de Persiles y Sigismunda, ed. di Carlos Romero, Madrid: Cátedra, 2002, p. 244. D’altronde l’autore del Quijote poco si allontana dalla iconografia tradizionale dell’uomo lupo, così come è attestata nel Licaone di Pausania o di Ovidio. Si veda Paola MICOZZI, «Tradición literaria y creencia popular: el tema del licántropo en Los trabajos de Persiles y Segismunda de Cervantes», Quaderni di filologia e lingue romanze, III serie, n. 6, 1991, p. 107-152.Luigi PIRANDELLO, «Mal di luna», in Novelle per un anno, vol. II, t. I, a cura di M. Costanzo,Introduzione di G. Macchia, Milano: Mondadori, 1987, p. 486-495.La presenza della luna, invece, diventa elemento costante e ricorrente in particolar modo a partire dal XIII secolo, anche se nel Satyricon di Petronio era già stata descritta una metamorfosi lupina al chiaro di luna. Si vedano Gaël MILIN, Le chiens de Dieu, Centre de Recherche Bretonne et Celtique, 1993 (trad. it. El licantropo, un superuomo?, a cura di Jose Vincenzo Molle, Genova: ELCIG, 1997: p. 60-64) e P. MENARD, Les lais de Marie de France, París:P.U.F., 1979. In quest’ultimo leggiamo a p. 222-223. «So bene — scrive Gervasio di Tilbury al capitolo CXX (De hominibus qui fuerunt lupi) della terza parte degli Otia — che nel in merito a questo, la supplica che il malato dirige ai familiari di allontanarsi da lui quando arriverà l’attacco del male. Inoltre è importante qui sottolineare che il male della licantropia20 viene attribuito da Cervantes alla terra siciliana, 21 e abbiamo già visto che Consolo nel citato articolo Paesaggio metafisico…dichiara che l’identità arcaica dell’isola risiede appunto nell’esistenza di forme di bestialità terrorifica: nostro paese càpita ogni giorno che certe persone siano mutate in lupo sotto l’influsso delle lunazioni (per lunationes mutantur in lupus)». Con il corpo coperto di pelo, l’infermo correva per i boschi, in preda al delirio, celandosi allo sguardo altrui e attaccando ferocemente persone o animali con cui s’imbatteva. Passata che era la crisi, la persona malridotta, di solito un uomo (è una malattia prettamente maschile, per quanto ci siano versione femminili di trasformazioni zoomorfe, come la donna-pantera), tornava in sé dimentico dell’attacco di follia. Questa versione del problema ha alimentato molta letteratura scritta e cinematografica, fino al punto che Boris Vian (Le loup-garou) ne fece una versione inversa, il lupo che si trasforma in uomo, cioè, il lupo-uomo. Chiamati anche ulfhednar (uomini vestiti di pelli di lupo), i lupi mannari facevano parte tranquillamente delle truppe delle antiche popolazioni germaniche e scandinave in quanto eccezionali combattenti. La licantropia (dal greco lykos, lupo, e anthropos, uomo), cioè la trasformazione di un uomo in «lupo mannaro», il «luponario», per effetto di una forza malvagia o di uno spirito animale capace d’impossessarsi di un essere umano e agire attraverso di lui, non solo ha riempito leggende e storie di tutto il mondo, ma è stata da alcuni considerata una vera e propria infermità mentale. Una malattia che portava a chi la soffriva ad assumere l’aspetto di un lupo, almeno per un periodo di tempo non troppo lungo, coincidente il più delle volte con il plenilunio. Si veda Gabriele CHIARI, «Il lupo mannaro», in Lützenchirchen, Mal di luna, Roma: Newton Compton, 1981, p. 57-81; J.A. MAC CULLOCH, «Lycanthropy», in J. HASTING (a cura di), Enciclopedy of Religion and Ethics, tomo VIII,206-220; Gaël MILIN, Op. cit. e Ermanno PACAGNINI, «Uno sguardo amaro e memoriale», in Il Sole-24 ore, 5 aprile 1992 [ora in Nuove effemeridi, n. 29, 1995, p. 148-149];P. BLUM, The Bordeline Childhood of the Wolf-Man, in Freud and his patients, a cura di Kanzer e J. Glenn, II, New York-London, 1980, p. 341-58; S. CAMPANELLA, Mal di luna e d’altro, Roma: Bonacci, 1986; Gilbert DURAND, Les structures anthropologiques de l’imaginaire, Paris, Bordas, 1969; M. GARDINER (a cura di), The Wolf-Man by the Wolf-Man, New York, 1971; Carlo GINZBURG, «Freud, l’uomo dei lupi e i lupi mannari», in Id, Miti emblemi spie. Morfologia e storia, Torino: Einaudi, 1992, p. 239-251; F. HAMEL, Human animals, Wellingborough: The Aquarian Press, 1973; Th. LESSING, Haarmann. Storia del lupo mannaro, trad. it. Milano: Adelphi, 1996; Guglielmo LÜTZENKIRCHEN et alt., Mal di luna, con un saggio introduttivo di Alfonso M. Di Nola, prefazione di Nando Agostinelli, Roma: Newton Compton editori, 1981; R. VALENTI PAGNINI, «Lupus in fabula. Trasformazioni narrative di un mito», in Bolletino di studi latini, n. 11, 1981, p. 3-22. Ringrazio l’amico Giosuè Lachin, esperto in luponari, l’arricchimento della mia biblioteca sull’argomento. Carlos ROMERO (en su edición de Miguel de Cervantes, Los trabajos de Persiles…, cit, 244-245) commenta a nota 15 de la p. 244: «[Cervantes] tendría oído y memoria suficiente para recordar un termino siciliano, aunque no privativo, desde luego, «de la mayor isla del Mediterráneo», en la que — no lo olvidemos — vivió bastantes meses y pudo tenerefectivo conocimiento de casos de licantropía o manía lupina. En DEI, art. lupomannaro, se lee: «V[oce] di orig. merid., che raggiunge la Sicilia, cfr. abr.[uzzese], lopëmënarë, dal molfett[ano] lëpòmërë, cal[abrese] sett. lëpuómmërë, dal la.t. regionale lupus homines (…) Si error de transcripción sigue habiendo, por parte de C., es ahora mínimo — y comprensible dada la ardua fonética de los dialectos del sur de Italia.» Io penso, invece, che l’etimologia di «luponario» provvenga dal latino lupus hominarius. Un urlo bestiale rompeva il silenzio nella notte di luna piena. Ed era uno svegliarsi, un origliare dietro le porte serrate, uno spiare dietro le finestre socchiuse, un porsi in salvo al centro dei crocicchi o impugnare la lama per ferire alla fronte e far sgorgare gocce di nero sangue. Il licantropo s’aggirava per l’abitato, a quattro zampe, ululando, grattando, le porte, con le sue unghie adunche. Il lupo mannaro era l’incubo, lo spavento notturno, nella vecchia cultura contadina, carico di male e malefizio, contro il quale opponeva crudeli gesti esorcistici. La rappresentazione del licantropo che ulula alla luna all’inizio della narrazione consoliana non lascia indifferenti. La metafora dell’uomo lupo ci parla del dolore straziante di alcuni esseri umani — forse anche dell’intera umanità intesa come singoli individui, famiglie o intere società — contro i quali il destino si è accanito da decenni, se non addirittura da secoli, sotto forma di sfruttamento,depredazione, violenza fisica e morale. Condizione aggravata, nel caso dei Marano e della società siciliana degli anni Venti, dall’avvento del capitalismo selvaggio e soffocante e dall’ascesa del fascismo. La metafora dell’uomo lupo ci parla ancora dell’impossibilità di reagire da parte delle vittime di tale accanimento, se non attraverso la pazzia (di Lucia), la metamorfosi e le urla bestiali (di Marano padre) o il silenzio (del protagonista, Pietro, e di sua sorella Serafina). La licantropia di Marano padre si pone al di là della densità mistica e folclorica della licantropia e del licantropo in generale, già studiata da alcuni autori. C’è infatti in essa una eco di afflizione amorosa che ricorda l’acme dello stato di malinconia d’amore, descritta dal medico catalano Arnau di Vilanova, e da lui denominata cicubus, nel De parte operativa (1271). Tra i sintomi del male non vi è soltanto l’orrore e l’odio irrazionale per la società, ma la convinzione di essere «galli, lupi, cani, vasi di vetro, o di avere la testa di vetro o persino di essere senza testa o anche morti».22

Anche il lessico e il ritmo poetico del primo capitolo ci ricordano i poeti lunari che sono, per sua stessa ammissione, i preferiti di Consolo e che non a caso formano con le loro opere la biblioteca ereditata dalla familia Marano e quella privata di Pietro. Penso in particolare a Leopardi (ma riferendoci all’autore, dovremmo citare anche Lucio Piccolo) i cui idilli notturni sono l’ipotesto di alcuni dei momenti di altissima poesia delle descrizioni di questa parte. Basti un esempio: «Nelle solinghe case sopra il colle, scossi nel pietoso sonno del ristoro, credettero ai passi di mali cristiani, ladri o sderegnati che la notte e il vuoto covrono e incorano». Alla base di questo nucleo narrativo-descrittivo c’è dunque la rappresentazione del malessere dell’umanità o almeno, di quella parte di essa, vittima di soprusi sociali, senza però mai perdere di vista i riferimenti di tipo mitico e archetipico. Teriomorfismo e malinconia. Una storia notturna della Sicilia Quaderns d’Italià 10, 2005 85 «Alienatio, quam concomitatur horror, vel odium irrationabile sive immoderatum, et frequenter haec species manifestatur in errore societatis humanae, vel cuiuscumque individui humani (…) Verbi gratia: de melancholicis, utrum aestiment se gallos esse, vel lupos, aut canes, etc. vel utrum esse vitrea vasa, vel caput vitreum, aut non habere caput: et sic de membris aliis: aut se esse mortuos, et non debere comedere.» Tenendo ben presente questi due ultimi aspetti, a questo punto dell’analisi emerge prepotentemente la tipologia bestiale di Pan, il grande caprone, figura mitica e archetipica, contrapposta per morfologia e comportamento al luponario che, con le sue zanne e in solitudine, è costretto a vivere il suo calvario lunare. A Pan è dedicata qui di seguito una particolare attenzione. Janu o il ritorno e la nuova morte di Pan «Jeli, lui, non pativa di quelle malinconie», scrive Verga parlando del pastore protagonista della novella omonima.23 E si potrebbe sostituire «Jeli» per «Janu», tale è il collegamento tra il personaggio verghiano e quello di Consolo. Janu, però, è molto di più. Si tratta, innanzi tutto, di uno dei personaggi principali e dei più simbolici della narrazione, visto che le sue vicende occupano gran parte del testo, senza le quali non avremmo diegesi. Egli, come Jeli, è figlio, fratello, amante degli animali con cui vive. Entrambi i protagonisti delle  ispettive

narrazioni sono anche i pastori che, tra le altre cose, iniziano i giovani figli di famiglia agiata alla conoscenza della natura: Petro (e anche sua sorella Lucia), nel romanzo oggetto di questa analisi. Anzi, l’iniziazione sessuale di Petro, a imitazione dello stesso Janu, avviene con le capre en plein air. Petro aveva imparato tuttto dalla mandra (…). Avanti Janu, che aveva più di Petro un paio d’anni. E l’aiutò per questo, là alla mandra, a provare una volta con la capra. «Io la tengo,» disse «sta’ sicuro che non guardo… «Meglio che niente, è cosa naturale…» Una capra lui stesso, Janu («la faccia lunga come quella di una capra»), non proprio incarnazione del dio Pan, ma certo di uno dei suoi fauni. Janu, inoltre, ha un nome che denuncia l’ambivalenza della sua condotta. Giano è infatti il nome del dio bifronte che annuncia i transiti dal passato al futuro e i cambiamenti da una condizione a un’altra. Janu nel racconto è il protagonista principale del passaggio da un mondo nel quale il mito è vissuto ancora in forma pressocché «naturale», con i suoi riti e rappresentazioni cicliche, a un mondo in cui, invece, il mito è forzato a rinascere imparentato con il diavolo o, meglio detto, trasformato nello stesso Satana. Janu è sì la divinità panica («Piace your divine prick, a real satyr’ tool. This sicilian caprone entrare in nostro ovile… Vene, prego, a nostro Tempio, a villa di La pace, all’Abbèi de Thelèm», dice Cronwell, p. 80) che Aleister Crowley — la Grande Bestia 666, to mega therion— cercava negli antenati dell’isola dei satiri, ma anche la vittima propiziatoria del nuovo culto al dio Pan nella sua versione decadente di stregone o diavolo, propria dei costrutti mitici delle contemporane teorie della liberazione. Ma Pan è morto ormai da tempo e il suo ritorno non dipende da Teriomorfismo e malinconia. Una storia notturna della Sicilia Quaderns d’Italià 10, 2005 86
23Cit. da Giovanni VERGA, Tutte le novelle, a cura di C. Riccardi, Milano: Mondadori, 1979,137-172. queste forme superficiali e decadenti di rievocazione mitica, tutte intrise come sono di erotismo sadomasochista e pertanto non soltanto incapaci di guarire, ma al contrario, buone solo ad ammorbare corpo e anima. Il mito della morte di Pan (Pan, le Grand Pan, est mort) già ascoltato nella tarda antichità, indica che la natura ha finito di parlarci e che tutto è reificato, cessando di essere divinità e diventando semplicemente cosa.24 La morte di questo dio che distrugge e insieme preserva, annuncia la scomparsa della società.25 Per questo, il povero Janu, oltre a prendersi una malattia venerea, viene accusato di abigeato. Il dio Pan, il caprone divino, è stato degradato a puro pastore, anzi, a mera capra. Janu è, nella sua ingenuità, un essere ambiguo, senza alcuna malizia, puro istinto («restò solo nel rifugio della mandra. Privo di pensiero, di volere», p. 71). Nella sua degradazione senza pensiero, Janu coincide pienamente con l’immagine di Pan che il nuovo ordine ideologico insegue per i propri sfoghi falsamente liberatori. Ciò appare chiaramente nella scena dell’orgia panica nella quale Janu, il divine prick (il Pan redivivo), rischia di mancare al suo compito, quando, in piena performance priapica, non riesce a raggiungere l’erezione per penetrare la Cortigiana del Mondo. L’impasse è risolta, insieme alla sensazione di ridicolo che Janu vive, grazie alla cocaina. Tra i partecipanti all’orgia si trova anche il dannunziano Baron Cicio, nemico giurato dei Marano, oltre ad altri seguaci delle diverse manifestazioni dell’irrazionalità dell’epoca. Le quali manifestazioni confluiscono poi nell’ideale fascista e negli ambienti fascisti trovarono anche stimoli rappresentati dalle nuove mode, come l’ostentazione di marche e di marchingegni d’oltralpe (che hanno nella Targa Florio il suo acme), lo snobbismo e la violenza cieca. Arrivati a questo punto è evidente lo scontro tra due atteggiamenti contrapposti da ogni punto di vista (antropologico, culturale, ideologico, morale e persino mitico) che si concretizza nella descrizione delle due opposte biblioteche (chiaro riferimento alle biblioteche del Fu Mattia Pascal): quella di Mandralisca, cioè del defunto Michele, «zio» di Pietro Marano, e quella del suo avversario, don Nenè Cicio, patrizio di Cefalù. Quest’ultima un coacervo di tradizioni locali, cinismo, volgarità intellettuale e edonismo dannunziano e decadente, quanto la prima è «esercizio ostinato e appassionato della fantasia», fuga della mente verso altre realtà, con la presenza di grandi autori, tra cui brillano in modo particolare Leopardi, Dante, Pascoli, accanto a Tolstoi e Hugo.
26 Scrittori che alla fine del romanzo Petro contrapporrà anche alla letteratura
politica e ai poeti e letterati realisti e dialettali. Teriomorfismo e malinconia. Una storia notturna della Sicilia Quaderns d’Italià 10, 2005 87 James HILLMAN, Saggio su Pan, Milano: Adelphi, 1977. «La société tombe en dissolution. Le riche se clôt dans son égoïsme et cache à la clarté du jour le fruit de sa corruption; le serviteur improbe et lâche conspire contre le maître; l’homme de loi, doutant de la justice, n’en comprend ples les maximes; le prêtre n’opère plus de conversions, il se fait séducteur; le prince a pris pour sceptre la clef d’or, et le peuple, l’âme désespérée, l’intelligence assombrie, médite et se tait. Pan est mort, la societé est arrivé au bas» — scrive Proudhon, cit in Jean CHEVALIER— Alain GHEERBRANT, Dictionaire des symboles, Paris, Robert Laffont, 1969, p. 724.

  1. Stefano GIOVANARDI, op. cit., p. 152.
    «Ora — leggiamo in Nottetempo… — sembrava che un terremoto grande avesse creato una frattura, aperto un vallo fra gli uomini e il tempo, la realtà, che una smania, un assillo generale, spingesse ognuno nella sfasatura, nella confusione, nella insania. E corrompeva il linguaggio, strancangiava le parole, il senso loro — il pane si faceva pena, la pasta peste, il miele fiele, la pace pece, il senso sonno…» (p. 140). L’oltraggio e le sue diverse forme, insieme alle svariate reazioni ad esso, è il grande tema di questo romanzo. E l’offesa che ha già colpito le persone (i Marano, Janu) fa scempio anche degli oggetti, come appare chiaramente nel capitolo intitolato «L’oltraggio», in cui degli sconosciuti penetrano in casa Marano per frantumare giare, rovesciare fusti, trafiggere otri. Il desolante spettacolo che lascia dietro di sé la furia devastatrice degli uomini non suggerisce al narratore né amare lamentazioni né veementi denunce contro gli «occulti» mandanti dello scempio, bensì una minuziosa descrizione del processo di realizzazione di un oggetto, una giara, che è stata vittima di tanta furia appunto: l’impasto di creta e acqua che l’artigiano plasma e modella, l’azione solidificatrice del fuoco a cui l’artigiano l’affida, gli asini che la trasportano per i mercati dell’isola e continentali. Dall’evocazione della materialità oltraggiata dell’oggetto scaturisce la spaccatura tra arcaicità e modernità. Tradizioni e geometrie di civiltà soccombono alla violenza cieca dei tempi moderni. In senso più lato è la spaccatura già annunciata simbolicamente dalla morte di Pan che nel romanzo acquista le fattezze di Janu. «Trapassa così l’ignaro pastorello dentro l’irrealtà, viene ridotto a maschera, figura, a bruto strumento di cerimonia» si legge nel capítulo «La calura» (p. 79).  Petro o la malinconia positiva E giungiamo finalmente a Petro, protagonista e a tratti voce narrante di Nottetempo…. Anche se la narrazione è a prima vista eterodiegetica, in realtà in molti punti, soprattutto per la focalizzazione costante e per le pause riflessive, risuona la voce di questo personaggio che diventa occhio e penna del narratore, e anche dello stesso autore, quando il romanzo lascia il posto all’autobiografia. Petro attraversa questa storia notturna della Sicilia con quella sua malinconia che lo porta alla fuga dall’isola, deluso dalla politica e dal suo linguaggio, ma destinato a trovare un approdo nella vera letteratura e nella nuova parola. Consideriamo in primo luogo il nome, Petro. Si tratta della variante semidotta e meridionale del nome latino Petrus, dovuta anche all’influsso del greco ecclesiastico. La pronuncia retroflessa della consonante dentale è un ulteriore marchio di sicilianità. Nella scelta del nome si potrebbe vedere un riferimento al Vangelo di Matteo, là dove Gesù consacra l’Evangelista capo della chiesa cristiana: «Tu sei Pietro, e su questa pietra costruirò la mia chiesa… e ti darò le chiavi del regno dei cieli». Non tralasciando questa metafora della fondazione che sta alla base del nome Petro e comunque al di là di qualsiasi riferimento ecclesiastico, non è da scartare che il nome alluda a un altro tipo di fondazione, quella dell’illuminazione conoscitiva, essa pure associata alla tradizione biblica. Petro, però, è qui soprattutto una specie di Sisifo, obbligato a vivere costantemente con la pietra addosso («’No, io non sopporto più, più dentro di me questo cotogno», lamentava Petro «sopra di me questo macigno!» e la sua voce sembrava vorticare per le pietre della torre», si legge a p. 37). Lo stesso peso che ha paralizzato Serafina, ha reso pazzo suo padre e sua sorella Lucia.27 Un dolore nato molto prima di lui e dei suoi famigliari («da qualcosa che aveva preceduto la sua, la nascita degli altri.» p. 106), un freddo nell’anima, qualcosa che «era successo al tempo tangeloso dell’infanzia, una rottura, un taglio mai più rimediato» (p. 135), ripete la voce narrante poco prima dell’incontro di Petro con Grazia (non sfugga la grande valenza simbolica anche di questo nome proprio), la donna con cui egli tenta di «frantumare, con furia, senza posa, la pietra del dolore» (p. 135). Petro, dunque, si trova in una situazione opposta a quella dell’apostolo Pietro, perché la sua pietra è dentro di lui e su di essa si ergerà una più profonda conoscenza del mondo: pietra del dolore o della follia che non pietrifica ma che fonda un nuovo linguaggio che non lascia niente d’inesplorato (sentimenti, credenze arcaiche, gesti e volti, movimenti irrazionali e possibilità di redenzione). Forse per questo, all’inizio del capitolo «La torre», Petro che rappresenta la propria dimora come «casa della dolora, patimento, casa dell’innocenza», rifiuta la visione di Dio che gli è sopraggiunta.
    28 Non c’è dubbio che, in questo senso, l’opera è anche un romanzo di iniziazione a un tipo concreto di saggezza, quella letteraria e linguistica che passa, comunque, per la comprensione generale e particolare dell’umano (casa per casa, appunto). Basta leggere, a questo proposito, un frammento del capitolo «Pasqua delle rose»: «Dal piano di essa [la Rocca], da quel cuore partì con il pensiero a ripercorrere ogni strada vicolo cortile, a rivedere ogni chiesa convento palazzo casa, le famiglie dentro, padre figli, i visi loro, rievocarne i nomi, le vicende. Sentiva d’esser legato a quel paese, pieno di vita storia trame segni monumenti. Ma pieno soprattutto, piena la sua gente, della capacità d’intendere e sostenere il vero, d’essere nel cuore del reale, in armonia con esso. Fino a ieri». Essendo dunque la scrittura e il linguaggio il fulcro del romanzo, è fondamentale seguire con speciale attenzione le tappe attraverso le quali Petro vi accede: dall’impotenza di esprimersi iniziale all’epifania finale. Quasi tutto il capitolo «La torre» gira intorno allo sforzo del protagonista di lasciarsi dietro l’afasia, il grido, l’ululato (anche lui licantropo, in preda al «male catubo»), per appropriarsi finalmente dei nomi («rinominare, ricreare il mondo», p. 39) e con essi del senso, dato che a lui è concesso di non inabbissarsi completamente nella follia, di poter ancora tornare indietro. La luce della candela che compare in queste pagine è metafora della possibilità, non ancora solidamente fondata: sem-Teriomorfismo e malinconia. Una storia notturna della Sicilia Quaderns d’Italià 10, 2005 89
  1. E che ha petrificato, se vogliamo, la stessa Sicilia, come Consolo non manca di ripetere ponendo particolare enfasi sulla metáfora della «petrificazione». «’No, no!… Non voglio!’ e sventagliò le mani per frantumare, fugare quell’immagine, l’immenso dio di tessere che invadeva il cato della fortezza del suo Duomo». Vale a dire il pantocrator del mosaici della cattedrale di Cefalù. plicemente «un lume, nella bufera». Questo stesso capitolo registra il tentativo frustrato di accesso alla scrittura: E nella torre ora, dopo le urla, il pianto, anch’egli, stanco, s’era chetato. Si mise in ginocchio a terra, appoggiò le braccia alla pietra bianca della macina riversa di quello ch’era stato un tempo un mulino a vento, e cercò di scrivere nel suo quaderno — ma intinge la penna nell’inchiostro secco, nel catrame del vetro, nei pori della lava, nei grumi dell’ossidiana, cosparge il foglio di polvere, di cenere, un soffio, e si rivela il nulla, l’assenza d’ogni segno, rivela l’impotenza, l’incapacità di dire, di raccontare la vita, il patimento (p. 53). A questa straziante dichiarazione d’impotenza segue, alcune pagine più avanti (nel capitolo «Il capretto»), quella della descrizione di una catabasi, una discesa, accompagnata inizialmente dal «chiaror di una lanterna»,
    29 dentro «i sotterranei del tempio diruto della Rocca», ma, in realtà, nei luoghi della memoria mitica e materiale dell’isola. Qui ha luogo «un passo nel silenzio»,
    come dice il narratore alla fine di questa scena, vale a dire «un passo all’interno
    del silenzio e al fine di uscirne». È questo un momento centrale: assistiamo a
    un inabissamento in una «zona incerta» della memoria che recupera assenze,
    mondi arcaici, miti e età sepolte; negli «spazi inusitati» illuminati da «una luce labile» ma «nuova», grazie alla quale sembra ancora ipotizzabile la narrazione, per quanto fatta di «frasi monche, parole difettive, per accenni, allusioni, per sfasature e afonie». Il narratore, a un certo punto, ricorda, quasi con le parole di Petro, il momento in cui in un passato imprecisato scoprì l’angelo, assorto e fermo, il cui attento sguardo di accecante luce, enuncia enigmi, misteri ed è «preambolo d’ogni altro spettro». Quest’angelo che Petro dice di aver visto nei sotterrani della torre è, in realtà, uno dei bellissimi nunzi dei mosaici del Duomo di Cefalù,30 come risulta dalla descrizione: «Da sfondi calmi, da quiete lontananze, dagli ocra, dai rosa, dai bruni, da strati sopra strati, chiazze, da scialbature lievi, da squarci in cui traspare l’azzurro tenero o il viola d’antico parasceve». Ma quest’angelo collima con l’altro, lo Scriba, meno esternamente lucente, ma più illuminante internamente, dell’incisione Melencolia I di Dürer: «lo Scriba affaccia, in bianca tunica, virginea come la sua fronte o come il libro poggiato sui ginocchi. (…) È l’ora questa degli scoramenti, delle iner-Ricordiamo, a riprova dell’importanza di quest’immagine del lume, la sua ripresa in una sequenza di chiara ascendeza pascoliana: «Lo guardò Petro allontanarsi [al padre], dietro una finestra, l’altra [Lucia], trapassa, per le stanze un lume, palpita, s’è spento. L’assale l’infinita pena, lo sgomento, si smuove, spande il dolore che ristagna dentro». Inoltre Consolo aveva voluto inserire l’opera di un anonimo Maître de la Chandelle sulla copertina della prima edizione dell’opera. «È un lume che esprime una fede, e questa fede è la letteratura, l’unico antidoto alla pazzia», scrive FRANCHINI 1992: XII. I mosaici si trovano nell’abside e nella crociera. I primi raffigurano Cristo pantocratore a mezzo busto nel catino, la vergine orante fra i quattro arcangeli: Michele, Gabriele, Uriele, Raffaele nel registro inferiore e i dodici apostoli, raggruppati per sei nei due registri inferiori. Nelle vele della crociera, invece, hanno posto le figure dei serafini e dei herubini,questi ultimi accompagnati dalle figure degli angeli del Signore.
    zie, degli smarrimenti, delle malinconie senza rimedio, l’ora delle geometrie
    perfette, delle misure inesorabili, la sfera il compasso la clessidra la bilancia….(…) l’ora della luce bianca, della luce nera, sospesa e infinita.» (p. 65) Lo stesso Consolo ha confermato la fondatezza del rapporto tra il suo angelo e quello dureriano, per quanto alcuni particolari della descrizione non l’avallino; soprattutto il riferimento al volto bianco, poiché è noto che quello dell’angelo della malinconia è nero.31 A meno che non si voglia ritenere che alcune di queste divergenze appartengano alle zone d’intersezione tra le due immagini angeliche, se non addirittura a una vera e propria contaminazione fra le due iconografie il cui risultato sarebbe un lettura in positivo, un vero e proprio superamento, di quella dureriana. Il resto della descrizione dello «Scriba» «in bianca tunica» con il «il libro appoggiato sui ginocchi» nell’ «ora delle geometrie perfette, delle misure inesorabili, la sfera il compasso la clessidra la bilancia » ci porta, invece, inesorabilmente alla citata acquaforte dell’incisore di Norimberga. Per non parlare della luce crepuscolare di per sé sufficiente elemento di collegamento fra le due immagini. Un crepuscolo, quello dell’incisione dureriana «magicamente illuminato — detto con parole degli studiosi tedeschi — dal chiarore di fenomeni celesti, che fanno sí che il mare nel fondo brilli di una fosforescenza, mentre il primo piano sembra illuminato da una luna alta nel cielo che proietta ombre profonde ». È una «doppia luce» (significato letterale di twilight, crepuscolo) altamente fantastica che domina tutta l’immagine, la quale non intende riprodurre le condizioni naturali di una data ora del giorno, ma alludere piuttosto al misterioso crepuscolo di uno spirito, che non riesce a cacciare i suoi pensieri nella tenebra, né a «portarli alla luce».32 Il contenuto concettuale di quest’immagine è doppio, come lo è chiaramente la rappresentazione della scena da parte del narratore consoliano («l’ora della luce bianca, della luce nera, sospesa e infinita »). È doppia anche la natura stessa di Crono o Saturno, dio del Tempo, dominatore dell’età dell’oro e divinità triste e detronizzata, generatore e divoratore contemporaneamente di tutto l’esistente; spirito maligno e dio antico e saggio dei malinconici, esseri divini e bestiali allo stesso tempo. Così come l’ambivalenza del verso di Ungaretti citato qualche volta da Consolo: «la notte nelle vene ti sveglierà». Tutti questi elementi iconografici dureriani (il libro, la geometria e gli oggetti di misura e calcolo), presenti persino in gran parte della tradizione iconografica della malinconia,33 rappresentano oggetti già predisposti alla scrittura, alla strutturazione dello spazio in linee e vettori, al calcolo, ma non ancora utilizzati, poiché l’attenzione del protagonista è previa all’azione, cioè tutta rivolta alle profondità della sua mente. La saggezza dei malinconici è figlia delle profondità. Ma ci vuole l’angelo della luce per passare a uno stadio superiore Si veda KLIBANSKY-PANOFSKY-SAXL, Op. cit., p. 272-273 y 300. KLIBANSKY-PANOFSKY-SAXL, Op. cit., p. 300.
  1. Walter BENJAMIN, Il dramma barocco tedesco, Torino: Einaudi, 1980, p. 145-161. Per quanto riguarda gli oggetti si veda KLIBANSKY-PANOFSKY-SAXL, Op. cit., p. 287-297. di linguaggio e conoscenza. Un angelo bianco che era stato annunciato pagine addietro dalla figura vestita di bianco di Lucia, sorella di Petro, quando questi la consegna al ricovero di malati mentali di Bàida (in arabo, bianco) in preda alle allucinazioni («Mi parlano, mi parlano»).34 È anche indubbio che nella scena narrativa a cui ci siamo dedicati vengono esplorate le rovine di quella Sicilia cantata in diversi luoghi delle Metamorfosi ovidiane e nell’Eneide di Virgilio (soprattutto nel libro III). A essi rimandano gli «abissi, i vuoti, il nulla che s’è aperto ai nostri occhi» dai quali emergono «frammenti, schegge», giacché per un istante il mondo lascia scorgere le sue profondità. Si tratta sicuramente di una scena importante per il suo legame con la malinconia generosa o positiva che è il fondamento psicologico di tutte le arti, la conditio sine qua non di ogni invenzione poetica; un fascio di luce intensissimo che fa risplendere le cose e l’esperienza che di esse abbiamo. 35 È lo sguardo fisso dell’Angelus novus con gli occhi spalancati, la bocca aperta e le ali dispiegate. «L’angelo della storia — scrive Benjamin nella Tesi IX delle note “Tesi della Filosofia della Storia”36— deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera che si è impigliata nelle sue ali, ed è cosi forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che chiamiamo progresso, è questa bufera.» La malinconia è dunque la dimensione dalla quale è possibile comprendere la profondità del mondo; è quindi il tentativo disperato di salvare le cose dal loro precipitare nelle fauci del tempus edax (Che non consumi tu Tempo vorace, ripete il narratore citando Ovidio). Scrive Benjamin in una pagina che amo citare e che qui mi sembra piuttosto pertinente: «La melancolia tradisce il mondo per amore di sapere. Ma la sua permanente meditazione abbraccia le cose morte nella propria contemplazione, per salvarle.» La fuga di Petro è anche una fuga sia dal silenzio sia dal grido, per aprirsi finalmente alla possibilità di accedere alla parola. Se quella del padre, il luponario, era la fuga nella notte della ragione, nella nera irragionevolezza, nel grido della disperazione, quella di Petro può raggiungere finalmente l’espressione vera che rivela fino in fondo l’angoscia. La Tunisia, in cui approda Petro, è certamente un omaggio dell’autore a una delle prime destinazioni degli espatriati siciliani,37 ma è anche, e soprattutto, la prospettiva dalla quale, liberi dall’oppressione ambientale, si può finalmente guardare e capire la martoriata Sicilia, così come insegnano tanti grandi scrittori siciliani, quali Verga, Capuana, Vittorini che hanno potuto parlare della loro terra solo quando si trovavano lontano da essa. Il libro finisce come è cominciato, con un plenilunio che illumina il camposanto. Selene, però, non diffonde il suo distaccato candore sui passi disperati di un licantropo, ma è il lume amico che rischiara la strada, non dico verso la guarigione, ma verso un sapere che aiuti a capire il mondo; invece di accompagnare con fredda luce una delle sue creature condannate, ispira un futuro poeta, giacché la conoscenza è fulgore — folgorazione — lunare. Per giungere al punto in cui la luna è sole che illumina il mondo interiore del soggetto, è stato necessario passare attraverso il dolore e la disperazione, conoscere tutte le case e le cose, le pareti, le pietre; leggere tutti i libri, assistere alla degradazione bestiale di amici e nemici, alla degradazione delle tradizioni, dei costumi e dei miti, alla depravazione dei presunti liberatori dello spirito, alla violenza criminale dei fascisti, alla cieca ottusità dei millenaristi politici di qualsiasi specie («Petro costernato aveva visto ancora in quel vecchio la bestia indomita. La bestia dentro l’uomo che si scatena e insorge, trascina nel marasma. La bestia trionfante di quel tremendo tempo, della storia, che partorisce orrori, sofferenze» — p. 170). Petro ha dovuto attraversare il silenzio e il grido: «Ma prima è l’inespresso, l’ermetico assoluto, il poema mai scritto, il verso mai detto. È il sibillino, il mùrmure del vento, frammento, oscuro logo, profezia dei recessi. È la ritrazione, l’afasia, l’impetramento la poesia più vera, è il silenzio. O l’urlo disumano» — si legge a p. 164, giusto prima che le parole e lo

    stile adeguati escano finalmente dalla penna, si stampino sulla pagina. Da qui deriva, per conseguenza, la critica sia del realismo che del decadentismo letterari. Un nuovo tipo di letteratura è necessario. Dalla catabasi, dal descensus nella memoria addolorata del mondo siciliano deve sorgere un nuovo stile che riunisca senza distinzioni gerarchiche tutti i livelli di realtà della  faro, p. 219: «Riprende l’emigrazione italiana nel Maghreb nei primi anni dell’Ottocento.
    È un’emigrazione questa volta intellettuale e borghese, di fuorusciti politici, di professionisti, di imprenditori. Liberali, giacobini e carbonari, si rifugiano in Algeria e in Tunisia […]. A Tunisi s’era stabilita da tempo una nutrita colonia di imprenditori, commercianti, banchieri […]. Accanto alla borghesia, v’era poi tutto un proletariato italiano di lavoratori stagionali, pescatori di Palermo, di Trapani, di Lampedusa che soggiornavano per buona parte dell’anno nelle coste maghrebine. // Ma la grossa ondata migratoria di bracciantato italiano in Tunisia avvenne sul finire dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, con la crisi economica che colpì le nostre regioni meridionali. […] Alla Goletta, a Tunisi, in varie città dell’interno, v’erano popolosi quartieri che erano chiamati «“Piccola Sicilia” o “Piccola Calabria”. » È una storia troppo complessa, quella delle conseguenze che hanno avuto, in seguito, la guerra di Libia, il fascismo, la seconda guerra mondiale sulle comunità siciliane e italiane di Tunisia per poterla riassumere qua. Lo stesso Consolo rimanda al libro di Nullo Pasotti, Italiani e Italia in Tunisia. storia. Non una narrazione lineare, ma una storia piena di tortuosità, a strati sovrapposti, con personaggi, sensazioni e sentimenti del presente, del passato prossimo e di quello più remoto, che attinge a miti a cui si rifanno i comportamenti, in una frantumazione caleidoscopica. Non una lingua standard, ma quella più vicina al punto dal quale sgorgano le emozioni, alla gola strozzata di chi sta per emettere un grido che, invece, si trasforma in una frase, mozza e imperfetta, ma già intelligibile; una lingua piena di terrori e di incertezze di chi si dibatte tra l’impossibilità dell’esprimersi e la necessità di parole, di storia, di narrazione.38 La verticalità poetica opposta alla piatta orizzontalità della lingua standard. L’enumerazione, il pastiche, il miscuglio formato da italiano, inversioni, iperbati) e una accozzaglia di termini siciliani, spesso impenetrabili per un lettore non isolano, non rispondono al gusto di un mero «edonismo linguistico», di un puro artificio, ma a una scelta linguistica concreta che obbedisce al mondo interiore di questo Figlio del Lupo, il Wölfing. Egli esprime il dolore e la rabbia con il nuovo linguaggio asformato la sua pietra del dolore, la sua tristezza abissale. L’identità Petro-narratore è, credo, la conseguenza logica di quello che abbiamo appena detto: la fine del romanzo coincide con il suo stesso inizio, vale a dire che la storia inizia quando la voce narrante può finalmente raccontare il suo travagliato accesso alla scrittura. Nottetempo… è dunque l’autobiografia di Petro Marano, il figlio del bastardo, il capro malinconico che ha attraversato il dolore, la storia notturna sua e del suo paese, la Sicilia.39 «Forme e funzioni del linguaggio», in Nuove effemeridi, n. 29, 1995, p. 15-29.per quanto essenziale per capire il valore del linguaggio con il quale entrambi tentano di recuperare Pan e l’irrazionalità dell’istinto, considerati parte della nostra stessa realtà. Non si tratta di un programma di recupero superficiale degli istinti, come quello ideato dal satanista Crowley, ma di riappropriarsi delle caverne di Pan e di Licaone come parte della nostra mente notturna. Se anche essa non potrà ridarci la salute, ci renderà comunque più chiaroveggenti.
    Le riflessioni di Massimo CACCIARI, L’Angelo necessario, Milano: Adelphi, 1986 sull’angelo nuovo hanno molti punti di contatto con questi nostri angeli, in particolar modo il capitolo II («Angelo e demone»), dove leggiamo: «Il paradiso è perduto per sempre cercato, ma la ricerca si svolge “sin luz para siempre”. Essi [gli angeli] inondano il quotidiano, la loro dimora non è più in nessun modo inseparabile dall’ aria che l’uomo respira». Si veda ancheJosé JIMÉNEZ, El ángel caído, Barcelona: Seix Barral, 1982.Eugenio BORGNA, Op. cit., 1992, P. 149 Walter BENJAMIN, Sul concetto di storia, a cura di Gianfranco Bonola e Michele Ranchetti, Torino: Einaudi, 1997.Come ci ricorda lo stesso Vincenzo CONSOLO in «Il ponte sul canale», ora in Di qua dalPer una ricerca più approfondita della lingua di Consolo, si veda Salvatore C. TROVATO,Invece l’identità Petro — Consolo è più complessa, e in un certo modo meno interessante,

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Della luce e della visibilità Considerazioni in margine all’ opera di Vincenzo Consolo

 

Della luce e della visibilità
Considerazioni in margine all’opera di Vincenzo Consolo
Paola Capponi Universidad de Sevilla
Abstract

La luce, la luminosità, ossia le forme con cui la luce è presente nell’intertesto consoliano paiono assumere valenze che trascendono la mera descrittività , la nota paesaggistica. Un lessico della luce (e dell’ombra) preciso e puntuale definisce il rapporto tra Milano e la Sicilia, tra il centro e la periferia, tra passato e presente. L’intreccio di tali coppie oppo-sitive rende incalzanti i rimandi dal piano diatopico (Milano – Sicilia) a quello diacronico(passato-presente). La riflessione stessa sulla memoria e sulla possibilità del narrare attinge ad un repertorio di immagini e di luoghi della tradizione che si rifanno alla luce come ele-mento metaforico portante. Si apre così la possibilità di articolare intorno al tema della luce un percorso che, attraverso più livelli di lettura, arriva ad alcuni nodi della scrittura dell’ autore. Parole chiave: luce, lessico, diatopia, diacronia, memoria  (Vincenzo Consolo).

Abstract The light, the brightness, namely the shapes in which light is present throughout Consolo’s writing seem to take on contents that transcend mere descriptiveness and notes on the land scape . A precise and punctual vocabulary of light (and shadow) defines the relation ship between Milan and Sicily, between the centre and the periphery, between past and pre-sent. The interweaving of such opposing pairs makes the references from the diatopic plane(Milan-Sicily) to the diachronic plane (past-present) more imminent. The reflection onmemory itself and on the ability to tell a story draws on a repertoire of images and tradi-tional places that take their revenge on light as the main metaphorical element. This opensup the possibility of constructing a path around the subject of light, which, on several lev-els of reading, gets to the heart of the author’s writing.Key words:light, vocabulary, diatopics, diachronics, memory
( Vincenzo Consolo ).

1.Per motivare la scelta della luce come oggetto di riflessione, parto da un testo breve, 29 aprile 1994: cronaca di una giornata (pubblicato nel numero 29 di Nuove Effemeridi) in cui Vincenzo Consolo racconta di una mattinata dedicata alla scrittura (e precisamente alla stesura de L’olivo e l’olivastro) e alla memoria, al flusso memoriale, interrotta a mezzogiorno per comprare il giornale,grigio momento in cui rientrare nell’ avvilente e bigia quotidianità. La cesura della giornata, la bipartizione, evidente e chiara nella brevità del testo nonché le riflessioni iniziali, proprie del momento della scrittura, della narrazione e della memoria, offrono lo spunto per alcune osservazioni di carattere più generale che costituiscono la nervatura di questo intervento. Due sono gli elementi sui quali voglio soffermarmi: la cesura e il viaggio. Cesura, ossia spaccatura, individuazione di due poli distinti, e viaggio, quasi geometricamente inteso, quale tratto, segmento che unisce due punti separati. Nella prima parte del testo, Consolo racconta di un viaggio, anzi di molti viaggi e, più propriamente, di fughe, allontanamenti in cui punto di dipartita e punto d’approdo si intrecciano, alternandosi. I due poli sono la Sicilia e Milano; al movimento di fuga dalla Sicilia, dalla periferia verso un Nord di lavoro, di rispetto di leggi e di diritti, al viaggio da una terra di «immobilità,
privazione e offesa»1 verso la città dei lumi, si oppone un movimento contrario che dalla città delle nebbie riporta all’ isola del sole.
Vado in Sicilia e ne fuggo ogni volta, ritorno a Milano […] Credo sia questo ormai il destino d’ogni ulisside d’oggi, di tornare sovente nell’ Itaca del distacco e della memoria e di fuggirne ogni volta, di restare prigioniero nella reggia d’Alcinoo, in quel regno di supposta utopia, d’irreale armonia, condannato a narrare all’ infinito, come un cieco cantore, un vecchio svanito, i suoi nostoi,le sue odissee.
2 Il nostos fiorisce e si complica dunque in una serie di viaggi senza posa, in cui la Sicilia già non è più l’isola del Sud, geograficamente e puntualmente individuabile, ma l’Itaca dei distacchi e dei ritorni infiniti, la terra cui si anela tornare e da cui si continua a fuggire, ormai spaccata, franta in lacerazioni amare. Il nostos privato si fa viaggio di «ogni ulisside d’oggi», viaggio che presuppone un ritorno o, meglio, un movimento pendolare perpetuo, quasi tra i labbri di una ferita, tra i lembi di una frattura lenita solo dalla narrazione. Proprio la biforcazione è eletta a simbolo e titolo in L’olivo e l’olivastro. L’opposizione coltivato-selvatico, civile-barbarico non è solo emblema della condizione della Sicilia, bensì di una regione universale, di una Sicilia che si fa «metafora dell’Italia (dell’Europa, del mondo?)».3 La frattura è certo quella 1.  Vincenzo CONSOLO, «29 aprile 1994: cronaca di una giornata», in Nuove Effemeridi, n. 29,1995, p. 4.2.Ibid.,p. 4.3.Ibid., p. 5.

Tra la città del Nord, Milano, e l’isola del Sud, la Sicilia, ma è anche spaccatura interna alla Sicilia stessa, terra dal glorioso e sfavillante passato e dal presente oscurato da privazioni e barbarie, ed è, in ultima analisi, condizione comune, universale. Se in una dimensione sincronica, possiamo rintracciare dunque l’opposizione tra Milano e Sicilia, centro e periferia, luce e ombra, e ricostruire geograficamente il viaggio tra i due poli, nella dimensione diacronica individuiamo il contra-sto tra la luce del passato e il buio del presente. Si intrecciano insomma due coppie oppositive, una sul piano orizzontale, diatopico: [Milano : Sicilia] e una su quello verticale, diacronico: [Presente :Passato]. La combinazione dei due piani è una delle cife della scrittura consoliana: i tagli diacronici sono abilmente incastonati nella tessitura lineare,quasi incursioni verticali che paiono imprimere alla scrittura un movimento vorticoso, un avvitamento che penetra le stratificazioni della storia e acuisce il «dolore» della lacerazione. Il viaggio non è tanto rappresentabile come linea piana che unisce due punti, quanto come percorso carsico, a volte riaffiorante in superficie, trivellazione di strati profondi, discesa nelle profondità ipogee. A Siracusa stride il contrasto tra lo sfarzo della potenza antica e il degrado presente: Mi trovo, confuso, smarrito, in questo teatro di profonda memoria, di continui richiami, in questa scena odierna di degrado e macerie, deserta di parola,poesia, in questa cavea di urla e fragori, sotto un cielo di spesse caligini, presso un mare di petroli e liquami. In Siracusa è scritta la storia dell’infinito tra-monto della civiltà nostra e cultura, dell’umano sentire, è impressa la notte della ragione e della pietà.
4 A Milano non meno doloroso è lo spegnersi dei Lumi, un tempo baluardo e faro per la società civile, ora fioche luci tra le nebbie:questa città del disinganno, dell’utopia crollata, della mediocrità più squallida,della nevrosi e dell’aggressività, del deserto d’ogni gioia, d’ogni bellezza, perché non c’è più un’Itaca dove ridurmi e conciliarmi, in cui ricomporre l’armonia perduta.
5 La desolazione del tempo presente irrompe nella giornata di Consolo quando, a mezzogiorno, sospende il lavoro (e, con esso, il fluire di antiche memo-rie) e compra il giornale: «È il momento, quello, della frattura, del ritorno brusco nella prosa offensiva del presente, dell’ingresso nel grigio miserevole teatro di questo regno dei Feaci ».
6 La chiusura del testo è affidata ad un’immagine di allargato tramonto infinito, che cala sulla giornata (il 29 aprile 1994),su Siracusa e su Milano: «Tutto ormai in questo Paese è di banalità e orrore,4.Ibid., p. 5.5.Ibid., p. 6.6.Ibid., p. 6.
di degrado e oblìo, è tramonto infinito, è Siracusa, è fiammella d’olio o di candela che si spegne, è buio di catacomba».7 Lenizione e riparo all’ offesa presente è l’interruzione stessa del presente, la sua sospensione, e quindi lo scrivere e la memoria: «Mai sempre tuttavia il viaggio, come distacco, come lontananza dalla realtà che ci appartiene è un sognare. E sognare è vieppiù lo scrivere, lo scriver memorando del passato come sospensione del presente, del viver quotidiano. E un sognare infine, in suprema forma, è lo scriver d’un viaggio, ed’un viaggio nella terra del passato».82. La luce è elemento fondante del panorama meridionale. La luminosità e la pienezza di luce sono dati del paesaggio, tratto distintivo della campagna siciliana arsa, bruciata dal sole, ostica, assopita nei silenzi meridiani («Nei silenzi, si udiva solo il mormorio dei piccioni, il lamento della cicala, di tutta la campagna sotto il sole»9), vibrante nell’ aria calda del meriggio:il sole […] dal balcone era arrivato prima sulla tovaglia. Così caldo, questo sole, che si levava già dalla rena alla marina il fumo tremolante del vapore.[…] Due cani si mordevano gli orecchi saltando sopra il mucchio dei rifiuti, si davano zampate, giravano attaccati attorno a un palo inesistente. Questo sole.
10 La Sicilia si presenta tutta «sotto il segno del sole», terra dura di stenti e di fatiche, di uomini «nutriti di sarde e di cicorie ed asciugati al sole»,11 che mangiano «sole come pane».12 La luce riflessa sulle pietre, nel riverbero del mare, battente sugli splendori antichi di antiche città, è sfarzo e bagliore accecanti; filtra, rimbalza tra le mura e i palazzi, le rovine e i ruderi, quasi principio vivificante in grado di restituire in forma di miraggio l’antico splendore, grazia e armonia del passa-to. L’opposizione è netta rispetto alle città del Nord, rispetto a Milano, città di brume e di foschie, di luci spente:una terra nordica, luntana, ’na  piana chiusa da montagne altissime, d’eterni ghiacci e d’intricati boschi, rotta da lunghi fiumi e laghi vasti, terra priva di mare, cielo, sole, stelle, lune, coi verni interminabili carichi di nevi, e con l’estati brevi, umide, brumose, ove la gente ognora mangia lardi, cotiche, verze,ranocchi, passeri, pulenta di granturco…137.Ibid., p. 7.8.  ID., Retablo, Palermo: Sellerio, 1987, p. 77.9.  ID., La ferita dell’Aprile, Milano: Mondadori, 1963, p. 147.10.Ibid., p. 120.11.Ibid., p. 106.12.Ibid., p. 72.13.Retablo, p. 66.

La gamma cromatica calda dei tramonti siciliani, oro-arancio-viola, o lo sfavillío dorato dell’aurora a Palermo, «latteggiante e rosseggiante», stride con le sfumature nel grigio delle nebbie e dei fumi, con il biancastro e con il grigiastro del gelo del Nord. Nell’ ora del tramonto, l’occhio indugia nel paesaggio di Sicilia mutante di colori; un sole cefalutano «imporporava il mondo,stramangiava le cose, faceva di fuoco cielo, terra alberi, uomini, rendeva irreale ogni presenza, movimento».
14 È un paesaggio in vitro quello offerto dalla città dei Lumi, da cui si fugge,di desolante grigia uniformità, indefinitezza di confini in cui vaga l’occhio vacuo e perso:Era una mattina di novembre. Al di là del capannone, oltre i vetri polverosi, si scorgeva un piccolo campo, un terreno vago circondato d’altri fabbricati, d’ altri capannoni con ciminiere, sfumati dalla nebbia, un campo sulle cui stoppie marcite di granturco gravava una bruma grigiastra, si stendeva una pellicola biancastra di brina gelata.
15 La terra a cui tornare, l’armonia perduta cui ricongiungersi richiamata quasi in controcanto dal panorama milanese è la Sicilia ma, ancora una volta, con drammatico taglio diacronico, non già la Sicilia d’oggi, quanto la Sicilia, metaforicamente intesa, d’un tempo:la Sicilia era un’isola surreale o metafisica, con solo città sepolte, necropoli,latomie, ipogei pieni di sarcofagi di marmo luminoso, di neri lucidi crateri con dei ed eroi graffiti; con templi teatri agorai di città morte in luoghi remo-ti, deserti, incontaminati.16 In una menzione del nostos di Ulisse (più volte echeggiato nei romanzi consoliani ) offerta in L’olivo e l’olivastro è possibile rintracciare, esplicitato, l’intreccio delle due dimensioni. Così è raccontato il ritorno di Ulisse, dalle macerie di Ilio ad Itaca «chiara nel sole…»17:Viaggio da oriente verso occidente, in una dimensione orizzontale. Ma, una volta immerso nella vastità del mare, è come fosse il suo un viaggio in verti-cale, una discesa negli abissi, nelle ignote dimore, dove, a grado a grado, tutto diventa orrifico, subdolo, distruttivo. Si muove il navigante tra streghe, giganti, mostri impensati, tra smarrimenti, inganni, oblii, malie, perdite tremende,fino alla solitudine, all’ assoluta nudità, al rischio estremo per la ragione e perla vita.
1814.  ID., Nottetempo, casa per casa, Milano: Mondadori, 1992, p. 21.15.  ID., Le pietre di Pantalica, Milano, Mondadori, 1988, p. 112.16.Ibid., p. 113.17.  ID., L’olivo e l’olivastro, Milano: Mondadori, 1994, p. 19.18.Ibid., p. 19.

Il ritorno pare coincidere qui con l’inabissamento di sé, con l’immersione nella memoria, con un percorso di progressivo avvicinamento al limen, al limi-te estremo, oltre il quale dilagano il silenzio e l’assenza. Procede il navigante(come la scrittura consoliana) per accumulazione, nel suo duplice percorso in’orizzontale e in verticale; le due forze paiono comporsi in un movimento vorticoso, in un turbinio (o in una «chiocciola») che pare sottendere un unico punto di fuga, un occhio del ciclone in cui punto di dipartita e punto d’arrivo coincidano, ma la meta è solo supposta, suggerita, sfiorata e il ciclone pare sospeso a mezz’aria, pare progressivamente stringere le maglie intorno all’ innominabile, come a stringere d’assedio il non detto o il non dicibile, il silenzio e l’assenza, in un abile e meticoloso lavorio di approssimazione. L’Itaca con cui riconciliarsi è svanita, la terra patria cui è sempre dolce tornare è un luogo della memoria, una meta nel tempo. Il ritorno è ad un presente di degrado e di macerie, ombra della luce di un tempo, fantasma dell’armonia perduta. Nel cielo, le incrinature di fumo dei comignoli dell’Etna, parte del paesaggio antico di Sicilia, lasciano spazio ai fumi delle raffinerie, ai gas dei lacrimogeni, segno, nella volta celeste, delle crepe nella natura e nella società. Forma parte del paesaggio di Sicilia «la colonna attorta del fumo del cratere»19 dell’Etna, che si conficca, quasi incastonata, nel piano orizzontale del cielo, ma alle striature di fumi naturali e di nuvole si aggiungono e si sovrappongono, nel presente, i fumi del degrado, i mia smidella corruzione. A Milazzo, «la colonna di denso fumo» che si vede «levarsi fino al cielo»20 è il segno dell’esplosione della raffineria; «nel cielo si formano nuvole»21 quando a Comiso sono sparati lacrimogeni per disperdere la folla,mentre a Palermo«ristagna sulla città, come un’enorme nuvola compatta, il fumo dei rifiuti».22 Il sole, prima vivificante in un paesaggio armonico, ora secca i gelsomini,al sole di luglio s’incrosta e annerisce il sangue. 23 La luce è elemento che pare acuire di forma tagliente la desolazione e il degrado; svela piazze svuotate,«vuoti gusci di cicale»; è stasi, paralisi, immobilità. A Comiso il sole illumina una città morta:Non resterà di noi neanche una vuota, dorata carcassa, come quella della cicala scoppiata nella luce d’agosto. Non resterà compagna, figlio o amico; ricordo, memoria; libro, parola. 24 Palermo «è fetida e infetta» nel «luglio fervido». Di Avola, «il nuovo paese ricostruito al piano dopo il terremoto» sono ricordate le perfette geometrie, la bellezza dell’antica architettura da cui il paese pare trarre «giustizia e armonia»;
19.Ibid., p. 60.20.Ibid., p. 23.21.Le pietre di Pantalica, p. 179.22.Ibid., p. 166.23.Ibid., p. 170.24.Ibid., p. 166.

Ne sono citate la laboriosità, l’attività umana fervente di dibattiti e di discussioni;è descritto un paese che, nomina omina, è «Apicola soave e laboriosa»: Avola del terreno arso, del mandorlo, dell’ulivo, del carrubo, della guerra con il sole, con la pietra, la città nuova di geometrica armonia, di vie diritte, d’ariose piazze, d’architettura di luce e fantasia […]. La vasta piazza quadrata, il centro del quadrato inscritto nell’ esagono, […] fu sempre il teatro di ogni incontro,convegno, assemblea, dibattito civile. 25 L’armonia passata in cui la mente e la memoria trovano ristoro si frange nel presente, nel momento del «ritorno brusco nella prosa offensiva del presente»: 26 Entra nel vasto spazio nell’ ora della luce umana,della calura che si smorza,nel meriggio tardo ch’ era in passato del brulichio, del brusio sulla piazza […]sotto il cielo fitto dei voli obliqui, degli stridi, dei rintocchi di San Nicola, di Santa Venera, dell’Annunziata, che ora è vuota, deserta, sfollata come per epidemia o guerra […]. Cos’ è successo in questa vasta, solare piazza d’Avola? Cos’ è successo nella piazza di Nicosia, di Scicli, Ispica, Modica, Noto, Palazzolo,Ferla, Floridia, Ibla? Cos’ è successo in tutte le belle piazze di Sicilia, nelle piazze di quest’Italia d’assenza, ansia, di nuovo metafisiche, invase dalla notte, dalle nebbie, dai lucori elettronici dei video della morte? 27 Alla luce e al caldo soffocanti, alle vuote ore meridiane, sarebbe dovuta seguire «l’ora della luce umana», che propizia e accompagna il dibattito, l’incontro, l’attività, ma il tramonto non raccoglie più oggi, come era nel passato,il fervore e l’azione, bensì abbandoni, vacuità, silenzi, attese.3. Con puntualità è rilevato il trascolorare della luce, modulazioni di intensità luminosa che accompagnano il procedere delle ore e scandiscono l’ordine delle attività umane. Il sole ritma inesorabilmente il tempo delle opere e i giorni,dei lavori della campagna e del mare: le ore mattutine sono le più adatte al lavoro, temibile è l’ora meridiana, con il sole a perpendicolo, mentre il tra-monto coincide con la fine delle fatiche del giorno. È un tempo ciclico, chiuso nell’ alternarsi di notte e dì. La luce è dapprima tenue, non ancora dispiegata:Il paese, già sul mattino primo e nella luce ancor non dispiegata, era una scorreria di carri e bestie, di comitive allegre, di musicanti, villani e mercanti cheper ogni porta, di Trapani e Palermo, dello Stellario, di Corleone e del Castello, invadevano le strade e le piazze.2825.L’olivo e l’olivastro, p. 110.26.29 aprile 1994…, p. 6.27.L’olivo e l’olivastro, p. 112.28.Retablo, p. 50.

si fa luce ferina, nel meriggio: Dall’ alba dava forte con la sua sciamarra, un colpo dietro l’altro, rantolando, hah hah, su quella crosta dura di petraia, in dorso di collina declinante, panetomazzo e acqua unico ristoro a mezzogiorno. Piegato in due. Zuppa la camicia e il gilè, il fazzoletto al collo, con quel sole di maggio che ancora gli mordeva sulle spalle. 29 ed è infine luce rosseggiante, prima di spegnersi al tramonto:Il sole sbucava all’ orizzonte sotto una banda nera di foschia, e prima d’eclissarsi dietro i monti, dietro Barrafranca, Pietraperzìa, rosseggiò potente, infiammò gli uomini sopra Ratumeni, le pietre bianche della masseria. Poi, lentamente tramontò e tutto s’incupì. Smisero i braccianti d’arare, di zappare ed erpica-re, riposero gli attrezzi. 30 La scomparsa del sole dietro l’orizzonte, segnale della fine del lavoro per l’uomo di terra, è invece alba e segnale d’inizio, di nuovo giorno, per il pescatore: È l’alba, per loro, questo tramonto, poi si fa notte, scura: la luna piena dice fame ai pescatori, offusca le lampare. Non sanno altro tempo fuori che questo, come le farfalle, i pipistrelli.
31 È forse possibile leggere tale circolarità del tempo non tanto, o non solo,su un piano orizzontale, bidimensionale, come catena perenne di ritorni sempre uguali, quanto nella profondità, in verticale. Frequenti incursioni diacroniche paiono infatti restituire al presente uno specchio lontano, come se dalle profondità del passato e della memoria risalissero tracce, percorsi sommersi che emanano luce sul presente. Lo scorrere del tempo è ritratto come sovrapporsi di stratificazioni che, tagliate trasversalmente, svelano tra loro ricorrenze, similitudini, ritorni. È la lente della memoria e della storia che offre la terza dimensione alla lettura, e consente di cogliere e acuire il sentimento della frattura, della perdita, dei ritorni sotto nuove spoglie, della metamorfosi dell’identico. L’«ordine continuo», il «rosario fatale della corsa»32 è dunque colto nell’ accumulazione di rovine, su cui rinascono altri templi, altre illusioni:La Contrada è illuminata da una luce livida. Si odono ululati di cani, pigolare d’ uccelli notturni, mentre dall’ alto, sulla fontana, sullo spiazzo, piovono lentamente falde di Luna simili a garze luminescenti. Così è stato e così sempre sarà: rovinano potenze, tramontano imperi regni civiltà, cadono astri, si 29.  ID., Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano: Mondadori, 1976, p. 105.30.Le pietre di Pantalica, p. 61.31.La ferita dell’Aprile, p. 74.32.Nottetempo…, p. 129.

Sfaldano, si spengono, uguale sorte hanno mitologie credenze religioni. Ogni fine è dolore, smarrimento ogni mutazione, stiamo saldi, pazienza, in altri teatri, su nuove illusioni nascono certezze. 33 Quando il sole, reggitore dell’universale armonia, impallidisce nella sera,la melanconia attanaglia il Viceré di Lunaria («La luce solare, meridiana, che entra dai balconi, si smorza, da dorata diviene argentea, lunare, illividisce lasala, gli astanti.»).344. Si apre qui una nuova possibile valenza della luminosità nell’ opera consoliana, per indagare la quale è forse opportuno rifarsi al verso di Ungaretti che apre il capitolo Le pietre di Pantalica: «Soli andavamo dentro la rovina», da Ultimi cori per la terra promessa. I versi che precedono quello citato sono questi: «Calava a Siracusa senza luna / La notte e l’acqua plumbea / E ferma nel suo fosso riappariva, / Soli andavamo dentro la rovina / Un cordaro si mosse dal remoto».35 E così recita il primo paragrafo consoliano: È l’ora in cui dal suo acuto ferino di bianca incandescenza si torce, si modula nei toni più mansueti, tangibili — oro arancio viola — la luce. Appaiono quindi le pietre, dal fitto fondale di pini e cipressi avanzano in linee parallele come onde, grigio rosa, muschiate, negli intervalli dove appena s’addensano sottilissime ombre, dentro il cerchio mistico dell’orchestra. Al cui centro, reale e idea-le, bocca d’un segreto cunicolo, d’un buio ipogeo, è una porta, due corti pilastri e un architrave appena arcuato. Scenografia vera, come l’ha conciata degli scenografi il più riduttore, il più essenziale: il tempo. Nella cavea affollata, succede improvviso il silenzio. Ha inizio la rappresentazione della tragedia.
36 Lo scenario di cerchi concentrici, come onde susseguenti si, la polarità verso un centro che ancora sfugge, perché imbocco nero verso profondità ipogee,l’accesso senza sbocco: è questa la scenografia del tempo, opera secolare di stratificazioni circolari i cui raggi ipotizzano un centro. L’architettura complessi-va si svela nell’ ora calda e lieve del tramonto, nella luce crepuscolare che segue«l’acuto ferino» del demone meridiano. Si tratta di un topos particolarmente caro a Ungaretti che al demone meridiano dedicò assidue ricerche, a partire dal commento alla leopardiana canzone Alla primavera.
3733.  ID., Lunaria, Milano: Mondadori, 1985, p. 50.34.Ibid., p. 139.35.  Cfr. Anche L’olivo e l’olivastro, p. 84.36.Le pietre…, p. 157.37.  Nell’ora voraginosa, ora di «luce nera nelle vene», confluiscono memoria e malinconia,furore del sole e zenitale acedia, si congiungono demone meridiano e notturno meridio .Cfr. Carlo OSSOLA, «“Nell’abisso di sé”: Ungaretti e Racine», in B. M. DARIFe C. GRIG-GIO(a cura di), Dal Tommaseo ai contemporanei, Miscellanea di studi in onore di Marco Pecoraio, Firenze: Olschki Ed., 1991, p. 343-358.

Così scrive Consolo in Nottetempo: in un reticolo d’ombre, di caligini, un turbine di braci. È l’ora questa degli scoramenti, delle inerzie, degli smarrimenti, delle malinconie senza rimedio, l’ora delle geometrie perfette, delle misure inesorabili, la sfera il compasso la clessidra la bilancia… Venne poi il crepuscolo, la sera. Una sera azzurra e bruna, vermiglia e gialla. Con un reticolo d’ombre, di caligini, un turbine di braci.È l’ora questa degli scoramenti, delle inerzie, degli smarrimenti, delle malinconie senza rimedio, l’ora delle geometrie perfette, delle misure inesorabili, la sfera il compasso la clessidra la bilancia… (la luna suscita muffe, fiori di salnitro…) l’ora della luce bianca, della luce nera, sospesa e infinita. […] Oltre sono le Rovine.
38 Ritroviamo qui i termini ossimorici ungarettiani (la «luce nera nelle vene»di Ti svelerà) e in altri brani ancora immagini e allusioni al demone meridiano,notturno meridio. L’eccesso di luce, l’incandescenza meridiana, confondono confini, accecano, confluiscono nel buio, nell’ inabissamento di sé, negli abissi di memoria, buio fluire del tempo. La trasfigurazione indotta dalla luce a per pendicolo è colta in più occasioni da Consolo; così nel Sorriso:Luce che brucia, morde, divora lati spigoli contorni, stempera toni macchie, scolora. Impasta cespi, sbianca le ramaglie, oltre la piana mobile di scaglie orizzonti vanifica, rimescola le masse. 39 o in alcune pagine di Nottetempo:Quindi per gradi, per lenti processi discendiamo in spazi inusitati […].Ora, in questa luce nuova — privazione d’essa o luce stessa rovesciata, frantumo d’una lastra, rovinio di superficie, sfondo infinito, abissitade — , in nuovi mondi o antichi, in luoghi ignoti risediamo.
40 L’abbandono e il silenzio grevi dell’ora demente accompagnano e propiziano la calata nel vorticoso fluire del tempo, in un’immagine di memoria anche borgesiana: «d’un tempo che contiene tutti i tempi, un attimo ogni altro attimo. In quest’istante rapido, in quest’immensa stasi, l’uomo rivive tutta la sua vita».41Ed ecco, calati nell’abisso, nel luogo di tutti i luoghi, ormai prossimi alla scaturigine, l’interrogativa sulla possibilità del racconto, memoria,scansione, parola, che è passaggio. Ritorna l’immagine dell’accumulazione, del sovrapporsi di strati sopra strati, di lavorio continuo, di movimento d’approssimazione incessante, ai confi-ni del silenzio, come a strappare terre ai deserti. La risposta all’ istanza finale è di desolazione siderale; nei «graffi indecifrati» si può sentire forse l’eco del «rilu-cere inveduto » ungarettiano (da Ultimi cori per la terra promessa: «Rilucere inveduto d’abbagliati / Spazi ove immemorabile / Vita passano gli astri / Dal peso pazzi della solitudine»). La vita è consumata ai margini del silenzio, è tra  versata nel silenzio,
-38. Nottetempo…, p. 65.39.Il sorriso…, p. 17.40.Nottetempo, p. 6441.Ibid., p. 91.

 silenzio come cerchio con il centro in ogni luogo e la circonferenza in nessuno: E tu, e noi chi siamo? Figure emergenti o svanenti, palpiti, graffi indecifrati. Parola, sussurro, accenno, passo nel silenzio. 42I due protagonisti di Retablo si calano nelle acque lenitive dei Bagni Segestani, quasi alla ricerca di un Lete in cui adagiarsi e trovare ristoro. L’effetto del bagno induce alla perdita di sé nel «vacuo smemorante, nel vago vorticare».43 Il ricordo di Fabrizio Clerici va al primo incontro con Doña Teresita, un’apparizione nella luce e nello splendore; così Clerici riflette:pur sulla soglia di questa forte terra, nel primo cerchio di questo vortice di luce, sull’ingresso di questo laberinto degli olezzi, nell’ incamminamento di questa galleria de’ singolari tratti e d’occhi ardenti, mi pare di viaggiare alla ricerca degli stampi o matrici del vostro maraviglioso sembiante. 44 Se, da un lato, la visione dell’amata nella luce, il riscoprirne espressioni e gesti in altre figure femminili risponde a un topos letterario di tradizione antica, l’insistenza con cui paiono ricorrere i riferimenti alla lux veritatis, visione ineffabile del Vero, così come la non rara citazione di Platone anche attraverso latopica settecentesca della bellezza ideale («eccelso modello di beltà») 45 auto-rizzano un approfondimento dell’analisi delle valenze simboliche della luce anche in questa direzione. Torniamo così al primo testo citato, 29 Aprile 1994: cronaca di una giornata, dove esplicito era il riferimento alla caverna platonica, in quel caso usato con vis polemica diretta contro il «regime telecratico» e le ingannevoli e false ombre televisive degne solo di una «degradata, miserabile caverna platonica».46 Nell’ opera consoliana è possibile rintracciare con apprezzabile frequenza il riferimento ad una verità cui tornare suggerita da pallide tracce terrene, cui avvicinarsi procedendo per gradi, per accumulazioni, sempre vigili a non essere tratti in inganno da ombre fuggevoli, per arrivare preparati alla verità, in grado di sostenerne la tremenda forza autenticante. Così sin dalle prime prove:Se mi si dice non si guarda alla finestra, allora mi volto alla parete bianca ed è più bello il gioco delle ombre rovesciate, e qualcuna l’indovino: il gobbo lo spazzino la posta il pane, l’ombra di tutti i giorni all’ ore eguali.
4742.Ibid., p. 67.43.Retablo, p. 61.44.Ibid., p. 63.45.Ibid., p. 64.46.29 aprile 1944…, p. 7.47.La ferita…, p. 81.

La luce di verità è difficilmente sopportabile per occhi avvezzi all’ ombra,ombra consolatoria di una luce che ferisce, come quella dei quadri caravaggeschi, in cui una lama di luce, proveniente dall’ esterno, («La luce su Lucia giunge da fuori il quadro») 48 ferisce il volto della figura. Caravaggio, «col suo corpaccio, la grossa testa bergamasca, i capelli peciosi e spessi, la fosca pelle,gli occhi ingrottati» pare posseduto da «dolore innominato» e da una «melanconia senza riparo che lo spingeva a denudare il mondo, togliere agli uomini,alle cose, ogni velame, ombra, illusione, esporli alla cruda lama della luce, alla spietata verità di questo giorno, di questa vita, squarcio, ferita immedicata, nel corpo della notte, del sonno, della stasi, amava scontrosamente la bellezza,pativa per la sua labilità, la sua assenza».49 Instabile sull’ abisso e sul vuoto, si tende in funambolico equilibrio come«passo nel silenzio»,50 come «ferita di luce nel buio»51(G. Ungaretti, Immagini del Leopardi e nostre), la parola dolente.5. In conclusione, pare di poter affermare che la luce, le modulazioni o le assenze di luce, assumono nella scrittura consoliana valenze che chiaramente tra-scendono la mera descrittività, la nota paesaggistica o bozzettistica. Ho qui cercato di offrire alcune possibili chiavi interpretative. All’ opposizione luce-ombra intesa come confronto tra Milano -città dei Lumi, meta per una Sicilia-cupa periferia di degrado, si accosta e sovrappone l’opposizione luce del passato e buio del presente. Questa seconda opposizione fa sì che i due poli, Milano e la Sicilia, che nella diatopia si oppongono e tra i quali si intraprende un movimento di perpetuo viaggio, di fughe e di ritorni eterni, confluiscano, in una prospettiva diacronica, a formare un unico punto, coincidano,condividendo il tramonto infinito del presente. La patria con cui riconciliar-si pare dunque sfuggire, risucchiata nel tempo, proiettata nel passato, luogo della memoria. Tale opposizione, [buio-presente : luce-passato], non è resa solo attraverso il ricorso ad un «lessico della luce» per il passato e ad un «lessico dell’ ombra» per il presente, ma anche mediante l’attribuzione alla luce di segni diversi:positivo in riferimento alla luce del passato e negativo in relazione alla luce del presente. In un paesaggio, umano e morale, armonico, come quello passato,la luce è forza vivificante, principio di movimento e di vita, di attività; nella miseria e nel degrado presenti la luce dissecca, prosciuga, svela silenzi, assenze. Eppure la luce, pare leggere tra le righe o sous les mots, è sempre la stessa luce, da sempre scandisce il ritmo della giornata, dei lavori quotidiani, ma la ciclicità del tempo,
-48.L’olivo…, p. 94.49.Ibid., p. 88.50.Nottetempo…, p. 67.51.  Giuseppe UNGARETTI, Immagini del Leopardi e nostre, saggio letto il 29 gennaio 1943 nell’ Università di Roma, in M. Diacono e L. Rebay (a cura di), Saggi e interventi, Milano:Mondadori, 1974, p. 447.

  i ritorni, non sono tra loro identici, si scrivono nella storia e la storia è sovrapposizione di strati, accumularsi di nuovi castelli su antiche rovine. Anche in questo caso dunque è la composizione di piano orizzontale e verticale, la discesa dal piano sincronico e orizzontale a quello della storia e della memoria, verticale, ad offrire nuove chiavi di lettura. Il tempo della memoria e della malinconia è il tempo della luce nera in cui si congiungono demone meridiano e notturno meridio, di ungarettiana memo-ria. È il tempo di luce calcinante, ferale, e di buio vorticare nel flusso degli evi. Luce nera è dunque quella che accompagna la memoria e la malinconia, la ricerca e la catabasi, ed è luce bianca, luce dalla tremenda forza autenticante, la lux veritatis, ferita di luce che occhi avvezzi all’ ombra non sanno sostenere. Ed è dunque infine anche monito alla vigilanza, alla diffidenza verso opachi lucori, finte luci, vacue illusioni e pericolose menzogne.

Dalla Sicilia alla luna


Come la rosa, il mare o l’intimo usignolo, la Luna – «sole delle statue», come la definisce Cocteau – è stata una fonte inesauribile di ispirazione in tutte le letterature. E se – come afferma Consolo – quel giorno dell’estate 1969, in cui l’astronave Apollo profano la Luna, è stato un giorno nefasto per la poesia, nulla ci impedisce di pensare che l’astro ha riconquistato tutti i suoi poteri dal momento in cui uno degli astronauti ha dichiarato che, vista dalla Luna, la Terra è una piccola scintillante sfera blu. Di colpo, l’immagine di Paul Eluard – la Terra è blu come un’arancia»- è sembrata profetica. Se è vero che in Ariosto la Luna è oggetto della più memorabile delle invenzioni (con il paladino che vi scopre tutto quello che gli uomini banno perduto nel corso dei secoli, e in particolare gli slanci e i sospiri degli innamorati), è pur vero che la Luna non ha ispirato soltanto i poeti. Nel secondo secolo della nostra era, Luciano di Samosata aveva descritto i Seleniti come esseri che filavano e tessevano vetro e metalli nutrendosi di -estratti d’aria; allo stesso modo Swift li ricorda nei Gulliver’ Travels: considerazione dalla quale possiamo concludere che la cosiddetta science-fiction si trovava già nella Storia vera del Greco. Ma nel diciassettesimo secolo, ispirandosi alle idee di Copernico e attingendo soprattutto al Somnium Astronomicum di Keplero (opera sulla topografia della Luna e la natura dei suoi abitanti, che l’autore finge letta in sogno), Cyrano de Bergerac scriveva /Histoire comique des Etats et Empires de la Lune. In quest’opera gli abitanti della Luna – cacciatori di allodole che, raggiunte da frecce infuocate, cadono già arrostite – credono che Cyrano sia una sorta di scimmia e come tale lo trattano. In seguito, la fantasia degli scrittori ha continuato a popolare l’amato satellite e ha perseverato nel considerarlo irraggiungibile meta di un viaggio impossibile. Non ultimo André Malraux, che nella sua prima opera – Lunes de papier (1921) – sognava lune-palla che s’involavano verso il Regno della Morte. Da parte sua, Roger Caillois osservava che Newton non ha scoperto la legge di gravita, come si crede, vedendo cadere delle mele da un albero, ma notando che, mentre la mela cadeva, la Luna non cadeva affatto. Oggi, il siciliano Vincenzo Consolo sogna la caduta della Luna in un dialogo poetico-filosofico, mascherato da libretto d’opera barocca, che si intitola appunto Lunaria. Questo testo ha una genesi curiosa: il punto di partenza è un lavoro del barone Lucio Piccolo di Calanovella, cugino di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, a sua volta autore de Il Gattopardo. Il barone Piccolo, benché ricchissimo, credendo di essere improvvisamente caduto in miseria, volle porvi rimedio scrivendo un testo destinato alla scena… Nacque così L’esequie della Luna, che Pasolini – dal fiuto sempre inquieto e infallibile – pubblicò sulla rivista Nuovi Argomenti nel 1967, e che, alcuni anni dopo, un giovane regista decise di mettere in scena. Poiché il poema in prosa di Piccolo era diabolicamente ermetico, fu chiesto a Consolo di farne l’adattamento. Cammin facendo, preso dall’avventura della creazione letteraria, Consolo si allontano talmente, e talmente bene, dal testo di Lucio Piccolo, da dar vita a un nuovo testo, Lunaria appunto, che di quello originario conserva solo il germe. Cosi come, d’altronde, certe pagine di Leopardi – che per primo aveva sognato la caduta della Luna – erano state il germe delle Esequie del barone. Il lettore è trasportato nella Sicilia del diciottesimo secolo in cui un viceré – che apostrofa il sole trattandolo da tiranno e da barbaro perché oltraggia i loculi del sonno» – non crede né al suo potere né alla sua missione, convinto com’è che malinconica è la Storia» e che esiste solo il tutto, ossia l’universo, «questo incessante cataclisma armonico, quest’immensa anarchia equilibrata». Non sarà che il viceré è uno iettatore? In effetti, la notte in cui sogna la caduta della Luna, quella si stacca; se ne ritrovano pezzi, qua e là nella campagna circostante, il più piccolo dei quali è sufficiente a fare impallidire tutti i lumi del palazzo… Si pensi, tra la letteratura contemporanea, quelle opere teatrali ibride, solitarie, quali Sotto il bosco di latte di Dylan Thomas o The Antiphon di Djunta Barnes: come quelle, Lunaria non sembra possa essere rappresentata in teatro, ma riserva alla lettura abbacinanti bellezze.

Un palinsesto filosofico
Paolo Mauri

Rubare i sogni non è reato e Leopardi fece una volta un sogno bellissimo, che era quasi un incubo (anche gli incubi possono essere belli). Nel sogno .[.. ] il poeta vede la luna staccarsi improvvisamente dal cielo, diventare via via più grande man mano che precipita, e rovinare di colpo in mezzo a un prato. In cielo soltanto un barlume, al posto dell’ astro caduto, anzi una nicchia. Visione tale da recare non poco tur-bamento, in cotal guisa / Ch’io n’ agghiacciava; e ancor non m’assicuro. Svanito il sogno, il turbamento rimase. Racconta Vincenzo Consolo che tentò di dargli forma teatrale, un giorno, il barone Lucio Piccolo: che era anche, come non tutti sanno, un raffinato poeta. Ma non gli riuscì. Ci ha riprovato ora Consolo stesso, che forse deve a Piccolo l’idea di trasferire il sogno in Sicilia. Lunaria, questo il titolo dell’operina di Consolo …], è infatti una messinscena siciliana, proiettata in un Settecento non ben precisato e animato da un Viceré abulico che guarda il suo tempo senza troppo apprezzarlo, mentre volentieri tende l’orecchio ai più grandi ed eterni dilemmi umani. …. Lo abbiamo detto all’inizio: rubare un sogno non è reato e meno che mai lo è in letteratura. Se ha certamente ragione Gérard Genette quando dice che ogni testo letterario è in realtà un palinsesto, nel senso che ogni storia, ogni libro, viene riscritto sulla base di un libro precedente, Consolo sembra dargli doppiamente ragione Lunaria […] è un palinsesto i cui strati sono in bella evidenza. Non tanto, o meglio non solo, per il dichiarato prestito leopardiano; in tutta la costruzione di Consolo circola un’aria iperletteraria, erudita, avverti un controllatissimo gioco di incastri. A cominciare dalla lingua: un italiano (quando non è dialetto o spagnolo), tornito, sapientissimo, musicale, un mosaico in cui s’incastonano autentiche rarità, da speleologo dei dizionari. Questa lingua, più mossa, più increspata di quella impiegata a suo tempo nel romanzo ha la funzione di rendere l’azione astratta e quindi (qui sì) dichiaratamente teatrale, simbolica. E un mondo, quello della luna che cade, che non scende a noi, ma al quale dobbiamo salire. Tocca a noi, lettori-spettatori, carpire il segreto musicale di un incubo da favola e adattarvi le nostre orecchie, disabituate al frastuono di una sintassi e di un lessico avari di concessioni al già detto. Restituendo al parlato quella patina d’antico di cui (dato il tempo in cui si svolge l’azione) ha bisogno, Consolo si rivela dunque “falsario” abilissimo.
Ma c’è di più. Resuscitando questo antico e fanciullesco sogno, Consolo vuole anche dirci che esso non troverebbe posto nello smagato mondo di oggi, che sulla luna addirittura ci è andato. Squisitamente para-leopardiana è la conclusione filosofica. La felicità, se la si vuol provare, bisogna recitarla, magari in un teatrino bizzarro e mentale come questo. Rovescio notturno del mito di Fetonte che rovinò con il carro del sole, il sogno della caduta della luna non può appartenere a una civiltà agreste. L’ultima che si è concessa un rapporto irripetibile con la notte e che a luci spente ha concepito favole, idilli e umano terrore.

(la Repubblica, 2 luglio 1985)

Quando la luna cadde alla corte del Viceré

Antonio Prete
Leggo Lunaria, l’operetta di Vincenzo Consolo che ha per “protagonista” la luna, a distanza di qualche mese da alcune mie – come chiamarle? – meditazioni esegetiche attorno alla luna leopardiana, alla sua teofania nei Canti, alla sua luce che insieme vela e rivela il paesaggio naturale, dischiudendo, nella notte un altro paesaggio, quello dell’interiorità. Che cammini velata di nubi viola, o che tremi di solitudine e di bagliore in un cielo di ghiaccio, la luna leopardiana illumina quel limitare della coscienza sul quale l’impensato dialoga con le forme del pensiero, ciò ch’è perduto cerca una nuova lingua. La luce lunare racconta in Leopardi l’essenza stessa della poesia. Così, è stato forse questo mio recente vagabondare critico (e lunatico) nei Canti, fino al Tramonto della luna, a farmi da appassionata guida nel racconto dialogato di Lunaria, in questo cuntu che .[..] ruota attorno al sogno leopardiano che narra la caduta della luna […]. Oppure è stato l’improvviso ritorno di immagini che avevano accompagnato, nell’estate del 76, proprio nelle trasparenze di alcuni meriggi siciliani, la lettura del Sorriso dell’ignoto marinaio, a introdurmi nel nuovo racconto […].
Il racconto raccoglie, così mi sembra, sovrapponendoli con delicata arguzia, frammenti di generi non più frequenti, anzi polverosi di letterario oblio: il Trauerspiel, tuttavia spogliato dei suoi emblemi funerei e delle sue allegorie di cenere incastonate nel fulgore della corona, insomma rivisitato più dalla parte della Torre hofmannsthaliana che dei suoi barocchi luttuosi modelli: l’operetta morale, riscritta con una dilatazione degli scenari e della partiture linguistiche della visualità e della coralità; la favola teatrale, aperta a ritmi popolari, a cadenza di proverbi, sospesa tra documento etnografico ed evocazione magica, tra fonti descrittive e levità di narrazione. Ma quel che unisce questi frammenti, e allontana i generi nel loro esile e circoscritto compito di stimolo, è la lingua, vero oggetto di questa narrazione. Una lingua che contamina flessuose e immaginose movenze barocche con insistenze “stralunate”, da lessico lussurioso e tuttavia straniato. Più che l’intrico dell’arabesco, c’è la sua ossessione di luce, attraverso la complicità tra ripetizione e variazione. Una lingua fatta di calchi, mimetismi libreschi, citazioni, ridondanze tornite e autoironiche. L’elencazione è insieme tecnica che ravviva e ritmo adeguato alla teatralità eccessiva e malinconica della favola. La lingua artificiale e musicale, parlata da villani e villanelle della Contrada e dal messaggero Mondo, irrompe, metafora d’una primordialità contemplativa perduta, nei linguaggi declamatori della corte. Nel finale, deposte le insegne del potere, il Viceré recita l’amplificazione gnomica che portava il pubblico del teatro barocco nel cuore del gran teatro del mondo: la sua vanitas: «Vero re è il Sole, tiranno indifferente, occhio che abbaglia, che guarda e che non vede. È finzione la vita, melanconico teatro, eterno mutamento. Unica salda la cangiante Terra, e quell’Astro immacolato là, cuore di chiara luce, serena anima, tenera face, allusione, segno, sipario dell’eterno». Che il vero testo d’avvio, non dichiarato, della favola di Consolo, e di L’esequie della luna di Piccolo, non sia il leopardiano Spavento notturno, ma il bellissimo verso de Il tramonto della luna, dove nella cesura si raccoglie l’evento e l’allegoria del vivere: «Scende la luna; e si scolora il mondo»? Con l’assenza della luna, sul paesaggio scende la notte d’un immensa vanitas, ma il silenzio che sopravviene allo scenico reclino della luna dischiude l’invisibile, come accadrà, dopo Leopardi, ai notturni di Rilke. Ma qui, chiusa la picciola favoletta» di Lunaria, eccomi tornato a quel meditare lunatico…

(Il Manifesto, 1 agosto 1985)

Non ci si allontana dalla Sicilia con Retablo, romanzo che, in Francia, esce contemporaneamente a Lunaria. Di primo acchito Retablo può essere considerato come appartenente allo stesso filone del Concierto barocco di Alejo Carpentier, ma in più possiede quelle malinconiche digressioni metafisiche che non hanno mai tentato il grande romanziere cubano. L’argomento trattato è il viaggio intrapreso da Fabrizio Clerici, pittore di anticaglie», nelle estreme terre della penisola: va in cerca di rovine e di vestigia del passato, sulle orme di quel monaco Fazello che «basandosi sulla parola antica di Diodoro» scopri «circondata dalla macchia e dalla palude, la defunta Selinunte». Gli fa da guida un fraticello. Briganti che sono monaci che hanno gettato la tonaca alle ortiche, pastori e cantastorie che salvaguardano la memoria dell’isola, contadini occupati a ripulire i campi da quelle antichità contro le quali urta il vomere dell’aratro: ecco i personaggi che popolano questo racconto il cui tempo è, senza sosta, “allegro con brio”. Le parole sono come perni sui quali la frase ondula, scende, risale, si attarda chiamandone altre che accorrono, si alternano, si snodano, vibrano, scintillanti di metafore. Il lettore è riportato in un passato trasfigurato, a quella prima meraviglia incredula e reciproca che dovettero provare, messe a confronto, la Lombardia illuminista (impersonata dal cavalier Clerici) e quella Sicilia dalla quale i Greci e gli Arabi non sono mai partiti. Retablo ha il tono brioso di un divertissement in cui anche l’erudizione si presta al gioco. Ma, come in Lunaria, dietro il sorriso si cela lo stesso pianto; sì: «malinconica è la Storia». E la mirabile statua che scivola dalla barca del cavaliere, forse – tutta incrostata di madrepore – un giorno sarà ritrovata. Agli occhi della divinità, al di là del tempo, non ci sarà alcuna differenza tra la Nike di Samotracia e la conchiglia prodotta da una bestiola mucosa che porta in sé una riserva di sale e di madreperla, destinata ad essere versata in uno stampo di geometrica perfezione. Va notato, per concludere, che Fabrizio Clerici è il nome di un grande pittore italiano contemporaneo, i cui soggetti prediletti sono città immaginarie, labirinti sventrati, insomma: ogni pietra scolpita ed erosa. Rendiamo omaggio, infine, all’arduo lavoro dei traduttori. […]

(Hector Bianciotti, Le Monde, 22 aprile 1988; traduzione di Marina Di Leo)

da Nuove Effemeridi, rassegna trimestrale di cultura. pagine -107 – 108 – 109



Vincenzo Consolo: la follia, l’indignazione, la scrittura

DSC_1058

Vincenzo Consolo: la follia, l’indignazione, la scrittura

Roberto Andò

L’intervista postula tra chi pone le domande e chi le subisce il vago stagliarsi di un’impersonale vibrazione in cui aleggiano due voci in cerca di echi, pensieri, ricordi, probabili pudori intorno a un mestiere impossibile. Ci si accosta al rito teatrale dell’intervista con un certo senso paradossale di sfida alla nicchia invisibile di chi scrive, immemori al cospetto della condizione ideale che rende autorevole e senza un volto lo scrittore, intenti a violare il vero desiderio di ogni grande scrittore che è quello di sparire. L’amicizia, la conoscenza o la confidenza, nella concitazione rituale, vengono deposti per lasciare il posto enunciati in cerca di oggettività. Tuttavia ci si accorge, a intervista conclusa, che si è accennato un ritratto, in forma di catalogo, dove la malinconia e quella dimensione salvifica della memoria che è la letteratura fanno dello scrittore, ovunque e comunque, un esiliato irriducibile, perfettamente a proprio agio solo nell’esilio della scrittura.

Ho incontrato Vincenzo Consolo e ne sono diventato amico molti anni fa per il tramite di Elvira Sellerio e di Leonardo Sciascia, per parlare di poeti dimenticati o rimossi dalla civiltà letteraria del consumo, poeti della luna. Ci possono essere mille ragioni per il senso di un incontro o per il suo bilancio. Di quel primo incontro ricordo il piacere immenso di poter riferire la letteratura a ciò che sta fuori dalla letteratura, la possibilità di insediarla al centro di un’emozione da fronteggiare e distanziare senza tradirne il senso sacrale misterioso. E ricordo anche una certa cupezza del momento, identica, per ragioni diverse, al momento in cui si è svolta questa intervista, che essendosi teatralmente compiuta in due tempi, a distanza di poco più di un anno, presagiva nella latenza di certi motivi quanto è successo in Italia, ciò che rende oggi il nostro Paese irriconoscibile, sfigurato e, se possibile, persino più smemoratamente cialtrone. A segnare il tempo, da Nottetempo, casa per casa, vincitore del Premio Strega nel periodo del nostro primo incontro, Consolo è approdato nel suo personale viaggio a L’olivo e l’olivastro, vale a dire dalla malinconia del racconto al furore di chi sa che nel disastro le strategie del racconto non sono più bastevoli e la letteratura senza puntelli può affrontare il rischio di nuovi confini, di un nuovo tono di voce.

ll malinconico, con la sua segreta e dolorosa interiorità, è un esiliato in potenza. Leggendo i tuoi libri, e in modo accentuato Nottetempo, casa per casa, si assiste a uno sfaccettarsi di figure del dolore, malinconici più o meno furiosi, con gli altri, con sé. L’epigrafe della Kristeva, che attribuisce alla malinconia il ruolo del sacro nella nostra epoca, sembra avvertire che nei cicli della Storia I conti possono farsi e disfarsi incarnandosi nella singolarità del male, del dolore umano…

“Hai detto bene. Il protagonista di Nottetempo è un esiliato che rompe a un un tratto la condizione di esilio attraverso la scrittura, diversamente dagli altri, dal padre a esempio

che non può farlo. Il libro si apre con una scena notturna in cui si disegna una figura oggi rara della malinconia, desueta almeno, in cui la depressione si svela nel rapporto con la luna piena: quella del licantropo. La cultura popolare ci ha tramandato vari frammenti intessuti su questa figura dominata da un dolore insopportabile che equivale a un esilio. Come dice l’epigrafe della Kristeva posta all’inizio del libro, quel dolore equivale a vivere sotto un sole nero, che può anche stare per l’immagine della luna. È un tentativo di liberazione dell’angoscia attraverso l’animalità, la fuga, la corsa. Ma c’è un altro grado di follia, sotto forma di mania di persecuzione, di paranoia, che vive nel romanzo la sorella del protagonista, Lucia. E ancora un terzo grado di malinconia, di dolore, quello del personaggio intravisto nella penombra della stanza, racchiuso in un gesto meccanico, nello sgranarsi rigido di un rosario in cui la vita si pietrifica. Ho voluto rappresentare la follia dolorosa e innocente che questa famiglia ha pagato forse per una ragione atavica, esistenziale, di razza, e per ragioni storiche. È una famiglia infatti che ha attuato un passaggio, un salto di classe. La provenienza reale è quella del proletariato contadino. Li ho chiamati Marano, da Marrano, rinnegato. Si portano dietro un coagulo di razze. Oltre a essere ebrei il narratore dice che dentro, attraverso la madre, filtra una memoria di nomi greco – bizantini, spagnoli, insomma il crogiuolo della civiltà mediterranea. Ed è come se assommassero nel loro destino il peso di tanti esili diversi. Pagano il prezzo di un cambiamento, di un passaggio di classe: da contadini che erano diventano piccoli proprietari terrieri per un atto di generosità compiuto da un uomo a sua volta folle, in un gesto che è di distacco dalla propria classe. È il personaggio di Don Michele, lo zio dell’antagonista del romanzo, una figura tolstoiano, anch’egli esiliato. Un’antecedente di questa figura di autoesiliato in una famiglia potente lo si trova in De Roberto e nel Pirandello de I vecchi e i giovani. Nei Viceré è uno degli Uzeda che, folgorato dalla lettura dell’Isola del Tesoro di Stevenson, si esilia in una campagna dove fa il falegname. È chiamato dai parenti il Babbeo. In Pirandello è tratteggiato in Don Cosmo Laurentano, ritratto d’eccentrico che si confina nella tenuta della contrada Valsanìa. Lì il personaggio è quello di uno studioso d’astronomia; e in qualche modo lo cito nel romanzo in quel passaggio in cui le stelle sono chiamate “i chiodi del mistero”. Dicevo che questa famiglia Marano, nel proprio destino di follia, svela una condizione che è nostra, l’approdo a una informe identità alienante, ricca, abbiente, in continuo movimento nel proprio delirio. Lo sfondo storico è quello della follia ideologica, collettiva, gli anni Venti dell’avvento inquietante del fascismo”.

Insomma, ci sono le fughe nella follia che non possono raccontarsi e quelle che possono trovare forma nel racconto. Il silenzio, l’afasia o l’esilio della parola chiara, delle ragioni per fronteggiare il dolore, del dolore che sa raccontarsi senza altri compagni di strada che la propria solitudine. In mezzo c’è la falsificazione, i contorcimenti e le parodie dell’ inautentico: Crowley, Don Nenè, D’Annunzio, Schicchi…

<< Si, è l’inautentico,la perdita della veritàil decadentismo. Nel romanzo ho usato molto la disgressione.Queste digressioni hanno un po’ la funzione del coro. In una di queste digressioni, quando c’è l’episodio Crowley conil suo seguito adorante che scende verso la spiaggia e sorprende il pastore Janu con la ragazza, questa discesa notturna con le torce in mano ricorda al narratore certa pittura vascolare in finzione, la sostituzione della verità con una sua rappresentazione, l’incidersi di una cesura, di un distacco definitivo dalla verità.  Quando il protagonista si allontanerà dal paese in  una sorta di eco dell’abbandono di Renzo e Lucia,  c’è la dolorosa consapevolezza di questa frattura insanabile e inaccettabile. La sua gente si allontanata dalla realtà, quella realtà con cui  intratteneva un rapporto armonico. E’ uno stato di sfasamento, di follia generale in cui gli è possibile volgere le spalle al paese senza rimpianto>>.

L’altro scacco viene subito dalla nozione mitica di ragione …

<< Sì, la ragione viene sconfitta.  Un barlume resta in quello che è Il deuteragonista del racconto, Cicco Paolo. C’è un dialogo significativo che s conclude con questa battuta: “ la fantasia è più bella della ragione “.  L’ irrazionale, la violenza, la falsificazione sono le modalità cui la ragione viene sconfitta, e dalla sconfitta fa capolino la follia. Questo  tema della follia d’altronde mi ha accompagnato in tutti i miei libri. Nel segno della follia si apre libro che non a caso si svolge anch’esso a Cefalù,  Il sorriso dell’ignoto marinaio. La prima azione di quel romanzo è un gesto di follia rintanato n antefatto in un’ azione  in limine alla narrazione, che in qualche modo la prec ede e l’orienta. E’ la comparsa di Catena, che sfregia quel quadro che sta li a simboleggiare il discorso della ragione, acquattato nelle pieghe di quel volto. Dalla ragione può uscire dal basso per corruzione, in modo speculare al gesto della ragazza, ed è Il caso del monaco pazzo personaggio della corruzione e della disgregazione che compare nel terzo capitolo in cui si narra dello stupro praticato nei confronti di una ragazza morta, o dall’alto, come fa Caterina sfidando la creazione, l’atto creativo. Lei è un’intellettuale, una che ha letto gli illuministi napoletani francesi  protosocialisti, e che ha vagheggiato una sorta di nuovo assetto sociale: la sua uscita dalla ragione è nelle pieghe dell’ utopia politica. In questo libro, invece, che accanto al  Sorriso un dittico, c’è la sconfitta, lo scacco storico – sociale: e l’unica luce è innocenza dell’umanità è la scrittura come possibilità di raccontare il dolore>>.
Questa possibilità di raccontare il  dolore ha modelli e antecedenti in cui si mescolano letteratura e solchi personali inevitabilmente …
<< In questo  libro c’è il rovesciamento di un rovesciamento. Quando  parlavo del Sorriso del Ritratto d’Ignoto di Antonello,  dicevo di uno segnato dal dolore della conoscenza. Avevo rovesciato la cognizione del dolore di Gadda.  Qui, in Nottetempo c’è veramente l’esposizione della conoscenza del dolore, non più il dolore della conoscenza >>.
A un certo momento del libro il protagonista il parla così: << Non so adesso … Adesso odio il paese,l’isola odio questa nazione disonorata, il governo criminale, la gentaglia che lo vuole … odio finanche la lingua che si parla >>. Mai adesso la scrittura si ritaglia come il luogo di una distanza difficilmente colmabile in cui ci sono luoghi cui dedicare una  presunta fedeltà…
<< Dietro queste parole scopertamente riferite all’oggi  c’è il risentimento personale di chi scrive verso un luogo che ha dovuto lasciare. C’è risentimento verso una patria perduta e le persone che non si accorgono della perdita. E qui non parlo solo di un confine siciliano, ma di un oggi che comprende anche altri luoghi. Certo, il discorso della  lingua è chiaro, qui. Io ho sempre cercato di scrivere in un’altra lingua,ed è quello che ha sempre irritato i critici, il fatto di uscire dai codici, il  disobbedire ai di codici>>.
Questa  disobbedienza ai codici, nelle cose che scrivi, ha però un segno opposto  a quello dei percorsi linguistici dell’avanguardia, nei cui confronti hai sempre provato insofferenza e ostilità …
<< Pasolini, nelle sue invettive, ha detto tutto quello che si può dire contro l’avanguardia. Bisogna distinguere tra sperimentazione e avanguardia. lo credo che ogni vero scrittore dovrebbe essere sperimentatore dentro l’alveo di una tradizione. L’avanguardia è qualcosa di stupidamente in quietante, che io rigetto. Mi sembra un azzeramento e una ricostruzione artificiale, un atto di violenza. Ne ho avuto sempre Il sospetto,non  solo dal punto di vista letterario, ma  direi principalmente in senso etico, o se preferisci politico. Gli azzeramenti preludono sovente alla mediocrità o all’orrore. La tradizione non si può cancellare, e chi  pretende di cancellarla agisce sull’idea stessa di letteratura, dico sul senso nobilmente bachtiniano di una letteratura che trama contro le cancellazioni dell’oblio. E’ questa  la vera funzione della letteratura , nella quale si sperimenta un altro tipo di memoria >>.

C’è una figura fondamentale nel tuo tragitto. Per rispetto alle origini più o meno casuali degli incontri mi piace ricordare che è una persona che ha fatto da tramite al nostro primo incontro che molte volte abbiamo frequentato insieme. La distanza di generazione e Il momento in cui l’ha incontrato e si è stabilita un’amicizia fa sì che io lo consideri , con tutte le zone ambigue del termine, un maestro. Per te potrei dire con più forte ambiguità che si delinei, cosi lontana nel tempo dei tuoi primi passi nella letteratura e cosi ingombrante, come un  figura paterna. Parlo di Leonardo Sciascia.

<< La Presenza di uno scrittore come Sciascia mi ha permesso, in  un certo senso, per un tratto della mia attività, di  concedermi delle divagazioni, delle pause, dei tempi di scrittura molto lunghi, o se si vuole delle vacanze. Perché lui aveva una metafora certa – era la sua impostazione letteraria della vita storico-sociale del nostro paese. I Suoi libri erano tutti metafore e letture della contemporaneità politica scavate in una scrittura di tipo illuministico, dentro le strutture del giallo. La sua azione di scrittore civile consentiva  a scrittori come me, che muovono cioè da tutt’altro codice di germinazione labirintica e fantastica, di divagare, prendere tempo. Alla sua morte ho sentito di non avere più tempo e  Nottetempo, casa per casa nasce anche da un sentimento nuovo di responsabilità all’indomani del vuoto lasciato da Sciascia nel panorama della letteratura europea e Italiana. In quel momento  mi sono  accorto che avevano tirato un respiro di sollievo volevano sbarazzarsi della sua forza letteraria, che avevano fretta di fare i conti, di neutralizzarne l’eco. Il fenomeno paradossale è nel fatto che coloro che stanno producendo la barbarie , i detentori della comunicazione, i giornalisti scrittori, si sono sentiti liberati della presenza di uno che batteva sul loro stesso terreno d’investigazione loro, con ben diversi risultati letterari,  tra i più alti della letteratura contemporanea. Anche la mia presenza li irrita, proprio perché invece non combatto nello stesso terreno. I miei  libri, che sono anch’essi profonda mente metaforici, vengono invece attaccati sul piano formale,  mentre cresce il  fastidio per questa  querimonia sicula che continua ancora. Questa  voce siciliana che non si estingue li irrita>>.

Qual è Il tuo rapporto con la società letteraria, ammesso che ne esista una, con la più giovane leva di scrittori?

Una società letteraria non esiste più. Ai giovani  rimprovero la facilità con cui si sottopongono alla proposta omologante delle aziende editoriali . Lo scrittore come oggetto coltivato in serra è una evidenza. Piango la scomparsa delle eccentricità letterarie. Lo scandalo che alcuni hanno sollevato intorno alla Storia della letteratura di Giulio Ferroni è consequenziale alle dimensioni di libertà di quel libro, libertà dalle aziende che invece riflettono il loro messaggio sulla cosiddetta critica militante dei giornali. In questo senso l’Università come luogo di ricerca di spiriti liberi può ritrovare una funzione liberatoria.

Perché nutri un interesse cosi esclusivo per la Sicilia?

Prima o poi finirò anch’io per scrivere un mio Per le vie. La tentazione di sottrarmi alla Sicilia c’e, ma il meccanismo memoriale della mia narrativa me lo impedisce sino in fondo, è connaturato un uno stile che ingloba la memoria  attraverso il linguaggio. Un linguaggio si abita, nostro malgrado. Anche se non ho avuto la stagione mondana di Verga, a Milano mi sono ritrovato Nella sua stessa condizione di spaesamento, a contatto  con un mondo che non riuscivo capire. Verga lo scrittore  gigantesco c è, nasce da una regressione da una  paura, da un’impossibilità. Anch’io quando  mi sono trasferito a Milano avevo intenzione di raccontare quella Milano dei contadini siciliani che diventano operai. Ben presto capii che per farlo avevo bisogno della distanza della metafora storica. E’ quello che acutamente ha sottolineato come peculiarità del mio modo di scrivere un critico come Cesare Segre: è il distanziamento, il bisogno di distanziarsi, anche geograficamente.

Che cosa ti interessa della letteratura Europea  contemporanea?

Quando parliamo di letteratura dobbiamo circoscrivere discorso alla narrativa; la poesia ci porterebbe altrove. La narrativa resiste nei luoghi periferici, non colonizzati, se vuoi nei  terzimondi. Nel mondo post-industriale essa è  seriamente minacciata da un linguaggio che somiglia alla letteratura, un po’ come accade in politica: appaiono linguaggi copia, surrogati,imposture. Milan Kundera è uno degli scrittori più interessanti e di resistenza. I frutti più vitali del romanzo contemporaneo sono legati infatti a questo senso incombente di fine. La poeticità sta sparendo dal mondo e da solo il romanzo può raccontare questa fine. Una certa vivacità la si trova anche nella letteratura araba, come sino a qualche anno fa la si trovava nella letteratura sudamericana.
Il cosiddetto crollo delle ideologie ha ridefinito Il ruolo dell’ intellettuale, o piuttosto quella figura e quel ruolo sembrano stagliarsi piccoli e sperduti in un paesaggio in continuo cambiamento. Senza grandezza senza avventura

L’intellettuale ha avuto sempre angoscia di rimanere fuori dalla storia. Angoscia della cancellazione, oscillando fra opportunismo, cinismo ed entusiasmi. Questa storia del crollo delle ideologie è in conflitto con i nodi irriducibili dell’esistenza: il povero e il ricco esistono senza possibili equivoci e il postulato ideologico che s’è sostituito all’ideologia – la ricerca della felicità e del godimento –   è continuamente attraversato da un’inquietudine insanabile. Ingiustizia, Invenzione di nuovi confini, ritorno dell’orda tribale poveri che premono ai  cancelli, enormi frange di gente che si sposta alla ricerca di mezzi di sussistenza: il panorama reale che viene incontro a noi è questo. Le ideologie dei conservatori e degli esteti non mi sono mai piaciute. Preferisco l’ideologia degli esiliati che alita sul nostro benessere.

Il fatto indubbio è  la continua esibizione di aspetti miserabili della vita intellettuale.

E’ la televisione, la bomba atomica permanente che distrugge i linguaggi dopo avere già avuto distrutto la poesia del cinema. Attraverso la televisione si attua una perdita continua di pietas. E’ Il campo di sterminio della coscienza e dell’intelligenza del dolore. Ne ho orrore, e una certa e sinistra vi ha concorso a pari merito con il dilagare tronfio della conservazione.

L’olivo e l’olivastro un libro Importante, un libro indignato che fruga in quel male che la televisione cerca di divorare quasi sempre in modo avvilente,perfettamente intercambiabile con la posizione opposta.  E un libro dolente che piega la scrittura a un un tono che sta dentro e fuori dalla letteratura senza rinunziare alle tensioni del linguaggio muovendosi a zig zag Tra ciò che resta di un luogo, la Sicilia, dopo e durante il disastro. Il tono e quello della disillusa e intelligenza evocata dal viaggiatore del libro, disperata ma non rassegnata. Almeno cosi mi pare di averla avvertita, o mi sbaglio?

Ricordo una drammatica fotografia scattata da Ferdinando  Scianna dopo Il terremoto della valle del Belice; si vedeva un uomo sopra un cumulo di macerie di quella che forse era stata la sua casa, lo sguardo, un pugno chiuso rivolti contro il cielo; certo è l’immagine di un’imprecazione, di una bestemmia mossa dal dolore, dalla disperazione.

Ne L’olivo e l’olivastro il viaggiatore tra le rovine di Sicilia. o l’io che narra, se vuoi, è mosso, negli urli, nelle invettive, dallo stesso dolore, dalla stessa disperazione.

Ti è capitato sempre più spesso di dover far sentire la tua voce pubblicamente, di rimettere nelle mani di chi te  l’aveva consegnato il mandato di Presidente di un teatro, a esempio. Perché  il ruolo dell’intellettuale in Sicilia rischia di essere sempre più di dimissionario o di scomunicato?

Ho accettato quell’incarico per ingenuità, con l’illusione che cosi avrei potuto portare sul piano della prassi  un contributo immediato alla cultura palermitana. Delusione e quindi tristezza. All’intellettuale non è ancora permesso nessun tipo di rapporto col potere.

Quali sono le cose che ti irritano maggiormente nelle vicende di potere in Sicilia e qual è lo spazio d’azione dell’Intellettuale? Parlo di uno spazio d’azione comune, che sfugga alla barbarie della duplicazione della guerra civile che si nota nelle relazioni tra intellettuali e a tutti i livelli della vita sociale.

Mi irrita l’aggressione costante che i mediocri mettono in atto nei confronti di persone o enti che hanno saputo realizzare qualcosa di valido: l’aggressione alla casa editrice Sellerio, l’unico fenomeno culturale vero venuto fuori dal l’Isola dal dopoguerra a oggi, è un esempio al di là di ogni vicenda politica o giudiziaria. Gli aggressori dovrebbero sentire una grande vergogna. Azione comune? Com’è difficile! Siamo, noi Intellettuali vanitosi e superbi, ferocemente individualisti, distruttivi e autodistruttivi .

Qual è il libro che ti racconta meglio e perchè?

Tutti: li considero capitoli di un unico libro. Ma più strettamente legati tra loro che più mi raccontano sono ll Sorriso dell’ignoto marinaio, Nottetempo casa per casa timo libro casa per casa, e quest’ultimo libro L’olivo e l’olivastro
13313591_10208804237936395_453919843_o

Nuove Effemeridi – aprile 1994 ” Cronaca di una giornata “

13313591_10208804237936395_453919843_oaprile 1994 :
Cronaca di una giornata
Vincenzo Consolo

<< Più nessuno mi porterà nel Sud >> lamentava Quasimodo. Invece – se m’è concesso il confronto – io nel sud ritorno sovente. Da Milano, dove risiedo con un volo di un’ora e mezza, atterro in Sicilia. Dalla costa d’oriente o occidente, ogni volta, come per ossessione, vizio, coazione a ripetere, celebrazione d’un rito, percorro l’ Isola da un capo a un altro, vado per città e paesi, sperduti villaggi, deserte campagne, per monti e per piane, per luoghi visti e rivisti non so quante volte; incontro vecchie persone, ne conosco di nuove; registro ogni volta, in quella mia terra, che esito chiamare patria,come invece con foga la chiama il poeta, il degrado continuo, le perdite irreparabili, la scomparsa d’ogni vestigia ammirevole, l ‘inarrestabile imbarbarimento, gli atroci misfatti, gli assassini le stragi, il saccheggio d’ogni memoria, d’ogni reliquia di civiltà e bellezza. Vado in Sicilia e ne fuggo ogni volta, ritorno a Milano, la città dove da sempre, fuggendo dal sud, si sono rifugiati poeti e scrittori, artisti, credendo trovarvi, via dalla periferia, da una mediterranea deriva, vicino a un centro d’Europa, per illuministici retaggi, per eredità di probo governo, decenza civile, rispetto di leggi e diritti; a Milano, in lombardia, in un Nord di lavoro e sviluppo dove da sempre sono emigrati, come da ogni Sud d’immobilità, privazione e offesa, masse di lavoratori in cerca di un nuovo destino.
Ritorno a Milano e scrivo, riverso nelle parole, nella scrittura, in racconti e diari, cronache d’avventure sempre uguali e sempre nuove negli esiti orrendi, pene e furori, rimpianti e denunzie, malinconie e invettive.
Credo sia questo il destino d’ogni ulisside d’oggi, di tornare sovente nell’Itaca del distacco e della memoria e di fuggirne ogni volta, di restare prigioniero nella reggia d’Alcinoo, in quel regno di supposta utopia, d’irreale armonia , condannato a narrare all’Infinito, come un cieco cantore, un vecchio svanito, i suoi nostoi, le se odissee.
E’ questo che sto facendo ancora da alcuni mesi, faccio in questo giorno di scorcio d’aprile: narro del mio ultimo viaggio dell’estate scorsa in Sicilia, scrivo un libro che titolo, L’olivo e l’olivastro, colto in Omero, nell’episodio in cui Ulisse naufrago della grande tempesta nudo e martoriato, mette piede a Scheria, sulla terra dei Feaci, si rifugia sotto due arbusti nati da un medesimo ceppo: uno d’olivo, ‘altro d’olivastro. Mi è sembrata l’immagine, un simbolo della biforcazione, dei due sentieri o destini che s’aprono nella vita d’un uomo, nella storia d’un paese: del coltivato e del selvatico, del civile e del barbarico. Mi è sembrato il simbolo più pregnante della Sicilia, la quale diventa sempre,come si dice, metafora dell’Italia ( dell’Europa, del mondo? ). In questo penultimo giorno d’aprile, dopo aver attraversato lo Stretto di Messina, aver scansato il rischio mortale di Scilla e Cariddi, aver lasciato sulle falde dell’Etna i mostruosi Ciclopi, dentro la sua caverna di lava il bestiale Polifemo, mi trovo a girare per Siracusa, a muovermi nel cuore d’ Ortigia, nelle altre parti di questa antica metropoli, il Tiche, Acradina, Epipoli, Neapoli, nel presente suo squallido e oscuro e il passato suo di potenza e splendo re. Muovermi tra la retta e la spirale, il rigore e la grazia, il teorema d’Archimede e la poesia di Pindaro, l’equilibrio dorico e il capriccio barocco, Nella Piazza una forma d’occhio dove regna Lucia, la signora della luce e della vista. Sta la santa Sibilla dei messaggi visivi nell’antro dove sono ingemmate, in trionfo di mura cristiane, greche colonne di pura geometria, dov’e incastonato il tempio d’Atena, la dea dell’olivo e dell’olio, del nutrimento e della luce, della ragione e della sapienza. Mi trovo, confuso, smarrito, in questo teatro di pro fonda memoria, di continui richiami, in questa scena odierna di degrado e macerie, deserta di parola, poesia, in questa cavea di urla e fragori, sotto un cielo di spesse caligini, presso un mare di petroli e liquami. In Siracusa è scritta la storia dell’infinito tramonto della civiltà nostra e cultura, dell’umano sentire,è impressa la notte della ragione e della pietà.
Questo ventinove aprile mi alzo all’alba, come ogni mattina, scrivo dell’ultimo tramonto di Siracusa attraverso Il racconto di personaggi che in quella città son passati nel momento più drammatico della loro vita, uomini prossimi alla fine. Racconto del disperato Caravaggio che, fuggito dal carcere di Malta, approda in una Siracusa stremata da terremoti, carestie e pesti, immersa nel buio della controriforma, dipinge per una chiesa Il grande quadro del Seppellimento di Santa Lucia: il cadavere gonfio d’una fanciulla posto a terra, due ignudi becchini in primo piano che scavano la fossa, gli astanti schiacciati alla parete alta d’una latomìa, la luce livida d’una catacomba. Racconto del ceroplasta siracusano Zummo che crea Teche, teatri di peste, di contagio, di cataste di cadaveri in decomposizione, di avelli di scheletri, di mummie su cui scorrazzano topi, gechi, degli effetti sui corpi della sifilide; crea con le cere colorate perfette anatomie di teste, membra, organi … Racconto di un’arte necrofila, maniacale per cui lo Zummo è onorato alla corte di un Medici a Firenze e a quella del Re Sole a Versailles: la rivoluzione spazzerà via la sua tomba a Saint-Sulpice, spazzerà via gli altari per dare luce spazio alla dea Ragione. Racconto del Poeta von Platen che a Siracusa finisce i suoi giorni, in una misera locanda presso la fonte Aretusa, consumato dalle febbri de colera, dal vomito, dalla dissenteria. E racconto ancora di Guy de Maupassant che a Siracusa, rapito davanti a corpo luminoso della Venere Anadiomene, cova nel sangue il bacillo dell’infezione, della malattia che lo porterà alla demenza, alla morte. Nella scansione del tempo che m’impongo, a mezzogiorno interrompo il lavoro e vado, con desiderio e Insieme titubanza, a comprare i giornali. E’ il momento quello, della frattura, del ritorno brusco Nella prosa offensiva del presente, dell’ingresso nel grigio miserevole teatro di questo regno dei Feaci, di questa Milano in cui sono approdato da piu di Venticinque anni e da cui non riesco più di venticinque anni e da cui non riesco più ad imbarcarmi per l’ Isola che un giorno abbandonai. Non riesco lasciare questa città del disinganno, dell’utopia crollata, della mediocrità più squallida, della nevrosi e dell’aggressività, del deserto d’ogni gioia, d’ogni bellezza, perché non ce più un’Itaca dove ridurmi e conciliarmi, in cui ricomporre l’armonia perduta, non c’è più espiazione e liberazione dalle colpe dopo il lungo racconto di mostri, di malìe e di tempeste ;perché i mostri non abitano più nel nostro subconscio, nei nostri sogni, non abitano più in ignote dimore abissi marini o caverne etnee, non sono dei mondi pre-civili, dei regni dell’olivastro, ma sono della nostra storia, del nostro tempo sono reali e ovunque presenti, sono quelli che ci hanno predetto Kafka, Baudelaire, Eliot, Joyce, Camus, Pirandello,tutti i poeti – profeti, sono quelli comparsi ieri ad Auschwitz, Hiroshima, Siberia, quelli comparsi oggi a Sarajevo, in Ruanda , in tanti altri luoghi di morte e di massacro; sono quelli che, dopo cinquant’anni, minacciano di ricomparire, ahinoi, in Italia …
L’amico giornalaio Bruno mi dà subito le prime notizie con l’espressione del volto, col modo d guar darmi, col far svolazzare, da dentro la nicchia della sua edicola, simile all’ antro della Sibilla Cumana, qualche parola che può sembrar casuale, ma che è carica d’allusioni, messaggi.
<< Ha sentito che cattivo odore, che puzza nell’aria stamane? Sarà scoppiata qualche fogna qui attorno, sarà sfuggito veleno da qualche fabbrica chimica…>>
Capisco Allora, mentre Bruno mi porge i Giornali che le notizie sono pessime, come del resto ogni mattina da molto tempo a questa parte; lo capisco dal malumore, dal brontolare di Bruno che ogni giorno diventa sempre più cupo.
E la che era nell’aria, che già si temeva dopo la stragrande vittoria alle elezioni della destra del partito del signor Berlusconi, alleato con i revanscisti, i vandeani del signor Bossi e con i vecchi fascisti (neo o post-fascisti loro pretendono d’esser chiamati) del signor Fini, eccola qua, in prima pagina su tutti i giornali, con titoli a caratteri cubitali: Berlusconi al potere- Berlusconi vi darò la miglior squadra – il regime all’opera – Governo, è l’ora di Berlusconi -Silvio Berlusconi s’appréte un accéder au pouvoir …
Si, è fatta, il leader di Forza Italia è stato Incaricato dal capo dello stato di formare Il nuovo governo, il cinquantatreesimo dalla fine del fascismo, dall’avvento della Democrazia.
Illusione, sogno, felicità da spot pubblicitario, mondo d’inganno, di ombre televisive, di degradata, miserabile caverna platonica, regime telecratico, Potere d’urna squadra di samurai dell’azienda, d’un manipolo di sacerdoti della religione della bottega, di mistici della réclame e del profitto: di questo parlano i giornali. Riportano anche oggi in prima pagina la condanna a otto anni di carcere del finanziere Sergio Cusani, un giovanotto di buona famiglia napoletana, d’un passato a Milano di militanza nel Movimento Studentesco, di marxista rivoluzionario. La sentenza arriva dopo sei mesi di processo trasmesso alla televisione e goduto dai telespettatori come un grande , appassionante spettacolo, in cui sono sfilati i più grandi finanzieri e Industriali, i leaders politici, in cui si è mostrato la corruzione, il disfacimento di un potere, il crollo di un sistema simile a quello di Bisanzio prima dell’arrivo dei barbari, quel mondo che ci ha narrato Procopio di Cesarea.
La gente che aveva mandato al potere Andreotti e Craxi ha guardato Il processo, ha tifato per il giudice di Mani Pulite Di Pietro, si è assolta, e in marzo ha votato per Berlusconi, per Bossi e per Fini.
<< E’ disperante, andiamo via, via da quest’orrenda città, via dall’Italia ….>> dice mia moglie.
<< Aspettiamo … Almeno fino a domani >> rispondo scherzando.
Sappiamo, l’indomani, il che il Papa, uscendo dalla doccia, è caduto e s’è rotto il collo del femore. doveva partire quest’oggi, Giovanni Paolo II, per Siracusa, avrebbe dovuto in quella città consacrare un santuario dedicato alla Madonna delle Lacrime, a un piccolo bassorilievo di gesso colorato che negli anni Cinquanta, in occasione di una tornata elettorale, si dice abbia pianto nella casa di un operaio comunista. Il santuario, un alto edificio in cemento a forma di cono scanalato, una sorta di rampa per il lancio di missili, è stato costruito di fronte al museo dov’è custodita la Venere Anadiomene, nel giardino dov’è la tomba di von Platen. Tutto ormai in questo paese è di banalità e orrore, di degrado e oblio, è tramonto infinito, è Siracusa, fiammella d’olio o di candela che si spegne, è buio di catacomba: tutto è Milano del fascismo, del leghismo e del berlusconismo, è squallore e ignoranza, è ricchezza volgare che corrompe, aggredisce e offende.

Nuove Effemeridi rassegna trimestrale di cultura

13313591_10208804237936395_453919843_oDa Nuove Effemeridi
Vincenzo Consolo
nella sede del giornale ” L’ora ” di Palermo
foto di Salvo Fundarotto

Mai sempre tuttavia il viaggio, come distacco,come lontananza dalla realtà che ci appartiene, è un sognare. E Sognare è vieppiù lo scrivere, lo scriver memorando del passato come sospensione del presente, del viver quotidiano. E un sognare Infine, in suprema forza, è lo scriver d’un viaggio, e d’un Viaggio nella Terra del passato […]  Mi chiedo: sogno, chiuso nella mia casa deserta di Milano o egli è vero che io sto viaggiando,  che mi trovo ora qui, sul Suolo della celebre Segesta?
Retablo

A dispetto delle innumerevoli, multiformi cassandre che vogliono l’universo letterario ormai succube di una comunicazione dominata dalla piattezza dell’immagine, la scrittura di Vincenzo Consolo continua a stupire e a imporsi. Probabilmente perchè, diversamente da tanti scriventi d’oggi, Consolo è scrittore nel senso pieno del termine, artista che fa del proprio lavoro sul linguaggio un lavoro attraverso il linguaggio, artigiano che inventa una particolare relazione tra mezzi e fini, espressione e contenuto, parole e cose sempre e comunque reversibile. Stabilire quale delle due facce del segno – nei libri di Consolo – prevalga sull’altra vuol dire negare l’esistenza del segno, la compiutezza dell’opera o, se si vuole, la stessa creazione letteraria. Consolo non è scrittore di cose, così come non è scrittore di parole, per il semplice motivo che in lui le parole s’impongono come cose e le cose si leggono come parole. Ecco perchè, quando gli si chiede ragione di un suo presunto barocchismo, risponde senz’altro: “è il mondo a essere barocco, io non faccio che rappresentarlo”. La figura e l’opera di questo inattuale fortemente impegnato nel presente non possono, pertanto, non stimolare discussioni e polemiche, perplessità e distinguo, odi e amori, la cui visceralità e il cui entusiasmo, peraltro, incessantemente traspaiono nelle pagine di libri come Il sorriso dell’ignoto marinaio, Retablo o Nottetempo. Difficile, forse incongruo, andare in cerca di etichette e di formule, di poetiche e d’influenze: se la letteratura sfugge il senso, è perché lo produce di continuo, eterna germinazione di visioni e idee, di affetti e problemi. Se c’è un itinerario sotteso all’opera consoliana, con trasformazioni e revisioni, determinazioni e tentennamenti, è prematuro definirne forme e motivi, non foss’altro perchè il tracciato è tutt’altro che concluso. Per riconoscere la strada che sì è percorsa, occorre conoscere la tappa finale: cosa che possiamo giurarlo, neanche Consolo può per adesso – e speriamo per molto – indicare. Questo fascicolo monografico di Nuove Effemeridi – interamente dedicato, appunto, a Vincenzo Consolo – vuole rappresentare tutto questo. Esso non è soltanto un doveroso omaggio a uno dei pochi scrittori che, pur essendo una delle presenze più significative nella cultura contemporanea, è riuscito a sfuggire al marketing letterario dei giorni nostri.

Vuole soprattutto rendere testimonianza dell’insieme variegato di letture critiche, posizioni, passioni, questioni, ricostruzioni e rigetti che le sue opere hanno suscitato, dal 1963 – data della pubblicazione de La ferita dell’aprile – alla fine del 1994 con interruzioni che, a ben riflettere, si  rivelano ancora più significative degli ostinati proseguimenti.  Apre il fascicolo un inedito di Consolo, “29 aprile 1994 : cronaca di una giornata”,dove non a caso l’immaginazione linguistica della scrittura s’intreccia inesorabilmente con gli affetti, i dubbi ei trasalimenti indotti dal mondo attuale. Anche l’intervista, rilasciata a Roberto Andò, insiste sui nessi che legano e al contempo separano l’ovattata ricerca letteraria e l’enfasi dell’indignazione per il presente, la fuga nel passato e il valore attuale attuale della memoria, il candore e lo scetticismo, la poesia e la ragione.
Le quattro letture che seguono prendono in considerazione i principali aspetti ei diversi momenti dell’opera letteraria di Consolo. Il saggio di Salvatore Trovato sviscera a fondo le forme e le funzioni  del linguaggio utilizzato nel Sorriso e in Lunaria, mostrando come la migliore ricchezza inventiva nasca sempre sullo sfondo di alcune tradizioni (sia colte sia popolari) preesistenti e spesso dimenticate. L’articolo di Cesare Segre ricostruisce i modi in cui il tema della Luna – attraverso Leopardi, Pirandello e Piccolo giunge sino a Lunaria, in cui, trasformandosi le forme comunicative, mutano conseguentemente le emergenze semantiche. L’analisi semiotica che Gianfranco Marrone e Stefano Montes conducono sul primo racconto di Le pietre di Pantalica rende conto, a sua volta, della maniera in cui, parallelamente alle forme linguistiche,anche le tematiche e, in generale, i contenuti narrativi subiscano un complesso trattamento di tipo “ espressionista “. L’Intervento di Salvatore Mazzarella, infine, rilegge pressoché l’intera opera di Consolo alla luce del motivo del viaggio, in quell’intreccio tra vita e letteratura evento e forma, olivi e olivastri che ne è Il segno di riconoscimento.
La sezione immagini propone una selezione di fotografie di Giuseppe Leone che ripercorrono i Luoghi delle opere consoliane. Segue un Lungo archivio, suddiviso in tante sezioni Quante Sono le Principali opere di Consolo (ferita, Sorriso così etc), in cui vengono ripubblicati alcuni studi o articoli apparsi su riviste e quotidiani italiani e stranieri. Il quadro che emerge e nello stesso tempo variegato e compatto: talvolta  interpretazioni si rincorrono, ma più spesso s’oppongono, finendo per trascinare l’opera consoliana ora  sul versante della sperimentazione  linguistica ora su quello dell’impegno sociale e politico. Basta articolare Il complesso intreccio delle diverse valutazioni, sovrapporle e miscelarle, per trovare forse, una delle più conducenti direzioni delle letture a venire. Chiudono il numero un testo poco noto dello scrittore sulla figura di Jacopone da Todi e una bibliografia degli scritti di e su Vincenzo Consolo