E la fantasia più fantastica di tutte




“E la fantasia più fantastica di tutte si trova dispiegata in quel catoio profondo, ipogeo sènia, imbuto torto, solfara a giravolta, che fa quasi da specchio, da faccia arrovesciata del corpo principale del castello sotto cui si spiega, il carcere: immensa chiocciola con la bocca in alto e l’apice in fondo, nel bujo e putridume”.

da Vincenzo Consolo, “Il sorriso dell’Ignoto marinaio”, Torino, Einaudi, 1976

Così scriveva Vincenzo Consolo nel romanzo che lo consacra al canone del Novecento italiano. La planimetria del mondo in cui si muove il suo protagonista, il barone Mandralisca, è un attorcigliarsi, un involversi, un contorcersi e firriarsi di tempi e luoghi, della stessa volontà del protagonista, che smanierebbe di rinchiudersi nel suo studio a catalogare conchiglie.
Conchiglie, labirinti, la Storia e la storia come guazzabuglio incomprensibile, sporco e violento, rispetto al quale verrebbe voglia di arretrare, scappare, nascondersi, rifugiarsi tra “vasi di Cina blu e oro, potiches verdi e bianche, turchesi e rosa della Cocincina”. Tra le buone cose di pessimo gusto, tra le belle cose frivole e rassicuranti che proteggono dal frastuono della Storia e della storia.
E invece no, Vincenzo Consolo il suo intellettuale lo vuole immerso nelle cose del mondo, attenta e vigile sentinella, costantemente impegnato a combattere, prima di tutto dentro di sé, la tentazione di accomodarsi tra le buone cose di pessimo gusto.
Ce n’è bisogno, Maestro, di sentinelle vigili.

Buon compleanno.
18 febbraio 1933 Sant’Agata Di Militello

L’allontanamento Il viaggio o la fuga?

Il tema del viaggio è un contenuto della realtà extratestuale e dell’immaginario (tanto dell’autore quanto del lettore) che ritorna in opere diverse: si ripete dunque in forme riconoscibili pur articolandosi ogni volta in modi irripetibili all’interno di costruzioni dotate ognuna di una propria individualità. Questo contenuto può riguardare personaggi, passioni, ambienti, eventi, immagini1 . Il viaggio è un evento. In genere si tratta di un accadimento che coinvolge due o più persone: dopo un percorso (di una di esse o di tutte, non importa), esse entrano in contatto fra loro in modo volontario o involontario, programmato in partenza o del tutto casuale2 . Nel 1993 Consolo ammette: I poli poi, per ragioni di vita e per scelta ideologica, si sono allontanati, sono diventati Palermo e Milano. E questi due poli mi hanno fatto essere, oltre che laconico, scrittore scisso, dalla doppia anima, dal doppio accento. Ma forse no, forse allo storicismo del vecchio mondo palermitano ho sostituito lo storicismo dell’attuale mondo milanese3 . I lettori entrano nel mondo della narrazione consoliana attratti non da questa frase tradizionale “C’era una volta” ma tramite un procedimento ben diverso e cioè l’uso della congiunzione che apre la storia. E la chiarìa scialba all’oriente, di là di Sant’Oliva e della Ferla, dall’imo sconfinato della terra sorgeva nel vasto cielo, si spandeva — ogni astro, ogni tempo rinasce alle scadenze, agli effimeri, ai perenti si negano i ritorni, siamo figli del Crudele, pazienza. N, 5 E poi il tempo apre immensi spazi, indifferenti, accresce le distanze, separa, costringe ai commiati — le braccia lungo i fianchi, l’ombra prolissa, procede nel silenzio, crede che un altro gli cammini accanto. SP, 11 Quando la voce del narratore inizia in questo modo, non è difficile, come sostiene Remo Ceserani, “sospendere la sua vita normale, abbandonare il mondo in cui scorre la sua vita e trasferirsi, se si sente attirato dalla voce del narratore e dall’interesse delle vicende narrate […]”4 . Il lettore subito sin dall’inizio ha impressione di affrontare la continuazione della storia già raccontata. Consolo riesce a trasformare il passato, anche quello lontano, in una realtà somigliante agli eventi presenti. Il ciclo della narrativa consoliana ammette la rappresentazione della Sicilia in varie fasi della sua storia. L’azione del romanzo Nottetempo3, casa per casa si svolge a Cefalù, negli anni del sorgere del fascismo. Non è racconto di viaggio, o guida, tuttavia con un viaggio si onclude. Qui Petro vive una sua educazione sentimentale, politica, letteraria, scontando sulla propria pelle lo sforzo del rapporto con una realtà che sfugge ad ogni razionalità, che si lascia dominare da quella “bestia trionfante” che stravolge quel mondo, che sembra fargli perdere antichi equilibri e antichi profumi, e trova nel fascismo la sua più compiuta incarnazione5 . C’è il risentimento verso una patria perduta e le persone che non si accorgono della perdita. E qui non si parla solo di un confine siciliano, ma di un oggi che comprende anche altri luoghi. Certo, il discorso della lingua è chiaro. Consolo ha sempre cercato di scrivere in un’altra lingua ed è quello che ha sempre irritato i critici, il fatto di “uscire dai codici, di disobbedire ai codici”6 .
Il viaggio di Nottetempo, casa per casa, è la fuga di Petro da un mondo nel quale egli vede la civiltà in via di travolgimento e per il quale avverte ormai odio, al punto da fargli maturare una condizione che egli non sa se, ed eventualmente quando, vorrà modificare, e quando eventualmente (“Non so adesso” dice, quasi come Fabrizio Clerici diceva dell’itinerario che avrebbe potuto prendere l’ulteriore sua peregrinazione) perché le ragioni dell’odio sono per lui diverse da quelle che muovono l’anarchico Schicchi, non politiche in senso stretto, non di fazione: e tali ha scelto di mantenerle “in attesa che passi la bufera”, senza fraintendimenti e perciò nello stesso esilio vivendo scostato da Schicchi, nella cui prassi riconosce la stessa matrice che ha causato la sua partenza, “la bestia dentro l’uomo che si scatena ed insorge, trascina nel marasma, la bestia trionfante di quel tremendo tempo, della storia, che partorisce orrori, sofferenze” (N, 170)7 . La partenza di Petro assume un valore emblematico, e in realtà, diventa aterritoriale. 5  Il romanzo Nottetempo, casa per casa contiene il numero maggiore di elementi raffiguranti la nozione di allontanamento: l’allusione all’inespresso, alla ritrazione, al rischio dell’afasia, del silenzio. Pervenuto in prossimità di Tunisi, rimasto solo sul ponte del piroscafo, Petro lascia cadere in mare un libro che l’anarchico gli aveva posto in mano per alimento politico, e pensa ad un suo quaderno, sentendo che, “ritrovata calma, trovate le parole, il tono, la cadenza, avrebbe raccontato, sciolto il grumo dentro, avrebbe dato ragione, nome a tutto quel dolore” (N, 171): un quaderno perciò egli porta con sé quale viatico dell’esilio, dove potrà da lontano nominare il dolore, e perciò — comprendendolo — risolverlo, e questo è tutto il corredo che la sua scelta presuppone8 . Il protagonista di Nottetempo, casa per casa è un esiliato che rompe a un tratto la condizione di esilio attraverso la scrittura, diversamente dagli altri, dal padre, ad esempio, che non può farlo. Il libro si apre con una scena notturna in cui si disegna la figura oggi rara della malinconia, desueta almeno, in cui la depressione si svela nel rapporto con la luna piena: quella del licantropo. La cultura popolare ci ha tramandato vari frammenti intessuti su questa figura, dominata da un dolore insopportabile che equivale ad un esilio. Come dice l’epigrafe della Kristeva posta all’inizio del libro, quel dolore equivale a vivere sotto un sole nero, che può anche stare per l’immagine della luna. È un tentativo di liberazione dell’angoscia attraverso l’animalità, la fuga, la corsa9 . La coscienza del dolore proprio e altrui indica una prospettiva che rende possibile la riflessione su un altra persona. La sofferenza non è qualcosa di peggiore che richiede il rimandere nascosti. Al contrario, è necessario prenderla in considerazione quando si vogliono determinare i limiti del potere umano. Consolo, indicando la sofferenza come l’esperienza fondamentale dell’esistenza, non si discosta dal discorso sempre più urgente sulla condizione degli emarginati nel mondo postmoderno. Così Petro fugge, come Consolo, e “spariva la sua terra mentre egli se ne andava (N, 168). Petro è spinto da una parte dalla forza irrazionale di un fascismo che prometteva giustizia e riscossa, specchietti delle allodole delle dittature incipienti, dall’altra è attratto da quel socialismo-anarchico la cui contestazione, però, gli appare violenta e drasticamente tragica. Decide per una ”fuga”, che non è disimpegno, ma scelta chiara, il che illustra la scena finale: “si ritrovò il libro dell’anarchico, aprì le mani e lo lasciò cadere in mare” (N, 171). La marginalità del gesto, tuttavia, non gli scongiura la necessità della fuga da Cefalù, dalla città che aveva amato nelle cose e nelle persone, e che ora gli era caduta dal cuore “per quello ch’era avvenuto, il sopravvenuto, il dominio che aveva presa la peggiore gente, la più infame, l’ignoranza, la violenza, la caduta d’ogni usanza, rispetto, pietà…” (N, 166); e perciò egli si spinge all’esilio in Tunisia, dove si reca partendo nottetempo da Palermo, su di un vapore che pure nasconde il capo anarchico Paolo Schicchi (altro personaggio reale)10. Anche Consolo, quando si è trasferito a Milano aveva intenzione di raccontare quella Milano dei contadini siciliani che diventano operai. Ben presto capì che per farlo aveva bisogno della distanza della metafora storica. È quello che Cesare Segre acutamente ha sottolineato come peculiarità del suo modo di scrivere: “è il distanziamento, il bisogno di distanziarsi, anche geograficamente”11. Il motivo del viaggio, nel primo lavoro: La ferita dell’aprile, si svolge sul doppio versante del riportarsi all’indietro dell’io narrante al tempo della propria adolescenza, e di un attraversamento di diversi piani linguistici alla ricerca di uno stile che si conquista una propria misura espressiva12. E per restituire alla storia il misterioso e l’ignorato che è nell’uomo e nella collettività, Consolo sceglie fin da questo primo romanzo la dimensione della memoria e l’idea del viaggio13. Il labirinto evidenzia cioè nella sua stessa forma figurale, in quanto metafora assoluta che si sostanzia di un retroterra religioso e mitologico, la struttura del congetturare dialettico, di quel mirare alla fine 10 del processo ermeneutico come al proprio fine, implicito nel viaggioverso-il-centro e nel viaggio-di-ritorno di Teseo come in tutte le successive varianti del mitologema14. In appendice ai capitoli di più acuminato spessore del suo romanzo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Consolo ha inserito, infatti, un ventaglio di documenti storici che fanno corpo organico con la narrazione, esplicitando ciò che essa lascia nel margine dell’intuitivo. Aldo M. Morace sostiene che così viene spezzata l’unità tipica del racconto storico, ma anche la finzione narrativa stessa, in modo da chiamare in causa il lettore, secondo l’esigenza brechtiana dello straniamento e secondo la suggestione adorniana circa la necessità, per l’opera d’arte, di portare impresse nelle proprie strutture formali le stigmate della negatività rinunciando alla forma compatta ed armoniosa che attesterebbe la conciliazione con la società esistente15. Se il romanzo, e in particolare il romanzo storico si esprime attraverso le tensioni formali, come sostiene Flora Di Legami16, la prosa di Consolo corrisponde pienamente a questa immagine. L’autore introduce, trasformato, il topos ottocentesco del manoscritto: esso non è più l’espediente narrativo su cui costruire la trama del romanzo, ma un documento immaginario capace di suffragare, con la sua verosimiglianza linguistica, l’effettualità degli avvenimenti narrati. E così il Mandralisca, mosso dall’ansia di verificare le affermazioni dell’Interdonato, compie un viaggio in alcuni paesi del messinese, che gli farà conoscere le condizioni di miseria e sfruttamento in cui versano i contadini, ma soprattutto lo porterà ad essere testimone diretto dell’insurrezione di Alcara contro i Borboni nel maggio 1860. Quello del Mandralisca risulta un viaggio di tipo vittoriniano, di progressiva maturazione e di crescita etico-politica, ma anche di discesa del nostro tempo. Interviste a Leonardo Sciascia, Vincenzo Consolo, Gesualdo Bufalino, Ignazio Buttita, dal programma radiofonico di Loredana Cacicia e Sergio Palumbo, prodotto e trasmesso da Rai Sicilia nel 1991. Palermo, Officine Grafiche Riunite, 2013, p. 52. L’intellettuale al caffé. Incontri con testimoni e interpreti all’interno delle contraddizioni della storia e della ragione, di cui sperimenta l’impotenza operativa17. Nel contesto della dominazione anche fisica delle nuove forze — come prova di contrapposizione ad esse — appare anche il problema delle riflessioni morali che espongono solo la dimensione degli abusi. Consolo la rievoca tramite l’introduzione della situazione di caos: accanto alle forze naziste spuntano le proteste degli operai, crescono l’incitazione intorno alla Targa Florio e infine la sconfitta degli anarchisti. Questo caos viene preceduto nella narrazione dal segnale riferito alla follia della famiglia Marano, il che suggerisce la conseguente spirale della perdita di senno. Solo la ragione si oppone al regime, al male atavico dell’uomo, alla distruzione della memoria e dei valori della terra e della società18: Ora sembrava che un terremoto grande avesse creato una frattura, aperto un vallo fra gli uomini e il tempo, la realtà, che una smania, un assillo generale, spingesse ognuno nella sfasatura, nella confusione, nell’insania. E corrompeva il linguaggio, stracangiava le parole, il senso loro, il pane si faceva pena, la pasta peste, la pace pece, il senno sonno. N, 140 Il linguaggio, trasgressivo e straniato, arcaicizzante e artificioso, nasce da una spinta molto forte, così da richiedere una strategia di difesa e di allontanamento, e una immersione nella vita “nel suo infinito variare”. È un linguaggio che diviene canto, sonante e alto, fatto di cadenze e ritmi poetici (per esempio, di ben individuabili, ossessivamente presenti, endecasillabi: “E la chia-rì-a scial-ba all’- or-ien-te / di là di Sant’-O-li-ve-del-la Fer-la”)19. Consolo ha spesso affermato di sentirsi parte di una linea della letteratura italiana che proviene dalla Sicilia e che comprende Verga, Pirandello, Vittorini, Brancati, Tomasi di Lampedusa, Sciascia, ma nello stesso tempo ribadisce17 la provenienza da una zona periferica d’Italia. La sua narrazione diventa la testimonianza della credenza nella possibilità dei contributi innovativi alla cultura da quella isolana20. L’abbandono della predominanza del senso della vista a favore dell’abilità del parlare implica la riduzione della distanza rispetto all’oggetto dell’analisi. La facoltà di parlare richiede la mancanza di dominazione e indica invece l’impegno dei processi cognitivi nelle differenti prospettive degli interlocutori. La Sicilia attraversata da Clerici è quella storica del primo Settecento, afflitta da povertà, ignoranza e violenza; e tuttavia i vari paesi diventano contrade dell’anima dove pensieri ed emozioni balzano in primo piano, e i personaggi incontrati hanno sempre consistenza reale e favolosa, come i ladri delle terme segestane. Sono luoghi in cui il narratore sospende il tempo della narrazione per abbandonarsi all’incanto del mondo favoloso e lontano. Lo spazio sociale con i suoi conflitti non è, in questo romanzo, il centro palpitante; lo percorre invece una vibrata inquietudine ed un febbrile desiderio di lontananza21. Nel romanzo Lo spasimo di Palermo l’autore legge una vicenda personale e collettiva, partendo da un tempo che apre immensi spazi. In principio è la lontananza, la terra straniera e il distacco che “costringe ai commiati”22. Nel caso del protagonista del romanzo menzionato, lo scrittore Gioacchino Martinez, cupo e angosciato eroe che vuole rappresentare la realtà senza incanto, che era quello di un sogno infantile, e smuovere altri ricordi. Sono proprio i ricordi che lo devastano e nello stesso tempo lo mantengono in vita: il protagonista torna in Sicilia, da dove se ne era fuggito, per l’impossibilità di opporsi alla violenza, all’ingiustizia. È un affondo nel rammarico, nei dolori della memoria: l’adolescenza nel dopoguerra siciliano, l’amato zio studioso di botanica, l’adorata Lucia che poi sposerà e perderà con strazio, il rifugio in una Milano ritenuta proba, antitesi al ma

rasma 20, gli anni del terrorismo e la pena per il figlio compromesso. Piero Gelli parla direttamente del risveglio di un’illusione: la città civile di Porta, Verri e Beccaria, di Gadda e Montale non esiste più, sommersa dalle acque infette dell’intolleranza e dalla melma della corruzione23. Se si prende per esempio la descrizione dell’albergo che sebbene non sia un luogo sotterraneo, rivela tutta la sua angustia: “La dixième muse era il nome dell’albergo. L’angusto ingresso, il buio corridoio…” (SP, 11). Spostandosi all’indietro nei ricordi assomigliava ai rifugi antiaerei o alle cantine. Dopo il bombardamento all’oratorio Chino ”tornò affannato nell’androne, attraversò il cavedio, discese nel catoio” (SP, 16). È significativo anche che cupi, nascosti ed in profondità siano i luoghi in cui si consuma la relazione fra il padre di Gioacchino e la siracusana. Quindi colpa e menzogna da cui Chino fugge sempre, in modo antonimico, seguendo il percorso contrario, verso la luce e la superficie. È la fuga da una realtà che non vuole conoscere. Una tana sarà anche il luogo prediletto dal ragazzo per i suoi giochi e le sue fughe: “Corse al marabutto, al rifugio incognito e sepolto dal terriccio” (SP, 19). A un certo momento del libro il protagonista parla così: “Non so adesso… Adesso odio il paese, l’isola, odio questa nazione disonorata, il governo criminale, la gentaglia che lo vuole… odio finanche la lingua che si parla”. Mai come adesso la scrittura si ritaglia come il luogo di una distanza difficilmente colmabile in cui non ci sono luoghi cui dedicare una presunta fedeltà: “Dietro queste parole scopertamente riferite all’oggi c’è il risentimento personale di chi scrive verso un luogo che ha dovuto lasciare”24. Una soluzione più simile al concetto di viaggio si può da ricavare nel romanzo Retablo. La seconda sezione del libro, quella centrale o la più distesa, è il diario di viaggio che Clerici scrive per Teresa Blasco, la donna amata, da cui cerca di allontanarsi compiendo la sua “peregrinazione” attraverso la Sicilia. È solo attraverso il “collaudato23 contravveleno della distanza”, infatti, che Clerici riesce a ritrovare quell’“aura irreale o trasognata” che gli consente di dedicarsi alla scrittura e alla pittura (R, 87). E per ottenere il necessario  estraniamento, analogo a quello operato dallo scrittore di Sant’Agata di Militello con il trasferimento a Milano, fungono spesso da testimoni o il cavaliere e l’artista lombardo Clerici, o il mistificatore inglese: Crowley. Lo stile barocco, fitto di sicilianismi, fornisce il coinvolgente e inconfondibile colore locale25.

Title: Rompere il silenzio : i romanzi di Vincenzo Consolo Author: Aneta Chmiel Citation style: Chmiel Aneta. (2015). Rompere il silenzio : i romanzi di Vincenzo Consolo. Katowice : Wydawnictwo Uniwersytetu Śląskiego.

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1  F. Orlando: Costanti tematiche, varianti estetiche e precedenti storici. In: M. Praz: La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica. Firenze, Sansoni, 2003 [1996], p. VII. 2  R. Luperini: L’incontro e il caso. Narrazioni moderne e destino dell’uomo occidentale. Roma—Bari, Editori Laterza, 2007, pp. 4—8. 168 Capitolo V: L’allontanamento V. Consolo: La poesia e la storia. In: Gli spazi della diversita. Atti del Convegno Internazionale. Rinnovamento del codice narrativo in Italia dal 1945 al 1992. Leuven —Louvain-la Neuve—Namur—Bruxelles, 3—8 maggio 1993. Vol. 2. A cura di S. Vanvolsem, F. Musarra, B. Van den Bossche. Roma, Bulzoni, 1995, pp. 583— 586.4  A. Bernardelli, R. Ceserani: Il testo narrativo. Istruzioni per la lettura e l’interpretazione. Bologna, Il Mulino, 2013, p. 135. Il viaggio o la fuga? 169 G. Ferroni: La sconfitta della notte. “L’Unità” 1992, il 27 aprile. 6  R. Andò: Vincenzo Consolo: La follia, l’indignazione, la scrittura. “Nuove Effemeridi” 1995, n. 29, p. 11. 7  S. Mazzarella: Dell’olivo e dell’olivastro, ossia d’un viaggiatore. “Nuove Effemeridi” 1995, n. 29, p. 63. 170 Capitolo V: ” (N, 168). Petro è spinto da una parte dalla for8  Ibidem, pp. 63—64. 9  R. Andò: Vincenzo Consolo…, pp. 8—9. S. Mazzarella: Dell’olivo e dell’olivastro…, pp. 62—63. 11 V. Consolo: Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia. Roma, Donzelli editore, pp. 9—10. 12 F. Di Legami: Vincenzo Consolo. La figura e l’opera. Marina di Patti, Pungitopo, 1990, p. 12. 13 Ibidem, pp. 7—9. 172 Capitolo V: , 14 Cfr. K. Kerényi: Nel labirinto. Torino, Bollati Boringhieri, 1983, p. 9. 15 Cfr. A.M. Morace: Orbite novecentesche. Napoli, Edizioni Scolastiche Italiane, 2001, pp. 212—213. 16 Cfr. F. Di Legami: Cfr. F. Di Legami: Vincenzo Consolo…, pp. 24—25. 18 Cfr. C. Ternullo: Vincenzo Consolo: dalla Ferita allo Spasimo. Catania, Prova d’Autore, 1998, p. 58. 19 R. Ceserani: Vincenzo Consolo. “Retablo”. “Belfagor” 1988, anno XLIII, Leo S. Olschki, Firenze, pp. 233 — 234. 174 Capitolo V: L’allontanamento cfr. A. Bartalucci: L’orrore e l’attesa. Intervista a Vincenzo Consolo. “Allegoria. Rivista quadrimestrale” 2000, anno XII, nn. 34—35, gennaio—agosto, 21 Cfr. F. Di Legami: Vincenzo Consolo…, p. 40. 22 G. Amoroso: Il notaio della Via Lattea. Narrativa italiana 1996—1998. Caltanisetta—Roma, Salvatore Sciascia Editore, 2000, p. 464. Cfr. P. Gelli: Epitaffio per un Inferno. La rabbia e la speranza di Consolo. “L’Unità” 1998, il 12 ottobre, p. 3. 24 R. Andò: Vincenzo Consolo…, p. 11.

Il sorriso dell’ignoto marinaio e L’ipotesto di libertà.

GUIDO BALDI

Università di Torino

II saggio si propone di esaminare i punti di contatto tra Il sorriso dell’ignoto marinaio e la novella Libertà (evidentemente presa da Consolo come punto di riferimento), e al tempo stesso le divergenze nell’impostazione del racconto, che risalgono ai diversi orientamenti ideologici dei due scrittori nei confronti della materia, una rivolta contadina. Se in Verga si registra un atteggiamento fermamente negativo verso la sommossa e le sue atrocità, temperato solo dalla pietà per i contadini diseredati, in Consolo invece si nota la volontà di comprenderne le ragioni. Non solo, se in Libertà la rappresentazione appare scarsamente problematica, a causa dell’atteggiamento dell’Autore che predetermina rigidamente le reazioni del lettore in un unica direzione, Consolo conferisce problematicità al racconto grazie all’uso dei punti di vista e delle voci, giocati abilmente a contrasto.

  1. GLI ANTECEDENTI DELLA SOMMOSSA

Alla base del romanzo di Vincenzo Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976), si colloca una rivolta contadina, quella scoppiata il 17 maggio 1860 in un piccolo paese sui monti Nebrodi, Alcara Li Fusi, provocata come in Libertà,(1) dalle speranze e dalle illusioni nate all’arrivo dei garibaldini in Sicilia. Ma rispetto a Libertà si registra una differenza sorprendente: la sommossa non viene rappresentata. Il romanzo ruota intorno a un vuoto, a una clamorosa ellissi narrativa, che non può non sconcertare il lettore, deludendo le sue attese, specie se si accosta al testo avendo nella memoria quello famoso di Verga. Eppure tutto il congegno narrativo del romanzo, nella sua prima parte, prima di arrivare al momento decisivo, fa supporre che la rappresentazione della rivolta debba essere il culmine del racconto, il suo punto di convergenza centrale, la sua Spannung. Al capitolo terzo, il folle eremita che vive in una grotta sulla montagna incontra nello spiazzo della forgia a Santa Marecùma un gruppo di fabbri e pastori, “omazzi rinomati per potenza di polso e selvaggiume», (2)dai nomi “grottescamente eloquenti di briganti più che di uomini, simili agli antichi epiteti che si davano ai diavoli”

(1) I rimandi alla novella verghiana nel romanzo sono numerosi, pertanto essa, per usare la terminologia genettiana, ne viene a costituire l’ipotesto (GERARD GENETTA. Palinsesti La Letteratura al secondo grado, trad. it.Torino, Einaudi, 1997).

(2) Tutte le citazioni sono tratte dalla seconda edizione del romanzo, Milano, Mondadori, 1997, che reca un’importante Nota dell’autore, vent’anni dopo.

(come nota finemente Giovanni Tesio nel suo commento), (1) «Caco Scippateste Car-cagnintra Casta Mita Inferno Mistêrio e Milinciana», intenti a oliare fucili arrugginiti, a fondere piombo, a riempir cartucce, a ritagliare proiettili, a molare falci, accette, forconi, zappe, coltelli, forbicioni. La scena è interamente colta attraverso il punto di vista dell’eremita, che, se a tutta prima crede di essere capitato all’inferno, pur nella sua esaltazione ha l’intuito pronto e capisce che vi è qualcosa di strano e sospetto in quell’armeggiare. Le stesse risposte dei presenti all’ eremita sono ammiccanti e allusive: alla sua domanda se intendono scannare maiali, rispondono: «- Porci di tutti i tempi, frate Nunzio – Ce n’è tanti – Tanti – Stigliole salsicce soppressata coste gelatina lardo, ah, l’abbondanza di quest’anno”; poi all’altra domanda se l’indomani pensano di fare festa a San Nicola, affermano: «Saltiamo questa volta, frate Nunzio. Non vedete quanto travaglio? […) Faremo festa per il giovedì che viene – Festa – Festazza […J – Scendete dall’eremo, frate Nunzio, e vedrete -». Il clima infernale che avvolge la scena potrebbe far supporre, nell’Autore, l’intento di usare immagini fortemente connotate e subliminalmente suggestive per mettere in risalto il carattere demoniaco della rivolta e così condizionare la reazione emotiva e il giudizio del lettore in una precisa direzione (come avviene in Libertà con la «strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie», che sta innanzi ai rivoltosi ubriachi di sangue); in realtà non si ha nulla del genere: al contrario, usare il punto di vista di un folle delirante, al quale va tutta la responsabilità dell’immagine, ottiene un effetto straniante, per cui l’adunanza dei futuri rivoltosi che preparano le loro armi assume un carattere di fervore gioioso, e la deformazione espressionistica della rappresentazione fa sentire la forza latente e la rabbia repressa che cova in quei diseredati in vista della prossima rivolta. Cosi le immagini gastronomiche da loro usate non hanno il valore delle allusioni verghiane alla ferocia cannibalica della folla affamata, anch’esse cariche di un pesante giudizio sull’ atrocità delle stragi dissimulato nella trama segreta del racconto, ma possiedono qualcosa di pantagruelicamente allegro. Infine le allusioni alla rivolta come festa non hanno nulla a che vedere con il «carnevale furibondo di luglio» di Libertà, ma fanno pensare a uno scatenamento liberatorio di quella forza e di quella rabbia.

Arrivato sulla piazza del paese, l’eremita vede che la caverna piena di gente rovescia per la porta aperta uno sfavillio di luce, «come antro di fornace» (un rimando interno alla forgia di prima), insieme a voci e urla. Da un gruppo che siede sul sedile di pietra, composto dal lampionaio, dall’usciere comunale, dall’inserviente del Casino dei galantuomini e dal sagrestano, il frate apprende il motivo di quella baldoria:

– Un tizio chiamato Garibardo

– Chi e ‘sto cristiano?

  • Brigante. Nemico di Dio e di Sua Maestà il Re Dioguardi. Sbarca in Sicilia e avviene un    quarantotto…

– Scanna monache e brucia conventi, rapina chiese, preda i galantuomini e protegge       avanzi di galera

– Questi vanno dicendo che gli da giustizia e terre…

Segno rapido di croce, mani giunte, capo chino e masticare un sordo paternostro

A differenza di Verga, che avvia la narrazione della sommossa in medias res, saltando tutti gli antefatti e partendo con il racconto dei primi atti compiuti dai rivoltosi, il romanzo di Consolo indugia sugli antefatti, sul come il diffondersi delle notizie sullo sbarco

  • VINCENZO CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio, a cura di Giovanni Teso, Torino, Einaudi 1995, p 63, nota 19

di Garibaldi ecciti gli animi dei diseredati e persino, come si è visto, sulla preparazione delle armi per i futuri eccidi. L’impostazione sembra voler insinuare nel lettore l’attesa di ciò che dovrà accadere, la convinzione che la rivolta sarà allo stesso modo diffusamente rappresentata, quasi a rendere poi più sconcertante la delusione delle aspettative. Nel passo citato le notizie dell’arrivo dei garibaldini e delle reazioni da essi provocate sono date attraverso il punto di vista degli uomini d’ordine, che stanno dalla parte dei signori e guardano con esecrazione e paura gli avvenimenti. In Libertà il punto di vista conservatore sul processo risorgimentale è riportato solo mediante un rapido accenno, l’uso spregiativo del verbo «sciorinarono» riferito al tricolore, qui invece quel modo malevolo di interpretare l’impresa dei Mille è proposto con ampiezza, evidentemente per mettere in piena luce una gretta chiusura dinanzi a ogni avvisaglia di cambiamento sociale che dall’alto si irradia verso il basso, contagiando anche i satelliti della classe padronale, come questi modesti paesani che stanno a chiacchierare in piazza.

Quello che nella novella verghiana era un rapido moto di disappunto dell’Autore dinanzi alla sordità dei «galantuomini» ai valori patriottici, qui si fa aperta polemica, ma più contro la chiusura sociale dei conservatori che quella politica. È chiaro da che parte sta lo scrittore.

Ancora al capitolo quinto si ha un’ampia narrazione di un momento preparatorio della sommossa, il raduno dei rivoltosi sempre nella conca di Santa Marecúma, la sera precedente il giorno fissato. Giungono tre uomini a cavallo, due «civili» e un capo dei braccianti, che sono i capi della rivolta e tengono i loro discorsi alla folla. Grazie ad essi si delineano non solo le motivazioni dell’insurrezione, ma anche le correnti per cosi dire ‘ideologiche’ che l’attraversano. Mentre in Libertà non emergono figure di capi e i contadini sono presentati come una massa spinta da impulsi ciechi e del tutto spontanei, una collettività indifferenziata in cui vi è una perfetta unità di intenti nella pura esplosione di rabbia selvaggia e di irrazionale furia distruttiva (tanto che viene escluso dal racconto il dato storico dell’avvocato Lombardo, l’ideologo e l’organizzatore del moto), qui Consolo ha cura di presentare le varie tendenze che, almeno nei capi, si profilano tra la collettività rurale. Don Ignazio Cozzo, borghese e sommariamente “alletterato”, cioè almeno capace di leggere e scrivere, rappresenta la tendenza a conciliare le spinte più radicali e le posizioni più moderate: il fine ultimo è una conciliazione delle istanze di giustizia sociale, rivolte contro l’oppressione della classe dei proprietari, con il riconoscimento delle autorità istituzionali, monarchia e Chiesa. Con tutto questo, l’oratore sa toccare le corde più sensibili dell’uditorio, facendo leva sui suoi impulsi più violenti, e invita a non farsi fermare da «pietà o codardia», perché grande è la «rabbia«, dopo anni di «sopportazione”, ordinando a ciascuno, al segnale stabilito, «Viva l’Italia!«, di scagliarsi «sopra il civile che si troverà davanti«. Poi, sempre come spia del relativo moderatismo di questa tendenza, l’oratore da appuntamento a tutti, a mezzanotte, per un solenne giuramento sopra il Vangelo, davanti a un ministro di Dio, il parroco del Rosario.

A contrastare questa linea insorge l’altro oratore, non un borghese ma il capo dei braccianti, Turi Malandro, che rappresenta le tendenze più estremistiche del movimento. Innanzitutto rifiuta il grido di «Viva l’Italia!« come segnale della sommossa, proponendo invece «Giustizial»: all’impostazione istituzionale, patriottica, contrappone quella sociale, eversiva dei rapporti di proprietà, perché giustizia in quel contesto significa sostanzialmente redistribuzione della terra. Una linea dura e spietata prospetta anche per l’azione: avverte che sarà facile lo «scanna scanna pressati dalla rabbia», il difficile verrà dopo, quando «il sangue, le grida, le lacrime, misericordia, promesse e implorazioni potranno invigliacchire i fegati più grossi. Non bisogna dunque cedere alla pietà: «Se uno, uno solo si lascia brancare da pena o da paura, tutta la rivoluzione la manda a farsi fottere». Se in Libertà la ferocia senza pietà dei rivoltosi era solo effetto di rabbia spontanea e di odio accumulato contro gli oppressori, qui la violenza non appare cieca, ma preordinata, teorizzata, ideologizzata, Non si ha una massa irrazionale, ma una forza organizzata, indirizzata verso obiettivi precisi, consapevole dei propri strumenti di lotta. In entrambi i casi gli atteggiamenti ideologici degli Autori verso la massa popolare, le posizioni conservatrici di Verga e quelle di sinistra di Consolo, non condizionano solo le tecniche narrative della sua rappresentazione, ma determinano la fisionomia stessa dell’oggetto rappresentato.

Il borghese don Ignazio sa muoversi con destrezza in questo dibattito con il suo contraddittore più estremista: accetta la parola d’ordine «Giustizia!», declassandola però a puro segnale convenzionale, al pari dell’altra, «Viva l’Italia!», Si allinea sulle posizioni anticlericali del capo bracciante, proclamando: «Siamo contro il Borbone e i servi suoi, ma anche contro la chiesa che protegge le angherie e i tiranni», ma distingue tra i preti «amici e soci degli usurpatorio e preti liberali come il parroco del Rosario. Insinua poi ragioni di opportunità, in quanto il prete è parente di un capitano che segue Garibaldi, e i rivoltosi non possono fare a meno della protezione dei garibaldini, che sono in grado di legittimare il loro operato agli occhi del mondo.

Ultimo preannuncio della sommossa è alla fine del capitolo l’incontro del gruppo di braccianti e pastori nel paese con un «civile», il professor Ignazio, figlio del notaio don Bartolo, il più odiato dei notabili, che alloro passaggio getta loro provocatoriamente in

Faccia i suoi scherni («Ah, che puzzo di merda si sente questa sera.»), ai quali fa eco, ripetendo le stesse parole, il figlio quindicenne. Tutti impugnano i falcetti, le zappe e le cesoie, pronti alla reazione violenta, ma uno di essi, più padrone di sé, riesce a conte nerne l’impeto, invitandoli a portare pazienza sino all’indomani. E il gruppo prosegue con i denti serrati, soffiando forte dal naso «per furia compressa e bile che riversa», È l’ultima immagine della rabbia che sta per esplodere.

2. L’ELLISSI NARRATIVA

A questo punto, dopo così ampi indugi preparatori, il lettore si sente legittimato ad aspettarsi subito dopo il racconto dettagliato della sommossa, Invece non trova nulla del genere: il capitolo successivo è costituito da una lunga lettera del barone di Mandralisca, già protagonista del primo, secondo e quarto capitolo, che per le sue ricerche di naturalista si è trovato sul luogo degli eventi e mesi dopo, a ottobre, scrive all’amico Giovanni Interdonato, procuratore dell’Alta Corte di Messina che dovrà giudicare gli insorti scampati alla fucilazione sommaria, come preambolo a una memoria che intende compilare sui fatti di Alcara. E evidente allora che il principale problema interpretativo proposto dal Sorriso dell’ignoto marinaio è capire le ragioni di questa clamoroSa ellissi narrativa e la sua funzione strutturale nell’economia dell’opera.

La lettera del barone è il centro ideale del romanzo, e in essa si possono rinvenire le ragioni dell’ellissi, del fatto che lo scrittore rinunci sorprendentemente alla rappresentazione della rivolta popolare, II Mandralisca vorrebbe narrare i fatti come li avrebbe narrati uno di quei rivoltosi, e non uno come don Ignazio Cozzo, «che già apparteneva alla classe de’ civili», ma uno «zappatore analfabeta». In questo proposito dell’aristocratico intellettuale si può intravedere un’allusione alla tecnica abituale delle narrazioni verghiane  incentrate sulle «basse sfere», che consiste proprio nell’adottare una voce narrante al livello stesso del personaggi popolari (tecnica peraltro solo parzialmente applicata in un testo come Libertà, par dedicato a una sommossa contadina, poiché per buona parte il narratone terno al piano del narrato è portavoce dei «galantuomini»).

Ma il barone, che qui diviene il narratore in prima persona (con un passaggio al racconto omodiegetico, mentre i capitoli precedenti erano affidati a un narratore eterodiegetico), scarta decisamente questa possibilità: «Per quanto l’intenzione e il cuore siano disposti, troppi vizi ci nutriamo dentro, storture, magagne, per nascita, cultura e per il censo, Ed è impostura mai sempre la scrittura di noi cosiddetti illuminati, maggiore forse di quella degli ottusi e oscurati da’ privilegi loro e passion di casta». Qui chiaramente il barone è alter ego e portavoce dell’Autore stesso: se ne può dedurre facilmente che Consolo rinuncia a narrare la sommossa perché è convinto che una simile operazione, condotta da lui, intellettuale borghese, viziato nella sua visione dalla sua posizione di classe, dalle «storture» che le sono connaturate, sarebbe un «impostura», non sarebbe in grado di riprodurre le ragioni che hanno determinato l’evento, anzi ne tradirebbe inevitabilmente il senso, risolvendosi in una mistificazione. Il barone rintuzza poi l’obiezione che ci sono le istruttorie, le dichiarazioni agli atti, le testimonianze: «Chi verga quelle scritte, chi piega quelle voci e le raggela dentro i codici, le leggi della lingua? Uno scriba, un trascrittore, un cancelliere»; e anche se esistesse uno strumento meccanico capace di registrare quelle voci, come il dagherrotipo fissa le immagini, «siffatta operazione sarebbe ancora ingiusta: poi che noi non possediamo la chiave, il cifrario atto a interpretare que’ discorsi», e non solo sul piano linguistico: «Oltre la lingua, teniamo noi la chiave, il cifrario dell’essere e del sentire e risentire di tutta questa gente?»

Il discorso del barone passa poi a toccare un altro punto di centrale rilevanza, strettamente legato al precedente: l’impossibilità per i privilegiati, anche per quelli «illuminati», di condividere i valori fondamentali, soprattutto quelli politici e culturali, con le classi subalterne. Essi ritengono come unico possibile il loro codice, il loro modo di essere e di parlare che hanno «eletto a imperio a tutti quanti «Il codice del dritto di proprietà e di possesso, il codice politico dell’acclamata libertà e unità d’Italia, il codice dell’eroismo come quello del condottiero Garibaldi e di tutti i suoi seguaci, il codice della poesia e della scienza, il codice della giustizia e quello d’un’utopia sublime e lontanissima…». Per questo la classe dominante parla di rivoluzione, libertà, eguaglianza, democrazia, e riempie di quelle parole libri, giornali, costituzioni, leggi, perché quei valori li ha già conquistati, li possiede. Ma le classi subalterne sono estranee a quei valori, non possono parteciparli: «E gli altri, che mai hanno raggiunto i dritti più sacri e elementari, la terra e il pane, la salute e l’amore, la pace, la gioia e l’istruzione, questi dico, e sono la più parte, perché devono intender quelle parole a modo nostro?». Quei valori non possono essere semplicemente calati dall’alto: le classi subalterne devono da sole conquistarseli, e allora «li chiameranno con parole nuove, vere per loro, e giocotorza anche per noi, vere perché i nomi saranno intieramente riempiti dalle cose»; e allora «la storia loro, la storia, la scriveran da sé, non io, non voi, Interdonato, o uno scriba assoldato. tutti per forza di nascita, per rango o disposizione pronti a vergar su le carte fregi. svolazzi, aeree spirali, labirinti…* Quindi, per il barone, il riscatto dei subalterni varrà a riscattare gli stessi privilegiati, ridando verginità e sostanza autentica a valori che rischiano di ridursi, nelle loro mani, a meri flatus  vocis inconsistenti o a vacue ornamentazioni retoriche. Se gli intellettuali non possono non mistificare la storia degli oppressi con la loro scrittura, la scrittura autentica di tale storia non potrà essere che degli oppressi stessi, quando avranno conquistato gli strumenti concettuali attraverso l’istruzione e l’emancipazione dalla loro subalternità.

Risulta evidente, da tutte queste riflessioni del barone di Mandralisca, e dietro di lui dello scrittore, la distanza ideologica che, sul tema comune della rappresentazione di una rivolta contadina, separa il romanzo di Consolo da Libertà. Verga, dal suo punto di vista di conservatore deluso e pessimista, registra con la sua gelida oggettività, che tradisce una desolata amarezza, l’estraneità dei contadini ai valori risorgimentali, il loro ridurre l’ideale di libertà alla semplice redistribuzione della proprietà della terra. Consolo invece, da una prospettiva storica che, grazie alla conoscenza dell’ampio dibattito intervenuto nel frattempo, ha ben chiari i limiti del Risorgimento, specie nei suoi riflessi sul Mezzogiorno, e soprattutto considerando la rivolta contadina da tutt’altra angolatura, quella dell’intellettuale di sinistra, arriva a comprendere le motivazioni profonde di quella estraneità e a giustificarla storicamente e socialmente. Non solo, ma in chiave di materialismo storico attribuisce agli aspetti materiali, cioè proprio alla terra, un peso determinante rispetto agli ideali astratti. Il barone nel 1856 aveva partecipato ai moti patriottici di Cefalù, ed ora rievoca le figure degli eroi e dei martiri che allora avevano dato la vita per la causa: «Io mi dicea allora, prima de’ fatti orrendi e sanguinosi ch’appena sotto comincerò a narrare, quei d’Alcara intendo, finito che ho avuto questo preambolo, io mi dicea: è tutto giusto, è santo. Giusta la morte di Spinuzza, Bentivegna, Pisacane… Eroi, martiri d’un ideale, d’una fede nobile e ardente». Però ora, sotto l’impressione sconvolgente della sommossa di Alcara, è assalito da dubbi: «Oggi mi dico: cos’è questa fede, quest’ideale? Un’astrattezza, una distrazione, una vaghezza, un fiore incorporale, un ornamento, un ricciolo di vento.. Una lumaca.” La lumaca, l’oggetto dei suoi studi eruditi e futili, è assunta dal barone come immagine del vuoto sterile di una cultura di classe c, nella sua forma a spirale(1) che si chiude su se stessa, «di tutti i punti morti, i vizi, l’ossessioni, le manie, le coartazioni, i destini, le putrefazioni, le tombe, le prigioni… Delle negazioni insomma d’ogni vita, fuga, libertà e fantasia, d’ogni creazion perenne, senza fine». Per cui alla lumaca contrappone ciò che è solido e concreto, la terra: «Perché, a guardar sotto, sotto la lumaca intendo, c’è la terra, vera, materiale, eterna: e questo riporta il suo pensiero alla rivolta dei contadini: «Ah la terra! È ben per essa che insorsero quei d’Alcàra, come pure d’altri paesi, Biancavilla, Bronte, giammai per lumache», cioè per ideali astratti e retorici.

Inoltre, mentre il pessimismo induce Verga a essere profondamente scettico su una diversa organizzazione della società, e quindi a convincersi che un’eventuale redistribuzione della terra porterà comunque allo scatenarsi della lotta per la vita e a nuovi sopraffattori, scaturiti dalla massa popolare stessa, che si sostituiranno agli antichi, Consolo per bocca del suo aristocratico illuminato prospetta come una conquista determinante l’accesso dei contadini alla terra, nella prospettiva di una distruzione della proprietà privata, «la più grossa, mostruosa, divoratrice lumaca che sempre s’è aggirata strisciando per il mondo», distruzione che il barone vagheggia rifacendosi alle idee di Mario Pagano e di Pisacane, citato testualmente: «Il frutto del proprio lavoro garantito; tutt’altra proprietà non solo abolita, ma dalle leggi fulminata come il furto, dovrà essere la chiave del nuovo edifizio sociale. È ormai tempo di porre ad esecuzione la solenne sentenza che la Natura ha pronunciato per bocca di Mario Pagano: la distruzione di chi usurpa». Se Libertà ha alla base la negazione di ogni possibilità di progresso, dalle

  • Sull’importanza della figura della spirale nel romanzo si veda CESARE SEGRE, La costruzione a chioccola del «Sorriso dell’ignoto marinaio» di Consolo, in IDem, Intrecci di voci La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino. Einaudi, 1991, pp 71-86. Per una complessa interpretazione in chiave antropologica, si rimanda a Giuseppe Traina,  Vincenzo Consolo, Fiesole, Cadmo, 2001, pp. 60 sgg

parole del barone risalta una ferma fiducia nel progresso, in senso sociale, come riscatto delle masse oppresse ad opera delle masse stesse, capaci di distruggere il sistema iniquo della proprietà privata avviando a una totale rigenerazione del mondo: «Per distruggere questa i contadini d’Alcàra si son mossi, e per una causa vera, concreta, corporale: la terra: punto profondo, onfalo, tomba e rigenerazione, morte e vita, inverno e primavera, Ade e Demetra e Kore, che vien portando i doni in braccio, le spighe in fascio, il dolce melograno…. E, in questo proiettarsi in un futuro ritenuto possibile, la cui immagine lo esalta, la sua prosa diviene lirica, enfatica, infarcita di rimandi classici e mitologici, tradendo la sua natura di letterato: la scelta stilistica dello scrittore, che mima lo stile del personaggio stesso, vale a denunciare, mediante un processo di distanziamento e di straniamento, quanto di cultura aristocratica ed elitaria permanga nel nobile, nonostante la sua apertura ideologica, quindi a sottrarlo a ogni rigidezza esemplare e apologetica, a presentarlo in una luce critica (ma su questo dovremo ritornare).

Per la presa di coscienza dell’impossibilità di narrare i fatti di Alcara, «se non si vuol tradire, creare l’impostura», al barone «è caduta la penna dalla mano»: rinuncia pertanto all’idea di stendere quella memoria sullo svolgimento della sommossa che intendeva sottoporre all’amico Interdonato, procuratore dell’Alta Corte. Si limita a invitarlo ad agire «non più per l’Ideale, si bene per una causa vera, concreta», «decidere della vita di uomini ch’ agiron si con violenza, chi può negarlo?, ma spinti da più gravi violenze daltri, secolari, martiri soprusi angherie inganni. ». Ed in effetti il procuratore, rispondendo alla sollecitazione dell’amico, manda liberi i rivoltosi per amnistia, con un’ardita interpretazione di una legge del governo dittatoriale che assolveva da delitti commessi contro il regno borbonico. Evidentemente è significativa questa soluzione adottata da Consolo, se paragonata a quella di Libertà: Verga insiste sul processo in cui i rivoltosi, giudicati da giudici ostili per pregiudizio di classe, subiscono pesanti condanne, nel romanzo di Consolo invece essi (a parte quelli fucilati subito da una commissione speciale, come quelli fatti giustiziare da Bixio nella novella) non subiscono pene. In entrambi i casi viene rispettata la realtà storica: ma è importante che Consolo abbia scelto un fatto conclusosi con una soluzione positiva, grazie all’apertura illuminata di chi rappresenta la giustizia, mentre Verga abbia optato per un fatto risoltosi negativamente. Lo scrittore di sinistra punta cioè su un episodio che consente un’apertura verso il futuro la speranza in un ordine diverso in cui la giustizia non sia solo vendetta di classe, mentre Verga sceglie un episodio storico che conferma il suo pessimismo negatore di ogni prospettiva verso il futuro (e che lascia solo un margine alla pietà per le vittime di una giustizia ingiusta).

Se rinuncia a narrare l’evento in sé, il Mandralisca ritiene agevole e lecito parlare solo «de’ fatti seguiti alla rivolta», «in cui i protagonisti, già liberi di fare e di disfare per più di trenta giorni, eseguir gli espropri e i giustiziamenti che hanno fatto gridar di raccapriccio, ritornano a subire l’infamia nostra, di cose e di parole», cioè le fucilazioni sommarie e poi il processo a Messina. Per cui, come il romanzo rappresenta la preparazione della sommossa, così si sofferma sul quadro spaventoso del paese devastato da essa: le tombe del convento dei cappuccini scoperchiate, con i cadaveri sparsi all’aria aperta. la fontana con le carogne a galla nella vasca, «macelleria di quarti, ventri, polmoni e di corami sparsi sui pantani e rigagnoli dintorno, non sai di vaccina, becchi, porci, cani o cristiani», poi nella piazza del paese «orridi morti addimorati» che «rovesciansi dall’uscio del Casino e vi s’ammucchiano davanti, sulle lastre, uomini fanciulli e anziani. Pesti, dilacerati, nello sporco di licori secchi, fezze, sughi, chiazze, brandelli, e nel lezzo di fermenti grassi, d’acidumi, lieviti guasti, ova corrotte e pecorini sfatti. Sciami e ronzi di mosche, stercorarie e tafani.. Su questo turpe ammasso si avventano cornacchie, corvi, cani sciolti, maiali a branchi, «briachi di lordura», un «vulturume» «piomba a perpendicolo dall’alto come calasse dritto dall’empireo», «si posa sopra i morti putrefatti» affondando il rostro e strappando «da ventre o torace, un tocco», poi «s’ erge, e vola via con frullio selvaggio», mentre passa una carretta guidata da garibaldini, che costringono gli astanti i caricarvi i morti per portarli al cimitero. Consolo insiste su particolari orrorosi e ripugnanti ben più di quanto non faccia Verga, ma mentre in Libertà lo scrittore soffermandosi sulle atrocità punta a suscitare nel lettore reazioni emotive di sdegno e raccapriccio con tecniche di suggestione sotterranea, qui più che l’orrore in sé è in primo piano chi lo osserva, cioè il barone, con il suo atteggiamento dinanzi allo spettacolo: vale a dire che i brani descrittivi, come crediamo risulti chiaramente dalle citazioni, sono in primo luogo esercizi di bravura stilistica intesi a mimare il particolare idioletto dell’aristocratico intellettuale. L’orrore insomma è allontanato di un grado, sempre per presentare il personaggio filtro del racconto in una prospettiva critica, per equilibrarne l’eccessiva positività ed evitarne un ritratto apologetico, mostrando attraverso il linguaggio i limiti storici della sua cultura.

Alla prospettiva del barone, aperta a comprendere con acuta intelligenza politica e sociale le ragioni della rivolta, è contrapposta subito dopo la prospettiva contraria di chi conduce la repressione. Viene cioè riportato il discorso che il colonnello garibaldino, che già con l’inganno aveva indotto i rivoltosi a deporre le armi per arrestarli, rivolge alla popolazione del paese raccolta in chiesa, dopo il Te Deum di ringraziamento per la fine dei disordini. Nelle sue parole i prigionieri incatenati «non sono omini ma furie bestiali, iene ch’approfittaron del nome sacro del nostro condottiero Garibaldi, del Re Vittorio e dell’Italia per compiere stragi, saccheggi e ruberie. lo dichiaro qui, d’avanti a Dio, que’ ribaldi rei di lesa umanità. E vi do la mia parola di colonnello che pagheranno le lor tremende colpe que’ scelerati borboniani che lordaron di sangue il nostro Tricolore. […] L’Italia Una e Libera non tollera nel suo seno il ribaldume». La registrazione di queste parole, con tutto il loro livore forcaiolo, che arriva alla mistificazione di bollare come «borboniani» i rivoltosi, ha il compito di denunciare come i garibaldini non fossero solo i paladini dell’ideale, e tanto meno i portatori di una palingenesi sociale, come si erano illusi i contadini, ma semplicemente venissero a imporre un ordine solo esteriormente nuovo, che in realtà riproduceva in forme diverse l’oppressione di classe precedente. Un’opposizione così forte tra la prospettiva illuminata dell’intellettuale e quella reazionaria del militare portavoce degli interessi del nuovo ordine non può essere priva di significato: occorrerà quindi riflettere sul gioco di punti di vista congegnato dallo scrittore e cercar di capire la sua funzione nella struttura del testo. Però prima è necessario mettere in luce una più ampia opposizione che l’Autore costruisce per chiudere il romanzo, e che presenta caratteristiche analoghe, suscitando gli stessi problemi interpretativi.

3. LA SOMMOSSA ATTRAVERSO LE VOCI DEI PROTAGONISTI

Se il barone rinuncia a descrivere la rivolta per l’impossibilità di narrare come narrerebbero i contadini senza determinare un tradimento mistificatorio, alle voci dei rivoltosi viene egualmente dato spazio nel romanzo. Il Mandralisca infatti, recatosi nel castello dove erano stati rinchiusi i prigionieri, trascrive le scritte da essi tracciate col carbone sui muri del sotterraneo. È come il primo passo verso la realizzazione dell’auspicio formulato dal barone, che i subalterni dovranno scrivere da sé la propria storia.

In tal modo, attraverso le voci dirette dei protagonisti, emergono momenti fondamentali della sommossa e viene in qualche modo colmato il vuoto dell’ellissi che ne aveva cancellato la narrazione

Dalle scritte affiorano, in forme elementari e sintetiche ma cariche di una forma dirompente, le ragioni della rivolta, l’odio per i possidenti, la rabbia per i soprusi e le ruberie ai danni dei diseredati, al tempo stesso, per rapidi ed essenziali scorci, si profilano gli episodi più atroci, che sono affini a quelli descritti da Verga, ma invece di essere affidati a un narratore non neutrale, che indulge su determinati particolari per condizionare sottilmente il giudizio del lettore, sono lasciati, senza filtri, alle parole secche degli autori stessi delle efferatezze, al momento di scrivere ancora pienamente sotto l’impulso dell’odio che allora li aveva mossi. Unica eccezione è la seconda scritta, che solo all’inizio inveisce contro proprietari, pezzi grossi del consiglio comunale, parroci e «civili» che si sono appropriati delle terre del Comune escludendo chi ne aveva diritto, sia «galantuomini» sia «poveri villani»: chi scrive è un «galantuomo» egli stesso che, pieno di rabbia per essere stato estromesso dalla spartizione, ha capeggiato la rivolta, ma ora confessa di essersi pentito del processo devastante a cui aveva dato origine («Aizzai gli alcaresi a ribellarsi / ah male per noi / nessuno fu più buono / di fermare la furia / dei lupi scatenati), per cui chiede perdono a tutti. L’immagine dei «lupi» scatenati sembra proprio un intenzionale rimando, da parte dello scrittore, al lupo «che capita affamato nella mandra» di Libertà: ma certamente un suono diverso ha la stessa immagine usata da un narratore portavoce delle classi alte vittime della rivolta, delegato a esprimere l’esecrazione, il disprezzo e la paura che esse nutrono per la furia popolare, oppure impiegata da chi è stato dentro la sommossa e ora prende coscienza delle atrocità commesse, provandone orrore.

La scritta successiva evoca l’uccisione del nipote del notaio, al presente, come se chi scrive rivivesse in quel momento l’atto compiuto e ancora ne godesse: «Puzza di merda a noi / la sera di scesa nel paese / stano turuzzo / nipote del notaro / strascino fora / serro colle cosce / sforbicio il gargarozzo / notaro saria stato pure lui». Anche qui si inserisce un’evidente allusione a Libertà: la conclusione della scritta ripete quasi testualmente l’affermazione nella novella verghiana proferita da uno della folla dinanzi al figlio del notaio abbattuto con un colpo di scure dal taglialegna: «Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui!». Ma proprio il collegamento esplicito fa risaltare la distanza fra le due impostazioni del racconto. In Verga la registrazione della frase vale a gettare una luce sinistra sul cinismo disumano dei rivoltosi, qui invece la stessa frase riflette solo la comprensibile indignazione dell’oppresso contro gli oppressori e il suo bisogno di giustizia.

Inoltre in Libertà il ragazzo trucidato è biondo come l’oro, notazione che mira a conferire alla vittima qualcosa di puro e angelico, e quindi a potenziare il patetismo del racconto e a suscitare raccapriccio per la barbara uccisione dell’innocente; nel romanzo di Consolo invece questo ragazzo, nell’episodio a cui la scritta fa inizialmente riferimento, appare come una figura laida, ripugnante sia moralmente sia fisicamente: la sera prima della rivolta aveva schernito provocatoriamente, a imitazione del padre, pastori e fabbri al loro passaggio in piazza, sostenendo di sentire puzzo di merda, rivelando cosi l’odioso disprezzo della sua classe di privilegiati per i poveracci, per di più era descritto «grasso come ‘na femmina, babbaleo, mammolino, ancora a quindici anni sempre col dito in bocca, la bava e il moccio», ed era definito spregiativamente «garrusello», cioè effeminato. È evidente la volontà di rovesciare l’impostazione verghiana. Già nell’episodio della vigilia la figura appariva ignobile perché presentata attraverso la prospettiva dei villani insultati e la loro reazione furibonda, come rivelava il linguaggio adottato, che mimava quello dei villani stessi; poi nella scritta la descrizione dello sgozzamento viene subito dopo la rievocazione degli insulti, a far sentire come l’atto atroce sia scaturito dalla rabbia ancora viva e cocente per l’affronto subito da parte del rappresentante degli oppressori: per cui nella rievocazione dell’eccidio non si innesca alcuna reazione emotiva di commozione e sdegno per l’innocente trucidato, in quanto la vittima non è innocente per nulla, anzi, si ricava l’impressione che la feroce vendetta sia in qualche modo giusta.

Le altre scritte ricalcano sostanzialmente lo stesso schema, evocazione delle angherie ed efferata punizione. Un’ulteriore eco di Libertà è il giovane Lanza che cade senza un lamento, con gli occhi sbarrati «che dicono perché», e rimanda al don Antonio di Verga che cade con la faccia insanguinata chiedendo «Perché Perché mi ammazzate?.

L’ultima scritta, riportata inizialmente nel dialetto alcarese, afferma che «u populu

“ncazzatu ri Laccara» e degli altri paesi siciliani ribellatisi «nun lassa supra a facci ri ‘sta terra/manc’ ‘a simenza ri/ surci e cappedda», e termina nell’antico dialetto di Sanfratello, di origine lombarda: «mart a tucc i ricch / u pauvr sclama / au faun di tant abiss / terra pan / l’originau è daa / la fam sanza fin / di / libirtâá». La parola conclusiva, «libirtãà, sembra ancora un rimando al testo verghiano, ma se là risultava usurpata dai contadini che la intendevano solo come appropriazione delle terre, qui la libertà è decisamente identificata con la terra che dà pane, in coerenza con il discorso fatto in precedenza dal barone, inteso a rivendicare la base materiale che assicura contenuto reale a autentico ai valori ideali.

Il romanzo però non termina qui: dopo la riproduzione delle scritte, vi sono ancora tre appendici di documenti, di cui uno assume un’importante funzione strutturale. si tratta di un libello, a firma di tal Luigi Scandurra, pubblicato a Palermo nel 1860, che contiene una violenta requisitoria contro la decisione del procuratore di mettere in libertà gli accusati. Qui i fatti di Alcara sono presentati in una ben diversa luce rispetto alle parole del barone di Mandralisca e alle scritte sui muri del carcere: i rivoltosi sono definiti «una mano di ribaldi», «un orda di malvaggi [sic], spinti dal veleno di private inimicizie, e dal desio di rapina» che «assassinò quanti notabili capitò [sic] nelle sue mani. saccheggiando e rubando le loro sostanze e le pubbliche casse,

Come si vede la sommossa, dopo essere stata rievocata dall’interno, con le parole dei protagonisti stessi, viene presentata da un punto di vista opposto, quello degli uomini d’ordine, ferocemente ostili al moto popolare, di cui forniscono un quadro deformante, riducendone le cause a motivazioni ignobili di interessi personali e descrivendo gli oppressori come persone di specchiata virtù e come innocenti agnelli sacrificali. Però non si direbbe che la registrazione dei due opposti punti di vista, come già al capitolo settimo la contrapposizione tra la prospettiva del barone e quella del colonnello garibaldino, risponda a intenti di equidistanza e neutralità, come avviene in Libertà, dove a tal fine si alternano il punto di vista dei «galantuomini» e quello dei rivoltosi. La posizione dello scrittore si offre molto netta. Non vi è dubbio, come testimonia tutta l’impostazione del romanzo, che egli voglia presentare in una luce positiva il barone e abbia un atteggiamento estremamente aperto e disponibile verso la rivolta e le sue ragioni, nonostante ne sottolinei chiaramente i limiti politici e le atrocità, e che per converso la riproduzione del libello e dei discorsi dell’ufficiale assuma una forte valenza critica: i conservatori, attraverso la pura registrazione delle loro parole, della loro bolsa retorica, del loro lessico pomposo e approssimativo, delle loro sgrammaticature, denunciano tutto il loro livore forcaiolo e il loro squallore intellettuale e morale. Ma mentre Verga a dispetto dei propositi di obiettività punta su immagini e particolari di forte valore connotativo ed emotivo, che,

suggestionino nel profondo il lettore condizionandone il giudizio, Consolo al contrario, proprio con il gioco dei punti di vista, mira a suscitarne non l’emotività ma la riflessione razionale e la valutazione critica, quindi riesce a preservare la problematicità della rappresentazione.

L’analisi e del romanzo di Consolo a confronto della novella di Verga conferma quanto era facile aspettarsi, conoscendo le rispettive posizioni ideologiche dei due scrittori: cioè che la trattazione della sommossa contadina è condotta con tecniche di rappresentazione e assume una peculiare coloritura in rispondenza a tali posizioni. I rischi insiti nel pessimismo fatalistico di Verga, di ascendenza conservatrice, non sono stati interamente evitati in Libertà, come prova la scarsa problematicità della rappresentazione, dovuta all’atteggiamento autoritario del narratore, che predetermina rigidamente le reazioni del lettore in un’unica direzione (prima esecrazione per sommossa e poi pietà per gli autori delle efferatezze divenuti vittime). Ma rischi simmetrici ed equivalenti erano impliciti nell’ideologia di Consolo: l’impostazione “da sinistra’ poteva dare adito egualmente a rappresentazioni rigidamente univoche e a procedimenti manipolatori, oppure a soluzioni predicatorie, parenetiche, pedagogiche, propagandistiche, come testimonia certa narrativa sociale dell’Ottocento oppure del neorealismo novecentesco.

Ci sembra di poter concludere che tali rischi sono stati da Consolo evitati:(1) a ciò ha contribuito proprio la scelta dell’ellissi narrativa, la rinuncia a una descrizione diretta della sommossa, che sarebbe stata piena di insidie difficili da evitare; vi ha inoltre cooperato il gioco dei punti di vista, tra la prospettiva alta dell’aristocratico, aperto alle istanze popolari però ben consapevole dei rischi di una scrittura che scaturisse dalla cultura dei privilegiati, la voce diretta dei subalterni affidata alla riproduzione testuale delle scritte sui muri del carcere, ed ancora la voce dei conservatori rappresentata dalle tirate reazionarie del principe Maniforti contro la disonestà e le ruberie dei villani, dal discorso del colonnello garibaldino e dal libello contro la scarcerazione degli imputati.

(1) Su questo la critica é in genere concorde. Per Romano Luperini «attraverso il linguaggio, Consolo riesce a scrivere un romanzo politico senza invadenza alcuna di ideologia» (Romano Luperini, Il Novecento, Torino, Loescher, 1981, pag.868), tesi ripresa dal critico più di recente: «Lo sforzo polifonico di Consolo […] nasceva da un intento realistico di conoscenza e di giudizio (Toma, Rinnovamento e restaurazione del codice narrativo nell’ultimo trentennio: prelievi testuali da Malerba, Consolo, Volponi, in I tempi del rinnovamento, Atti del Convegno Internazionale Rinnovamento del codice narrativo in Italia dal 1945 al 1992, ( a cura di Serge Vanvolsem. Franco Musarra, Bart Van den Bossche, Roma, Bulzoni, 1995, p. 544), Per Massimo Onofri, in Consolo cultura e politica, letteratura e ideologia possono intersecarsi, senza che per questo la dimensione estetica si neghi a se stessa, risolvendosi in pedagogia sociale ed oratoria. Il critico richiama poi il rifiuto, da parte del protagonista di Nottetempo, casa per casa, Pietro Marano, dei versi di Rapisardi, il quale ricapitola in sé ‘tutti i tratti di una poesia civile e politica per cosi dire ingaggiata, sempre sul punto di travalicare nell’orazione»: Consolo invece è e resta scrittore politico proprio in quanto, nel contempo, elabora una sua implacabile condanna della retorica dell’impegno. […] Ciò significa che la disposizione politica della scrittura di Consolo si gioca prima di tutto sul piano della forma che su quello dei contenuti, «attraverso un’oltranza di stile»; la sua «è una letteratura che, in un’accezione tutt’altro che formalistica, ha fatto della forma una questione di sostanza» (Massimo Onofri, Nel magma Italia: considerazioni su Consolo scrittore politico e sperimentale, in ldem. Il sospetto della realtà, Saggi e paesaggi italiani novecenteschi,
Cava de’ Tirreni, Avagliano, 2004, pp. 195-197)

Consolo narratore e scrittore palincestuoso*

Daragh O’Connell

University College Cork, Ireland

Coláiste na hOllscoile Corcaigh, Éire

 

Il contributo tenta di delineare la poetica di Vincenzo Consolo attraverso i suoi interventi giornalistici e saggistici e attraverso momenti «testuali» della sua trilogia narrativa: Il sorriso dell’ignoto marinaio; Nottetempo, casa per casa; Lo Spasimo di Palermo. Introduzione Non c’è pagina in Consolo in cui egli non decida di entrare nel merito del maneggio delle parole e non si confermi ricercatore verbale e poeta di primaria destrezza. Per cominciare, è d’obbligo dire qualcosa sul titolo scelto per queste pagine, un titolo abbastanza ambiguo e forse troppo ambizioso: «Consolo narratore e scrittore», oppure avrei forse dovuto proporre «Consolo narratore o scrittore»? I due termini hanno, infatti, una funzione alquanto importante per il modo in cui il nostro autore cerca di delineare la sua poetica. In un racconto-chiave pubblicato per la prima volta nel 1981 e intitolato Un giorno come gli altri, Consolo fa una netta distinzione fra il narrare e lo scrivere. Vi si legge: * Un ringraziamento particolare a Caterina Pilenga Consolo per l’aiuto prestatomi e i materiali fornitimi, non certo di facile reperibilità. È che il narrare, operazione che attinge quasi sempre alla memoria, a quella lenta  edimentazione su cui germina la memoria, è sempre un’operazione vecchia, arretrata, regressiva. Diverso è lo scrivere […] mera operazione di scrittura, impoetica, estranea alla memoria, che è madre della poesia, come si dice. E allora è questo il dilemma, se bisogna scrivere o narrare. Con lo scrivere si può forse cambiare il mondo, con il narrare non si può, perché il narrare è rappresentare il mondo, cioè ricrearne un altro sulla carta. […] Però il narratore dalla testa stravolta e procedente a ritroso, da quel mago che è, può fare dei salti mortali, volare e cadere più avanti dello scrittore, anticiparlo… Questo salto mortale si chiama metafora.1 Qui Consolo trae spunto dalle idee di Walter Benjamin raccolte in Angelus Novus e, in particolare, dal saggio su Nicolaj Semënovicˇ Leskov.2 L’immagine del narratore «dalla testa stravolta» ci rimanda non soltanto alla famosa icona di Paul Klee, cara a Benjamin, ma anche al Tiresia dantesco condannato a camminare con la testa rivolta indietro proprio perché ha guardato troppo in avanti.3 Consolo si identifica nel ruolo di narratore, quindi di artefice non più di romanzi ma di narrazioni; laddove narrazione è da intendere nel senso più arcaico del termine, quello dei poemi narrativi, per cui dai suoi libri vengono bandite tutte quelle forme di intreccio, di plot, tutte quelle forme intrattenitorie vive nel romanzo, e si ha invece la restituzione di un’esperienza. Molto spesso quest’esperienza è un’esperienza di viaggio, il viaggio nella memoria, o il viaggio reale nello spazio o nel tempo.4 Tuttavia, sebbene Consolo si autodefinisca narratore prima che scrittore, è pure necessario entrare nel suo scriptorium, cioè mettere prima a fuoco il Consolo scrittore, se vogliamo intendere le procedure sottese alla gestazione dei suoi testi, al loro divenire «narrazioni». Adesso, è il caso di chiarire il terzo elemento del titolo: palincestuoso. Con la divulgazione dei lavori di Michail Bachtin sulla  lurivocità e la polifonia abbiamo tutti appreso che nel genere romanzesco s’intrecciano molte voci e molti linguaggi. Ci sono anzitutto, nella parte non dialogica, i vari linguaggi sociali, espressione di ideologie, classi, mestieri, ambienti: l’uso dei termini che vi afferiscono costituisce una concentrata allusione alla vicinanza e alle eventuali tensioni fra i vari strati. Cesare Segre nel suo famoso saggio sul Sorriso afferma che il plurilinguismo di Consolo è anche nettamente plurivocità e che l’autore siciliano va avvicinato all’altro grande del Novecento, Carlo Emilio Gadda.5 Ma nel caso di Consolo la definizione ha un ulteriore senso, se si considera che tra le «voci» della sua grande polifonia una, spesso dimenticata nel suo funzionamento, è proprio la voce «letteraria»: i rimandi alla tradizione che precede le sue opere. È questa la voce che mi interessa di piú nella complessiva polifonia di Consolo, perché porta alla sua poetica della ri-scrittura o, meglio, della soprascrittura, cioè al carattere palinsestico della sua scrittura. Nel saggio Lo spazio in letteratura scrive Consolo: «Omeros in Greco antico significa ostaggio: il poeta vale a dire è ostaggio della tradizione, della memoria, e della memoria letteraria soprattutto», ed è proprio su questa «memoria letteraria» che vorrei soffermarmi in questo articolo.6 Questa duplicità d’oggetto può venir rappresentata, nel campo delle relazioni testuali, dall’antica immagine del palinsesto. Un palinsesto —si sa— è una pergamena che contiene due testi sovrapposti, e in cui l’originale non è del tutto cancellato ma rimane visibile in trasparenza.7 La loro relazione, volendo ricorrere a Gérard Genette, è ipertestuale: ipertesti derivati da ipotesti. Per Genette, nel campo della transtestualità, l’ipertesto è un testo B messo in relazione con un testo anteriore, testo A, da lui chiamato ipotesto. Perciò, ipertestuale è ogni relazione che unisca l’ipertesto all’ipotesto, ma nella quale il primo s’innesti sul secondo in una 5. Cesare Segre, «La costruzione a chiocciola nel Sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo», in ID., Intrecci di voci: La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino: Einaudi, 1991, p. 71-86. 6. Vincenzo CONSOLO, «Lo spazio in letteratura», in ID., Di qua dal faro, Milano: Mondadori, 1999, p. 266. 7. Esiste un lunga tradizione sulla nozione di palinsesto (παλµψηστ ς) nel campo della letteratura e del pensiero occidentale. Il termine veniva usato da Plutarco nei Moralia (504D, 779C) per denotare metaforicamente il manifestarsi di un aspetto del carattere. Nelle speculazioni storiche dell’Ottocento il termine aveva un ruolo trascrittivo. Nel saggio «On History» [1830] Thomas Carlyle postula un’investigazione del passato, che sia capace d’illuminare sia il presente sia il futuro, e continua: «For though the whole meaning lies beyond our ken; yet in that complex Manuscript, covered over with formless inextricably-entangled unknown characters, —nay which is a Palimpsest, and had once prophetic writing, still dimly legible there, —some letters, some words, may be deciphered» (Thomas CARLYLE, Works, V, London: Chapman and Hall, 1906, p. 500). Da Thomas De Quincey il termine viene abbinato al cervello umano. Nel suo Suspira de Profundis [1845] scrive: «What else than a natural and mighty palimpsest is the human brain?… Everlasting layers of ideas, images, feelings, have fallen upon your brain softly as light. Each succession has seemed to bury all that went before. And yet, in reality, not one has been extinguished». De Quincey nota anche che nella vecchiaia in modo particolare gli «endless strata» della mente umana sono presenti, ma non come una successione «but as parts of coexistence». Cfr. T. DE QUINCEY, «The Palimpsest of the Human Brain», The Collected Writings of Thomas De Quincey, ed. David MASSON, Edinburgh: Adam & Charles Black, 1890, p. 346 e 348. Non dimentichiamo poi l’uso del termine adoperato da Niccolò Tommaseo per stigmatizzare lo Zibaldone di Giacomo Leopardi, come peraltro ci ricorda Consolo: «Leopardi stesso, pur adottando il codice toscano, ha una «infinita» espressività interna, rimanda ai classici; c’è, nelle sue liriche, una continua citazione dei classici italiani, latini, greci, al punto che Tommaseo dice, e lo dice in senso critico, che la scrittura di Leopardi è un palinsesto mal cancellato» (Vincenzo CONSOLO, «Per una metrica della memoria», Cuadernos de Filologia Italiana, 3, 1996, p. 252). maniera che non sia quella del commento.8 Questa è la base della scrittura palinsestica. Pastiche e parodia, è stato giustamente affermato, «designano la letteratura come palinsesto»; e ciò vale per qualunque ipertesto ed è quanto Borges già diceva del rapporto fra il testo e i suoi avantesti.9 Quindi, l’ipertesto ci invita a una lettura relazionale. Ed è pure interessante che in uno dei suoi ultimi interventi in Spagna Consolo così sintetizzava: La vera scrittura è una scrittura palinsestica, una scrittura che scrive su altre scritture. Dicevo sopra che la vera scrittura è per me quella palinsestica, la scrittura vale a dire che scrive su altre scritture, la scrittura che poggia sulla memoria letteraria soprattutto.10 Consolo è certamente uno scrittore palinsestico, ma per ragioni che spero queste pagine chiariranno, possiamo anche andare oltre ed applicare un termine molto felice, e forse un po’ perverso, coniato da Philippe Lejeune nel suo Moi aussi: in un deliberato gioco di parole e di grafie, si potrebbe dire che, anzichè palinsestico, Consolo è invece uno scrittore palincestuoso, «palimpsestueuse», giacché il suo rapporto con i testi anteriori ci sembra molto più intenso e più stretto rispetto ad altri scrittori, ed è un rapporto quasi famigliare.11 Consolo ci pone costantemente di fronte a una poetica intensamente iperletteraria, un ricco mosaico di intertestualità, le cui tessere sono fatte di testi sia antichi sia moderni. Tale interesse per nozioni puramente letterarie, quali la tradizione e la ricerca di materializzazione di espressioni letterarie, può far pensare a un atteggiamento reazionario o fuori dal tempo da parte dell’autore e rischia di distoglierci dalla questione centrale: l’intera produzione narrativa di Consolo tende alla realizzazione della sintesi tra poetica ed etica e, nonostante le sue difficoltà, offre al lettore esempi letterari unici ben lontani dalle mode e dalle correnti culturali a lui contemporanee. Le procedure poetiche di Consolo, presenti all’interno di tutta la sua produzione narrativa, lo costringono a un innesto di intertesti, l’autore inoltre seleziona e pone gomito a gomito linguaggi e dialetti diversi e spesso stridenti tra di loro, oscilla tra registro alto e basso e fonde forme metriche all’interno della sua prosa narrativa. 8. Cfr. Gérard Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, trad. Raffaella Novità, Torino: Einaudi, 1997, p. 7-8. 9. Ruth Amossy e Elisheva Rosen, «La dame aux catleyas: fonction du pastiche et de la parodie dans A la Recherche du Temps Perdu», in Littérature, 14: maggio 1974, p. 55-64. Nel racconto «Pierre Menard, autor del Quijote» (El jardín de los senderos que se bifurcan, 1941) Borges scrive: «He reflexionado que es lícito ver en el Quijote «final» una especie de palimpsesto, en el que deben traslucirse los rastros —tenues pero no indescifrables— de la «previa» escritura de nuestro amigo [si tratta del Menard del titolo]». Cfr. Jorge L. Borges, Ficciones, in ID., Obras Completas I. 1923-1949, Buenos Aires: Emecé, 1996, p. 450. 10. Vincenzo Consolo, «Ma la luna, la luna…», in Irene Romera Pintor (ed.), «Lunaria» vent’anni dopo, València: Generalitat Valenciana, Conselleria de Cultura, Educació i Esport, 2006, p. 71-72. 11. Philippe Lejeune, Moi aussi, Paris: Editions du Seuil, 1986, p. 115. Il termine originale è quello tra virgolette. Cfr. inoltre Gérard Genette, Palinsesti, cit., p. 469. Consolo narratore e scrittore Palincestuoso Quaderns d’Italià 13, 2008 165 2. Il sorriso dell’ignoto marinaio. Tra letterarietà ed erudizione Per ovvie ragioni di spazio non mi dilungherò su Il sorriso dell’ignoto marinaio, ma vorrei sottoporre all’attenzione critica almeno due esempi di intertestualità che nel libro mi sembrano rilevanti, non solo per quel che richiamano a livello testuale, ma anche perché costituiscono, diciamo, i due poli estremi dell’approccio intertestuale di Consolo. Gli esempi sono ambedue desumibili dal capitolo I del capolavoro consoliano. Il primo si può leggere nel paragrafo 3 del capitolo e costituisce una sorta di rottura narrativa, un movimento all’interno di un reame storico/immaginario. L’aver nominato, nel paragrafo precedente, la città di Brolo genera questa rottura o movimento: in effetti, fu proprio al castello di Brolo che, secondo la leggenda, Bianca Lancia fu l’amante dell’Imperatore Federico II di Svevia. Scrive Consolo: Al castello de’ Lancia, sul verone, Madonna Bianca sta nauseata. Sospira e sputa, guata l’orizzonte. Il vento di Soave la contorce.12 L’evidente rimando è a Dante, in cui il riferimento a Federico II è cosí contestualizzato: «Quest’è la luce de la gran Costanza/ che del secondo vento di Soave/ generò‘l terzo e l’ultima possanza» (Paradiso, III 118-120). Inoltre, l’uso della forma verbale «guata» rinvia direttamente alla prima similitudine della Commedia: «E come quei che con lena affannata,/ uscito fuor del pelago a la riva,/ si volge a l’acqua perigliosa e guata,/ così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,/ si volse a retro a rimirar lo passo/ che non lasciò già mai persona viva» (Inferno, I 22-27).13 Ma il «vento di Soave» consoliano è una forma doppia di intertestualità, perché allude anche a Lucio Piccolo e al suo modo di figurarsi poeticamente la costa tirrenica siciliana. Ne Le pietre di Pantalica, infatti, Consolo racconta la storia di Piccolo e riferisce il suo modo di parlare di questa zona: O Federico di Svevia, che al castello de’ Lancia, in Brolo, ama Bianca e genera Manfredi («biondo era e bello e di gentile aspetto»). E Piccolo chiedeva: «Non nota lei, non nota che da queste parti aleggia ancora il vento di Soave?».14 Questa forma di intertestualità suggerisce una sorta di tecnica di trapianto, per mezzo della quale elementi del testo precedente vengono innestati sul 12. Vincenzo CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio [1976], Milano: Mondadori, 1997, p. 12. Tutte le successive citazioni da quest’opera rimandano a questa edizione e saranno seguite dall’abbreviazione Sim. 13. Per una lettura del Sorriso in chiave dantesca cfr. Daragh O’Connell, «Consolo’s “trista conca”: Dantean anagnorisis and echo in Il sorriso dell’ignoto marinaio», in Echi danteschi / Dantean Echoes, ed. R. Bertoni, Torino: Trauben, 2003, p. 85-105. Vincenzo Consolo, Le pietre di Pantalica, Milano: Mondadori, 1988, p. 145. Il corsivo è dell’originale. Insomma, Consolo e Piccolo «si incontrano sul sintagma dantesco», come glossa Nicolò MESSINA, «Lunaria dietro le quinte», in I. Romera Pintor (ed.), «Lunaria» vent’anni dopo, cit., p. 188.166 nuovo, nel quale sono presenti sotto veste sia di aperta citazione, sia di dissimulata figurazione. In questo stadio iniziale del capitolo è chiaro che Consolo sta facendo uso di una struttura narrativa altamente stilizzata e complessa. Da un lato, ci sono testi all’interno dei testi, prestiti allusivi o citazioni dirette; dall’altro, viene utilizzata una tecnica del rinvio che non usa procedure narrative formali o stratagemmi d’intreccio, bensì opta per un sovraccarico semantico ed uno stile di prosa poeticizzata che gode del nominare le cose stesse. Il secondo esempio è riscontrabile nel paragrafo 19 dello stesso capitolo I ed spicca specialmente proprio per quel che rivela delle procedure narrative impiegate da Consolo nei suoi testi multiformi. Il paragrafo, presentato per la sua maggior parte in corsivo, suggerisce una citazione o, almeno, una situazione narrante alternativa, una voce o un punto di vista diversi. Nel romanzo, l’unico altro luogo in cui una vasta porzione di testo è riportata in corsivo è nel capitolo V, «Il Vespero», in cui il testo incastonato non in tondo è mutuato direttamente da I promessi Sposi di Alessandro Manzoni: è la descrizione del momento della conversione dell’Innominato piegata da Consolo a tratteggiare il «tempo» e le sensazioni del personaggio Peppe Sirna.15 Nessuna indicazione, né note a pie’ di pagina né richiami all’autore, soccorre il lettore, il quale non può far altro che accettare la stranezza del passo ed andare avanti con la narrazione. Il brano è interrotto dall’improvviso cambiamento di registro impresso da Enrico Pirajno, barone di Mandralisca, che dice: «Uh, ah, cazzo, le bellezze!» (Sim, p. 20), poichè la sua immaginazione prende il sopravvento sul resto del paragrafo. Ciò che precedeva in corsivo, però, non è un parto dei rimuginii del protagonista del Sorriso, ma un qualcosa di abbastanza strano ed estraneo, è il frutto del pensare altrui, benchè sia la mente del barone Mandralisca a rievocarlo. Si dà un indizio nella frase finale del paragrafo: Avrebbe fottuto il Bìscari, l’Asmundo Zappalà, l’Alessi canonico, magari il Cardinale, il Pèpoli, il Bellomo e forse il Landolina (Sim, p. 20). Questo «forse il Landolina» è l’unica allusione, nel testo, ad una possibile fonte, anche se il lettore medio non ha modo né è in grado di saperlo. La parte in corsivo del brano, cioè i tre quinti del paragrafo, è, in effetti, una citazione diretta da una fonte che non sarebbe stata familiare per il Mandralisca, sebbene Consolo la abbia consultata come campione di stile di prosa degli intellettuali siciliani del tardo Settecento e del primo Ottocento del secolo scorso. La fonte è proprio il Cavalier Saverio Landolina (1753-1814), figura dominante dell’archeologia siciliana all’inizio del XIX secolo. La sua fama e la sua posizione di rilievo si dovevano alla scoperta della famosa Venere Anadiomene, che egli 15. Cfr. Alessandro Manzoni, I promessi sposi (1840), ed. Salvatore Silvano Nigro, Milano: Mondadori, 2002, p. 409; e Vincenzo CONSOLO, Sim, p. 106. Tranne il corsivo non c’è nel testo nessuna indicazione che si tratti di una citazione manzoniana. Consolo narratore e scrittore Palincestuoso Quaderns d’Italià 13, 2008 167 fece nel 1803.16 Il testo in questione è da ricercare in una lettera datata 29 gennaio 1807 e indirizzata all’allora «Sopraintendente generale alle antichità», un certo Soratti: Passando a visitare li monumenti del Tindaro ebbi il dispiacere di non ritrovare il più bel pezzo, che l’altra volta vi avevo ammirato. Erano due piedi con le gambe fino alle cosce di un giovane ignudo di elegantissimo greco lavoro, con un’ara dal lato sinistro ben ornata, di marmo alabastro bianco. Osservai ancora due grossi pezzi di marmo statuario, che insieme formavano il busto di un uomo di statura gigantesca; in uno dei detti pezzi si vede la corazza ornata di bassi rilievi, tra i quali si distinguano una bulla pendente sul petto con una testa molto crinita come si osserva in molte nostre medaglie. Dalla spalla destra era pendente sopra la mammella una fettuccia lavorata. Su la spalla sinistra era elegantemente rilevato il gruppo del pallio che doveva coprire le spalle. Sopra il ventre erano due ippogrifi. L’altro pezzo di marmo era il rimanente della corazza, cioè le fibule e le bulle pendenti sopra il sago che copriva le cosce le quali si vedono tagliate. Le bulle erano tutte figurate con varie teste di animali e qualcuna umana. L’esistenza di questi pezzi nel Tìndaro mi fa sospettare che potevano appartenere ad una statua dei Dioscuri, descritti sempre dai poeti in abito militare.17 Nel Sorriso leggiamo invece: Gli altri marmi dietro le statue erano due piedi con le gambe sino alle cosce di un giovane ignudo di elegantissimo greco lavoro, con un’ara dal lato sinistro ben ornata, di marmo alabastro bianco. Ancora due grossi pezzi di marmo statuario, che insieme formavano il busto di un uomo di statura gigantesca; in uno dei detti pezzi si vedeva la corazza ornata di bassi rilievi, tra i quali si distingueva una bulla pendente sul petto con una testa molto crinita che si osserva in molte medaglie. Dalla spalla destra era pendente sopra la mammella una fettuccia lavorata. Su la spalla sinistra era elegantemente rilevato il gruppo del pallio che doveva coprire le spalle. Sopra il ventre erano due ippogrifi. L’altro pezzo di marmo era il rimanente della corazza, cioè le fibule e le bulle pendenti sopra il sago che copriva le cosce le quali si vedevano tagliate. Le bulle erano figurate con varie teste di animali e qualcuna umana. L’esistenza di questi pezzi nel Tìndaro faceva sospettare che potevano appartenere ad una statua dei Dioscuri, descritti dai poeti in abito militare. Uh, ah, cazzo, le bellezze! […] Avrebbe fottuto il Bìscari, l’Asmundo Zappalà, l’Alessi canonico, magari il cardinale, il Pèpoli, il Bellomo e forse il Landolina .18 Il brano di Landolina è citato pressoché alla lettera e le sole inter/estrapolazioni eseguite da Consolo vanno individuate nei tempi verbali ed in quei 16. Dizionario dei Siciliani illustri, ristampa anastatica, Palermo: F. Ciuni Libraio Editore, 1939. 17. Giuseppe Agnello (ed.), Le antichità di Tindari nel carteggio inedito di Saverio e Mario Landolina, in Estratto dall’Archivio Storico Siciliano Serie III – Vol. XX, Palermo: Presso la Società Siciliana per la Storia Patria, 1972, p. 218-219. 18. Sim, p. 19-20. Il grassetto in entrambi i brani indica le varianti. segmenti del brano che si riferiscono al Landolina stesso. Questo tipo di intertestualità è abbastanza sconcertante per il lettore e, una volta rivelato, mostra il modo in cui si forgia lo stile di Consolo: testi dentro i testi, siano essi citazioni poetiche di scrittori canonici o citazioni dirette da oscuri testi archeologici del XIX secolo. La citazione letteraria diretta può essere considerata ammissibile, se accettiamo che il punto di vista narrativo sia qui quello del Mandralisca, com’è peraltro accertabile nel resto di questo capitolo iniziale, ma la citazione diretta da lettere di argomento archeologico è più problematica. Al riguardo i commenti di Bachtin sull’enciclopedismo nel genere del romanzo sono rilevanti, specialmente in quelli da lui definiti «romanzi della seconda linea». Questo tipo di romanzo dimostra la tendenza all’enciclopedicità dei generi, ed anche l’uso dei generi inseriti. Il fine principale è introdurre nel romanzo la pluridiscorsività, la varietà delle lingue di un’epoca. Scrive Bachtin che i «generi extraletterari sono introdotti non per «nobilitarli» e «letteraturizzarli» ma proprio perché sono extraletterari, perché era possibile introdurre nel romanzo una lingua extraletteraria (persino un dialetto). La molteplicità delle lingue dell’epoca deve essere rappresentata nel romanzo».19 Ed è proprio ciò che avviene nel secondo passo del Sorriso preso in esame. Nottetempo, casa per casa. Genesi e avantesti Spostiamo ora l’attenzione dal Sorriso a Nottetempo, casa per casa. Pubblicato nel 1992, questo romanzo è la seconda parte della trilogia consoliana: il libro ha sfondo storico ed è ambientato nei primi anni Venti, ossia il periodo dell’insorgere del fascismo, tra Cefalù e Palermo; il tutto è visto attraverso le vicende di una famiglia, i Marano. In realtà, Nottetempo parla dell’Italia degli anni Novanta, della caduta di tutte le tensioni sociali, dell’avvento della destra, della prima volta che in Italia i fascisti sono arrivati al governo dopo la loro condanna storica. Inoltre, Consolo collegava il mondo culturale di quegli anni Venti con il mondo culturale dei tempi recenti, e presenti: l’insorgere di nuove metafisiche, di misticismi, delle forme aberranti dei satanismi e delle sette misteriche. Messe da parte queste considerazioni generali, vorrei adesso incentrarmi sulla genesi testuale di Nottetempo e fare qualche riflessione sulla critica-genetica e su come questo tipo d’approccio può essere utile per meglio intendere il tormentato divenire del testo. L’opera letteraria non è un dato, ma un processo, non un’entità stabile, fissata una volta e per tutte, ma invece una variabile, o meglio un complesso dinamico di variabili in perpetuo divenire.20 19. Michail BACHTIN, «La parola nel romanzo», in ID., Estetica e romanzo, trad. Clara STRADA JANOVICˇ, Torino: Einaudi, 2001, p. 218. Esiste una vasta bibliografia sulla critica-genetica i cui i testi canonici sono: Louis HAY (ed.), Essais de critique génétique, Paris: Flammarion, 1979; Amos SEGALA (ed.), Littérature Latino-américaine et des Caraïbes du XXe siècle. Théorie et pratique de l’édition critique, Roma: Bulzoni, 1988; Almuth GRÉSILLON, Éléments de critique génétique. Lire les manuscrits modernes, Paris: p. U.F., 1994; Giuseppe TAVANI, «Filologia e genetica», Cuadernos de Filología Italiana, 3, 1996, p. 63-90; Michel CONTAT e Daniel FERRER (ed.), Pourquoi la critique L’opera letteraria è, per dirla con il Contini della critica delle varianti, «un lavoro perennemente mobile e non finibile».21 Qui vorrei basarmi su quattro avantesti che vanno situati in quella zona grigia dell’ecdotica che è a metà fra l’emerso (edizioni a stampa) e il sommerso (manoscritti, dattiloscritti, abbozzi, appunti, ecc.).22 Questi quattro avantesti mi sembrano molto interessanti e dovrebbero rivelare qualcosa della gestazione di Nottetempo. Sedici anni separano Nottetempo dal Sorriso, ma la genesi di Nottetempo può essere collocata negli anni Settanta, ovvero proprio in quel periodo in cui Consolo andava scrivendo Il sorriso dell’ignoto marinaio. Il primo presagio del romanzo che sarebbe venuto può rintracciarsi in un testo che Consolo scrisse per il catalogo della mostra di Luciano Gussoni alla Villa Reale di Monza nel 1971. Il testo non è lungo, la prosa è fortemente poeticizzata, e sembra a prima vista una specie di abbozzo. Tuttavia, due elementi del testo sono decisivi per intendere i metodi di Consolo. Il primo è che successivamente esso viene ritoccato e in qualche modo rimodellato e infine incorporato nel Sorriso proprio in quella sequenza da incubo quasi alla fine del capitolo VII, «La memoria».23 Il secondo elemento è il titolo dato al testo del catalogo: Nottetempo, casa per casa. In qualche modo si può quindi affermare che Nottetempo, nel suo stato embrionale, faceva inizialmente parte del Sorriso. Sempre nel 1971, Consolo scrisse un articolo per Tempo Illustrato intitolato «C’era Mussolini e il diavolo si fermò a Cefalù».24 L’articolo tratta del soggiorno in Sicilia del mago-satanista inglese Aleister Crowley con i suoi seguaci negli anni Venti. Di solito la critica spiega Nottetempo, casa per casa nei termini di un libro che traeva spunto dal racconto «Apocrifi sul caso Crowley» pubblicato nel 1973 da Leonardo Sciascia nella raccolta Il mare colore del vino. 25 Ma la data del 1971 dimostra chiaramente che è stato Consolo con questo articolo a suggerire a Sciascia l’idea di Crowley. Nel romanzo consoliano Crowley funge da phármakon, una figura inquietante ed emblematica della decadenza perversa. Inoltre, l’articolo prova che Consolo aveva già iniziato la sue ricerche storiche sulle vicende cefaludesi degli anni Venti.26 génétique? Méthodes, théories, Paris: CNRS Éditions, 1998. Inoltre, nel campo della critica-genetica applicata specificamente a Consolo, cfr. Nicolò Messina, Per un’edizione critico-genetica dell’opera narrativa di Vincenzo Consolo: «Il sorriso dell’ignoto marinaio», Madrid: Universidad Complutense, 2006. 21. Gianfranco Contini, Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino: Einaudi, 1970, p. 5. 22. La distinzione «emerso» e «sommerso» è stata adoperata da Messina nel suo saggio «Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio»,  23. Vincenzo CONSOLO, «Nottetempo, casa per casa», in Luciano Gussoni, Villa Reale di Monza, 10-30 novembre 1971; ID., Sim, p. 136-138. 24. Vincenzo CONSOLO, «C’era Mussolini e il diavolo si fermò a Cefalù», Tempo illustrato, 2 ottobre 1971. 25. Leonardo SCIASCIA, Il mare colore del vino, Torino: Einaudi, 1973. Cfr., inoltre Giuseppe QUATRIGLIO, «Il diavolo a Cefalù», in ID., L’uomo-orologio e altre storie, Palermo: Sellerio, 1995. 26. Appunti autografi, con dati raccolti dalla viva voce di cefaludesi che avevano conosciuto Crowley e la sua setta, addirittura una piantina della dimora da essi occupata a Cefalú e  Il terzo avantesto è ancora una volta un articolo giornalistico. Intitolato «Paesaggio metafisico di una folla pietrificata», è apparso nel Corriere della Sera nell’ottobre del 1977.27 Di spiccato interesse è il fatto che l’incipit del articolo anticipa, o almeno cosí sembra, la forma  imbrionale dell’incipit di Nottetempo, casa per casa. Entrambi descrivono una notte di luna piena e l’ululare dolente della figura simbolica e metaforica del lupo mannaro, ossia il licantropo. L’intertesto è la novella pirandelliana Male di luna. 28 In Consolo, tuttavia, a questa malattia viene dato il suo nome siciliano: male catubbo, derivato dall’arabo catrab o cutubu, che significano canino o lupino.29 Il quarto e più importante avantesto è la presentazione redatta da Consolo per il catalogo della mostra di Ruggero Savinio (Ex Convento di San Francesco, Sciacca 8 luglio-15 agosto 1989) e intitolata L’ora sospesa. Lo stesso testo viene fatto poi confluire in Nottetempo, casa per casa con alcune varianti.30 Riporto qui il testo di L’ora sospesa: Quindi per gradi, per lenti processi discendiamo in spazi inusitati (dimenticammo l’ora, il punto del passaggio, la consistenza, la figura d’ogni altro; dimenticammo noi sopra la terra, di là della parete: al confine bevemmo il nostro lete). Ora, in questa luce nuova —privazione d’essa o luce stessa rovesciata, frantumo d’una lastra, rovinìo di superficie, sfondo infinito, abissitade , in nuovi mondi o antichi, in luoghi ignoti risediamo. O ignote forme, presenze vaghe, febbrili assenze, noi neliamo verso dimore perse, la fonte ove si bagna il passero, la quaglia, l’antica età sepolta, immemorabile. […] E in questa zona incerta, in questa luce labile, nel sommesso luccichìo di quell’oro, è possibile ancora la scansione, l’ordine, il racconto? È possibile dire dei segni, dei colori, dei bui e dei lucori, dei grumi e degli strati, delle apparenze deboli, delle forme che oscillano all’ellisse, si stagliano a distanza, palpitano, svaniscono? E tuttavia per frasi monche, parole inadeguate, per accenni, allusioni, per sfasature e afonie tentiamo di riferire di questo sogno, di questa emozione. Viene e sovrasta un nunzio lampante, una lama bianca, un angelo abbagliante. Da quale empireo scende, da quali paradisi? O risale prepotente da quali abissi? È lui che predice, assorto e fermo, ogni altro evento, enuncia enigmi, misteri, accenna ai miracoli; si dichiara vessillo, simbolo e preambolo d’ogni altro spettro. l’esergo del Cap. I di Nottetempo, si ritrovano nel quaderno Ms 2 che tramanda excerpta del Cap. I del Sorriso insieme ad altri materiali «allotri» risalenti agli anni 1968, 1969, 1970. Cfr. Nicolò Messina, Per un’edizione critico-genetica, cit., p. 60-65. 27. Vincenzo Consolo, «Paesaggio metafisico di una folla pietrificata», Corriere della Sera, 19 ottobre 1977. 28. Pubblicato la prima volta con il titolo Quintadecima in Corriere della Sera, 22 settembre 1913, poi con il nuovo titolo nel 1925. Luigi Pirandello, «Male di luna», Novelle per un anno, ed. Mario Costanzo, vol. II, tomo I, Milano: Mondadori, 1987, p. 486-495. 29. Cfr. Giuseppe Pitré, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, rist., vol. IV, Catania: Clio, 1993, p. 237-243. 30. «L’ora sospesa» corrisponde a Vincenzo CONSOLO, Nottetempo, casa per casa, Milano: Mondadori, 1992, p. 64-67. «E un mattino d’aprile lasciammo la dimora alta e luminosa, lasciammo i templi, le piazze, le arnie e le vigne, abbandonammo la patria nostra, la superba città che s’alza sopra il fiume…» così racconta l’allievo del filosofo, del mago, dell’uomo venerato, così racconta il giovane «… Spogli ed esposti, solitari, per boschi e per deserti, giunsimo, dopo giorni e giorni, all’oriente estremo, all’altro mare di quest’isola vasta, alla montagna immensa, alla scaturigine del fuoco, del fragore, della minaccia. E più che andavamo su per l’aspro suolo, per le impietrate lave, risonanti, oltre ogni verde, ogni ginestra lenta, su per le nere lande, le gelide tormente, più egli s’ammutiva, si staccava da me, da tutto il mondo. O profferiva entusiasta, come preso dal Dio e dalle Furie, frammenti dei poemi. —… Ánthropoi therés te kai ichthúes…— diceva —… Tutto alterna così, e così dura eternamente… Per la virtù d’amore si unisce, ed ora per la frattura dell’odio si separa…—». E infine lacrimando disse del nero delle sabbie, dei lapilli in cui lo scorse infine, disse dell’indicibile terrore, dei boati e dell’incandescenza, dell’immenso rosso che l’avvolse, bruciò e che dissolse. Ma da sfondi calmi, da quiete lontananze, dagli ocra, dai rosa, dai bruni, da strati sopra strati, chiazze, da perenti scialbature, da squarci in cui traspare l’azzurro tenero o il viola d’antico parasceve, Johannes s’affaccia, in bianca tunica, virginea come la sua fronte e come il Libro poggiato sui ginocchi: rimemora e trascrive, con parole chiare e d’oro, una storia, la Storia unica, terribile e sublime. «—Tutto è compiuto!— disse». […] E oltre sono i foschi cieli e le chiome degli alberi impietrati, gli scuri ingressi degli antri, delle vuote dimore dei vespertili, delle civette. Oltre sono le Rovine. Che non consumi tu Tempo vorace. Che non consumi tu. Che non consu… […] Tentiamo intanto esili passaggi sopra gli abissi, i vuoti, il nulla che s’è aperto ai nostri piedi. Tentiamo nella sera —ora calmi, arresi, stesi nel grembo tenero di Cuma, del Palatino— d’accendere il dialogo, la conversazione, sacra per il calore, raro, per i semi di luce, il polline, le lucciole che sparge sopra arbusti, foglie, il cielo che s’imbruna sopra noi. «Oh se per tutti un legame / un eros vago lontano…». Oh in questo silenzio assorto, in questo fresco di sera abbrividente vorrei sentire i vostri toni, accenti. «Che non consumi tu…». […] E tu, e noi chi siamo? Figure emergenti o svanenti, agonici spettri, palpiti, aneliti, graffi indecifrati. Sussurro, parola fioca nel mare del silenzio.31 Tutto questo brano può essere letto in versi. Prevalgono endecasillabi e settenari. Ma non mancano versi brevi o medi (quinari, senari) o più lunghi (ottonari, novenari). Bisogna lasciarsi guidare dal ritmo accentuale, ma anche dalla scansione sintagmatica e semantica. Se prendiamo come esempio l’attacco, vi 31. Vincenzo CONSOLO, «L’ora sospesa», in Ruggero Savinio. Con uno scritto di Vincenzo Consolo e un testo dell’artista, Palermo: Sellerio, 1989, p. 9-10. Le frasi sottolineate indicano le parti del testo espunte da Nottetempo e le parole in corsivo delle leggere varianti. leggiamo la seguente sequenza metrica: 11+11+7+7+5+7+11+7+11, più l’explicit con rima – «ete»: Quindi per gradi, per lenti processi discendiamo in spazi inusitati (dimenticammo l’ora, il punto del passaggio, la consistenza la figura d’ogni altro, dimenticammo noi sopra la terra, di là della parete, al confine bevemmo il nostro lete).32 Inoltre, il brano è anche uno squisito esempio di ekphrasis nella sua descrizione del «nunzio lampante», ovvero un rinvio alla Melancholia I (1514) di Albrecht Dürer.33 L’icona di Dürer ci rimanda di nuovo a Walter Benjamin e alle sue teorie sulla malinconia in Ursprung des deutschen Trauerspiel (1925).34 Intervistato sull’uso dell’arte figurativa e dell’ekphrasis come modalità narrativa che dimostra un’intensa immaginazione pittorica, Consolo ha affermato che c’è «un bisogno di bilanciare il suono, la parola con una concretezza di tipo visivo, di bilanciare l’orecchio con l’occhio. C’è sempre un riferimento ad un’icona, ad un’icona pittorica». E ha proseguito così: «Sempre ho avvertito l’esigenza di equilibrare la seduzione del suono, della musica, della parola con la visualità, con la visione di una concretezza visiva; di rendere meno sfuggente e dissolvente la parola nel silenzio, perché il suono fatalmente si dissolve nel silenzio».35 Questo modus componendi di Consolo, il suo pubblicare testi poetici in cataloghi d’arte prima della loro apparizione «integrata» nelle sue narrazioni, è un fatto interessante dal punto di vista della critica-genetica. Consolo stesso ci spiega anche le ragioni di questi fenomeni testuali e ci fornisce un termine alquanto peculiare per definirli: […] io non ho mai scritto una recensione di tipo logico critico dei pittori. I pittori mi interessavano quando mi davano lo spunto per scrivere delle pagine di tipo lirico narrativo, ed allora poi utilizzavo queste presentazioni per scrivere quelli che io chiamo gli «a parte», la parte del coro quando s’interrompe la narrazione. Queste digressioni di tipo lirico espressivo che i latini chiamavano «cantica».36 32. Ringrazio il collega Nicolò Messina per l’aiuto prestatomi per questa «traduzione» in versi. 33. Non possiamo neanche dimenticare I cipressi, la pialla, il compasso di Fabrizio Clerici (1980 – olio su tela, collezione privata) che riprende e raffigura l’icona dell’angelo della malinconia di Dürer. 34. Walter Bemjamin, Il dramma barocco Tedesco, Torino: Einaudi, 1971. Daragh O’Connell, «Il dovere del racconto: Interview with Vincenzo Consolo», cit., p. 251. Vincenzo Consolo, «Clausura de las jornadas», in Irene Romera Pintor (ed.), Lunaria vent’anni dopo, cit., p. 235. Come abbiamo visto con il testo «Nottetempo, casa per casa» del 1971, e vedremo con un altro esempio tratto da Lo Spasimo di Palermo, questi «a parte» rientrano cosí in una singolare categoria testuale. Nel testo del catalogo «L’ora sospesa» non mancano peraltro allusioni letterarie. Per esempio, «Oh se per tutti un legame/ un eros vago lontano…» è una citazione diretta da Fosfeni di Andrea Zanzotto: Oh se per tutti un legame Un eros vago lontano Come una stretta di mano Perenta in un’alba grigia… (Silicio, carbonio)37 Inoltre, «Che non consumi tu Tempo vorace. Che non consumi tu… Che non consu…» suggerisce icasticamente il consumarsi delle parole stesse per effetto del passare del tempo. A detta dello scrittore questa frase è ripresa dagli incisori dell’Ottocento che la lasciavano scritta sopra le rovine riprodotte. Ma ci sembra di sentire qui anche un’eco del latino, in particolare da Ovidio (Metamorphoses XV, 234-236): Tempus edax rerum, tuque, invidiosa vetustas, Omnia destruitis vitiataque dentibus aevi Paulatim lenta consumitis omnia morte! 4. Lo Spasimo di Palermo. Urlo e silenzio Lo Spasimo di Palermo, pannello finale del trittico siciliano di Vincenzo Consolo, è un’opera complessa, non facilmente categorizzabile: non è un romanzo nel senso tradizionale del termine, ma con la sua articolazione tratta criticamente questioni e interventi relativi al 174 Quaderns d’Italià 13, 2008 Daragh O’Connell All’interno del romanzo, il protagonista consoliano, Gioacchino Martinez, scrittore di romanzi difficili che sta invecchiando ed è, in ultima analisi, uno sconfitto, riflette sul suo lavoro e su dove esso l’ha condotto: Aborriva il romanzo, questo genere scaduto, corrotto, impraticabile. Se mai ne aveva scritti, erano i suoi in una lingua diversa, dissonante, in una furia verbale ch’era finita in urlo, s’era dissolta nel silenzio.39 Il racconto dello Spasimo rappresenta al contempo la mediazione verso questa impasse e la risposta ad essa. Paradossalmente, le strategie adottate da Consolo sfiorano appena le forme popolari di espressione culturale, interrogandole criticamente e mettendo a nudo la loro natura «complice», poiché esse supportano e partecipano di quella che Consolo considera una situazione intollerabile per la società italiana contemporanea e per la funzione dell’arte. La scelta del linguaggio è per Consolo un tentativo di dare nuova sacralità alla parola, la sua narrativa è un esempio singolare di movimento verso la poesia, il suo messaggio etico è un messaggio di disperazione ma non di disfatta —non come il silenzio che affligge Gioacchino Martinez. Per Consolo, l’unico modo di contrapporsi a una crescente perdita di fiducia nelle possibilità comunicative del romanzo, è quello di poeticizzarne la forma.Nonostante i quattro anni che separano lo Spasimo da L’olivo e l’olivastro, Consolo era chiaramente impegnato a scriverlo già da molti anni. Com’era ormai suo modus componendi, momenti testuali dal futuro romanzo erano apparsi per la prima volta in altri testi brevi, in guise diverse. Come già per gli esempi estrapolati dal Sorriso e da Nottetempo, sono stati cataloghi e mostre d’arte a dare a Consolo l’occasione di dispiegare e meditare su queste digressioni liriche, quei passi da lui definiti «a parte». Riferendosi a questi testi scritti da Consolo per cataloghi o per libri di fotografie, Joseph Francese li considera come delle «investigazioni collaborative ed ecfrastiche delle vestigia civiche e naturali del passato siciliano».40 Sono d’accordo con lo studioso riguardo alla loro funzione, ma quel che ci interessa maggiormente è che tanti di questi testi —e Francese non lo nota— confluiscono successivamente nei romanzi come digressioni corali-poetiche, e quindi il loro status testuale è più problematico. Non si tratta di una forma di semplice autocitazione o auto-plagio, ma di uno spostamento radicale dei materiali testuali pieno di notevoli potenzialità poetiche. La poetica di Consolo implica anche l’accumulazione e l’espunzione di testi di provenienze diverse, siano essi scritti giornalistici, creativi o saggistici, generando uno spazio polifonico-palinsestico singolare. Ne abbiamo un impressionante esempio, sul versante giornalistico ed ecfrastico, in un testo intitolato I barboni scritto da Consolo nel 1995 per il catalogo dell’artista Ottavio Sgubin. Il dato significativo è che esso viene incorporato nello Spasimo in un 39. Vincenzo CONSOLO, Lo Spasimo di Palermo, Milano: Mondadori, 1998, p. 105. Tutte le successive citazioni dal romanzo saranno seguite dall’abbreviazione SP. 40. Joseph FRANCESE, «Vincenzo Consolo’s Poetics of Memory», Italica, 82: 1, 2005, p. 44: «[…] collaborative ekphrastic investigations of the civic and natural vestiges of the Island’s past». punto cruciale.41 Di questo testo poi —altro dato da sottolineare— esistono, oltre a quella valorizzata nello Spasimo, altre sei versioni in vari articoli di giornali ed ulteriori mostre dell’opera di Sgubin fra il 1995 e il 2003.42 Stanno nel tempo loro, ell’immota notte, chiusi nel sudario bruno, ermetici e remoti, negli antri delle sibille, nelle celle dei vati, stanno come vessilli gravi sui confini, nel varco breve tra il conato e la stasi, la somma e infinita quiete metafisica. Proni, supini, acchiocciolati contro balaustre, scale, piedistalli, sagome che in volute di drappi, spiegamento d’ali, torsioni, slanci, gonfiori e incavi, fantasie barocche, fingono o figurano il moto, l’estro della vita, sono masse ironiche contro le nostre illusioni, i nostri inganni, cumuli beffardi, monito fermo del destino umano, dell’esito fatale in fissità pietrosa, lento sfaldamento, dispersione in granuli, pulviscolo. E la luna, la tenera sorella delle statue, degli angeli, imbianca groppe, balze, intenebra pieghe, anfratti, scanalature, vortici, il tellurico gioco di vesti, manti. Da dove giungono questi pellegrini affranti, quale giorno li vide camminare, quale luce scoprì le crepe, le frane, il velo sopra l’occhio, la patina sul volto, segni bassi, sgradevoli del sembiante? Sono proiezioni, ombre, creature delle nostre paure, delle nostre angosce? Sono gli abitatori dei margini, le sentinelle dell’abisso, i testimoni del cedimento, gli assertori del rifiuto, del distacco. Sono, lontani muti assoluti, il richiamo costante della precarietà, dell’equilibrio instabile, dell’assurdo spasmo dell’esistere, del vivere cieco e affannoso, formicoloso moto, ottuso vagolare per cunicoli e tane, dimore grasse, labirinti d’isteria, d’oltraggio, nostro d’illusi dominanti su questa crosta procellosa, su questa landa del mondo, «su l’arida schiena/ del formidabil monte», su questo Vesuvio o Etna che in ogni istante, all’istante, per volere del Caso, stermina e pietrifica, vanifica ogni vita, cancella ogni memoria. Sono, questi profeti mesti, queste argillose statue, questa teoria antropomorfa di sarcofagi sepolti nella notte, il canto malioso o, ancor più forte, il silenzio che attrae noi vaganti, ulissi senza bussola, privati d’ogni approdo. Ora affiora dal groviglio delle pieghe, dalla piramide brumosa dell’orbace il lampo chiaro d’una mano, l’accenno d’una fronte, sboccia il gesto di rifiuto o di difesa. II mucchio penoso del distacco e dell’oblio ha ora bave di colore, vermiglie striature, violacee, è bagnato dalla luce mercuriale, dalla livida lampa nell’immenso vano dell’assenza e del silenzio. Si disegna d’intorno la fredda geografia della storia, la quinta, il fondale inesorabile del teatro sociale, cantone di palazzo, incrocio di vie senza nome, griglia di vetrata, rampa di scala mobile, acciaio, plastica di deserte stazioni, anditi dei transiti sospesi. 41. Il passo in questione corrisponde a «Stanno nel tempo loro […] il tritume delle ossa», per cui cfr. SP. , p. 70-71. 42. Vincenzo CONSOLO, «Barboni, simbolo inquietante del nuovo medioevo», Il Messaggero, 3 marzo 1996; ID., «Barboni e Natura morte», in Sgubin: Opere 1988-1997, ed. Marco Goldin, Venezia: Marsilio, 1997. Il testo viene riproposto dalla copertina del catalogo Ottavio Sgubin Mario Jerone, Centro Espositivo S. Agostino, 28 agosto – 30 ottobre 1999; ed è successivamente apparso col titolo «Barboni, segno dei nostri fallimenti», L’Unità, 29 Ottobre 2003, per segnalare un’altra mostra di Sgubin e ripubblicato infine come «I barboni di Ottavio Sgubin», in Ottavio Sgubin pittore, Museo Civico del Patriarcato, Aquileia Via Popone, 6-27 aprile 2003, p. 5. Vengono questi ribelli, questi dimissionari della convivenza, questi emarginati dalla ipocrita decenza, questi esiliati dal potere mercantile —la banale civiltà, l’angustia sociale che nomina barboni o in altri modi uguali questi che hanno abbandonato il campo, violato la dura legge dell’avere— vengono da lontano nella storia, da oscuri medioevi di carestie e pesti, d’empietà e di violenza, vengono dalle piazze di Londra o di Parigi, da sotto arcate di ponti, da corti dei miracoli, breugheliane quaresime, cortei di cenci, di cecità e di piaghe, da Alberghi di Carità, ghetti di decenza. Sono i barboni, nella trionfante storia nostra d’oggi, incongrue presenze, segno dei nostri ritardi, dei nostri fallimenti. Sono simbolo, nelle interne fratture, della più vasta, crudele frattura nel mondo, profezia inquietante d’un medioevo incombente.43 Il testo I barboni ha tutte le caratteristiche degli altri «a parte»: la prevalenza di endecasillabi, un registro alto, o meglio altamente poetico, ricercato, e inoltre la mancanza di una voce narrante identificabile. Esso sembra svolgere la funzione di quello che Norma Bouchard, in un altro contesto, chiama il «monologo lirico drammatico», specialmente nella sua condizione di unica voce possibile per il narratore, a un passo dal grido di disperazione e dagli abissi del silenzio.44 Inoltre, si scorgono nel testo diverse allusioni letterarie che ne fanno un testo ibrido. In primo luogo, la citazione diretta da La ginestra leopardiana (vv. 1-2): «[…] su l’arida schiena/ Del formidabil monte».45 Nel paragrafo successivo, un’allusione a Franz Kafka: il «canto malioso» è, infatti, il canto delle sirene, ma, come il narratore precisa, è il silenzio delle sirene ad attrarre di piú e a distruggere infine il moderno Ulisse, di cui la voce narrante è una delle ipostasi («noi»): «o ancora più forte, il silenzio che attrae noi vaganti, ulissi senza bussola, privati d’ogni approdo». Il silenzio enfatizzato di queste figure mitiche rimanda al racconto Il silenzio delle sirene di Kafka pubblicato per la prima volta nel 1934.46 Nella traduzione italiana si legge: Ma le sirene hanno un’arma ancora più terribile del loro canto, ed è il loro silenzio. Non è mai accaduto, ma forse non è del tutto inconcepibile che qualcuno si possa salvare dal loro canto, ma dal loro silenzio certo no. Alla sensazione di averle vinte con la propria forza, all’orgoglio che ne consegue e che tutto travolge, nessun mortale può resistere. 43. Vincenzo CONSOLO, I barboni, in Sgubin: Opere 1988-1995, Milano: Electa, 1995, p. 15-16. 44. Norma BOUCHARD, «Vincenzo Consolo and the Postmodern Writing of Melancholy», Italica, 82: 1, 2005, p. 5. 45. Giacomo LEOPARDI, Poesie e prose, ed. Mario Andrea RIGONI, Milano: Mondadori, 1987, p. 124. 46. Il racconto apparve postumo in Beim Bau der Chinesischen Mauer. Ungedruckte Erzählungen und Prosa aus dem Nachlass, hrsg. Max BROD und Hans Joachim SCHOEPS, Berlin: Schocken Verlag, 1934. Consolo certamente conosceva il racconto kafkiano e, infatti, questo stesso brano serviva da epigrafe allo studio junghiano di Basilio Reale su Lighea di Tomasi di lampedusa, per il quale Consolo aveva scritto una prefazione assai rilevante, perché vi appare definita per la prima volta la sua concezione della tradizione letteraria siciliana.47 Nella sua trasposizione in forma narrativa nel capitolo VI dello Spasimo, il brano subisce dei ritocchi: viene abbreviato e odificato radicalmente. Espunge per esempio i riferimenti a Leopardi e Kafka, e invece, nel suo nuovo stato rientra in una lunga digressione poetica che finirà con una citazione aperta dall’Odissea: l’unica citazione diretta da Omero di tutta l’opera. Il passo omerico è riprodotto in italiano senza alcuna indicazione del numero del libro né dei versi,48 ma corrisponde al Libro 1, versi 577-578: ε

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L’importanza di questa citazione va misurata sulla base del contesto dell’Odissea da cui è stata mutuata e della funzione che essa svolge nello Spasimo. Nell’Odissea verso la fine del Libro VIII, al banchetto efferto in suo onore, Odisseo ascolta il racconto di Demodoco che canta il sacco di Troia. Il re Alcinoo si accorge del dolore del suo ospite ancora senza nome e gli chiede come si chiami e la ragione della sua sofferenza (VIII, 550 ss.). All’inizio del Libro IX Odisseo cede alle pressioni del re e si rivela a tutti i presenti con le parole: ε’µ’ ’)δυσε*ς Λαερτι,δης. (IX, 19: «Io sono Odisseo, figlio di Laerte»), e così comincia a raccontare le alterne vicissitudini che l’hanno sospinto fino alla terra dei Feaci, nell’isola di Scheria. In altre parole, questo momento segna, con tale anagnorisis, l’inizio della narrazione vera e propria. Infatti, ne L’olivo e l’olivastro Consolo cita questi stessi versi (Od. IX, 19-21; 34-35) e ne sottolinea l’importanza per lui in termini della narrazione pura, una forma, o meglio un genere a cui egli aspira: Consolo narratore e scrittore Palincestuoso Quaderns d’Italià 13, 2008 177 47. Cfr. Vincenzo Consolo, «Prefazione» a Basilio Reale, Sirene siciliane. L’anima esiliata in «Lighea» di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Palermo: Sellerio, 1986, p. 9-14. Il saggio di Reale e la prefazione di Consolo sono stati ripubblicati nel 2001 per i tipi della casa editrice Moretti & Vitali di Bergamo. Il brano riportato di Kafka è ripreso proprio da questa riedizione (p. 25). In una fase intermedia, il testo, con il titolo cambiato in «Sirene siciliane», era stato incluso in Vincenzo CONSOLO, Di qua dal faro, Milano: Mondadori, 1999, p. 175-181. 48. Cfr. «Di’ perché piangi e nel tuo animo gemi/ quando odi la sorte» (SP, p. 72). Come dichiara nella postfazione, Consolo cita dalla versione di G. Aurelio Privitera («Fondazione Lorenzo Valla», Milano: Mondadori, 1986). Sono Odisseo, figlio di Laerte, noto agli uomini per tutte le astuzie, la mia fama va fino al cielo. Abito ad Itaca chiara nel sole… Non so vedere altra cosa piú dolce, per uno, della sua terra. Narra, narra fluente la sua odissea, come avesse varcato la soglia magica, la bocca dell’ipogeo dell’anima. E diventa Ulisse, ahi!, l’aedo e il poema, il cantore e il canto, il narrante e il narrato, l’artefice e il giudice, diventa l’inventore di ogni fola, menzogna, l’espositore impudico e coatto d’ogni suo terrore, delitto, rimorso.49 Consolo ha spiegato in varie occasioni la sua concezione della «narrazione poematica», una forma letteraria in opposizione al genere del romanzo, e non di rado l’ha fatta trapelare da diversi incisi delle sue opere.50 In questo, come ricordato all’inizio, Consolo trae spunto dal saggio del 1936 di Walter Benjamin, nel quale il filosofo si riferisce alla restituzione di un’esperienza come uno dei componenti fondamentali del raccontare —ovvero quella che egli definisce «la capacità di scambiare esperienze»: «L’esperienza che passa di bocca in bocca è la fonte a cui hanno attinto tutti i narratori».51 Allora, per Benjamin, e Consolo lo segue, il raccontare va inteso in diretta opposizione al genere borghese del romanzo. Per Benjamin, alla «rimembranza» [Eingedenken] —il principio formale del romanzo— va aggiunta la memoria [Gedächtnis], «elemento musale» del racconto.52 La narrazione benjaminiana è per Consolo soprattutto la restituzione dell’esperienza di un viaggio, come si evince inequivocabilmente da questo passo del quasi leopardiano Dialogo di Consolo e Nicolao, prefato da Maria Corti: È, la narrazione, canto e incanto, rivelazione e occultamento, verità e menzogna, musa e sirena, memoria e oblio: ricreazione vale a dire di una verità altra, la verità della poesia. E la poesia —ricordiamolo—, nella forma più alta è anche entusiasmo, è en theò, vaticinio, perveggenza di una realtà a venire. Odisseo, con il suo racconto, melodioso come quello di un aedo, incanta gli ascoltatori.53 Adesso, tornando al citato Di’ perché piangi e nel tuo animo gemi/ quando odi la sorte dello Spasimo, ciò che segue nella narrazione non è costituito dalle famose parole di auto-rivelazione di Odisseo che inaugurano il suo racconto, bensí da quelle pessimistiche di Consolo: «Io sono… no, no, l’aridità, la lingua 49. Vincenzo CONSOLO, L’olivo e l’olivastro, Milano: Mondadori, 1994, p. 19. I versi sono sempre nella versione cit. di G. Aaurelia Privitera. 50. La forte vocazione metaletteraria di alcuni passi del corpus consoliano è studiata da Miguel Ángel Cuevas, «La constante metaficcional en la obra de Vincenzo Consolo», in Hans Felten & David Nelting (edd.), Una veritade ascosa sotto bella menzogna… Zur italienischen Erzählliteratur der Gegenwart, Frankfurt a. M.: Peter Lang, 2000, p. 129-35. 51. Walter. Benjamin, Angelus Novus, cit., p. 248. 52. Ibid., p. 262-263. 53. Vincenzo Consolo & Mario Nicolao, Il viaggio di Odisseo, intr. Maria CORTI, Milano: Bompiani, 1999, p. 38. spessa, l’oblio d’ogni nesso… illuso ancora dell’ascolto, tu procedi» (SP,p. 72): ossia l’impossibilità della narrazione; l’esito estremo della poetica di Consolo. Ricorrendo alle riflessioni dello stesso Consolo, la simbologia è questa: il narratore, l’anghelos, il messaggero, non appare più nella narrazione. È rimasto solo il coro, il poeta, che in tono alto, lirico, in una lingua non più comunicabile, commenta e lamenta la tragedia senza soluzione, la colpa, il dolore senza catarsi.54 Per Massimo Onofri Lo Spasimo di Palermo è un’opera senza precedenti in Consolo. Il critico afferma che la narrazione contiene gli abbozzi di parecchi altri romanzi e di fatto ne conta ben cinque: un romanzo sul rapporto Italia-Sicilia; un romanzo sul rapporto padre e figlio (il padre di Gioacchino/Chino e Chino); un secondo romanzo padre-figlio (Chino e Mauro); inoltre un romanzo d’amore (Chino e Lucia); e infine, un romanzo di «oblìo e dimenticanza».55 A questi cinque pseudo-romanzi se ne potrebbero aggiungere anche altri, se non romanzi, almeno fili di possibili romanzi: per esempio, il romanzo sulla mafia; un giallo (ma qui giallo va inteso nel senso della critica severa fatta da Consolo alla letteratura di consumo, giallo incluso); e infine, un romanzo-nostos alla Vittorini. Una delle difficoltà della narrazione di Consolo risiede esattamente in questa molteplicità di fili romanzeschi, nessuno dei quali è predominante, ma che accoppiati producono una narrazione che ci sembra unica nell’attuale panorama letterario italiano. Tuttavia, quest’idea di Onofri dei tanti romanzi all’interno della narrazione è interessante anche per vari altri aspetti: innanzittutto, nessuno dei romanzi che elenca è completo; in secondo luogo, è altrettanto vero che lo Spasimo contiene in sé i momenti testuali di tutta l’opera consoliana. Quindi ci sembra che lo Spasimo costituisca quello che potremmo chiamare l’autobiografia estetica di Consolo, ovvero una sorta di autoritratto artistico di Consolo-autore: non nel senso che Consolo abbia scritto un’autobiografia tout court, ne siamo ben lontani, ma in quanto ha invece immaginato una narrativa che è fondata sui propri testi. La grandezza e l’importanza dello Spasimo si basano in parte sulla presenza delle altre narrazioni consoliane all’interno dell’opera, che proprio per il loro coabitarci offrono una specie di critica della poetica dell’autore e ne danno anche qualche spiegazione. Non è soltanto una forma ludica di autoplagio, né un riesame della sua poetica, ma una specie di summa, in cui le scelte ideologiche ed estetiche sono portate alla loro naturale conclusione. Quel che intendo dire è che la narrazione rivela tracce dei romanzi precedenti; il che ci suggerisce che lo Spasimo è sovra-scritto, un doveroso palinsesto che ci porta indietro nel tempo fino a La ferita dell’aprile del 1963. Quindi, se accettiamo che lo Spasimo è l’ultimo episodio della trilogia consoliana, dovremo ammettere che l’autore vi implica e problematizza anche tutta l’opera pubblicata fino a quella data. In breve, oltre alla solita presenza di altri poeti e autori, sia antichi che moderni, la presenza letteraria più forte nello Spasimo è Consolo stesso. Consolo narratore e scrittore Palincestuoso Quaderns d’Italià 13, 2008 179 54. Cfr. Vincenzo CONSOLO, «Per una metrica della memoria» cit., p. 258. 55. Massimo ONOFRI, Il sospetto della realtà, cit., p. 183. Non mi soffermerò sui legami formali e tematici fra lo Spasimo e gli altri due romanzi storico-metaforici della trilogia: Il sorriso e Nottetempo. Vorrei qui segnalare, invece, come gli altri testi consoliani influiscano sulla poetica dello Spasimo e ne partecipino. Un interessante esempio ci è fornito dal primo romanzo consoliano: La ferita dell’aprile. In entrambe le opere, la prima e l’ultima, si evoca lo stesso mondo del secondo dopoguerra. Le nuove scelte per l’Italia appena liberata costituiscono una tematica importante nei due romanzi. Inoltre, in entrambi, questi eventi vengono visti attraverso gli occhi di due ragazzi irriverenti: nello Spasimo da Chino e nella Ferita dallo sparginchiostro», il giovane Scavone. Infine, i due ragazzi sono allevati dai loro zii, da zio Beppe nel caso di Scavone e nel caso di Chino, dopo la morte del padre per mano dei soldati tedeschi, da quella figura derobertiana e pirandelliana che è suo zio Mauro. Un altro importante avantesto è un racconto del 1981. Quel che importa è che in ben due occasioni nello Spasimo Consolo ci rimanda a questo racconto, ma adoperando un titolo diverso: La perquisizione. Il racconto va infatti identificato, per ragioni sia testuali che tematiche, con «Un giorno come gli altri» che, come dimostrato sopra, è uno dei testi chiave di Consolo, specialmente in quel suo distinguere fra lo «scrivere» e il «narrare». Ma nel racconto c’è inoltre un livello tematico che spazia tra gli «anni di piombo», le incursioni poliziesche nelle case, e anche i dibattiti ideologici più ampi del periodo e gli effetti reali della guerra fredda. Alla fine la casa dello scrittore è violata dalla polizia: Irrompono, mitra spianati, modi feroci; si dirigono subito nel mio studio. Mi appiattisco, mani in alto, contro la parete, sotto il disegno di San Gerolamo. Mentre uno mi sta a guardia, con l’arma contro il petto, gli altri si mettono a buttare giù i libri, loro vi passano sopra con gli scarponi. Nuvolette di polvere vengono su dai mucchi come da piccoli vulcani. Finita la perquisizione, sulla porta, il capo, ghignando, mi consegna il foglio. Lo afferro, leggo: «Procura della Repubblica in Milano. Il PM letto il rapporto … in data… della Tigos…». «Lo conosco, quest’ordine, lo conosco …» dico balbettando. «Lo sappiamo» risponde quello. «E sappiamo che tu scrivi, che narri di Milano … Mannaggia, ci mancano le prove!» e con la mano, scendendo le scale, mi fa capire di non dubitare, che prima o dopo le troveranno, le prove. Sul pianerottolo, affacciandomi, grido giù nella tromba delle scale: «Non è vero, io non so scrivere di Milano, non ho memoria …».56 Nello Spasimo il protagonista ricorda un racconto che aveva scritto su un glottologo che leggeva la storia di un re che narrava e governava: solo il Re che narra è un narratore perfetto perché lui non ha bisogno della metafora, lui governa, comanda e nello stesso momento scrive. Ma poi questo sogno letterario -archeologico si scioglie per via dell’«incubo dei colpi fragorosi dei poliziotti sulla porta, mitra spianati, che irrompono, sconvolgono la casa. […] Termi56. «Un giorno come gli altri», cit., p. 1441-1442.  nato il racconto La perquisizione, aveva lasciato i fogli sopra il tavolo» (SP, p. 83-84). Un po’ prima Consolo aveva scritto: Ricordò il racconto La perquisizione che appena scritto aveva lasciato sopra il tavolo. Mentre i militi, venuti per il figlio, buttavano giù libri, rovistavano cassetti, armadi, il poliziotto lo leggeva. «Mi sembra di sognare» disse. A lui, privo di metafore, correlativi obbiettivi, puntelli di rovine. Il boemo dimesso, cupo, guardava intorno, dietro, traversava le rotaie, saltava il tram che dal Sempione portava verso l’Arco, il Parco, si credeva pedinato. «Lo Scherzo» disse, «la sua traduzione in Francia, in Italia…» Si sedette contro il muro, bevve il vino, assalì maldestro gli spaghetti, spiò l’uscio, la finestra. Signore in seriche casacche orientali andavano e venivano, il branzino sul piatto, rivolgevano domande a Saul Bellow, chiedevano di Singer, Malamud. L’ospite parlava solo di Cuba, della Bolivia, dell’amico Gabo, fra gli intellettuali la discussione s’era accesa sopra Praga, cosa pretendevano infine, e noi, le basi aree, le corazzate dentro i porti? «Merde, merde!» fece il boemo paonazzo, sbatté il piatto, uscì furioso dal salotto, da quella ricca casa. (SP, p. 66) La fonte di questo brano è ancora una volta «Un giorno come gli altri», in cui si racconta la storia di un’esperienza fatta da Consolo ad una festa organizzata nel 1969 a casa di un editore in onore di Saul Bellow. Nel passo si può inoltre ravvisare un’allusione a T.S. Eliot e in particolare a The Love Song of J. Alfred Prufrock. L’immagine delle «Signore in seriche casacche orientali» che «andavano e venivano» ricorda i versi: «In the room the women come and go/ Talking of Michelangelo». Anche il riferimento ai «correlativi obbiettivi» rimanda decisamente a Eliot, che è senz’altro uno dei poeti preferiti di Consolo e tra quelli da lui piú spesso citati. Per esempio nell’incipit dello Spasimo Consolo rimaneggia i versi ormai canonici di Prufrock: «Let us go then you and I». Vi si legge difatti: Allora tu, i doni fatui degli ospiti beffardi, l’inganno del viatico, l’assillo della meta (nella gabbia dell’acqua, nella voliera del vento hai chiuso i tuoi rimorsi), ed io, voce fioca nell’aria clamorosa, relatore manco del lungo tuo viaggio, ndiamo» (SP, p. 9).57 Ma torniamo a «Un giorno come gli altri», al passo in cui si racconta: M’ero portato appresso un mite e dimesso poeta cecoslovacco, anche lui di passaggio in quei giorni a Milano. Si chiamava Vladimir … (il cognome lo taccio, non si sa mai… Anzi, si sa). […] Ci passavano davanti bellissime donne, eleganti, vestite alla russa, alla cinese. Ci scorse poi la padrona di casa, la moglie dell’editore […]. Poi fa, rivolta a me: «Lei è sudamericano?» «No» dico, e lei si allontana, delusa. Fu verso la mezzanotte che successe il fattaccio. Vladimir, 57. In corsivo nell’originale. 182 Quaderns d’Italià 13, 2008 Daragh O’Connell oltre ad avere mangiato, aveva anche molto bevuto. Ma egli era mite e mite rimaneva, triste anzi, anche con tutto l’alcool che aveva in corpo. Non fosse stato per quello scultore. Si siede vicino a noi e, quando scopre che Vladimir è cecoslovacco, si mette a dire che bene avevano fatto i russi ad arrivare a Praga coi carri armati: cosa voleva questo Svoboda, questo traditore di Dubcek? Vladimir diveniva una furia. Afferrò lo scultore per il petto, cominciò a scuoterlo, a picchiarlo, urlando nella sua lingua insultandolo. Tutti accorsero, si ammassarono attorno a quei due che si picchiavano e a me che cercavo di separarli. Poi, rosso di ergogna come fossi stato io la causa di tutto, riuscii a trascinare per la giacca il poeta praghese, a passare in mezzo a tutti nel grande salone (scorsi un attimo Bellow, roseo, bianco, le mani in tasca, che ci guardava e sorrideva divertito), a guadagnare la porta.58 Quindi, La perquisizione è una specie di doppio testo per lo Spasimo e rafforza sempre di più il binomio Consolo – Martinez. Retablo del 1987 è un altro romanzo consoliano che ha un ruolo notevole nello Spasimo, anche se ambientato nel Settecento. Il suo protagonista milanese, Fabrizio Clerici (l’ennesimo doppio nell’opera di Consolo), è in realtà una figura molto moderna e il suo presente va visto attraverso le lenti del passato. Ad un certo punto del romanzo Clerici scrive a Maria Teresa Blasco (la nonna di Alessandro Manzoni) implorandola di lasciare Milano tra un’imprecazione e l’altra contro la città: O gran pochezza, o inanità dell’uomo, o sua fralezza e nullità assoluta! O sua ferocia e ferina costumanza! O Secol nostro superbo di conquiste e di scienza, secolo illuso, sciocco e involuto! Arrasso, arrasso, mia nobile signora, arrasso dalla Milano attiva, mercatora, dalla stupida e volgare mia città che ha fede solamente nel danee, ove impara e trionfa l’impostore, il bauscia, il ciarlatan, il falso artista, el teatrant vacant e pien de vanitaa, il governatore ladro, il prete trafficone, il gazzettier potente, il fanatico credente e il poeta della putrida grascia brianzola. Arrasso dalla mia terra e dal mio tempo, via, via, lontan!59 Questa è la stessa Milano che il narratore evoca all’inizio del capitolo VIII dello Spasimo. Una volta luogo di speranza, «approdo della fuga» in cui si concentravano le qualità della società civile —«orgoglio popolare, civile convivenza, magnanimità e umore e tolleranza»— questa Milano è per il narratore un sogno diventato incubo: Illusione infranta, amara realtà, scacco pubblico e privato, castello rovinato, sommerso dall’acque infette, dalla melma dell’olona, dei navigli, giambellino 58. «Un giorno come gli altri», cit., p. 1438-1439. Il nome del poeta ceco è Vladimir Mikesch. Nello Spasimo viene trasformato in Milan Kundera. 59. Vincenzo CONSOLO, Retablo, Palermo: Sellerio, 1987, p. 103-104. Al riguardo, cfr. inoltre ID., Fuga dall’Etna, Roma: Donzelli, 1993, p. 61-62. «Arrasso» significa «lontano». È un sicilianismo utilizzato da Consolo per la prima volta ne La ferita dell’aprile ([1963] Torino: Einaudi, 1977, p. 110): «arrasso di qua». Consolo narratore e scrittore Palincestuoso Quaderns d’Italià 13, 2008 183 e lambro oppressi dal grigiore, dallo scontento, scala del corrotto melodramma, palazzo della vergogna, duomo del profitto, basilica del fanatismo e dell’intolleranza banca dell’avventura e dell’assassinio, fiera della sartoria mortuaria, teatro della calligrafia, stadio della merce e del messaggio, video dell’idiozia e della volgarità. Città perduta, città irreale, d’ombre senz’ombra che vanno e vanno sopra ponti, banchine della darsena, mattatoi e scali, sesto e cinisello disertate, tennologico ingranaggio, dallas dello svuotamento e del metallo. Addio. (SP, p. 91)60 Se in Retablo Milano era in realtà la Milano craxiana degli anni Ottanta, la Milano dello Spasimo è la Milano berlusconiana, la Milano della Lega Nord. Un’altra opera che al di fuori della trilogia è molto visibile nello Spasimo è la silloge Le pietre di Pantalica e in particolare il racconto eponimo. Nello Spasimo Gioacchino incontra un giudice dopo il suo ritorno in Sicilia: l’opera costituisce per certi versi un punto di rottura entro la tradizione siciliana, è uno dei primi esempi nella letteratura siciliana in cui un magistrato rappresenta valori positivi e diviene simbolo di una condizione eroica. Nella figura del «Giudice» di Consolo il personaggio rimane anonimo, ma risulta tratteggiata la persona di Paolo Borsellino, il cui assassinio alla fine del romanzo rappresenta la morte dello Stato italiano e segna il rifiuto stesso del genere romanzo. Questo giudice riconosce lo scrittore Martinez e l’accompagna a casa con la scorta. In macchina, il giudice sciolse un poco l’espressione rigida, sorrise appena sotto i baffi brizzolati. «Ho letto i suoi libri… difficili, dicono. Di uno mi sono rimaste impresse frasi su Palermo» socchiuse gli occhi, recitò: «Palermo è fetida, infetta. In questo  luglio fervido esala odore dolciastro di sangue e gelsomino …» «Sono passati da allora un po’ di anni …» disse Gioacchino. «Ma nulla è cambiato, creda. Vedrà, il prossimo luglio sarà uguale … o forse peggio.» (SP, p. 115) In realtà la personificazione di Borsellino sta citando da Le pietre di Pantalica e quindi l’intertestualità del brano è resa più  problematica, diviene una forma curiosa di auto-plagio: Palermo è fetida, infetta. In questo luglio fervido, esala odore dolciastro di sangue e gelsomino, odore pungente di creolina e olio fritto. […] Questa città è un macello, le strade sono carnezzerie con pozzanghere, rivoli di sangue coperti da giornali e lenzuola. I morti ammazzati, legati mani e piedi come capret60. «tennologico» è un milanesismo che serviva a Consolo come ammiccamento al linguaggio berlusconiano. Secondo chi lo traduce in francese con «tennologique», è un termine «que renvoie aux logiques du tennis et, plus largement, à la banalisation inhérent aux choses: aussi tous les nom propres (Sesto, Cinisello, etc.) deviennent des noms communs, transcripts en caractères minuscules». Cfr. Vincenzo CONSOLO, La Palmier du Palerme, trad. Jean-Paul Manganaro, Paris: Éditions du Seuil, 2000, p. 108. 184 ti, strozzati, decapitati, evirati, chiusi dentro neri sacchi di plastica, dentro i bagagliai delle auto, dall’inizio di quest’anno, sono più di settanta.61 Nello Spasimo il brano serve inoltre ad identificare sia Borsellino che Consolo come protagonisti di questa tragedia narrativa. Quindi, è proprio vero che l’opera costituisce una sorta di autobiografia intellettuale ed estetica dell’autore: in queste pagine confluiscono frammenti, stralci o estratti, temi, scelte ed esperienze delle precedenti narrazioni di Consolo, come attrattivi da una forza centripeta. Lo Spasimo è anzi un ipertesto, forse il lavoro più ipertestuale di Consolo, nel senso che si viene formando sui suoi tanti ipotesti autoriali. Di conseguenza, ci sembra un testo intensamente palinsestico, realizzato attraverso un meditato processo di riscrittura, o sovrascrittura, e autocitazioni d’autore. La narrazione che ne risulta è un’opera narrativa ibrida in cui le tante forme delle opere precedenti trovano spazio e per certi versi sono riviste, riscritte e re-iscritte. In breve, ribadendo la definizione già data, Lo Spasimo di Palermo è la summa della poetica consoliana. In ultima analisi, questi sono alcuni dei motivi per cui penso che sia giusto parlare di Consolo come di un narratore palincestuoso. 61. Vincenzo Consolo, Le pietre di Pantalica, cit., p. 170. Il corsivo è dell’autore
Quaderns d’Italià 13, 2008 161-184

Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano.



Il solo coerente sistema di segni da cui può essere colta la storia come realtà materiale sembra essere la letteratura.
 H. M. Enzensberger,

Letteratura come storiografia

La Sicilia e Milano
Partiamo dalla fine: in una delle sue ultime dichiarazioni pubbliche, che ha suscitato particolare clamore, lei ha affermato di voler abbandonare Milano, dopo la vittoria elettorale della Lega Nord. Una rottura che segue un lungo amore: in effetti, Milano sembrava aver rimpiazzato, nella sua vita presente, la Sicilia da cui era andato via tanti anni fa. Cosa è successo? Che cosa si è spezzato, nel suo rapporto con Milano?

Voglio premettere, prima di rispondere alla domanda, che le interviste obbligano a mettere in campo continuamente un io che rischia di apparire ingombrante e irritante, se non ridicolo. Io non ho mai amato la prima persona (ecco che mentre affermo questo mi contraddico), ho sempre scritto, dopo il racconto d’esordio o di formazione, in terza persona. L’intervista, d’altra parte, mi dà l’occasione o offre il pretesto per riesumare personali ricordi, per estrinsecare pensieri e convinzioni. Credo che questo in qualche modo la giustifichi. La domanda parte dalla dichiarazione, in occasione delle elezioni amministrative del 20 giugno 1993, che, se avesse vinto la Lega Nord di Bossi, avrei abbandonato Milano. Rileggo qui, per una migliore comprensione di chi ascolta la mia dichiarazione apparsa su «I Messaggero», lo stesso giorno delle elezioni, col titolo un po’ melodrammatico Tu non mi avrai, città di leghisti. «Se nell’odierno secondo turno delle elezioni comunali dovesse vincere a Milano il candidato della Lega Nord Formentini, io mi sentirò costretto ad andarmene da questa città dove risiedo da venticinque anni, dove lavoro, dove, è naturale, ho intrecciato relazioni affettive, professionali, culturali. Mi sentirò costretto a sradicarmi da questa città, come venticinque anni fa m’ero sradicato dalla mia Sicilia, e a scegliere un’altra città, un’altra regione in cui andare a vivere e a lavorare. Me ne andrò da Milano, voglio chiarire, non in quanto meridionale che teme di essere minacciato, schiacciato nella sua identità culturale, nella sua collocazione sociale, nei suoi diritti civili da forze politiche al potere che trovano la loro genesi e la loro ideologia nell’esprimere bisogni e Istanze di popolazioni di una zona geografica – il Nord di questo Paese – ma in quanto cittadino di Milano, in quanto lavoratore, in quanto, è la parola che si usa – intellettuale. Me ne andrò, voglio chiarire, non in quanto militante dell’altro schieramento politico che aveva nel candidato Dalla Chiesa il suo rappresentante e che dalle elezioni uscirebbe sconfitto. Me ne andrò quindi non come un ghibellino cacciato dai guelfi vincitori (credo di avere abbastanza ironia per non vedermi tale). Mi rendo conto intanto che questa mia dichiarazione, che ho già fatto altrove, potrà apparire a chi legge, come è apparsa a Giorgio Bocca, insensata, carica di esibizionismo, di prevenzione e presunzione, inopportunamente provocatoria, ma credo che essa possa trovare una sua motivazione e legittimità nel fatto che altri intellettuali milanesi – editori, scritori giornalisti ben più autorevoli e famosi di me – hanno dichiarato la loro simpatia e adesione politica allo schieramento della Lega Nord e quindi, implicitamente, la loro soddisfazione e felicità nel trovarsi a vivere in una Milano amministrata da domani dai leghisti.
Mi rendo conto che non c’è proporzione, non c’è confronto tra il risultato di una elezione che esprime convinzioni e volontà di migliaia e migliaia di cittadini e la parola e il gesto di un sin-golo, di un individuo politicamente insignificante, di uno scrittore isolato, e solitario, sciolto cioè da legami politici, quale io sono, quali credo dovrebbero essere gli scrittori: liberi da impegni partitici, ma legati da impegni ideali, morali, storici. Il probabile futuro sindaco di Milano, il Formentini, potrebbe, sarcasticamente, sferzatamente, pronunciare, calcolando diversità e distanza tra i personaggi in causa, parodiandola, la famosa frase che Togliatti indirizzò all’eretico Vittorini concludendo la polemica sul “Politecnico”: “Consolo se n’è juto e suli ci ha lasciati” Assai dubitando che Formentini, il quale dichiara di frequentare, nella raffinata collezione della Pléiade, classici come Flaubert, con lo stesso sussiego con cui un ricco dichiara di nutrirsi a caviale e champagne, abbia una qualche contezza di uno scrittore di estrazione meridionale, di stampo paesano, di tono dialettale quale io sono. E potrebbe ripetere Formentini quelle famose parole della canzonetta napoletana o dire altro di meno sarcastico ma di più diretto e violento, ricorrendo a quel linguaggio antieufemistico, esplicito, di aggressività metropolitana che i leghisti sanno usare. Non sono esperto di partiti, non studio i loro programmi, non conosco la morfologia e la sintassi della lingua politica della contingenza e della prassi, ma credo di conoscere la paratassi di una metalingua politica che parla non di Lega Nord o Lega Sud, ma di uomini in un contesto storico e civile, di qualsiasi città o regione, ricca o povera che sia, di una lingua che parla della loro dignità, dei loro diritti, parla di apertura verso i socialmente deboli, di giustizia, di solidarietà, di cultura, di libertà. So che questo Paese non si è unito perché un eroe di nome Garibaldi, sbarcando a Marsala, l’ha liberato da vecchi poteri fatiscenti  e consegnato a una “borghese” monarchia  come quella dei Savoia e a un economista accorto come Cavour, ma si è unito effettualmente nel 1945, dopo aver sofferto per un ventennio la dittatura fascista, aver subito morte e distruzione per una guerra folle, aver combattuto per riconquistare libertà e dignità. E dunque subito mi mette in sospetto un movimento politico di nome Lega Nord (come ieri in Sicilia mi metteva in sospetto il movimento indipendentista sostenuto dai ricchi agrari), che è nato in regioni opulente, privilegiate dalla politica di quasi cinquant’anni del governo, centrale, che, per risentimento verso quel governo, verso un regime politico che ha consegnato questo Paese alla mafia e alla corruzione politica, propugna una nazione di regioni confederate. In cui – mi sembra chiaro – quelle del Nord, separando da quello delle altre il proprio destino economico e politico, si possano agilmente spostare verso un cuore dell’Europa forte e chiusa dalle sue mura e dai suoi baluardi di fabbriche e di banche. E viene chiamato, questo progetto politico della Lega Nord, rivoluzione. Mi ricorda, questa rivoluzione, quella del Vespro siciliano – sì, abbiamo quasi sempre la tendenza, noi intellettuali siciliani, a misurare tutto con i nostri metri – spacciato dagli storici dell’Ottocento come rivoluzionario (ma gli storici, si sa, lavorano per il loro tempo) e scoperto nella sua realtà reazionaria da Benedetto Croce. “Il Vespro siciliano, che ingegni poco politici e molto rettorici esaltano ancora come grande avvenimento storico, laddove fu principio di molte sciagure e di nessuna grandezza”, scrive il filosofo nella sua Storia del Regno di Napoli. E quindi ancora Vittorini, che introduce la Storia del Vespro dell’Amari con un saggio dal titolo Di Vandea in Vandea: “Per questo il Vespro era vitale e ostinato; perché Vandea locale, nasceva concorde con la reazione ghibellina in tutta l’Italia…”. I nuovi movimenti, i nuovi partiti, Leghe o Reti o quant’altro, si muovono oggi, certo, su un campo di macerie. Ma come sempre sulle macerie, di terremoti o guerre o crolli di regimi, possono nascere nuove utopie, progetti di nuove società aperte e progressive. Ma possono anche nascere, per paura di perdere conquiste e privilegi, Vandee di reazione, di regressione». La domanda da voi posta, dicevo, parte dalla fine. E dunque sono costretto a fare un lungo flash-back, una lunga digressione, sono costretto a partire dall’inizio, a narrare di fatti ormai remoti (che sia questa la letteratura, la narrativa: una infinita digressione affabulante per sfuggire a una risposta logica e immediata?). A questo punto della mia vita sono costretto a fare un bilancio e devo concludere amaramente che sono stato fino adesso vittima di miti, e forse lo sarò ancora nei giorni che mi restano. Sono stato vittima del mito della realtà meridionale contadina, e successivamente del mito del Nord, di Milano, della realtà industriale. Ho compiuto gli studi universitari a Milano negli anni cinquanta abbandonando una Sicilia che conoscevo poco. Sono nato in un paese sulla costa settentrionale dell’Isola, alla confluenza delle province di Palermo e di Messina con alle spalle quella muraglia cinese che è la catena appenninica siciliana dei Nèbrodi, delle Madonie e dei Peloritani. Chi nasce in quella costa tende sempre a scivolare avanti e indietro, verso Palermo o verso Messina, e ignora la realtà che sta dietro quella barriera montuosa, la realtà della Sicilia interna; tende a prendere il treno, salire sul traghetto, attraversare lo Stretto e andare in Continente. C’è tutta una letteratura sul traghetto, sul traghetto che va e su quello che torna, da Verga a Vittorini, a Stefano D’Arrigo. Ho fatto gli studi a Milano, all’Università Cattolica e non per ragioni religiose o ideologiche (ero uscito dal liceo Valla di Barcellona di Sicilia, dove avevo conosciuto e frequentato Nino Pino Ballotta, professore di veterinaria, poeta e grande anarchico, con profonde convinzioni socialiste e libertarie), ma perché volevo conoscere il Nord e perché in quella Università c’era andato un anno prima un mio compaesano. Una mattina velata di nebbia del novembre del 1952 arrivai a Milano ed entrai nel convitto universitario Augustinianum di via Necchi, accanto a piazza Sant’Ambrogio. Il compaesano mi disse subito che dovevo «ruffianarmi» – disse proprio così – il direttore del convitto, don Mario Giavazzi. Lo stesso compaesano era indeciso se dopo la laurea entrare nella Polizia, fare il doganiere o darsi alla politica (che voleva dire far carriera nella Democrazia Cristiana). La Cattolica era allora frequentata dai figli della buona borghesia milanese e lombarda e da tutta una massa di meridionali, in gran parte mandati qui dai parroci e dai vescovi, spesso muniti di un certificato di povertà che permetteva loro di alloggiare gratuitamente nel convitto. Io non avevo il certificato, pagavo 20 mila lire al mese per la stanza-cella e per i pasti. Dal Meridione erano approdati alla Cattolica in quegli anni i due fratelli De Mita, Ciriaco e En-rico, Gerardo Bianco, Riccardo Misasi e tanti altri che poi sarebbero entrati a far parte della classe dirigente italiana, del grande potere democristiano. Sprazzi di ricordi: padre Gemelli, il frate fondatore e rettore della Cattolica, con una grossa testa e gli occhi terribilmente saettanti, immobilizzato su una sedia a rotelle, spinto da un valletto per i corridoi e i bellissimi chiostri bramanteschi dell’Università, che incuteva soggezione e imponeva silenzio al suo passaggio agli studenti e soprattutto a quelle studentesse che per caso avevano dimenticato di indossare l’obbligatorio grembiule nero. Padre Gemelli si vantò una volta, durante una predica, di aver scoperto lo scultore Giacomo Manzù, al quale aveva commissionato, per la cappella dell’Università, per il collegio maschile e per quello femminile, un Cristo e dei santi dai piedi e dalle mani incredibilmente lunghi. Una volta, in occasione della Giornata dell’Università Cattolica, in cui si raccoglievano soldi in tutta Italia per l’ateneo, venne in visita il cardinale Schuster. Apparì, etereo e magico come una figura onirica, in piazza Sant’Ambrogio, scivolò leggero e benedicente, nelle pieghe della sua porpora, nel suo viso gotico e diafano ricamato di venuzze, nei suoi occhi cerulei, tra due ali di studenti plaudenti. Prima di varcare il portone d’ingresso dell’Università, si fermò, si volse verso noi giovani e disse, ispirato, convinto e convincente: «Cosa fate qui, cosa fate? Andate, andate per il mondo a convertire le genti!…». E venne pure un giorno all’Università, per una conferenza nell’aula magna, l’onorevole Oscar Luigi Scalfaro, fresco di scandalo per la scenata in un ristorante romano alla signora scollacciata. Ciriaco De Mita, ch’era allora già un capo, organizzò una protesta con gli studenti meridionali, connotati come «di sinistra». Nell’anfiteatro dell’aula, non appena Scalfaro cominciò a parlare, noi contestatori, a uno a uno, ci alzammo e platealmente uscimmo, passando sotto l’alta cattedra dell’oratore. Il quale, imperturbabile, continuò a parlare, con la sua bella dizione scandita, con le sue erre molli. Nella piazza Sant’ Ambrogio, oltre alla fabbrica in cotto con i due campanili della celebre basilica romanica (qui ho assistito una mattina, per caso, al matrimonio di Dario Fo e Franca Rame, allora poco noti: lui in tight, magro, con dentoni sporgenti, lei bionda e rosea come una bambola di lenci, il bel corpo fasciato in un abito bianco, la testa coperta da un romantico cappello a larghe tese), oltre alla basilica «là fuori di mano», c’era, in un grande fabbricato, un convento sette-centesco, il Centro Orientamento Immigrati. Era in atto in quegli anni la grande emigrazione italiana, il grande esodo dal Sud verso il Nord, verso il centro Europa. Gli emigranti venivano prelevati alla Stazione Centrale, caricati su appositi tram e scaricati in piazza Sant’ Ambrogio. Accolti nel Centro erano sottoposti a visita medica da parte di delegazioni straniere, francesi, svizzere, belghe (per gli emigranti che andavano in Germania il Centro di smistamento era a Verona). Al Centro di piazza Sant’ Ambrogio restavano tre o quattro giorni. Quelli destinati alle miniere di carbone del Belgio, a Milano venivano equipaggiati di casco, lanterna e mantellina cerata. I minatori siciliani passavano così dalle zolfatare del Nisseno o dell’Agrigentino, che allora chiudevano per la crisi dello zolfo, alle miniere del Belgio. E alcuni di loro avrebbero trovato lì la morte, nell’esplosione della miniera di Marcinelle. Il poeta dialettale Ignazio Buttitta avrebbe scritto un poema su quella tragedia, evocando uno di questi emigrati. «Turi Scordu, surfararu, / abitanti a Mazzarinu / cu lu trenu di lu suli / s’avvintura a lu distinu…».
In piazza Sant’Ambrogio, accanto al Centro degli emigranti, c’era una caserma della Celere. A noi studentelli privilegiati poteva capitare d’incontrare in quella piazza o nelle latterie e trattorie delle vicine via Terraggio e via Nirone il compaesano che emigrava o quello in divisa da poliziotto, col manganello alla cintola (c’erano scioperi in quegli anni e la polizia del ministro Scelba caricava gli operai che protestavano). A me è capitato d’incontrare, vestito da poliziotto, Giacomino, uno che giocava con me al pallone all’oratorio. Non so se gli studenti meridionali che poi diventeranno potenti uomini politici, quelli che, dopo la laurea, venivano mandati da don Mario Giavazzi a Bologna, al Centro di studi sociali diretto da Dossetti, non so se hanno visto allora in piazza Sant’ Ambrogio gli emigranti e i poliziotti. Durante gli anni alla Cattolica avevo deciso di fare lo scrittore, di tornare in Sicilia a scrivere Volevo raccontare la realtà contadina siciliana, con una scrittura di tipo sociologico, di estrema comunicazione. Le mie letture erano allora soprattutto storico-politiche, di autori meridionali e meridionalisti. Carlo Levi del Cristo e de Le parole sono pietre mi sembrava lo scrittore esemplare, oltre ad altri scrittori di memorie e di testimonianza. Ma seguivo anche, con passione mista, devo dire, a senso di colpa, le vicende letterarie in Italia e all’estero. Ricordo che lessi, con un senso di trasgressione, di peccato, se pure per ragioni diverse, libri come La mia Africa della Blixen e come i due Tropici di Miller, pubblicati da Feltri-nelli, ma che non erano venduti in Italia. A me li acquistò un amico a Parigi. In Sicilia, nel 1958 mi misi a insegnare educazione civica e cultura generale nelle scuole agrarie. Andavo in sperduti paesi di montagna, partendo in treno la mattina presto, passando poi su corriere, tornando la sera con mezzi di fortuna. Insegnai a Mistretta, a Caronia, grossi centri sopra i Nèbrodi che una volta erano vivi e fiorenti e che in quegli anni si andavano svuotando. I padri dei miei alunni erano emigrati, i figli avrebbero seguito la stessa sorte. A Caronia mi colpì il gran numero di suicidi che si verificarono nell’arco di un anno. Quando mi accinsi a scrivere il primo libro, le intenzioni e le convinzioni andarono da una parte e l’istinto o la passione mi portarono da un’altra. Il racconto non era di tipo realistico-testi-moniale, ma memoriale e metaforico, la scrittura non era di tipo logico, referenziale, ma fortemente trasgressiva ed espressiva.
Il libro è La ferita dell’aprile, pubblicata nel 1963 nella collana «Il Tornasole» di Gallo e Sereni, che è un libro straordinariamente nuovo, un’assoluta novità rispetto al realismo sociale. Non so se a quell’epoca aveva già letto Gadda o meno, ma la prosa che ne viene fuori è sicuramente di tipo espressionista.

Avevo letto Gadda, avevo letto le sperimentazioni pasoliniane di Ragazzi di vita e di Una vita violenta. In letteratura non si è innocenti.

Non credo nell’innocenza in arte. Bisogna avere consapevolezza di quello che è avvenuto prima di noi e intorno a noi, bisogna sapere da dove si parte e dove si vuole andare. Ritenevo che fosse conclusa la stagione del cosiddetto neorealismo e avevo l’ambizione di andare un po’ oltre quell’esperienza. Mi sono trovato così fatalmente nel solco sperimentale di Gadda e Pasolini, di D’Arrigo e Mastronardi, anche. Non era ancora apparso all’orizzonte il Gruppo ’63, dal quale in ogni caso mi avrebbe tenuto ben lontano un forte senso di appartenenza alla tradizione letteraria, una vera spinta oppositiva, la consapevolezza che le cancellazioni, gli azzeramenti avanguardistici, la loro impraticabilità linguistica, che si può rovesciare nel conservatorismo più bieco, sono speculari alla impraticabilità linguistica o all’afasia del potere. La nuova lingua italiana, tecnolo-gico-aziendale-democristiana era uguale a quella del Gruppo 63.  Nel solco della sperimentazione linguistica di Gadda e Pasolini dicevo. Senza dimenticare il solco per me più congeniale di Verga. La mia sperimentazione però non andava verso la verghiana irradiazione dialettale del codice toscano né verso la digressione dialettal-gergale di Pasolini o la deflagrazione polifonica di Gadda, ma verso un impasto linguistico e una «plurivocità», come poi l’avrebbe chiamata Cesare Segre, che mi permettevano di non adottare un codice linguistico imposto. Tutto questo m’era permesso dall’argomento del racconto: corale, di personaggi adolescenti (l’adolescenza è la stagione trasgressiva ed inventiva per eccellenza).

Queste ascendenze di tipo culturale (Pasolini, Gadda) hanno avuto qualche mediazione di tipo scolastico, universitario? C’è stato qualche studioso che l’ha indirizzato in questa direzione? Come è arrivato alla letteratura? Che importanza hanno avuto nella sua formazione due scrittori siciliani come Leonardo Sciascia e Lucio Piccolo?

Nessun maestro, nessun professore. Quella di scrivere è stata una scelta solitaria. Solitaria e avventurosa era del resto allora la scelta di scrivere, era il mallarmeano «coup de dés». Oggi credo che ci sia meno azzardo. Gli scrittori oggi vengono allevati in serra, nascono e crescono nel terreno dell’Azienda, dell’Accademia, del Salotto, del clan, della confraternita, sono curati e assistiti fin dalla nascita, sono docili e bravi, non si sorprendono e non danno sorprese.

A Milano avevo visto una volta sola Vittorini, avevo conosciuto Vittorio Sereni. La comunicazione avveniva attraverso le riviste e soprattutto attraverso le collane letterarie. Allora gli editori avevano collane di ricerca letteraria che non erano indirizzate al profitto. Mi riferisco ad esempio alla einaudiana Gettoni di Vittorini e alla mondadoriana Tornasole di Sereni e Gallo. Credo che quel lavoro di ricerca lo svolgano oggi le piccole case editrici. In Sicilia cercai di mettermi in contatto con persone che parlassero la mia stessa lingua, che avessero i miei stessi interessi.

(Un poeta, mio amico, Basilio Reale, col quale m’ero confrontato e insieme al quale avevo mosso i primi passi, era rimasto a Milano). Presi a frequentare Lucio Piccolo e Leonardo Sciascia.

Il primo, di Capo d’Orlando, un paese a pochi chilometri dal mio, lo conoscevo fin da ragazzino. Era un barone, per me inavvicinabile. Ma un giorno lo incontrai per caso in una tipografia dove era andato per farsi stampare le poesie, mandate poi a Montale, che gli valsero il premio San Pellegrino e che lo fecero conoscere nel mondo letterario.

L’anno scorso, a Natale, ho avuto in regalo quel prezioso e ormai introvabile libretto, dal titolo 9 liriche, dal figlio del signor Zuccarello, il proprietario della tipografia Progresso di Sant’Agata di Militello. Frequentai assiduamente Piccolo, questo grande poeta di sconfinata cultura, cugino e antagonista di Tomasi di Lampedusa. Fu lui a insegnarmi la vera letteratura, la poesia e, insieme, a farmi amare certi libri di erudizione provinciale, ottocentesca, storie, guide, cataloghi, «pieni di insospettabile poesia» diceva, che furono miniere lessicali per me.

Ma presto non mi bastò più il solo mondo piccoliano: il fantastico, l’onirico, l’esoterico, 1l senso panico della natura, quello visionario, magico della vita, la poesia lirica, barocca, tesa e accesa fino alla preghiera, al rapimento estatico.

Cercavo, per arginare e contrastare quella malia, una scansione prosastica, razionale, una dimensione storica, critica, civile.

La trovai nel cuore più caotico e tenebroso di Sicilia, nel regno delle divinità ctonie, nell’inferno dell’aridità e dello zolfo. Lo trovai a Caltanissetta, in Leonardo Sciascia.

Avevo scoperto questo scrittore sin dai suoi primi libri: Le parrocchie di Regalpetra, Gli zii di Sicilia, Morte dell’inquisitore, Il Consiglio d’Egitto. Quella sua prosa cristallina e tagliente, di stampo agrigentino, di vibrazione francese e insieme di corposità spagnola, mi sembrò che per la prima volta nella letteratura siciliana, chiusa tra la poematica dialettale stagnazione verghiana e la vittoriniana stilizzazione tosco-americana (certo, bisogna considerare le eccezioni di De Roberto, di Pirandello, di Borgese eccezioni dati e quindi di Lampedusa, ma apriremmo qui un lunghissimo capitolo), mi sembrò, dicevo, che spalancasse un balcone da cui irrompeva luce e ossigeno.

Non conoscevo personalmente Sciascia e non osavo scrivergli. Lo feci soltanto quando pubblicai il mio primo libro e glielo mandai con una lettera in cui gli dichiaravo la mia riconoscenza per quello che mi aveva insegnato. Mi rispose: «Caro Consolo, proprio il giorno in cui ho trovato qui la sua lettera, e il libro, a Palermo avevo infruttuosamente cercato La ferita dell’aprile, di cui avevo letto recensione su “Paese

sera”

…». E alla fine aggiungeva: «Mi piacerebbe sapere quali sono i luoghi del suo racconto: per documentarmi su quelle particolarità storico-linguistiche che insorgono nel libro, e che hanno, a me pare, peculiare carattere». Dopo altri scambi di lettere e dopo un invito, andai a Caltanissetta a trovare Sciascia. Non ci andavo dagli anni della mia infanzia.

Era il settembre del ’43 quando feci il mio primo viaggio in Sicilia. Dico viaggio in Sicilia come se mi fossi mosso da un’altra terra, da una qualche regione al di là dello Stretto o al di là del Faro, come si diceva una volta. E in effetti era, la zona da cui partivo, il Val Dèmone, la Sicilia ai piedi dei Nèbrodi, tutt’affatto diversa dall’altra, sconosciuta, che si svolgeva al di là dei monti; la Sicilia delle vaste terre, del latifondo, dei grandi altipiani, della nudità e della scabrosità, delle solitarie masserie, dei paesi fittamente aggrumati sulle alture, dei cieli bassi, infiniti. Su un camion sgangherato, mio padre ed io percorremmo strade dissestate dalla guerra (l’occupazione degli Alleati s’era conclusa a Messina verso la metà dell’agosto appena scorso), strade che si interrompevano sopra i torrenti e le fiumare dove i ponti erano stati fatti saltare (bisognava proseguire per alvei pietrosi e polverosi o sopra traballanti ponticelli di legno), strade con ancora ai margini carcasse di carri armati, di camion, di cannoni, d’altri ordigni: i segni della guerra erano ancora là, in quei simulacri squarciati e affumicati dei giorni bui e tremendi della storia. La nostra meta era l’interno dell’Isola, alla ricerca di frumento, di fave, di lenticchie, di cicerchie, che da noi, terra di agrumi e di olive, mancavano del tutto.

Per quelle terre assolate e desolate, s’incontrava ogni tanto un contadino che con un cenno della mano ci invitava a fermarci per offrire, a noi viandanti, grappoli d’uva. Era ancora, quella, l’antica Sicilia contadina che neanche l’uragano della guerra era riuscito a cancellare.

Lasciato il bosco della Miraglia, per Troina, Nicosia e Leonforte, dopo Vallelunga, Villalba e Mussomeli, arrivammo un tardo pomeriggio a Caltanissetta.
Nella piazza Garibaldi, affollata di gente, contadini, zolfatari (forse la piazza dove, nell’alba silenziosa, alla partenza della corriera, si diffondeva la voce «implorante e ironica» del venditore di panelle de Il giorno della civetta), un uomo vendeva un giornale. «La forbice, La forbice!» strillonava l’uomo. Nella mia scienza di diligente scolaro di terza elementare, stigmatizzai dentro di me quel nome di giornale al singolare, non sospettandone l’allusione: Forbice come discussione critica, come fronda sui e ai fatti pubblici, i fatti nati nello spazio breve di quella piazza, tra la Cattedrale e il Municipio, e che riguardavano tutta la comunità. Una conversazione pubblica e democratica subito ripresa dopo il periodo fascista e l’interruzione della guerra.
Vent’anni dopo compivo il secondo viaggio a Caltanissetta, in un giorno di luglio del 64. Da Termini Imerese la littorina s’inoltrava in mezzo a un deserto di stoppie, di rocce, di colline nude e vaporanti, sostava davanti a stazioncine solitarie che portavano nomi di paesi invisibili – Roccapalumba, Fontanamurata, Marianopoli, Xirbi… -, dove c’era un solo ferroviere che agitava la sua paletta.
Caltanissetta sembrava costruita sulle pareti d’una miniera o di una cava, una sorta d’infernale imbuto dantesco. Era una città priva di monumenti, di bellezze, se si fa eccezione di due chiese barocche e d’un massiccio seicentesco palazzo Moncada. I fumi delle numerose zolfatare vicine, spinti dal vento sulla città, ingrigivano pietre e piante, scolorivano finanche gli abiti delle donne. Eppure Caltanissetta è stata da sempre la città degli zolfatari più consapevoli della loro condizione di operai e più combattivi, degli intellettuali, degli ingegni più vivaci dell’Isola. A Caltanissetta s’era rifugiato, lasciando Roma, Vitaliano Brancati. A Caltanissetta, durante la guerra, era giunto in treno, la valigia piena di stampa clandestina, Elio Vittorini. Viene prelevato alla stazione da un compagno operaio che lo porta a casa sua e gli fa mangiare, alle quattro del mattino, un fumante piatto di spaghetti.
A me sembrò, quella città, a confronto con la quieta zona del Messinese, col mio sonnolento paese, una piccola Atene. Attorno a Sciascia ruotavano poeti, pittori, saggisti, narratori, l’omonimo editore Salvatore Sciascia, per il quale Leonardo dirigeva una bella rivista letteraria, Galleria, e una collana di poesia. In questo sperduto centro zolfifero siciliano, in quegli anni pubblicavano i loro versi poeti che si chiamavano Paso-lini, Roversi, Romano, Caproni, Leonetti, Bevilacqua, Bodini, Fortini, Compagnone…
A me sembrò, Sciascia, un uomo che corrispondeva perfettamente al grande scrittore che era. Quella sua parca misura di gesti e di parole, quel suo controllato ma intenso disporsi verso gli altri, quella sua serena dimensione familiare – la moglie, le due figlie, quel suo modesto appartamento di maestro, nel girone alto della città, in via del Redentore – mi sembrarono, nella Sicilia turbinosa, vociante, istintiva e spesso isterica, un approdo, un’oasi di ragione e d’armonia.
Ma si capiva, nella vigile attenzione verso il mondo, nello sguardo acuto sugli uomini e le cose, che per lo scrittore quell’isola era una conquista, un approdo di salvezza dopo essersi lasciato alle spalle la tempesta. Quale? La Sicilia, certo.
La Sicilia della piazza, ma anche la Sicilia della casa.
Intuì forse che io, immerso nella tempesta, non avevo trovato ancora rifugio, terra d’approdo; che forse mai, leggendo quelle mie pagine di scrittura torbida ed espressiva, l’avrei trovata; che forse il mio destino, sulla pagina, nella vita, sarebbe stato quello della latitanza, della continua fuga dal marasma: della fuga dall’Etna.
La conversazione tra me e Sciascia s’interruppe solo con la morte nell’89 dello scrittore. Parlavamo di politica, di storia, di letteratura, del destino della Sicilia, del malaffare politico e della mafia.
Questo uno dei ricordi più belli, che riprendo da Le pietre di Pantalica: «L’incontro di Piccolo con Sciascia avvenne una domenica, il primo giorno in cui, dopo secoli, nelle chiese si celebrava la messa in italiano. Sciascia arrivò da Caltanissetta al mio paese e insieme andammo da Piccolo. Al congedo, sulla porta, Piccolo solennemente disse allo scrittore, indicando con la mano su per le colline: “Sciascia, la invito a scrivere di queste nostre terre, di questi paesi medievali”. “C’è qui Consolo”, rispose Sciascia. “Consolo è ancora giovinetto”, replicò Piccolo sarcasticamente (avevo trentatré anni!). Ma io presi quella frase come impegno verso Sciascia e come una sfida verso il barone». Sciascia era rimasto affascinato da quel poeta, da quel gran personaggio che era Piccolo. Erano, i due scrittori, quanto di più diverso, di più lontano si potesse immaginare, eppure nutrivano, l’uno per l’altro, stima e ammirazione. Sciascia scrisse sul poeta delle pagine dal titolo Le soledades di Lucio Piccolo, incluse ora in La corda pazza.
Intanto, il mondo contadino che avevo pensato di raccontare continuava a dileguarsi, a sparirmi sotto gli occhi. La scuola in cui insegnavo, in cui gli alunni, una volta diplomati in agraria, sarebbero stati costretti ad emigrare e a trasformarsi in operai, a Torino, a Sesto San Giovanni, in Svizzera o in Germania, mi sembrava una finzione, un’impostura. La Sicilia era ormai chiusa nelle strettissime maglie d’un potere mafioso, criminale. L’alternativa per me era quella di consegnarmi nelle mani di quel potere, farmi complice, accettando un qualsiasi incarico di tipo culturale, dei suoi furti e dei suoi assassinii, oppure fare le valigie, salire sul Treno del sole e emigrare. Decisi di partire.
 «Vai , mi disse Sciascia, «vai. Qui non c’è, niente da fare. Fossi più giovane, senza famiglia partirei anch’io.
 C’era anche la sollecitazione di una rivista letteraria come Il menabò, diretta da Vittorini e Calvino, che dibatteva sul rapporto tra industria e letteratura, a conoscere la nuova realtà industriale italiana, la nuova realtà sociale delle grandi città del Nord, in seguito all’immigrazione meridionale, a rappresentarla; e l’invito anche, da altra parte, agli scrittori a lasciare le vecchie professioni cosiddette liberali ed entrare nell’industria: era nato insomma il mito industriale, della fabbrica a misura d’uomo come l’Olivetti di Adriano.

Rimaniamo per un momento a Sciascia e Piccolo.
Una sua peculiarità è quella di avere individuato in questi due scrittori quasi due archetipi della condizione siciliana: quella di Piccolo è una condizione lirica, legata alla società agraria; quella di Sciascia, anche per filiazione da Pirandello, è piuttosto legata a una realtà siciliana paesana e cittadina, si potrebbe quasi dire operaia. Come si sono composte, o incrociate, o sovrapposte nella sua esperienza letteraria queste due sensibilità?

Lo stare a metà, al confine o alla confluenza dei due mondi, la Sicilia orientale e quella occidentale, era per me rischioso. In quella quiete o idillio in cui mi trovavo, in cui i segni della storia S’erano fatti labili, sfuggenti, e quelli della natura benigni, materni, il rischio era di scivolare nel sonno o nella malinconia, perdermi, perdere il bisogno e il desiderio di cercare le tracce intorno più significanti. Dalla mia Finisterre potevo muovere verso il centro del caos, verso il Vulcano, o verso lo iato dello Stretto, verso le fate morgane e i terremoti; o muovere verso l’occidente dei segni della storia profondi e affollati.
I due mondi avevano generato due letterature differenti: mitica, affabulante, lirica, fortemente segnata dalla forma l’una; l’altra, storicistica, civile, logica, dialettica, fino al sofisma pirandelliano e alla requisitoria sciasciana. Sì, Piccolo e Sciascia erano per me gli archetipi di quei due mondi.

Capii che quella mia rischiosa marginalità, quella mia incerta posizione poteva diventare punto di partenza nella costruzione di una identità. La quale poteva consistere nel far da ponte di passaggio fra quei due mondi, di composizione di quei due opposti. Poteva, quella identità, consistere in un movimento continuo dalla natura alla cultura, dal mito alla storia, dalla fantasia alla ragione, dalla poesia alla prosa. E mi sembrò poi questo movimento, questo partire ogni volta da lontano, dal profondo, e approdare al presente, alla superficie, l’essenza della narrativa: un ibrido, un incrocio di comunicazione ed espressione, di logico e di magico.

La novità più significativa del suo primo libro, La ferita dell’aprile, sta forse nella prosa: una prose che le permetteva di afferrare le cose, oltre che le parole, diversamente dallo sperimentalismo di Gadda e Pasolini. Vi è per esempio una corposa presenza, che ritornerà poi anche nel Sorriso dell’ignoto marinaio e soprattutto ne Le pietre di Pantalica, degli oggetti della tradizione contadina e popolare. Che cosa vuol dire l’evocazione di questa memoria della civiltà materiale?

Mi sono trovato, dicevo, nella dimensione spaziale, in una situazione di confine, di passaggio; nella dimensione temporale, in un momento di profonda trasformazione, di radicale cambia-mento: della fine del mondo contadino e della nascita di un altro mondo, di un’altra civiltà («Ogni fine è dolore, smarrimento ogni mutazione: stiamo calmi, pazienza…» ho scritto da qualche parte). Parlo degli anni a cavallo tra il ’50 e ’70. C’era stato il grande esodo verso il Nord, i contadini avevano buttato via i loro oggetti, le loro memorie e quindi avevano abdicato alla loro identità per potersi inserire nella civiltà urbana e industriale. Vittorini, proclamando diffidenza, giustamente, verso i dialetti, e soprattutto verso quelli meridionali, portatori di rassegnazione e conservazione, invitava linguisti e scrittori a studiare le nuove koiné, i nuovi linguaggi che si sarebbero
 formati dall’incontro dei dialetti meridionali con quelli
settentrionali. Nessuna nuova koiné è sorta, lo sappiamo, ma una superkoiné, una sopra-lingua, un nuovo italiano generato dal nuovo assetto economico e sociale e imposto dai media, quell’italiano tecnologico-aziendale che ha studiato e illustrato Pasolini nel 1964 in Nuove questioni linguistiche (ora in Empirismo eretico). Trovandomi dunque nel momento del grande passaggio, ho sentito la necessità di conservare la memoria di quel mondo finito, trapassato. Questa credo che sia la funzione della letteratura, quella di memorare. E una lotta, quella della letteratura, contro il potere, che cerca sempre di cancellare la nostra memoria per non farci avere consapevolezza del presente e non farci immaginare il futuro. Il nome del primo narratore della nostra civiltà, di Omero, significa ostaggio: di chi, di che cosa? Della memoria, della tradizione.
Non si può scrivere sulla frattura, sulla cancellazione, sul vuoto. Da qui nasce forse la mia necessità di riesumare un certo patrimonio lessicale, di nominare gli oggetti, di evocare personaggi emblematici di quel mondo scomparso. Il poeta-etnologo Antonino Uccello è il personaggio centrale e simbolico de Le pietre di Pantalica. L’uomo che materialmente (e l’avverbio qui prende una doppia significazione) ha fatto – raccogliendo gli oggetti buttati via dai contadini, custodendoli in un museo, il museo della memoria – ciò che dovrebbe fare sulla pagina lo scrittore.

Questo è un fatto di grande drammaticità, su cui forse non abbiamo riflettuto abbastanza…

Neanche la sociologia se ne è occupata abbastanza. In Europa, nessun paese come l’Italia ha subito un cambiamento così radicale e repentino, con le tremende conseguenze: culturali, linguistiche, politiche, etiche… Conseguenze che ancora oggi paghiamo.


Ad un certo punto della sua biografia sembra che avvenga una rottura rispetto a questo mondo siciliano, di cui ci ha tracciato fin qui tutte le coordinate, sia dal punto di vista letterario, che da quello sociologico: è il momento dell’emigrazione a Milano nel 1968, data cruciale che cambia le cose al punto da portarla a scrivere Il sorriso dell’ignoto marinaio, un romanzo che sembra una dichiarazione d’amore finale, ma anche una presa d’atto rassegnata della fine irreversibile di un mondo.
Vincenzo Consolo a Sant’Agata Militello, 1967- piazza Duomo.

Sì. Come ho raccontato prima, quando ho visto che quel mondo che volevo rappresentare era finito, che dal punto di vista politico in Sicilia non c’era più speranza, ho fatto la valigia e sono ripartito per Milano, per quella Milano che avevo lasciato poco più di una decina d’anni prima. Voglio qui ricordare un episodio significativo del clima politico che s’era instaurato in Sicilia, e non solo lì. Nel marzo del ’66, a Tusa, un paese sopra i Nèbrodi, dalla mafia dei pascoli, comandata da maggiorenti democristiani, viene ucciso un sindacalista, Carmine Battaglia (ho scritto poi su «L’Ora» di Palermo un racconto dal titolo Per un po’ d’erba al limite del fendo). Vado al funerale. Arriva, con una macchina di rappresentanza, con autista e segretario, un assessore socialista appena entrato nel governo regionale di centrosinistra, scende, va incontro deciso al gruppo dei comunisti che aspettavano con le loro bandiere di mettersi in corteo, e dice, minaccioso: «Non facciamo scherzi. Il morto è nostro!». No, non c’era più speranza.

Una curiosità, a questo punto: lei parla sempre del potere, però non esprime mai critiche nei confronti delle forze di sinistra…

Se per forze di sinistra intendiamo il partito comunista, sì, gli si possono fare infinite critiche. Ma mi sovviene d’una frase di Brancati che Moravia amava citare: «In Sicilia, per essere almeno liberali bisogna essere comunisti». Frase che può sembrare paradossale, ma in Sicilia i paradossi sono di casa. L’unica speranza laggiù era dunque il partito comunista, con tutte le sue ipoteche, con tutti i suoi errori. Prima di emigrare a mia volta, andavo spesso alla stazione ferroviaria del mio paese a vedere quei treni, provenienti da Palermo e diretti in Continente, che venivano letteralmente assaliti – scene tremende – dagli emigranti che lì convergevano dai paesi dell’entroterra. Una volta una donna, con tutte le sue valigie e i suoi fagotti, disperata, si mise a insultare la sua terra, come se fosse stata una persona: «Porca Sicilia, puttana Sicilia!» urlava. C’era quel giorno alla stazione un deputato regionale del Pci, un intellettuale, uno ché poi a Roma avrebbe diretto la rivista Critica marxista. Lo affronto e gli chiedo: «Cosa avete fatto voi per evitare tutto questo?!». Mi risponde qualcosa che non sento neanche. Che risposta poteva mai darmi? Gli giro le spalle e vado via. I comunisti, certo, di fronte alla decisione del governo credo che abbiano potuto far poco; spero che non siano stati d’accordo nella decisione di spostamento o deportazione di braccia da lavoro dal Sud al Nord. Ma forse l’hanno voluto anche loro. C’era, anche nei marxisti, la mitologia operaia e operaista. Voglio comunque ribadire che il comunismo e il socialismo erano in Sicilia una grande speranza, l’unica speranza.

Era una speranza rivolta soprattutto alla Sicilia agraria, o c’era anche altro?

Lo scontro tra contadini e agrari o fra contadini e potere politico espresso dagli agrari si giocava sulla riforma agraria, sullo scorporo dei feudi, sull’assegnazione delle terre incolte o mal coltivate, e aveva radici lontane: nei Fasci socialisti.

Ci furono morti nel 1893-94, nel 19-20, negli anni 43-50. Quando infine la riforma agraria si attuò, non aveva più senso: l’economia agricola stava cominciando a morire e, in più, ai contadini erano state assegnate pietraie o terre irraggiungibili, impraticabili, prive d’acqua. Quella democristiana fu uguale alla riforma agraria attuata nel ’39 dal fascismo, passata guerrescamente sotto il nome di «Assalto al latifondo»: una burla, una beffa. Credo che il partito comunista abbia potuto far poco in tutto questo. Credo che le decisioni siano state prese fuori d’Italia, a Bruxelles.

A riguardo però bisogna anche considerare alcuni meccanismi economici «spontanei». C’era un problema, stando ai parametri delle agricolture occidentali più progredite: c’era una forte sovrappopolazione, un carico eccessivo di braccia sulla terra. Naturalmente con un altro governo il processo poteva essere fisiologicamente regolato; così non avvenne, e ci fu invece l’esodo più drammatico…

Certo, arrestare la storia non si può. Se l’agricoltura a un certo punto non ha più funzione… Ma da questo a far diventare le regioni meridionali terre di conquista e di rapina… In Sicilia sono arrivati i petrolieri del Nord ad impiantare le loro raffinerie ad Augusta, a Melilli, a Priolo, a Gela, a Milazzo (qui, ancora nel giugno del ’93, sette uomini morivano carbonizzati per lo scoppio di una caldaia), rastrellando sovvenzioni dallo stato, dalla regione, sconvolgendo il paesaggio fisico e quello umano. Hanno deturpato e degradato città come Augusta (in mezzo ai tralicci e alle miriadi di ciminiere di fuochi e di fumi vi sono le antiche rovine di Tapsos e di Megara Iblea, dove arrivarono i primi coloni greci), come Siracusa, che sono patrimoni culturali che appartengono a tutti; hanno fatto diventare orrendi inferni, paesi da Far West, giungle di degrado e di violenza cittadine come Gela o Licata. Quel mito industriale si è rivelato appunto un’illusione (anche Vittorini ha creduto in quel mito scrivendo quel romanzo, uscito postumo, dal titolo Le città del mondo): i frutti che si sono raccolti sono stati ben miseri e sono stati pagati a caro prezzo, in sconvolgimenti e in veleni (a Melilli le donne partorivano bambini deformi). La gente in quei paesi ha continuato ad emigrare e i tecnici arrivavano lì dal Nord, rimanendo, con le loro famiglie, separate dal resto della popolazione, come i tecnici americani nel Kuwait.

Sono i temi di un saggio di Enzensberger che a lei piace spesso citare e che ha un titolo programmatico: Letteratura come storiografia: da una parte una pratica accademica della storia, tesa a trovare una ragione «oggettiva» dei fenomeni; e dall’altra parte la letteratura, che cerca di trovare le ragioni individuali, di compiere una descrizione particolare, specifica di quello che accade, una descrizione, soprattutto, filtrata dalla coscienza dei singoli individui. Ma torniamo a Milano, al 68 a Milano.

Ritorno a Milano. Non è stato facile. Avevo trentacinque anni e andavo incontro a una nuova avventura. L’emigrazione poi è una tale violenza: verso il proprio ambiente, gli amici, i parenti, se stessi. Ho viaggiato la notte di San Silvestro del 67.
Nei pressi di Salerno, ho dovuto trattenere, afferrandolo per la giacca, un uomo completamente sbronzo che voleva scendere dal treno in corsa. Il giorno di Capodanno del 68 sono arrivato in una Milano fredda, piena di neve. L’indomani mi sarei dovuto presentare al posto di lavoro, alla Rai. Che mi si rivelò subito, come e più di qualsiasi ente pubblico siciliano, completamente ipotecata dal potere politico, dalla mafia partitica (dall’Opus Dei, ai fascisti, ai democristiani, ai socialisti, ai comunisti). Era il regno dell’ignoranza, dell’impostura, della stupidità. Mi ci trovai subito male, naturalmente, e l’azienda si trovò male con me. Subito mi emarginò, cercò in tutti i modi di farmi fuori, di licenziarmi: non avevo un partito dietro, ero senza tessera. Mi vergognavo di lavorare alla Rai, la consideravo nefasta come una fabbrica di armi. Così dicevo: «Lavoro in una fabbrica di armi» a chi mi chiedeva.

Un principe siciliano, nella sua bella casa di corso Magenta, mi diceva che qualche anno prima di me era arrivato a Milano con trecentomila lire in tasca. Io ne avevo cinquecentomila di lire in tasca, ma non avevo certo le sicurezze del principe, non avevo il palazzo a Palermo e la villa settecentesca a Bagheria. Quei soldi erano tutto il mio patrimonio, quanto ero riuscito a risparmiare negli anni d’insegnamento. Ero comunque sempre con la valigia sotto il letto, subito a tornare indietro. Per fortuna conobbi subito la donna che poi diventò mia moglie, che era ricca di concretezza, e di ottimismo. Era poi una delle cinque o sei persone che avevano letto il mio primo libro, che l’editore s’era affrettato a mandare al macero.
Dal 68 al ’76 subii una sorta di blocco, non riuscii a scrivere, mi resi conto che non avrei mai potuto raccontare in forma letteraria la realtà milanese: mi mancava la memoria del mondo industriale, mi mancava il linguaggio. A Milano mi si presentò subito una realtà sociale in conflitto, drammatica. Quindici giorni dopo il mio arrivo, avvenne il terremoto nella valle del Belice. Avevo fatto, l’estate prima, un giro per quei bellissimi paesi che non conoscevo: Partanna, Santa Ninfa, Gibellina, Montevago, Santa Margherita Belice… Il cuore d’un antico mondo contadino. Mi sembrò quindi quel viaggio come una sorta di ricognizione di congedo, da quei paesi materialmente cancellati dal disastro naturale, dalla Sicilia che sarebbe stata cancellata in altro modo.
Andai alla Stazione Centrale con un fotografo siciliano a vedere gli scampati che arrivavano, che dovevano raggiungere parenti nell’hinterland milanese. Giornalisti radiotelevisivi, con la Promessa di accompagnarli in macchina nei vari Paesi, carpivano frasi, singhiozzi, lacrime e poi li abbandonavano lì nei sotterranei d’accoglienza della stazione. Spaesamento e blocco, dicevo, a Milano. Riuscivo soltanto a scrivere sui giornali, a raccontare quello che accadeva su «L’Ora» di Palermo, in una rubrica settimanale che si chiamava pateticamente Fuori casa (ma Fuori di casa era pure il titolo d’una raccolta di corrispondenza dall’estero di Montale), e su Il Tempo illustrato, un settimanale dove allora scrivevano, tra gli altri, Pasolini, Bocca, padre Davide Maria Turoldo. Ho pubblicato varie inchieste su quel giornale, ne ricordo una sulle cave di pomice dell’isola di Lipari. Erano cave di proprietà di Sindona. Forse da lì mi venne l’idea del secondo libro, Il sorriso dell’ignoto marinaio, nel vedere quei cavatori di pomice ammalati di silicosi muoversi fra i cunicoli della montagna bianca e abbagliante, in una dimensione di condanna metafisica; e anche, forse, da altre cose che m’ero portato dentro dalla Sicilia: la memoria di un paese come Cefalù, il Ritratto d’ignoto di Antonello che avevo visto al museo. Capii insomma che per poter raccontare Milano, il momento storico che stavamo vivendo, sarei dovuto ripartire dalla Sicilia, dalla mia memoria, dal mio linguaggio. Potevo raccontare in modo metaforico, ricorrendo al romanzo storico. Per questo sono riandato indietro nel tempo, arrivando a un topos storico frequentato da quasi tutta la letteratura siciliana, da Verga a De Roberto, a Pirandello, a Sciascia, a Lampedusa: il 1860. Si parte sempre da lì, dall’Unità d’Italia, per cercare di capire le ragioni del malessere siciliano, meridionale, e quali siano stati gli errori, i problemi che ci siamo portati dietro e che si sono perpetuati nel tempo. Va da sé che a me non interessava né Garibaldi né Bixio, ma altro; erano i temi che si dibattevano allora, negli anni settanta, che mi interessavano: l’intellettuale  di fronte alla storia, il valore della scrittura, la storiografia e la letteratura, la sorte di chi non ha la capacità e la possibilità di esprimersi, di chi ha sempre pagato le spese della storia, il superamento della ragione e dell’ironia con la fantasia creatrice… Questi erano i temi del romanzo, che voleva essere nuovo, originale dal punto di vista strutturale e linguistico. Dal ’63 al ’76 erano passati tredici anni: una pausa scandalosa, da latitante o da dilettante.

Si tratta, comunque, solo parzialmente di una pausa, perché nel ’69 uscì un’anteprima del Sorriso dell’ignoto marinaio pubblicata su «Nuovi Argomenti»,

Sì, il primo capitolo apparve su «Nuovi Argomenti», L’avevo mandato prima a «Paragone», la rivista di Roberto Longhi e Anna Banti, perché il tema che faceva da Leitmotiv era il ritratto di Antonello. Longhi, in occasione della mostra del 53 a Messina di Antonello aveva scritto un bellissimo saggio dal titolo Trittico siciliano. Nessuno mi rispose. Nel 69 venne a Milano Longhi Per presentare la ristampa del suo Me pinxit e quesiti caravaggeschi. Lo avvicinai. «Mi chiamo Consolo» gli dissi «ho mandato un racconto a Paragone…». Mi guardo con severità, mi rispose: «Sì, sì, mi ricordo benissimo. Non discuto il valore letterario, però questa storia del ritratto di Antonello che rappresenta un marinaio deve finire!». Longhi, nel suo saggio, polemizzava con la tradizione popolare che chiamava il ritratto del museo di Cefalù «dell’ignoto marinaio», sostenendo, giustamente, che Antonello, come gli altri pittori allora, non faceva quadri di genere, ma su commissione, e si faceva ben pagare. Un marinato mai avrebbe potuto pagare Antonello.
Quello effigiato lì era un ricco, un signore.
Lo sapevo, naturalmente, ma avevo voluto fargli «leggere» il quadro non in chiave scientifica, ma letteraria. Mandai quindi il racconto a Siciliano, che lo pubblicò su «Nuovi Argomenti».
Il romanzo uscirà nel ’76 da Einaudi.

È significativa la sua vicenda: lei torna a Milano e pur avendo tutti gli strumenti razionali per analizzare quella realtà urbana e industriale non riesce a raccontarla. Dunque, per rappresentare in  scrittura  letteraria una realtà non bastano gli strumenti razionali, ma bisogna poter disporre di qualche altra cosa.

Beh, l’altra cosa è lo stile. Lo stile, il linguaggio sono quello che si spera faccia nascere la poesia, perche altrimenti non vedo come la letteratura possa distinguersi dalla storiografia, dall’indagine sociologica. La letteratura e tale in quanto è scrittura, in quanto è stile.

E lo stile e la scrittura sono inscindibili dall’attraversamento personale di una esperienza storica. Inscindibili dalla memoria. Memoria lontana di cose viste e udite, di cose lette, con cui la memoria vicina, il ricordo si fonde e prende forma e senso.

Vincenzo Consolo
Fuga dall’Etna Donzelli Editore, Roma 1993

Enzo Sellerio: Fotografia e/o racconto. Vincenzo Consolo.