Vincenzo Consolo si racconta: un contributo autobiografico inedito

Il 18 febbraio 1933 ricorre la nascita di questo autore centrale nella storia della letteratura italiana del Novecento. Attraverso le sue stesse parole ne ripercorriamo la biografia e il senso della sua opera.
Un articolo di Giulia Mozzato

Vincenzo Consolo è stato un autore centrale nella storia letteraria italiana del Novecento. In modo particolare per lo studio sistematico della lingua e della sua evoluzione, per il recupero della forma narrativa poetica, per la raffinatezza della scrittura, per le tematiche sociali che sono state al centro del suo lavoro.
Un uomo fisicamente non alto, non imponente, ma che entrando in una stanza portava con sé una presenza carismatica molto forte, pur con un atteggiamento di estrema disponibilità.

Nel 2004 fu protagonista di una lezione nell’ambito del corso di scrittura creativa che organizzammo. Abbiamo sempre conservato la registrazione di quella lezione, sapendo che si trattava di un contenuto importante, unico.

In quelle parole ritroviamo oggi la sua biografia e il senso della sua opera.

Un contributo prezioso che in occasione dei 90 anni dalla nascita (era nato a Sant’Agata di Militello il 18 febbraio 1933 ed è purtroppo scomparso nel 2012) vogliamo condividere con i nostri lettori.

Non ho mai creduto all’innocenza, innocenza di chi intraprende una strada d’espressione, sia essa letteraria, musicale o pittorica… certo ci sono stati i naïf, i cosiddetti nativi, ma sono casi rarissimi di felicità innocente. Quando si intraprende un cammino espressivo bisogna essere consapevoli di quanto sia importante ciò che ci ha preceduto nel momento in cui abbiamo deciso di muovere i primi passi e di quello che si sta volgendo intorno a noi nel momento in cui ci accingiamo a scrivere. Questo è successo a me.

Sono nato in Sicilia, ma volevo vivere a Milano

Sono nato in Sicilia e ho fatto i miei studi a Milano, la Milano degli Anni ’50, una Milano con le ferite della guerra ma pure con un’anima popolare, direi “portiana”, che ancora si conservava in quegli anni.
In piazza Sant’Ambrogio ho frequentato l’Università Cattolica, non per convinzione religiosa, ma perché sono capitato lì per caso; in questa piazza vedevo arrivare la sera un tram, senza numero, pieno di migranti provenienti dal meridione. Lì c’era un grosso casermone, un ex-convento del Settecento, in parte destinato alla caserma della celere, e in parte a un “Centro orientamento immigrati”. Questi tram provenienti dalla stazione Centrale scaricavano gli emigranti che venivano sottoposti a visite mediche ed erano poi avviati in Belgio, nelle miniere di carbone, o in Svizzera o in Francia. Io, da studentello privilegiato, osservavo e non capivo cosa stesse succedendo; mi ricordo però queste persone già equipaggiate con la mantellina cerata, il casco e la lanterna.
Spesso erano miei conterranei che avevano lasciato le miniere dello zolfo perché la crisi ne aveva causato la chiusura, e quindi passavano a quelle di carbone; poi sapete che a Marcinelle ci fu quella grande tragedia con numerosi italiani morti… Osservavo questa realtà, mentre in quegli anni avevo maturato l’idea di fare lo scrittore pur frequentando la facoltà di giurisprudenza.
Milano per me era la città dove era stato Verga, dove c’erano Vittorini e Quasimodo, quindi per me era la città giusta dove approdare. Ho insistito coi miei per spostarmi a Milano, specie perché avevo il desiderio di incontrare Vittorini: Conversazione in Sicilia per me era una sorta di vangelo che mi accompagnava da tempo. Ma insieme a Conversazione in Sicilia, dal punto di vista essenzialmente letterario e narrativo, c’era stato tutto un bagaglio di letture che mi aveva formato in quegli anni, ed era tutta la letteratura meridionalista, come Gramsci o Salvemini sino a Carlo Doglio, a Carlo Levi con Cristo si è fermato a Eboli o con Le parole sono pietre, e Sciascia.

Tutte letture non propriamente letterarie ma di ordine storico-sociologico sulla questione meridionale.
Finita l’Università ho pensato di voler fare lo scrittore di tipo “testimoniale”, storico-sociologico sulla linea non di Vittorini ma di Carlo Levi, di Dolci, e del primo Sciascia.
Tornato in Sicilia dopo la laurea, mi sono rifiutato di fare il notaio o l’avvocato o il magistrato e ho insistito coi miei genitori per fare l’insegnante. Ho insegnato diritto, educazione civica e cultura generale in scuole agrarie, perché era questo il mondo che volevo conoscere: i paesi sperduti di montagna. La mia curiosità e la mia felice voracità di lettore – non c’era la televisione a quell’epoca e quindi il mondo lo si poteva conoscere solo attraverso i libri – mi portava verso letture di riviste, dibattiti culturali. Seguivo tutti i dibattiti culturali dell’epoca, come l’esperienza vittoriniana della collana dei “Gettoni”, una collana di ricerca dove sono usciti i maggiori scrittori dell’epoca come Bassani o lo stesso Sciascia; e poi la rivista letteraria che dirigevano allora Vittorini e Calvino, “Il Menabò”.

Non c’era l’affollamento che c’è oggi di un’enorme quantità di libri pubblicati, all’epoca i libri si potevano ancora memorizzare, si capiva come collocarli, l’importanza che potevano avere. Comunque, quando mi accinsi a scrivere il mio primo libro, l’intenzione era di restituire la realtà contadina in forma sociologica, mettendomi sul coté “leviano” di Sciascia, invece poi sia l’istinto sia la consapevolezza, mi portarono in una direzione letteraria e narrativa, narrativa però nel senso più ampio della parola.
Ho subito preso la decisione di praticare dei temi storico-sociali, che non erano dei temi assoluti, ma erano dei temi relativi. Questo mi permetteva di svolgere attraverso la scrittura quella che era la mia visione del mondo, quella che era la mia visione storico-sociale, non esistenziale, che era poi il bagaglio di cui mi ero nutrito.

Scrittura e tematiche

Il problema principale era scrivere sì del mondo che conoscevo, del mondo che avevo praticato, di cui avevo memoria, ma con quale stile, con quale linguaggio, con quale tipo di scrittura?
In quegli anni si esauriva una stagione letteraria che è andata sotto il nome di “neorealismo”, tutta la letteratura del secondo dopoguerra di tipo memorialistico, una scrittura nobilissima, certamente, ma una scrittura assolutamente referenziale, comunicativa.
Ho riflettuto: gli scrittori che mi avevano preceduto di una generazione, ma neanche, con lo scarto di dieci anni (e parlo di scrittori autentici, grandi, come per esempio Moravia, o Elsa Morante, o Calvino, o lo stesso SciasciaBassani e tanti altri) avevano vissuto il periodo del fascismo e della guerra, e avevano continuato a scrivere anche nel secondo dopoguerra in uno stile assolutamente comunicativo, in uno stile razionalista o illuminista che dir si voglia.
Non potevo scegliere quel registro stilistico, non potevo praticare quella lingua. Mi sono convinto che questi scrittori, avendo vissuto il periodo della guerra e del dopoguerra, avevano nutrito la speranza che con l’avvento della democrazia potesse nascere in questo paese una società più giusta, democratica, armonica con la quale poter comunicare.
Avevano un po’ lo schema della Francia dell’Illuminismo, la Francia del Razionalismo, dove una società si era già compiuta, già formata all’epoca di Luigi XIV, ma poi, con le istanze della rivoluzione, era avvenuta quella novità di riconoscimento di equità e giustizia nelle società civili. Ho chiamato il registro che avevano scelto quegli scrittori, il “registro della speranza”.
Pur avendo vissuto l’esperienza della guerra, ai tempi ero un bambino, mi sono formato nel secondo dopoguerra e ho visto che la speranza che questi scrittori avevano nutrito non c’era più. C’erano state le prime elezioni in Sicilia del ’47, con la vittoria del blocco del popolo, la sinistra aveva avuto la maggioranza assoluta in questa prima prova elettorale, ed erano seguite le intimidazioni. C’era stata la strage di Portella della Ginestra, e poi le elezioni del ’48 con la vittoria della DC; io osservavo, dal mio angolo di mondo, che quella società giusta, armonica, che si sperava e a cui si tendeva, non si era realizzata, ed erano rimaste disparità, ingiustizie e molti problemi ereditati dal passato.
Quindi per me la scelta di quella lingua, di quello stile comunicativo, era assolutamente impensabile, io non potevo praticare quel codice linguistico che era il codice linguistico “centrale”, quel toscano che poi, valicando le Alpi, attingeva a una specie di reticolo illuministico francese: la lingua di Calvino, di Sciascia o Moravia… anzi di Moravia si diceva che scrivesse con una lingua che pareva tradotta da una lingua straniera. A Moravia interessava restituire gli argomenti più che dare attenzione allo stile, un po’ come Pirandello che aveva inventato un tale mondo inesplorato nel quale la lingua era assolutamente funzionale a quello che voleva comunicare; e quindi la mia scelta fatalmente andò in un senso opposto, cioè in un contro-codice linguistico che non fosse quello centrale e che fosse un codice di tipo sperimentale-espressivo.
Naturalmente non avevo inventato niente, ma fatalmente mi collocavo in una linea stilistica che partiva nella letteratura moderna, che partiva da Verga, e arrivava agli ultimi epigoni: GaddaPasoliniMastronardiMeneghello. Sperimentatori o espressivi che dir si voglia, una linea che ha sempre convissuto nella letteratura italiana con l’altra.
Però le tecniche degli sperimentatori-espressivi naturalmente sono personali, variano da autore ad autore; per esempio Verga s’era opposto all’utopia linguistica del Manzoni. Manzoni voleva “sciacquare i panni in Arno”, cioè riteneva che l’Italia, dopo la sua unità, dovesse avere una lingua unica, e così, dopo aver scritto Fermo e Lucia  ha scritto I promessi sposi nella lingua “centrale” toscana, ma pure lui i panni li aveva già portati umidi dalla Senna, essendosi formato anche con l’illuminismo francese.

Verga è stato il primo che ha rivoluzionato questo assunto della centralità della lingua inventando una lingua che nella letteratura italiana non era mai stata scritta, un italiano che non era dialetto (Verga aborriva il dialetto) ed era una lingua appena tradotta dal siciliano all’italiano, in primo grado, diciamo, quella che Dante, nel De vulgari Eloquentia chiama “la lingua di primo grado”; Pasolini invece definisce la lingua di Verga “un italiano irradiato di italianità”.
Verga rappresenta i contadini di Vizzini oppure i pescatori di Aci Trezza che non avrebbero mai potuto parlare in toscano, sarebbe stata un’incongruenza.
Io mi inquadravo in questa grande ombra verghiana, che passava per gli scapigliati milanesi della prima rivoluzione industriale milanese del 1872, e arrivava, man mano negli anni, al polifonico Gadda e a Pasolini.
La tecnica di Pasolini e di Gadda era simile perché partivano dal codice centrale, dalla lingua toscana e poi, man mano, regredivano verso le forme dialettali, con l’immissione, l’irruzione dei dialetti nella lingua scritta, nella lingua italiana; sennonché in Gadda c’è una polifonia di dialetti, soprattutto in quel capolavoro che è Quel pasticciaccio brutto de via Merulana, dove sono orchestrati oltre al romanesco gli altri dialetti italiani; invece in Pasolini troviamo la digressione verso il romanesco del sottoproletariato romano; in Meneghello ci sono altre implicazioni, in Mastronardi altre, e potrei fare il nome di un altro scrittore siciliano come D’Arrigo autore di quell’opera enorme che si chiama Horcynus Orca.

La tecnica che mi sono imposto è stata la tecnica dell’innesto. Ho trovato a mia disposizione un giacimento linguistico ricchissimo, quello della mia terra, la Sicilia. Senza mitizzare, enfatizzare questa mia terribile terra, c’è in essa una stratificazione linguistica enorme. Oltre ai templi greci o arabo-normanni, vi sono pure giacimenti linguistici che hanno lasciato le diverse civilizzazioni, a partire dal greco, poi l’arabo o il latino, lo spagnolo, il francese… Ho pensato che bisognava reimmettere nel codice centrale questo glossario, queste forme sintattiche che erano state espunte e riprendere queste parole che avevano una loro dignità filologica, che avevano una loro storia, e inserirle nella scrittura, nel mio codice, nel mio modo di scrivere.
Non era il cammino inverso, cioè la corruzione dell’italiano che diviene dialetto, ma era l’opposto cioè la profondità di certi vocaboli, di certi modi di dire che venivano reimmessi da queste antichità nel codice centrale, ubbidendo a un’esigenza di significato, perché il vocabolo greco, il vocabolo arabo o spagnolo, mi dava una pregnanza maggiore del vocabolo italiano, era più pregno di significato e portatore di una storia più autentica.
Ecco: la ricerca era proprio in questo senso e poi l’organizzazione della frase e della prosa, in senso ritmico e prosodico.

Struttura e lingua

Dal primo libro – La ferita dell’Aprile -, ho cercato di dare una scansione ritmica alla frase, provando ad accostare quella che è la prosa illuministica, comunicativa, in cui l’autore “autorevole” alla Manzoni, interrompe di tempo in tempo la narrazione e riflette sulla storia che sta raccontando per dialogare con il lettore, per introdurre un ragionamento di tipo filosofico.
Nietzsche fa una divisione parlando della nascita della tragedia greca: il passaggio dalla tragedia antica, di Eschilo e di Sofocle, alla tragedia moderna di Euripide. Dice che nella tragedia di Euripide, che lui chiama la tragedia moderna, c’è l’irruzione dello spirito socratico: i personaggi iniziano a riflettere, a ragionare e non più a cantare come avveniva nella tragedia antica, dove usciva l’”anghelos”, che era il messaggero che si rivolgeva al pubblico e narrava l’antefatto, quello che era avvenuto in un altro momento e in un altro luogo; da quel momento poteva iniziare la tragedia, cioè i personaggi iniziavano ad agire, a parlare.. poi c’era il coro che commentava e lamentava la tragedia che si stava svolgendo. Nietzsche dice che nella tragedia antica c’è lo spirito dionisiaco, musicale, poetico, mentre nella tragedia moderna prevale lo spirito socratico, cioè la filosofia e la riflessione.


Può apparire eccessivo da parte mia ricorrere a paragoni talmente aulici, ma in questo nostro tempo, nella nostra civiltà di massa, con la rivoluzione tecnologica, sulla scena non può più apparire l’”anghelos”, il messaggero non può più usare quel linguaggio della comunicazione con cui fare iniziare la tragedia perché l’autore non sa più a chi si rivolge. Quindi ho spostato la prosa verso la forma del coro, del coro greco, dandole un ritmo di tipo poetico, eliminando la parte autorevole dell’autore e quella della riflessione. La prosa si presenta così come un poema narrativo, come quello che praticavano nel Mediterraneo i famosi Aedi di omerica memoria. Penso che la scrittura comunicativa non sia più praticabile, perché si è rotto il rapporto tra il testo letterario e il conteso, quello che si chiama il contesto “situazionale”. Non c’è più rapporto, a meno che non si vogliano praticare le forme mediatiche e quindi si scriva nell’italiano più corrente, più corrivo, quello che non denuncia la profondità della lingua, una lingua che è portatrice di storia, memoria anche collettiva.


La  mia ricerca è proseguita negli anni con gli altri libri, dal primo libro sino all’ultimo Lo spasimo di Palermo, in modo sempre più accentuato. Non solo ho organizzato la frase in forma metrica, ritmica, ma nel contesto della narrazione invece di inserire riflessioni di tipo filosofico, di immettere la scrittura saggistica dentro alla scrittura narrativa – come teorizzato da Kundera, il quale, nella sua teoria del romanzo, sostiene la necessità di interrompere la narrazione e d’inserire delle parti riflessive-saggistiche –  interrompo la narrazione per alzare il tono della scrittura in una forma ancora più alta, in una forma ancora più poetica, un po’ come se subentrasse il coro della tragedia greca: sono parti corali che fanno da commento all’azione che sto raccontando, alla narrazione che sto svolgendo, alle vicende che sto narrando.

Le opere

Torno al mio primo libro che parla del secondo dopoguerra in Sicilia, un libro scritto con un io-narrante adolescente, dove parlo della vita politica, della vita sociale, delle prime elezioni, del ’48. Lì ho scelto questo stile, usando anche nell’organizzazione della frase le rime e le assonanze, ma in senso comico-sarcastico, come parodia della società degli adulti che l’adolescente che scrive critica e non condivide.
Il mio primo libro è in prima persona, come spesso accade agli esordi perché si attinge a quelli che sono i ricordi: il primo libro è una sorta di libro di formazione, di iniziazione, di educazione sentimentale.
Credo che dopo il primo libro non si possa più praticare la prima persona, bisogna invece trattare quello che è il proprio progetto letterario, cioè cercare la propria identità: che cosa sono, dove voglio arrivare, chi voglio essere.

Il secondo mio libro si chiama Il sorriso dell’ignoto marinaio, e qui devo fare un‘altra digressione autobiografica: dal primo al secondo libro sono passati quasi 13 anni in cui venivo considerato quasi un latitante dalla scrittura letteraria. Ma questo lasso di tempo ha coinciso con la mia seconda venuta a Milano, nel 1968, dopo essermi reso conto che la mia attività di insegnante era assolutamente inutile perché il mondo contadino era finito, come aveva osservato Pasolini.
Milano mi sembrava la città più interessante -, che io tra l’altro già conoscevo – perché qui si svolgeva la storia più accesa, quella del ’68, con un grande dibattito culturale, politico, coi grandi conflitti tra il mondo del lavoro e quello del capitale, cioè tra gli imprenditori e gli operai. Mi sembrava importante e interessante approdare non a Roma o a Firenze ma a Milano, sollecitato, allora, dalla lettura dei “Menabò” di Vittorini e di Calvino che invitavano, proprio in questo momento storico importante e acuto, i giovani autori ad inurbarsi, studiando la grande trasformazione italiana perché il mondo contadino era finito sostituito da un nuovo paese che bisognava narrare, che bisognava rappresentare.

Così mi trovai qui nel ’68, ma spaesato e spiazzato perché di fronte a una realtà urbana e industriale che non conoscevo, di cui non avevo memoria e di cui mi mancava il linguaggio: se posso permettermi di fare un paragone, la stessa sorte l’ha avuta Verga, approdato a Milano nel 1872 nel momento della prima rivoluzione industriale, una città che si ingrandiva, aprendo nuove fabbriche: la Pirelli era nata proprio nel 1872 per la lavorazione della gomma… dove vi erano stati i primi scontri, i primi scioperi dei lavoratori per richiedere diritti. Pure il signor Verga rimase spiazzato e qui a Milano avvenne la sua famosa conversione: non riuscendo a capire questo nuovo mondo lui, come scrive Natalino Sapegno, ritornò con la memoria alla Sicilia “intatta e solida” della sua infanzia; iniziò il nuovo ciclo di Verga con Le novelle rusticane e poi con il suo capolavoro I Malavoglia.


Anch’io rimasi spiazzato, ma non feci la stessa scelta di Verga. Credo nella storia e credo che l’uomo possa intervenite nella storia; non ho avuto il ripiegamento ideologico che ha avuto Verga, ma ho pensato che per rappresentare l’Italia e soprattutto Milano di quegli anni, le grandi istanze, le grandi richieste di mutamento di questa nostra società, dovevo assolutamente ripartire dalla mia terra, dalla Sicilia, scegliendo un topos storico qual è il 1860 che mi pareva somigliante al 1968 in Italia, e non solo. Ho pensato appunto di scrivere un romanzo storico – Il sorriso dell’ignoto marinaio -, ambientato al momento della venuta di Garibaldi in Sicilia con le speranze che si erano accese negli strati contadini e popolari siciliani all’arrivo di Garibaldi, concependo il Risorgimento e l’unità d’Italia come un mutamento anche politico e sociale. Speranze deluse dell’unità che ha compiuto il progetto politico dell’unione ma senza mutare le condizioni degli strati popolari.

Da qui poi è nata tutta quella letteratura di tipo sociale di cui vi dicevo: la questione meridionalista trattata da Salvemini e Gramsci, ma anche una letteratura narrativa di riflessione sull’unità d’Italia, fatta da Verga, sia nei Malavoglia che in Mastro don Gesualdo, o da De Roberto con I ViceréPirandello con I vecchi e i giovani, fino ad arrivare a Lampedusa.
Naturalmente la letteratura sul Risorgimento è espressa in maniera diversa: in Lampedusa si trova una visione scettica e deterministica. Lui veniva da una classe nobile, Il Gattopardo è il libro di uno scettico che pensa che le classi sociali si avvicendano nella storia con una determinazione quasi fisica, come succede con il principe di Salina, uno studioso delle stelle: come accade alle stelle che prima si accendono e poi si spengono e finiscono, così le classi sociali. Però le classi alte, quelle nobiliari, vengono da lui assolte perché attraverso la ricchezza l’uomo si raffina e dà il meglio di sé, producendo poesia e bellezza. Per ciò che mi riguarda posso dire che me ne frego della poesia e della bellezza, mentre esigo più giustizia e più equità tra gli strati che formano una società.

Ho concepito partendo da Il sorriso dell’ignoto marinaio un ciclo di romanzi a sfondo storico, una trilogia. Il secondo è Notte tempo, casa per casa, che parla di un momento cruciale della storia italiana, gli anni venti con la nascita del fascismo, raccontato dall’angolazione di un piccolo paese della Sicilia che si chiama Cefalù, parlando delle crisi delle ideologie che sono succedute al primo dopoguerra, l’insorgere di nuove metafisiche, di istanze di tipo settario, le sette religiose, di segno bianco e di segno nero. L’ultimo della trilogia, è Lo spasimo di Palermo, che parla della contemporaneità, degli anni’90 e si svolge sempre in Sicilia però con flashback che partono dal secondo dopoguerra e arrivano al 1992 con la strage di via D’Amelio e la morte del giudice Borsellino. Naturalmente non faccio nomi, ma si capisce che il tema è la tragedia di questi magistrati che sono massacrati dalla mafia.
Poi sono usciti altri libri che potrei definire collaterali, per esempio Retablo oppure L’oliva e l’olivastrodove ho cercato di praticare la riflessione sulla realtàL’oliva e l’olivastro è un libro ambientato in Sicilia dove non c’è la finzione letteraria, ma un viaggio nell’isola degli anni ’80 e ’90, con tutte le perdite e sullo schema del viaggio di ritorno di Ulisse, che non ritrova più la sua Itaca, o meglio la ritrova ma non la riconosce perché è degradata, è devastata, soggiogata e dominata dai proci, gli uomini del potere politico mafioso, con tutti i disastri che ne sono susseguiti.

Giulia Mozzato, per MaremossoMagazine – La Feltrinelli
17 febbraio 2023



Consolo poeta. foto di Giovanna Borgese


La metrica della memoria


foto: Giovanna Borgese Palermo 1975

La metrica della memoria

Un velo d’illusione, di pietà,

come ogni  sipario di teatro,

come ogni schermo; ogni sudario

copre la realtà, il dolore,

copre la volontà.

La tragedia é la meno convenzionale,

la meno compromessa delle arti,

la parola poetica e teatrale,

la parola in gloria raddoppiata,

la parola scritta e pronunciata. (1)

Al di là é la musica. E al di là é il silenzio.

Il silenzio tra uno strepito e l’altro

del vento, tra un boato e l’altro

del vulcano. Al di là é il gesto.

O il grigio scoramento,

il crepuscolo, il brivido del freddo,

l’ala del pipistrello; é il dolore nero,

senza scampo, l’abisso smisurato;

é l’arresto oppositivo, l’impietrimento.

Così agli estremi si congiungono

gli estremi: le forze naturali

e il volere umano,

il deserto di ceneri, di lave

e la parola che squarcia ogni velame,

valica la siepe, risuona

oltre la storia, oltre l’orizzonte.

In questo viaggio estremo d’un Empedocle

vorremmo ci accompagnasse l’Empedoklès

malinconico e ribelle d’Agrigento,

ci accompagnasse Hölderlin, Leopardi.

Per la nostra inanità, impotenza,

per la dura sordità del mondo,

la sua ottusa indifferenza,

come alle nove figlie di Giove

e di Memoria, alle Muse trapassate,

chiediamo aiuto a tanti, a molti,

poiché crediamo che nonostante

noi, voi, il rito sia necessario,

necessaria più che mai la catarsi.

(Catarsi, p.13-14, […])

 

Questi versi, strofe o frasi, sono tratte dal  Prologo della mia opera teatrale intitolata Catarsi, in cui  é messo in scena il suicidio sull’ Etna di un moderno Empedocle.

Ho voluto iniziare con questi versi perché la tragedia, in forma teatrale o narrativa, in versi o in prosa, rappresenta l’esito ultimo di quella che posso chiamare la mia ideologia letteraria, l’espressione estrema della mia ricerca stilistica. Espressione, in Catarsi, in forma teatrale o poetica, in cui si ipotizza che la scrittura, la parola, tramite il gesto estremo del personaggio, si ponga al limite della pronunciabilità, tenda al suono, al silenzio.

 

[…] Empedocle:

La tragedia comincia nel fuoco più alto (2)

                    In questa nuda e pura, terrifica natura,

in questa scena mirabile e smarrente,

ogni parola, accento é misera convenzione,

rito, finzione, rappresentazione teatrale.

 

Un testo, questo, dal linguaggio di voluta comunicabilità,privo di innesti dialettali,  lontano dal pastiche espressionistico praticato nelle mie opere narrative, intenzionalmente alto,  in qualche modo declamatorio, puntellato da rimandi impliciti e da esplicite citazioni di testi classici: da Hölderlin, naturalmente, ai frammenti di Perì Phùseos e di Katharmoì di Empedocle.

Per spiegare questo esito, devo partire dall’ esordio, dalla mia scelta di campo letterario, dalla prima impostazione stilistica. E il discorso cade fatalmente sulla scrittura, sulla lingua.

La lingua  italiana, sin dalla sua nascita, sappiamo, é stata, come dice Roland Barthes, “molto parlata”, nel senso che molto si é scritto su di essa. A partire dal suo grande  creatore, da Dante, con il De vulgari eloquentia. Il quale, oltre ad essere un saggio di poetica personale, é il primo trattato di linguistica italiana. “Chiamiamo lingua volgare” dice “quella lingua che i bambini imparano ad usare da chi li circonda quando cominciano ad articolare i suoni […] Abbiamo poi un’altra lingua di secondo grado, che i Romani chiamarono ‘grammatica’ (lingua letteraria regolata)”. E afferma, con un bell’ossimoro: “Harum quoque duarum nobilior est vulgaris” (Di queste due lingue la più nobile é la volgare). Da Dante dunque a Lodovico Castelvetro, ad Annibal Caro, e giù fino a Leopardi, a Manzoni, a De Amicis, fino a Pasolini. Molti  scrittori insomma hanno parlato di questo strumento, della lingua che erano costretti ad usare.

Mi voglio soffermare su Leopardi, sulle riflessioni che il poeta fa sulla società, sulla letteratura e sulla lingua italiana in quel gran mare che é lo Zibaldone. Leopardi confronta la lingua italiana con la lingua francese, stabilisce un continuo parallelo fra le due lingue, così apparentemente prossime e insieme così lontane. Lontane al punto, afferma tra gli altri Luca Serianni (3),  che per un adolescente italiano la lingua di Dante o del Novellino è ancora in gran parte comprensibile, mentre per il suo coetaneo francese La Chanson de Roland é un testo straniero, da affrontare con tanto di vocabolario.

Ma torniamo al nostro Leopardi. Il francese, egli dice, tende all’ unicità, mentre l’italiano é un complesso di lingue piuttosto che una lingua sola, potendo essa variare secondo i vari soggetti e stili e caratteri degli scrittori, per cui diversi stili sembrano quasi diverse lingue; il francese invece, sin dall’epoca di Luigi XIV, si é geometrizzato, é diventato lingua unica. E cita, Leopardi, Fénelon, il quale definisce la lingua francese una “processione di collegiali”.Diciamo qui tra parentesi che alla frase di Fénelon deve aver pensato Ernest Renan nell’affermare: “Il francese non sarà mai una lingua  dell’assurdo: e neanche sarà mai una lingua  reazionaria. Non si riesce a immaginare una vera e propria reazione che abbia per strumento il francese”. Ma a Renan ribatte Roland Barthes: “L’errore di Renan  non era errore strutturale ma storico; egli credeva che il francese, plasmato dalla ragione, conducesse necessariamente all’espressione di una ragione politica la quale nel suo spirito non poteva che essere democratica”. E concludeva: “La lingua non é né reazionaria né progressista: essa é semplicemente fascista; il fascismo infatti, non é impedire di dire, ma obbligare a dire”. Non capisco questo radicalismo linguistico di Barthes, espresso nella lezione inaugurale al Collège de France, ma  chiudendo la lunga parentesi, ritorno ancora a Leopardi, alla sua idea del francese geometrizzato. E non posso non esclamare:”Beati i francesi con la loro lingua unica, geometrica e cartesiana! Che é segno, quella lingua, dell’esistenza e della compiutezza di una società civile (“Oggi so che alla Francia mi lega soltanto l’amore per la lingua francese” scriveva Jean Genet durante il suo vagabondare per l’Europa) (4). Il complesso di lingue che é (o che é stato, fino agli anni Sessanta, fino all’analisi della trasformazione di questa lingua che ne fa Pasolini), l’italiano é di segno opposto: segno vale a dire dell’assenza o incompiutezza di una società civile italiana.

Lo Zibaldone, dicevo. Leopardi afferma che la lingua italiana, il toscano vale a dire, raggiunge la sua massima eleganza  nel Cinquecento. Finisce questa eleganza, questa centralità toscana, con la Controriforma, con l’esplosione di quel leibniziano cataclisma armonico, di quell’ anarchia equilibrata che va sotto il nome di Barocco. Per Croce però il Barocco non nasce dalla Controriforma, ma da una concomitante decadenza, dall’ affievolirsi di quell’ entusiasmo morale, di quello spirito del Rinascimento che aveva illuminato l’Europa. Era stata Firenze dunque centro di quella lingua attica, di quell’italiano platonico, di quella scrittura borghese, laica, elegante dei poeti, dei filosofi, degli scienziati a cui ogni scrittore, da ogni corte o convento, da ogni accademia o piazza, da ogni centro o periferia aspirava. Ma questa lingua dell’Ariosto e del Tasso, del Machiavelli e del Guicciardini, nel tempo si irrigidisce, si fa aulica, perde contatto col suo fondo popolare, si geometrizza, perde in estensione. Leopardi ammira la perfezione stilistica raggiunta dagli scrittori del nostro Secolo d’Oro, ma predilige l’immensità, la varietà, la vertiginosa libertà espressiva di uno scrittore secentesco, barocco, del gesuita Daniello Bartoli, l’autore della Istoria della Compagnia di Gesù. Dice: “Il padre Daniello Bartoli é il Dante della prosa italiana. Il suo stile, in ciò che spetta alla lingua, é tutto risalti e rilievi”. Risalti e rilievi come quelli del Resegone, che Manzoni ironizza ironizzando il Seicento, il tempo della disgregazione, del marasma sociale. Ironizza prima esplicitamente trascrivendo nell’introduzione  del suo grande romanzo il “dilavato e graffiato autografo” dell’anonimo secentista, inzeppato “d’idiotismi lombardi”, di “declamazioni ampollose”, di “solecismi pedestri” e seminato qua e là da qualche eleganza spagnola. (L’espediente del documento dell’anonimo secentesco pensiamo derivi al Manzoni da Cervantes, dal Don Chisciotte, dal sedicente manoscritto dell’arabo Cide Hamete Berengeli). E ironizza ancora nascostamente parodiando nell’incipit, in “Quel ramo del lago di Como”, un brano del Bartoli riguardante l’India, la regione del Gange, riportando così il disordine lombardo all’ordine, alla geometria fiorentina. Che era per Manzoni l’aspirazione all’ordine, all’armonia sociale, a un illuministico, cristiano Paese, di cui la lingua, comune e comunicativa, doveva essere espressione. Utopia mai realizzatasi, si sa. E dunque la moderna storia letteraria italiana, con le rivoluzioni linguistiche degli Scapigliati, di Verga e dei Veristi, con il preziosismo decadente di D’Annunzio, con la esplosione polifonica del “barocco” Gadda e degli altri sperimentalisti, da una parte, con lo sviluppo della “complessa” semplicità leopardiana dei rondisti e degli ermetici, con l’asciutta, scabra lingua di Montale, dall’altra, é la storia del convivere e dell’alternarsi della lingua rinascimentale e illuministica e della linea barocca e sperimentale. É la storia di speranza e di fiducia degli scrittori in una società civile; la storia di sfiducia nella società, di distacco da essa, di malinconia, di disperazione.

Da tali altezze scendendo al mio caso, a quel  che ho potuto o saputo fare, posso dire questo. Ho mosso i miei primi passi in campo letterario (e questo risale al 1963) nel momento in cui si concludeva in Italia la stagione del Neorealismo e stava per affacciarsi all’ orizzonte quel movimento avanguardistico che va sotto il nome di Gruppo ‘63. Il quale, come tutte le avanguardie, opponendosi alle linee letterarie che erano in quel momento praticate, dalla neo-realistica, alla illuministica e razionalistica, alla sperimentalistica, programmava l’azzeramento d’ogni linguaggio che proveniva dalla tradizione e proponeva un nuovo, artificiale linguaggio di difficile praticabilità. L’operazione non era nuova, naturalmente, era già stata fatta dal Futurismo, dal suo fondatore Marinetti, il quale aveva dettato il decalogo della nuova scrittura.

1) Bisogna distruggere la sintassi, disponendo i sostantivi a caso, come nascono.

2) Si deve usare il verbo all’ infinito.

3) Si deve abolire l’aggettivo.

4) Si deve abolire l’avverbio…Etc…Etc…

Questa ideologia linguistica o stilistica marinettiana riproponeva uno dei teorici del  Gruppo ’63, affermando che bisognava praticare il “disordine sintattico e semantico come rispecchiamento del disordine della società”. Credo che si fosse nel campo della indecifrabilità, della pseudo-afasia, speculare alla indecifrabilità linguistica e alla pseudo-afasia del potere.

Dicevo che ho mosso i primi passi in quel clima letterario e insieme in quel clima politico in cui un partito di maggioranza, la Democrazia Cristiana, dal ’48 ininterrottamente al potere, aveva cambiato profondamente l’assetto sociale e culturale del nostro Paese, aveva cambiato la nostra lingua.

Pasolini (sulla rivista Rinascita – dicembre ’64 – quindi in Empirismo eretico)  aveva pubblicato il saggio dal titolo Nuove questioni linguistiche in cui sosteneva che, con il neo-capitalismo, l’asse linguistico italiano s’era spostato dal centro meridione, da una realtà burocratica e contadino-dialettale, al centro settentrione, a una realtà piccolo-borghese aziendale e tecnologica. E analizzava un brano del discorso di un uomo politico emblematico, Aldo Moro (ucciso a Roma nel ’78, come sappiamo, da quei piccolo-borghesi criminali, mascherati da rivoluzionari, che sono stati i componenti delle Brigate Rosse), discorso pronunciato nel momento significativo dell’inaugurazione dell’Autostrada del Sole, autostrada che univa per la prima volta l’Italia dal Piemonte alla Sicilia. Diceva Moro: “ La produttività degli investimenti del piano autostradale dipende dunque dal loro coordinamento in una programmazione delle infrastrutture  di trasporto, che tenda a risolvere gli squilibri, ad eliminare le strozzature, a ridurre gli sperperi della concorrenza fra diversi mezzi di trasporto, a dare vita insomma ad un sistema integrato su scala nazionale”. E Pasolini concludeva dunque nel suo saggio: “Perciò in qualche modo, con qualche titubanza, e non senza emozione, mi sento autorizzato ad annunciare che è nato l’italiano come lingua nazionale” (si noti in questa frase l’amara ironia pasoliniana). Non era certo, questo italiano per la prima volta nazionale, uguale al francese unico e geometrizzato di cui parlava Leopardi, ma una sorta di sotto o extra-lingua, una astorica, rigida, incolore koinè.Sono passati più di quarant’anni dal 1964 e lascio immaginare la situazione linguistica italiana di oggi, dell’italiano strumentale e di quello letterario.

Esordivo in quel tempo, insieme a Luigi Meneghello, Lucio Mastronardi, Stefano D’Arrigo con La ferita dell’aprile, titolo di eco eliotiana. Un racconto in una prima persona mai più ripresa, una sorta di Telemachia o romanzo di formazione. Mi ponevo con esso subito, un po’ istintivamente e un po’ consapevolmente, sul crinale della sperimentazione, mettendo in campo una scrittura fortemente segnata dall’ impasto linguistico, dal recupero non solo degli stilemi e del glossario popolari e dialettali, ma anche, dato l’argomento, di un gergo adolescenziale. Gergo quanto mai parodistico, sarcastico, quanto mai oppositivo a un ipotetico codice linguistico nazionale, a una lingua paterna, comunicabile. E organizzavo insieme la scrittura su una scansione metrica, su un ritmo, con il gioco delle rime e delle assonanze. Prendeva così il racconto, nella sua ritrazione linguistica, nella sua inarticolazione sintattica, nella sua cadenza, la forma in qualche modo di un poemetto narrativo. C’era certo, dietro il libro, la lezione di Gadda e di Pasolini, c’era l’ineludibile matrice verghiana, ma c’era l’evidente polemica sociale, la diffidenza nei confronti del contesto storico, della sua lingua.

Tredici anni sono trascorsi tra il primo e il secondo libro. Un tempo lungo che poteva anche significare dimissione dalla pratica letteraria. Un tempo che ha coinciso – mi si permetta di dirlo – con la mia vicenda personale, con il mio trasferimento, nel ’68, dalla Sicilia a Milano. In questa città provai spaesamento per la nuova realtà, urbana e industriale, in cui mi trovai immerso, realtà di cui mi mancava memoria e linguaggio; per l’acceso clima politico, per i duri conflitti sociali di quegli anni. Fu un tempo quello di studio e di riflessione su quella realtà e sul dibattito politico e culturale che allora si svolgeva. Frutto di tutto questo fu la pubblicazione, nel 1976, del romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio.

Un romanzo storico-metaforico, ambientato in Sicilia intorno al 1860, che voleva chiaramente rappresentare il grande rinnovamento, l’utopia politica e sociale che nel  Sessantotto si vagheggiava in Italia e altrove, che nel nostro Paese doveva frantumarsi a causa dei suoi esiti tragici, disastrosi. L’ambientazione storica e il ripartire dal luogo della mia memoria mi permetteva di raggiungere maggiore consapevolezza della mia scelta di campo letterario, scelta contenutistica e stilistica. La sperimentazione linguistica, per l’adozione della terza persona, si svolgeva ora sul piano dell’ironia e del discorso indiretto libero. L’esito era quindi la “plurivocità” ben individuata da Cesare Segre. In cui era incluso il linguaggio alto del protagonista, un erudito dell’800, e la lingua dei contadini, la cui estremità era rappresentata da un antico dialetto, il gallo-italico o mediolatino, che si parlava in Sicilia in isole linguistiche dell’azione del romanzo. La sperimentazione, nel romanzo, era anche sul piano della struttura. I cui jati, le cui fratture erano riempite da inserti storiografici, da documenti, la cui funzione era quella di connettere i vari lacerti narrativi. Mi veniva questo dalle sollecitazioni del Gruppo ’47 di Enzerberger, per le sue teorie  di Letteratura come storiografia.  Anche qui c’é la messa in crisi del genere romanzo, c’é ancora la polemica della scrittura narrativa nei confronti della società. Società di cui fa parte la cosiddetta industria culturale che mercifica e distrugge il romanzo.

 

Nei miei successivi romanzi perseguo e approfondisco sempre di più la sperimentazione linguistica. In essi c’é la messa in crisi del genere romanzo, e c’é ancora, come dicevo sopra, la polemica nei confronti della società. Società in cui, con la rivoluzione tecnologica, con l’invasione dei mezzi di comunicazione di massa, l’autore non riesce più a individuare il lettore. Italo Calvino, scrittore quanto mai razionalista o illuminista, estremamente comunicativo, al pari di Moravia, di Bassani, di Primo Levi, di Sciascia, e di altri di quella generazione, Calvino, nel contesto di una inchiesta, alla domanda, a quale tipo di lettore egli pensasse scrivendo, rispondeva: “A un lettore che la sa più lunga di me”. Non credo che Calvino, in questo nostro presente, potrebbe ancora rispondere in quel modo, oggi in cui non è immaginabile un lettore più o meno letterariamente avveduto, più o meno

colto dell’autore.

Viene quindi la pubblicazione di

Lunaria (1985), un  racconto, una favola dialogata, che fatalmente prende forma

teatrale.La favola, ambientata in un vago Settecento, alla corte di un viceré spagnolo di Sicilia, si ispirava a un frammento lirico di Leopardi, Lo spavento notturno,e ad una prosa di Lucio Piccolo, L’esequie della luna.  La metafora della caduta della luna significava la caduta della poesia, della cultura nel nostro contesto.   L’epoca e il tema favolistico,  mi facevano  approdare a soluzioni di apparente puro significante, come questa:

Lena lennicula

Lemma lavicula,

làmula,

lèmura,

màmula.

Létula,

màlia,

Mah.

Della stessa epoca e dello stesso clima quai favolistico è anche Retablo. E’ un viaggio nella Sicilia classica, una metafora della ricerca al di là della ideologia, della completa dimensione umana, della perduta eredità umanistica. Per i rimandi, le citazioni eplicite e no, per la struttura, il risultato del racconto è di un ipertesto letterario o di un palinsesto.

Nottetempo, casa per casa è ancora una narrazione scandita come un poema. Dico narrazione nel modo in cui è stata definita da Walter Benjamin. Il quale in Angelus Novus, nel saggio su Nicola Leskov, fa una netta distinzione tra romanzo e narrazione.

La storia di Nottetempo, casa per casa é ambientata negli anni Venti, nel momento del fascismo in Italia. Vi si parla della follia privata, individuale, dolorosa, innocente, e della follia pubblica, la follia della società, della storia. Personaggio simbolico é il satanista Aleister Crowley, che incarna il decadentismo estremo della cultura europea di quegli anni, di nuove metafisiche, di misticismi di segno nero o bianco. Il protagonista del racconto, Petro Marano, è un piccolo intellettuale socialista, é costretto all’esilio, a rifugiarsi in Tunisia. Il racconto termina con questa frase: “Pensò che ritrovata calma, trovate le parole, il tono, la cadenza, avrebbe raccontato, sciolto il grumo dentro. Avrebbe dato ragione, nome a tutto quel dolore.”

 

Il libro successivo L’olivo e l’olivastro, inizia con questa frase: “Ora non può narrare. Quanto preme e travaglia arresta il tempo, il labbro, spinge contro il muro alto, nel cerchio breve, scioglie il lamento, il pianto”. Qui è negata la finzione letteraria, l’invenzione del racconto. Il libro è un viaggio nella realtà contingente e nella memoria. E’ il ritorno di un Ulisse a Itaca, dove non trova che distruzione, violenza, barbarie.

Ma devo ora tornare all’inizio di questa conversazione. Tornare alla tragedia Catarsi, in cui , l’antagonista di Empedocle, Pausania,  così recita:

–              Io sono il messaggero, l’anghelos, sono

il vostro medium, colui  a cui è affidato

il dovere del racconto, colui che conosce

i nessi, la sintassi, le ambiguità,

le astuzie della prosa, del linguaggio….

Cambia tono, diviene recitativo, enfatico.

PAUSANIA – E un mattino d’agosto lasciammo la dimora alta e luminosa, lasciammo i templi, le piazze, le arnie e le vigne, abbandonammo la patria nostra, la superba Agrigento che s’alza sopra il fiume…Spogli ed esposti, solitari, per boschi e per deserti giungemmo all’oriente, all’altro mare di quest’isola vasta, alla montagna immensa, presso la scaturigine del fuoco, del fragore, della minaccia…

Empedocle lo interrompe con un ghigno sarcastico.

EMPEDOCLE – Che menzogna, che recita, che insopportabile linguaggio! E’ proprio il degno figlio di questo orrendo tempo, di questo abominevole contesto, di questo falso teatro compromesso, di quest’era soddisfatta, di questa società compatta, priva di tradimento, d’eresia, priva di poesia. Figlio di questo mondo degli avvisi, del messaggio tondo, dei segni fitti del vuoto…Dietro il velo grasso delle sue parole di melassa, io potrei scoprire l’oscena ricchezza della mia città, la sua violenza, la sua volgarità, gli intrighi, gli abusi, i misfatti, le stragi d’innocenza, d’onore, di memoria, la morte quotidiana imbellettata come le parole morte di questo misero ragazzo, di questo triste opportunista…

Ecco, ne L’olivo e l’olivastro l’ánghelos, il narratore, non appare più sulla scena poiché ormai la cavea è vuota, deserta. Sulla scena è rimasto solo il coro che in tono lirico, in una lingua non più comunicabile, commenta e lamenta la tragedia senza soluzione, la colpa, il dolore senza catarsi. Avviene qui la ritrazione invece che l’irruzione dello spirito socratico, quello che Nietzsche, ne La nascita della tragedia vede nel passaggio dall’antica tragedia di Eschilo e di Sofocle alla moderna tragedia di Euripide. Lo spirito socratico è il ragionamento, la filosofia, è la riflessione che l’autore del romanzo fa sulla vicenda che sta narrando: è quindi, come quello dell’ánghelos o messaggero con lo spettatore, il dialogo con il lettore. La ritrazione, la scomparsa dello spirito socratico é l’interruzione del dialogo con il lettore; é lo spostamento della scrittura dalla comunicazione all’espressione.

Nelle mie narrazioni c’é sempre l’interruzione del racconto e il cambio della scrittura, il suo alzarsi di tono, svolgersi in forma ritmica, lirico-poetica. Sono questi per me le parti corali o i cantica latini.

Eric Auerbach, nel suo saggio sul Don Chisciotte, contenuto in Mimesis, scrive: “Cervantes (…) é (anche) un continuatore della grande tradizione epico-retorica, per la quale anche la prosa é un’arte, retta da proprie leggi. Non appena si tratti di grandi sentimenti e di passioni o anche di grandi avvenimenti, compare questo alto stile con tutti i suoi artifici”.

I grandi avvenimenti di cui parla Auerbach (e i sentimenti che essi provocano) con sistono per me, in questo nostro tempo, in questo nostro contesto occidentale,  nella cancellazione della memoria,e quindi della continua minaccia della cancellzione della letteratura, soprattutto di quella forma letteraria dialogante che é il romanzo. Il quale credo che oggi possa trovare una sua salvezza o plausibilità in una forma monologante, in una forma poetica.

Poesia che é memoria, e soprattutto memoria letteraria.

Questo ho cercato di fare nello Spasimo di Palermo, terzo tempo, con il Sorriso dell’ignoto marinaio e Nottetempo,casa per casa, di una trilogia. “Ostinata narrazione poetica, in cui il raccontare é in ogni momento ricerca di senso, un interrogazione sul valore della realtà e dell’esistenza…” (Giulio Ferroni)

Nello Spasimo  vi si narra ancora di un viaggio di ritorno, di un nòstos in un’Itaca dove non é che smarrimento, violenza e dolore, “..una landa ingrata, / dove si trovano strage e livore” dice Empedocle nel Poema lustrale.

Questa é la nostra Itaca d’oggi, la matrigna terra della giustizia negata, della memoria cancellata, dell’intelligenza offuscata, della bellezza e della poesia oltraggiate,  delle passioni incenerite.

 

Vincenzo Consolo

 

 

  • Pasolini P.P. Affabulazione – 1966 – prefazione di G.D. Bonino TO Einaudi 1992
  • Hölderlin F. Sul tragico –1795-1804 – prefazione R.Bodei Mi Feltrinelli 1994

3)  Serianni L.  Viaggiatori, musicisti, poeti,  MI Garzanti 2002

4)   Genet J., Diario del ladro, Il Saggiatore 2002

versione definitiva al 18.2.2009

Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello: vicinanze e lontananze di due scrittori del secondo Novecento

Giuliana Adamo

L’attenzione critica che qui si vuol dare a un confronto tra Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello trae spunto, a ritroso, dall’evento unico ed ultimo che li ha visti insieme il 20 giugno del 2007, a Palazzo Steri, a Palermo, in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Filologia Moderna conferita ad entrambi, in curiosa conclusione del viaggio parallelo dei due scrittori, iniziato proprio nel 1963, anno del loro rispettivo esordio letterario.1 Escono, infatti, nel 1963 La ferita dell’aprile di Consolo – storia di un adolescente che dopo un itinerario fatto di entusiasmi e di delusioni, di gioie e dolori, arriva alla conoscenza della solitudine e del carattere conflittuale dell’esistenza; misto sapientemente dosato di autobiografia e di storia, di quotidiano e di mito – e Libera nos a malo di Meneghello, testo autobiografico che ‘offre un ritratto della vita a Malo, di una incomparabile ricchezza e incisività. È l’Italia […] della prima metà del secolo, nei decenni successivi alla Prima guerra mondiale’ che suscita anche nei lettori che veneti non sono ‘la “scossa del riconoscimento” (lo shock of recognition, come si dice in inglese) – un senso di partecipazione, di familiarità, nonostante le grandi differenze di contesto culturale’.2 Importante richiamare – anche se rapidamente – le superficiali analogie tra le rispettive scelte biografiche che rendono conto, in parte, delle ragioni della posizione peculiare che i due scrittori hanno avuto nel panorama culturale coevo: essendo tra i pochi ad essersi espatriati o dispatriati, con tutte le differenze dei singoli casi (Consolo a Milano, Meneghello a Reading in Inghilterra), dal proprio Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 39 luogo natìo e ad avere vissuto in un costante confronto tra le diverse culture con cui sono venuti a contatto. Entrambi, e ciascuno a suo modo, ulissici nel nóstos continuo con la propria Itaca: la Sicilia per Consolo, Malo per Meneghello. Prima di proseguire è importante ricordare, in sintesi, che il contesto letterario in cui prendono l’avvio i due scrittori è quello a cavallo degli anni ’50 e ’60 del Novecento, momento in cui, in un’Italia che faceva ancora i conti con gli strascichi della già conclusa esperienza del Neorealismo postbellico, imperversavano dibattiti e polemiche riguardanti soprattutto le nuove forme di espressione letteraria da ricercarsi, in ambito linguistico, nei territori che si estendevano tra il ricorso alla lingua italiana e la necessità dell’uso letterario dei dialetti. Per intendere la lezione stilistica di Meneghello sono preziose le parole di Cesare Segre, secondo cui lo scrittore di Malo si muove in uno spazio indipendente di outsider, di dispatriato e apprendista in Inghilterra, da Meneghello chiamata il ‘paese degli angeli’. Lo scrittore di Malo, quindi, ‘ha ben poco a che fare’ – sostiene Segre – con i precedenti più rappresentativi quali Fenoglio, Testori, Pasolini, Mastronardi perché la loro scelta dialettale è connotata da un ‘marchio sociologico’ di eredità neorealistica estraneo alla scrittura di Meneghello. E ha anche poco a che spartire sia con la diversa matrice della dialettalità espressionistica di Gadda; sia con l’uso mimetico del dialetto di Fogazzaro; sia con la dialettalità contenutistica di Verga, e poi di Pavese, in cui il ricorso alla dimensione dialettale esula dalle caratteristiche lessicali e morfosintattiche del dialetto. A queste differenze, si aggiunga, infine, il tratto peculiare della scrittura di Meneghello in cui, benché la funzione del dialetto sia in lui fondativa, il discorso narrativo avviene ‘prevalentemente in lingua’.3 Per Consolo il discorso è differente in quanto lo scrittore siciliano – pur con tutta la sua peculiare originalità espressiva che vede fondere l’eredità barocca di Lucio Piccolo con la ratio illuminista di Sciascia – si inscrive pienamente nella tradizione del romanzo storico siciliano che si estende, notoriamente, dal Verga della novella ‘Libertà’, al De Roberto de I viceré, al Pirandello de I vecchi e i giovani e allo Sciascia de Il consiglio d’Egitto. Tutti i romanzi e le opere di Consolo si riferiscono alla storia più o meno recente della Sicilia e se ne nutrono direttamente. Per quel che riguarda, invece, la sua ricerca linguistica, come da lui stesso ampiamente ribadito nei suoi scritti, essa rimanda alla linea della sperimentazione di Pasolini e di Gadda (in opposizione alla soluzione razionalista e illuminata della lingua di Calvino e Sciascia), risultando in una scrittura che, come coglie la poetessa e scrittrice Maria Attanasio, ‘non è mai rotonda fertilità espressiva, 40 Giuliana Adamo levigato specchio, ma frantumazione caleidoscopica, allusivo aggiramento, inesauribile nominazione; al di là della parola, resta, indicibile, il vivido pulsare della vita’.4 Fatta questa necessaria premessa, torno all’argomento su cui mi soffermo in questa sede. Per il confronto che mi appresto ad abbozzare e a proporre – nulla di esaustivo ovviamente, ma ugualmente passibile, spero, di critiche costruttive, approfondimenti, analisi di differente approccio – il punto di partenza mi è sembrato giusto che fosse dato dalle rispettive lectiones magistrales – in apparenza così diverse – indirizzate, dai due laureandi, al Senato accademico e al pubblico presenti nella sala palermitana. Quella di Consolo, il primo a parlare, dal titolo ‘Due poeti prigionieri in Algeri. Miguel de Cervantes e Antonio Veneziano’; quella di Meneghello intitolata ‘L’apprendistato’. 5 Le due lectiones mi pare si prestino ad essere usate come specimen delle rispettive opere, permettendo di tracciare linee di contatto e/o distacco, di analogie e/o differenze tra i due autori. Due poeti prigionieri in Algeri: Miguel de Cervantes e Antonio Veneziano La lectio di Consolo, fin dalla dedica alla memoria di Leonardo Sciascia, segnala l’instancabile e appassionata militanza, da sempre parallelamente giornalistica e letteraria, dell’autore siciliano e verte sui temi che costituiscono il cuore di tutta la sua scrittura: 1) Il rapporto tra passato e presente (da cui il suo sguardo storico indagatore trae la linfa vitale: il passato come metafora del presente). 2) L’attenzione particolare alla Storia siciliana inquadrata nel contesto più ampio della storia mediterranea, fatta di incontri e scontri di popoli e civiltà e dalle stratificazioni culturali e linguistiche che ne conseguono. A questo, inoltre, si lega l’immancabile tema dell’opera di Consolo: il viaggio. Tutte le sue opere sono fondate su una storia di viaggio o giocano con la metafora del viaggio: viaggio rituale dall’esistenza alla Storia, che invita alla conoscenza di sé e del mondo. Viaggio alla ricerca della luce-ragione che illumini, pur se in modo intermittente, le tenebre che avvolgono la condizione umana. 3) La necessità ineludibile della poesia (con il ricorso nella sua narrativa ad una lingua poetica, non comunicativa ma espressiva). 4) La citazione e la menzione continue di testi poetici e narrativi, scritti e orali, nelle diverse lingue del mondo consoliano: italiano, siciliano, spagnolo, latino, sabir, nonché il costante intarsio realizzato dalle fedeli Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 41 riprese di cronache e documenti d’epoca ufficiali e non, altro polo costitutivo della poetica e dell’opera di Consolo. Quanto al contenuto della lectio, in parole brevi, che valgono quasi come un sottotitolo, parla della vita terribile nel tardo Rinascimento, vissuto tra le sponde del Mediterraneo, che fa da sfondo alla comune prigionia, nelle carceri di Algeri, di Miguel de Cervantes e del poeta siciliano Antonio Veneziano alludendo, per via di metafora, all’attuale situazione del mare nostrum, crocevia di diverse civiltà e doloroso luogo degli scontri tra di esse. Si pensi, soprattutto, al problema dei migranti, nei confronti del cui trattamento da parte dell’Europa occidentale e, in particolare dell’Italia, la sensibilità dell’intellettuale Consolo ha raggiunto punte estreme di indignazione civile e di profonda pietas. Consolo ricostruisce la oscura biografia di Antonio Veneziano ‘l’elegantissimo latinista, il più rinomato poeta siciliano del secolo XVI’6 vissuto tra 1543 e 1593. Per fare questo, applica il suo rigoroso metodo di indagine storica e storiografica – eredità manzoniana e fondamento dei suoi romanzi storici, o meglio anti-romanzi storici – risalendo alle fonti scritte ed ufficiali e, quando possibile, a fonti più in ombra (archivi, fondi di parrocchie, testimonianze di oscuri cronisti coevi, lettere dimenticate, atti notarili, scritte murali, graffiti, canzoni popolari, etc.).7 In questo caso, Consolo cita, tra gli altri, le testimonianze di Giuseppe Lodi (bibliotecario ottocentesco della palermitana Società di Storia Patria); del demo-psicologo ed etnologo Giuseppe Pitrè; del canonico Gaetano Millunzi; di Leonardo Sciascia che, nel 1967, a proposito del Veneziano ricorda che era: ‘Violento, sensuale, scialacquatore, carico di debiti, incostante negli affetti famigliari e negli amori, assolutamente sprovvisto di rispetto per le istituzioni e per gli uomini che le rappresentano’.8 Tuttavia, ed è questo che interessa a Consolo sia per il plurilinguismo sia per la militanza polemica dell’intellettuale: malgrado il carattere e la mala condotta, scrive, scrive il Veneziano, scrive poesie in siciliano, in latino, in spagnolo, prose e composizioni in versi per gli archi di trionfo in onore dei vari viceré che s’installano a Palermo. Ma scrive anche satire contro gli stessi viceré, contro il potere politico, satire affisse sui muri. (‘Due poeti prigionieri in Algeri’, p. 26) La vita del Veneziano si rivela curiosamente speculare a quella di Cervantes (ricca come risulta di accuse malevole, assilli economici, disordini familiari, varie incarcerazioni). Ed è ad una di queste incarcerazioni, presumibilmente, che si deve l’incontro, o il re-incontro (forse, congettura Consolo, si 42 Giuliana Adamo erano incrociati anni prima a Palermo, ma questo resta da dimostrarsi), e la conseguente ammirazione reciproca, quasi amicizia, tra l’autore del Quijote e quello della Celia. Il Veneziano venne preso prigioniero sulla galea Sant’Angelo, al seguito di Don Carlo d’Aragona, dai corsari, al largo di Capri, il 25 aprile 1578. Quindi venne condotto come schiavo ad Algeri nel cui bagno penale incontrò Cervantes, a sua volta schiavo in quella città da più di tre anni. Anche la biografia di Cervantes, soprattutto in relazione alla sua prigionia algerina e ai suoi ben quattro tentativi di evasione, è ricostruita storicamente da Consolo sulla scia di scritti, documenti, testimonianze di autori vari, incluse quelle dello stesso Cervantes. Ecco, dunque, che è importante rilevare (e la lectio ce ne dà prova) come Consolo lavori col materiale che ha cercato, documentato, elaborato. Da un lato, quindi, vediamo emergere, l’importanza che ha per lo scrittore la Storia e il metodo usato nella sua ricerca di ricostruzione e ricomposizione del passato; dall’altro – e in maniera costitutivamente intrecciata – il lavoro creativo dello scrittore che intaglia una storia ricca di dettagli documentati in modo meno ufficiale dentro alla grande Storia, che lui avvertiva sempre come immobile e immutevole nelle sue prevaricazioni, nei suoi inganni, nelle sue menzogne, nelle sue ingiustizie, nei suoi silenzi, nelle sue esclusioni. Ed ecco – analogamente a quanto avviene nei suoi lavori storici, memori della lezione manzoniana ma prodotti nella sua lingua ‘rigogliosamente espressivistica’,9 plurivocale,10 pluridiscorsiva e pluristilistica – che Consolo si spinge a ricreare che cosa possano avere detto, fatto, provato insieme, ad Algeri, i due scrittori secenteschi: I due in carcere, ascoltano la cantilena in sabir, la lingua franca del Mediterraneo, che i ragazzi mori cantavano sotto le finestre dei bagni: Non rescatar, non fugir Don Juan no venir morir… cantilena riportata da Cervantes in Vita ad Algeri e ne I bagni di Algeri. Tutte e due avranno avuto catene alle caviglie e saranno stati vestiti allo stesso modo, il modo come Cervantes descrive il Prigioniero che entra con Zoraide nella locanda ‘il quale mostrava dagli abiti d’essere un cristiano giunto recentemente da terra di mori, perché era vestito d’una casacca di panno turchino, a falde corte, con mezze maniche e senza collo; anche i calzoni erano di tela turchina, e il berretto dello Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 43 stesso colore.’In quel carcere, con chissà che emozioni e sensazioni, scrivono l’uno la Celia (preso d’amore non si sa bene per chi fra i due possibili oggetti del suo amore: quello incestuoso per la nipote Eufemia o quello impossibile per la viceregina Felice Orsini Colonna, moglie di Marc’Antonio Colonna, comandante della flotta veneziana nella battaglia di Lepanto, nel 1571, allora viceré di Sicilia); l’altro presumibilmente Vita ad Algeri, le Ottave per Antonio Veneziano e comincia la stesura della Galatea. (‘Due poeti prigionieri in Algeri’, pp. 30-31)11 I due protagonisti della lectio lasceranno Algeri, finalmente riscattati: il Veneziano nel 1579 (morirà nel 1593 nel carcere di Castellamare per lo scoppio doloso della polveriera), mentre Cervantes nel 1580 (per poi finire nel carcere di Siviglia o in quello di Castro del Rio dove nel 1592 concepisce il Quijote). In seguito, ricorda significativamente Consolo, Cervantes ritornerà sulla passata dolorosa esperienza: ‘[d]ice ancora il Prigioniero del Don Chisciotte: “Non c’è sulla terra, secondo il mio parere, gioia che eguagli quella di conseguire la libertà perduta”’ (‘Due poeti prigionieri in Algeri’, p. 33). A questo punto, da quel che emerge da una lectio così costituita possiamo cogliere un insieme di elementi che offrono una misura valida per farsi un’idea dei tratti essenziali che permeano tutta l’opera di Consolo: 1) L’ ineludibile necessità etica che lo spinse, da sempre, a studiare, indagare, scavare, scrivere – cercando di capire e di aiutare a fare capire – la complessità della vita, nel Cinquecento come nel 2000, che si svolgeva e svolge nell’area mediterranea, dove sono nate incontrandosi e/o scontrandosi le grandi civiltà della storia occidentale. 2) La necessità di mostrare che la Storia – se distaccata dalla storiografia ufficiale, sempre soggettiva e parziale, scritta dai vincitori e mai dai vinti – può emergere più contraddittoria, ma più completa, grazie al corale contributo delle voci di ‘più picciol affare’. In tal modo, la scrittura della storia diventa (con certa utopia) incrocio di punti di vista diversi: Storia, insomma, come una messa a fuoco plurima e dialettica della realtà. In Consolo il rapporto Storia-invenzione del romanzo storico classico è rovesciato: ‘ciò che lì era documento qui è racconto, universo opinabile, discorso retorico. Ciò che lì è veramente accaduto, qui è come realmente accaduto’, evidenzia finemente Nisticò a proposito, in particolare, de Il sorriso dell’ignoto marinaio. La critica operata da Consolo è volta alla Storia in quanto scrittura, nella sua ‘demistificazione permanente del mito 44 Giuliana Adamo dell’oggettività e della verità dei documenti e della tradizione storica’.12 Ed è su questo assunto che si è basata la sua intera attività di scrittore. 3) Il valore della scrittura qui esemplato dall’esperienza di due intellettuali che si trovano in mezzo a indicibili difficoltà oggettive e, di conseguenza, il ruolo salvifico della poesia che – nonostante tutto e tutti e nonostante i suoi stessi autori – è eternamente valida e, a differenza della Storia, super partes. 13 4) La metafora del presente che quell’antica, tormentata, feconda esperienza cinquecentesca è chiamata simbolicamente a rappresentare, in quanto per Consolo: ‘un testo è vivo quando è metafora, quando non parla solo di sé’.14 5) La fondante tensione metaforica resa attraverso uno stile che rende ragione del coro di voci e di lingue che scintillano in questo testo (come in tutti i suoi testi) intrecciandosi per ricordarci che quel che è successo succede ancora e che, e qui Consolo usa le parole, tragicamente attuali, che Fernand Braudel riferiva all’età di Filippo II: ‘In tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato, e vi conosce tutte le miserie, gli orrori e le santità degli ‘universi concentrazionari’ (‘Due poeti prigionieri in Algeri’, p. 34). Rappresentativa della poetica di Consolo è questa lectio che ho voluto usare come microtesto per individuare le linee portanti del macrotesto consoliano: non autobiografica, se non per pulsioni spesso inconsce; storico-filologica; testimonianza del suo impegno di scrittore e di intellettuale contro soprusi e ingiustizie. Le attestazioni dell’inesausto agire civile di Consolo, oltre che in tutti i suoi libri e nei suoi saggi, anche sulle pagine dei quotidiani italiani storicamente più schierati a sinistra, come l’Unità e Il manifesto, che hanno accolto i suoi veementi articoli sui temi dell’immigrazione, dei migranti, delle angherie e degli abusi perpetrati ai loro danni, della micidiale miopia italica e dell’assenza di memoria di quel popolo di migranti che sono sempre stati gli italiani. Per Consolo etica e scrittura sono una cosa sola,15 la memoria individuale e la memoria storica consentono lo scavo nel passato per riflettere sul presente; la lingua del suo scrivere – con le lingue sottostanti che la nutrono storicamente e culturalmente – è una lingua storica e filologica e non la si capirebbe se la si alienasse dal fondamento del determinarsi storico e sociale dei linguaggi. La esibita letterarietà di Consolo, tanto sottolineata dai critici, per essere correttamente intesa va ricompresa in un progetto artistico che utilizza l’opacità e il peso della tradizione letteraria come strumenti di una più acuta e complessa lettura della realtà. Se, infatti, Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 45 pur nell’ambito di una insistita critica sociale mossa dalla prospettiva di una solidarietà coi ‘vinti’ e coi subalterni non possiamo sottrarci alla constatazione (è questa la critica mossa a Consolo) della preziosità erudita del suo linguaggio, delle sue notevoli densità e perspicuità letterarie, lo si deve soprattutto al suo tentativo di drammatizzare una contraddizione che da sociale diventa, performativamente, stilistica e retorica. Quello che in realtà è lo scontro tra isole di ricchezza e oceani di indigenza diventa, nelle strutture narrative di Consolo, lotta tra l’abbandono lirico di un linguaggio (spesso anche in veste parodica) che è esso stesso ‘cosa’ (strumento di gioco e di piacere) e il dover essere etico e razionale per garantire la narrazione. Prosa e poesia si fronteggiano, esibendo ciascuna le proprie ragioni. La sua narrativa usa a piene mani una lingua e dei moduli poetici non strettamente narrativi (ma lontanissimi dalla prosa d’arte da lui aborrita): il retablo, il cunto, l’opera teatrale, la metrica versificatoria, espedienti stilistico-retorici quali l’enumerazione e l’iperbato, il repentino mutamento dei registri, che con il loro andamento ipotattico frangono la paratassi del più generale impianto narrativo. Le apparenti dissimmetrie, che la lectio riflette, tra piano dell’espressione – iper-letteraria, barocca – e quello del contenuto – materialistico, progressivo – sono ricomprese ma non ricomposte o pacificate nella sua scrittura, a causa di una contradditorietà mai risolta: il conflitto (sociale e retorico) rimane la cifra estetica più propria nell’opera di Consolo.16 L’apprendistato E veniamo alla lectio di Meneghello ‘L’apprendistato’, quintessenzialmente meneghelliana: autobiografica, riflessiva, ironica, giocata sapientemente sui diversi registri retorici che, come sempre nella sua scrittura, sono capaci di suscitare, in chi legge uno spettro variegato di emozioni: dal riso alla commozione alla riflessione al disincanto. Dall’inizio emerge subito l’interesse primario di una vita, il motore di tutti i suoi libri: l’attenzione alle parole e alle cose che esse veicolano inquadrata, da subito, nel suo personale percorso di studente dialettofono italiano e di professore di italiano in Inghilterra. Le sue lingue di cultura (italiano, greco, latino, inglese) affiorano subito, nel primo lungo paragrafo della lectio laddove, in modo colto e ilare, racconta di quel che provoca in lui l’essere in procinto di diventare ‘filologo’ e cerca di definire che cosa sia la filologia. Risale all’origine greca del termine dovuto a Eratostene, nel III secolo a.C., ‘matematico, ma bravo anche come 46 Giuliana Adamo astronomo, geografo, filosofo, storico, e altro ancora’ (‘L’apprendistato’, p. 37), che ‘[d]oveva essere un personaggio straordinario, molto più di Tagliavini’ (ibid., p. 36) – maestro di Glottologia di Meneghello a Padova che aveva scommesso coi propri alunni di ricostruire, partendo da una mezza pagina, nello spazio di un’ora, la grammatica (morfologia e sintassi) di una lingua sconosciuta. Meneghello si sofferma sulla definizione antica di Eratostene che pare fosse chiamato dai colleghi ‘pèntathlos’ come a dire ‘pentatloneta’, per segnalare questa versatilità, e forse per denigrarla. […] In inglese uno che riesce bene in molte cose […] è un all-rounder: dove io non ci sento sottointeso ‘[bravo in tutto] e dunque non supremo in nulla’. Ma ad Alessandria pare proprio che il sottointeso ci sia stato. (‘L’apprendistato’, p. 36) Alle ipotesi sulla filologia come versatilità di conoscenze e applicazione delle stesse, seguono le considerazioni sul lavoro filologico svolto da Eratostene nella sua qualità di direttore, a suo tempo, della Biblioteca di Alessandria ‘editore, recensore e emendatore di testi letterari’ (‘L’apprendistato’, p. 37). Tuttavia permane l’ambiguità del termine con cui si definiva ‘filologo’. Termine ombrello, per Meneghello, che accoglie almeno tre significati: 1) espressione legata al gusto del discorrere; 2) amante del lógos, ovvero più estensivamente ‘dotto’, ‘studioso’; 3) più specificamente e circoscrittamente ‘studioso delle parole […] insomma un linguista’ (ibid.). Le diverse facce della filologia che affascinano Meneghello lo portano ad uno dei suoi tipici scarti logici in conclusione della prima parte del suo testo: Contro le mie tendenze, mi si affaccia l’idea che anche per la filologia ‘it takes all sorts to make a world’, ci vuole gente di ogni risma per fare un mondo, vale a dire il mondo così com’è. Ma nei riposti ventricoli del mio sentimento non ci ho mai creduto del tutto. (‘L’apprendistato’, p. 38) Passa, quindi, ad una riflessione, brillantemente argomentata, sul suo rapporto con la linguistica (‘non mi considero un linguista’, ibid.), soffermandosi sulla sua lingua nativa, non materna (la mamma, friulana, non aveva latte) ma della balia maladense. Il dialetto di Malo è percepito da Meneghello quale ‘lingua del genere umano, gli esseri umani parlavano così, e i loro modi entravano in me, davano forma alle strutture interne (preesistenti, penso) della mia competenza, creavamo circuiti indistruttibili’ (‘L’apprendistato’, p. 38) lingua parlata, pre-logica, del cui apprendimento non aveva coscienza. Accanto, parallelamente, si innesca il processo Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 47 di apprendimento di una sorta di lingua seconda: l’italiano, di origine più artificiosa e innaturale appreso a scuola e sui libri, prevalentemente attraverso la lettura. Una lingua, sia ben chiaro, tutt’altro che nitida e netta a proposito della quale Meneghello si sente in dovere di precisare: veramente c’erano due filoni, quasi due matasse di viscoso tiramolla, schiaffate una sull’altra e annodate in una specie di doppia elica, come si vedeva fare nelle sagre di paese: il filone ufficiale, di stampo aulico e di derivazione letteraria, e il filone reale dell’italiano regionale. Quest’ultimo aleggiava attorno a noi, imparavamo noi stessi a servircene – quando si cercava di parlare in chicchera – e a mano a mano a scriverlo: certamente non ci rendevamo conto che fosse ‘italiano regionale’, la nozione non si era ancora formata o diffusa, e la cosa non sarebbe parsa allora una variante legittima della lingua nazionale. (‘L’apprendistato’, p. 38) La complessità di queste esperienze per lungo tempo non ha dato luogo ad un sistema articolato di idee sulla lingua, questo è potuto avvenire molto più tardi, grazie all’influenza di amici e colleghi incontrati in Inghilterra, parecchi dei quali a Reading, e la menzione silenziosa a Giulio Lepschy in particolare è connotativa del modo in cui Meneghello – si pensi soprattutto ai volumi delle Carte – alluda spesso a persone della sua realtà biografica evitando di farne i nomi, cifra tipica della sua scrittura zibaldonica.17 L’incontro e il confronto con il nuovo mondo culturale inglese, portano Meneghello a riconsiderare la sua precedente visione del proprio rapporto con le lingue: la struttura delle lingue ha subito un rivolgimento radicale, le vecchie impostazioni abolite e cancellate. Questa del nuovo che sopravviene e soppianta l’antico, pare uno schema ricorrente nella mia vita mentale. (‘L’apprendistato’, p. 39) Il punto cruciale della lectio, che lo avvicina pur nella loro diversità a Consolo, è dedicato a sottolineare che il suo vivo interesse per le lingue non riguarda l’analisi teorica delle loro strutture, ma ‘ciò che le lingue che frequentavo recavano con sé, un’immagine intensificata delle cose del mondo’ (ibid.), e questo si verifica soprattutto nella poesia: i poeti lirici in particolare, antichi e moderni, nelle lingue in cui li leggevo, latini, italiani, francesi, e per frammenti anche tedeschi e spagnoli (non inglesi, in principio: quelli sono venuti in seguito, nella mia tarda gioventù, in Inghilterra, ed è stata un po’ una gran 48 Giuliana Adamo mareggiata poetica). In queste scritture percepivo gli effetti di una forza oscura che mi sprofondava nel cuore della realtà: e non pareva rilevante, e nemmeno pertinente, che si trattasse davvero di lingue diverse, era come se fosse una lingua sola. (‘L’apprendistato’, p. 39) La lingua ha risorse infinite per sondare la realtà e Meneghello usa, per fare questo, l’unica lingua che conosce davvero: l’Alto Vicentino, o meglio, la lingua di Malo. Alludendo a Libera nos a malo sottolinea: Si formava in me scrivendo, il quadro naturale di queste varianti, ero in grado di distinguere con spontanea precisione tra questi diversi usi, e intravederne a sprazzi le separate capacità di esplorare, trivellando in profondo il reale. (‘L’apprendistato’, p. 39)18 Nell’ultimo scorcio del testo evoca uno dei temi a lui più cari, quello del lungo apprendistato che lo ha reso in grado di portare ‘ciò che scrivo a pareggiare la potenza di quell’antica esperienza, nei vari settori della vita che mi è capitato di attraversare’ (ibid.). Di grande efficacia retorica, e commovente, è la chiusa della lectio in cui, con un procedimento analogo a quello esperito da Seamus Heaney in ‘Digging’ nella raccolta Death of a Naturalist del 1966, laddove evoca la mano contadina del padre che afferra la vanga per scavare e la propria che impugna la penna per fare altrettanto (vv. 1-5): Between my finger and my thumb The squat pen rests: snug as a gun. Under my window, a clean rasping sound When the spade sinks into gravely ground: My father, digging. I look down per, quindi concludere (vv. 29-31): Between my finger and my thumb The squat pen rests. I’ll dig with it. si istituice un parallelo tra l’apprendistato di Luigi Meneghello scrittore e quello di Cleto Meneghello, suo padre, tornitore: Aveva imparato a tornire da ragazzo a Marano […]. Sui vent’anni era andato a Verona a fare il suo Capolavoro. […] Il capolavoro che gli diedero da fare era una vite senza fine; preparò il pezzo, misurò, ci fece i segnetti che bisogna farci per tornire una vite senza fine, e a Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 49 questo punto il capo che lo stava a guardare aveva già capito che era bravo e disse: ‘Basta così’. (‘L’apprendistato’, p. 40) Segue l’explicit, profetico, dell’ultimo discorso pubblico di Meneghello: Vorrei poter fare anche io così, se ne avrò il tempo, scrivere qualcosa di veramente conclusivo, magari solo una paginetta, o un paio, ma da scrittore finalmente maturo. E che voi, come già a mio padre i suoi esaminatori, mi diceste: ‘Ok, basta così’. (ibid.) Quanto emerso da questa lectio permette di ravvisarvi, analogamente a quanto visto nel caso di Consolo, le trame costitutive dell’intera opera di Meneghello: 1) La prima lingua innata e l’incontro con le altre lingue apprese che ha determinato la sua attività di vita e di scrittura. 2) Il ricordo di Malo – oggetto del suo continuo nóstos – eternato nelle sue opere. 3) La sua vita di perenne apprendista. Tutti elementi che convivono simultaneamente nella sua ultima lectio e in tutti i suoi libri. Cosa, dunque, hanno in comune Consolo (nato nel 1933 a Sant’Agata di Militello, in Sicilia, provincia di Messina e morto a Milano nel Gennaio del 2012) e Meneghello lo scrittore di Malo (nato nel 1922 a Malo, in Veneto, provincia di Vicenza e morto nel 2007 nella vicina Thiene)? Alcune cose più ‘esteriori’ furono indicate dallo stesso Consolo nel ricordo dedicato allo scrittore maladense, suo contributo alla Biografia per immagini su Meneghello, curata da Pietro De Marchi e da chi scrive. Lo riporto qui di seguito: La laurea honoris causa in Filologia moderna, a noi due insieme, a Meneghello e a me, quel giorno di giugno del 2007, là nell’aula magna del Rettorato di Palazzo Steri, in quel trecentesco palazzo che tante ne aveva viste (fu abitato dall’illustre famiglia dei Chiaramonte che l’aveva fatto costruire, fu poi sede vicereale, sede del Santo Uffizio, del tribunale e del carcere della terribile Santa Inquisizione). La laurea, dunque, insieme, a Meneghello e a me. E a me sembrava quel giorno, in quella magnifica aula, davanti al senato accademico e al vasto pubblico, di usurpare il posto di Licisco Magagnato, il Franco di Bausète, che si laureò a Padova nello stesso giorno insieme a Meneghello ed ebbero, i due laureati, insieme un solo ‘papiro’ di laurea ‘a due teste’. Però, quel giorno, mi rassicurava il fatto che Meneghello ed io eravamo gemelli, voglio dire che eravamo nati scrittori nello stesso anno, nel 1963, lui col suo Libera nos a malo ed io con il mio La ferita dell’aprile; e tutti e due ancora con uguale assillo linguistico, 50 Giuliana Adamo l’intrusione, nell’italiano, del vicentino, o meglio della lingua di Malo, ed io del siciliano, vale a dire di tutte le antiche lingue che giacevano nel siciliano. E poi… E poi, eravamo due dispatriati, il Meneghello in Inghilterra, a Reading, ed io nella Milano dei Verri, di Beccaria, di Manzoni, di Verga, di Vittorini… Dispatriati, noi due insomma, in due diverse ‘patrie immaginarie’. Cosa univa ancora, Meneghello e me? A guardare le immagini di quella cerimonia, l’autoironia dipinta sui nostri due volti. Ah, caro Meneghello, che incontro è stato quello con te a Palermo! Primo e ultimo incontro, perché subito, tornato a Thiene, tu sei partito per quel viaggio dal quale non si ritorna più. Ed io ti rimpiango. Tutti ti rimpiangiamo, ma ci confortano però i tuoi libri, tutti i tuoi magnifici libri. Quelli, sì, resteranno sempre con noi.. (Luigi Meneghello. Biografia per immagini, pp. 172-173) L’ironia, tratto assoluto dell’intelligenza, unisce di certo i due scrittori, ed il distacco anche geografico con il conseguente, lungamente reiterato, rispettivo nóstos. Così come il loro essere sempre stati fuori dal coro, spesso a remare contro le patrie tendenze critiche e letterarie (ricordo, per esempio, l’insofferenza di Meneghello per Quasimodo e Ungaretti e pure per Moravia, nonché quella di Consolo nei confronti del – per lui – letterariamente troppo tradizionalista Tomasi da Lampedusa, per l’avanguardista Gruppo 63, e per la maggior parte della nuova narrativa italiana, tra cui spiccava l’avversione per il dialetto posticcio e folklorico di Camilleri). Entrambi fuori, per loro (e nostra) fortuna, dalla logica aberrante del mercato editoriale. Pur in modi diversi entrambi voci contro nel panorama letterario italiano del secondo Novecento. E questo vale, ovviamente e ancor di più, per il problema della ricerca e della definizione della propria lingua di espressione letteraria a cui entrambi hanno dedicato il meglio della loro sapienza e della loro perizia, del loro talento e della loro passione. Tratti questi che li accomunano anche nel loro amore totale per la poesia, per la sua funzione e per la sua libertà espressiva. A questo punto, forzandolo in qualche modo ai fini del mio discorso, vorrei citare Wittgenstein che, nel 1929, in una sua lezione a Cambridge sostiene: ‘So far as facts and propositions are concerned there is only relative value and relative good, relative right’ e ancora: I believe the tendency of all men who ever tried to write or talk Ethics or Religion was to run against the boundaries of language. Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 51 This running against the walls of our cage is perfectly absolutely hopeless.19 Meneghello e Consolo si scontrano con lo stesso problema: in che lingua esprimere il mondo ‘possibile’ del proprio narrare? Dal canto suo Meneghello, che si è sempre misurato con la sostanza non univoca dell’esperienza umana cercando di darle una forma espressiva che il più possibile si avvicinasse al vero – anzi che fosse ‘più vera del vero’ – ammette: ‘Con le parole è impossibile essere precisi: non dico difficile, impossibile’ (Le carte III, p. 95). Eppure occorre narrare per capire il mondo, ma come? Risponde: con ‘la lingua nativa che illumina l’andamento delle cose’ (Le carte III, p. 99). Consolo, a sua volta, e analogamente dal suo punto di vista storicofilologico, si confronta con una realtà sfaccettata, plurivoca, composita, contraddittoria – si ricordi la sua visione e il suo tentativo di una resa plurima e dialettica della Storia – e per esprimerla, ritenendo ormai insufficiente e superata la lingua razionale-geometrica-comunicativa di Sciascia e Calvino, crea una lingua espressiva, dove la poesia evoca quello che la lingua italiana ormai ‘massificata’ e fatta scadere dall’abuso dei massmedia non è più in grado di comunicare. Una pulsione analoga muove i due scrittori. I risultati? Sorprendenti in ambo i casi. Sulla lingua di Meneghello critici e linguisti hanno detto tante cose e tra tutte si stagliano le perfette analisi di Giulio Lepschy che in un saggio del 1983,20 a proposito di Libera nos a malo, individua le tre lingue del libro quali: ‘italiano prezioso, italiano popolare, dialetto’, segnalando che ‘il dialetto è usato più per il suo valore espressivo o per la sua crudezza, che per la sua normalità o spontaneità’.21 E alla domanda ‘in che lingua?’ è scritto il libro, Lepschy, in sedi diverse, risponde senza indugi:22 In italiano. Libera nos a malo è un libro ‘italiano’, scritto ‘in italiano’, che appartiene alla cultura italiana (e attraverso ad essa a quella europea e internazionale), e insieme la arricchisce di elementi nuovi e originali.23 Un italiano reso più leggero e antiretorico grazie a quanto imparato nell’apprendistato inglese. Consolo, a cui potrebbero attagliarsi le parole di Lepschy su Meneghello (e a garantirne l’appartenza alla cultura internazionale, basterebbe la lista delle traduzioni delle opere di Consolo in quasi tutte le lingue romanze e in inglese, tedesco, olandese) arriva a forgiarsi una lingua espressiva, barocca (nel senso migliore del termine), 52 Giuliana Adamo ricchissima di citazioni – echi – rimandi che vanno dalla sfera erudita a quella più bassa. Lingua in cui convergono le lingue mediterranee: greco, latino, arabo, spagnolo, le varie parlate siciliane, incluse le lingue delle isole linguistiche (tra cui spicca il dialetto gallo-italico di san Fratello, paesino sui Nebrodi), italiano colto. La ricchezza linguistica consente la realizzazione della scrittura palinsestica di Consolo (per il quale sotto la superficie della propria scrittura ci devono essere i segni più importanti della letteratura di chi ci ha formato. E direi che su questo punto l’analogia con il ricchissimo tessuto narrativo di Meneghello è palese) e la messa a fuoco dell’irriducibile complessità del reale (da qui il suo preferito procedimento stilistico dell’amplificatio: l’accumulatio, soprattutto nominale), nello strenuo tentativo di rendere quello che è stato. La ricerca dei nomi di questo ‘archeologo della lingua’ non è semplice ricordo memoriale, ma attestazione del travaglio e del dolore di quella parola attraverso il male della storia. Rievocazione del tempo e dello spazio della Sicilia perduta attraverso i nomi che non sono segni di un’origine metafisica, ma della materialità del mondo prima della lacerazione, delle ferite, del dolore. Analogamente, Meneghello si è dedicato alla ricerca del recupero ‘archeologico’ di una società e di una cultura conosciute nell’infanzia e nella giovinezza e poi irrimediabilmente perdute. Non si tratta, però, di una rivisitazione della memoria percorsa dalla nostalgia e dalla retorica, ma di una vera e propria ricostruzione di ambienti, frammenti di vita e di cultura che mira a ridisegnare quella realtà attraverso una specie di ricerca antropologica, segnata sempre dal filo dell’ironia. E Consolo, in che lingua scrive? Non usava il dialetto: le espressioni, le parole dialettali sono sempre citazioni. Il suo linguaggio è l’italiano, ma l’italiano di Sicilia. Consolo, insomma, ripercorre la storia di Sicilia, dal Risorgimento all’ascesa del fascismo alla violenza mafiosa contemporanea, servendosi di un italiano costruito su ‘un fasto barocco e un ritmo musicale, con un gusto del dialettismo, del latinismo e dell’ispanismo, che contrastano espressionisticamente con i contenuti spesso tragici e con l’analisi, non sottolineata ma palesata e severa delle ragioni storiche’.24 Dice Consolo: Io non ho cercato di scrivere in siciliano assolutamente, ma vista la superficializzazione della lingua italiana e proprio per un’esigenza di memoria ho cercato la mia lingua che attingeva ai giacimenti linguistici della mia terra che erano affluiti nel dialetto siciliano, che io traducevo in italiano secondo la mia metrica della memoria.25 Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 53 Si potrebbero indicare molte altre aree di tangenza, vicinanza, analogia tra questi due scrittori che, pur diversi e geograficamente lontani, hanno dedicato la loro esistenza a mostrarci l’uno (Meneghello), più ‘antropologicamente’, che nella propria lingua nativa, innata e fondante, ‘le parole sono le cose’; l’altro (Consolo), con più impegno civile e utopia storica, che verrà un tempo in cui con parole nuove e, finalmente vere, perché riscattate dalla parzialità e dalle menzogne a senso univoco della Storia, ‘i nomi saranno riempiti interamente dalle cose.’26 È evidente che per entrambi il binomio etica e scrittura è indissolubile e che per entrambi scrivere sia una funzione del capire per avvicinarsi il più possibile alla realtà, all’unico ‘vero’ e, a questo proposito, grande è il debito nei confronti di Leopardi – di cui entrambi amano il poeta, il prosatore e il filosofo – contratto dai due scrittori. 27 Mi pare che la vicinanza più importante tra Consolo e Meneghello risieda in quella moralità che le parole di Franco Fortini definiscono come una forte e costante ‘tensione a una coerenza di valori e di comportamento’,28 espressa coerentemente e rispettivamente nella loro narrativa originale, coraggiosa, fieramente facente parte per sé stessa contro ogni tipo di omologante dittatura o partigianeria ideologica, letteraria, e del mercato editoriale. Trinity College Dublin Note 1 Ero presente a quella indimenticabile giornata palermitana sia per Consolo (su cui avevo appena finito di curare un volume di saggi), sia per Meneghello sulla cui opera stavo lavorando. Cfr. La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo, a cura di Giuliana Adamo, con prefazione di Giulio Ferroni (San Cesario di Lecce: Manni, 2006) e Volta la carta la ze finia. Luigi Meneghello. Biografia per immagini, a cura di Giuliana Adamo e Pietro De Marchi con curatela iconografica di Giovanni Giovannetti (Milano: Effigie, 2008). 2 Giulio Lepschy, ‘Introduzione’, in Luigi Meneghello, Opere scelte, progetto editoriale e introduzione di Giulio Lepschy, a cura di Francesca Caputo (Milano: Arnoldo Mondadori, 2006), pp.xlv-lxxxiv (p.xlvii). 3 Cfr. Cesare Segre, ‘Libera nos a malo. L’ora del dialetto’, in Per Libera nos a malo. A 40 anni dal libro di Luigi Meneghello, Atti del Convegno Internazionale di Studi In un semplice ghiribizzo (Malo, Museo Casabianca, 4-6 settembre 2003), a cura di Giuseppe Barbieri e Francesca Caputo (Vicenza: Terra Ferma, 2005), pp. 23-27 (pp. 23-24). 4 Maria Attanasio, ‘Struttura-azione di poesia e narratività nella scrittura di Vincenzo Consolo’, Quaderns d’Italià, 10 (2005), 19-30 (p. 24). Ricordo, inoltre, che Consolo, nel solco di una discussione europea, negli anni del suo esordio letterario, circa il destino e la funzione del romanzo storico, ha ripudiato nella sua opera gli intrecci intrattenitori del romanzo tradizionale, ragione per cui, come non si è stancato di rimarcare nei suoi scritti e nei suoi 54 Giuliana Adamo interventi pubblici, scelse di spostare la scrittura dal ‘romanzo’ alla ‘narrazione’, secondo l’accezione datane da Walter Benjamin. Quanto al ripudio della lingua razionale e illuminista, lingua di una speranza ormai perduta irrimediabilmente, esso è motivato dalla mutazione antropologica avvenuta a seguito del boom industriale italiano nel corso degli anni ’50 del Novecento, su cui il Pasolini del saggio ‘Nuove questioni linguistiche’ (1964) ha scritto pagine fondamentali. La scelta poetico-espressiva della lingua letteraria di Consolo era in polemica con il linguaggio comunicativo, omologante, impoverito, tele-stupefacente determinato dall’avvento inarrestabile dei mass media. 5 Vincenzo Consolo, ‘Due poeti prigionieri in Algeri: Miguel de Cervantes e Antonio Veneziano’ in Lectio Magistralis, documento ciclostilato (Palermo: Università degli Studi di Palermo, Facoltà di Lettere e Filosofia, 2007), pp. 23-34 (questo è il mio testo di riferimento): ora in La passion por la lengua: Vincenzo Consolo. Homenajes por sus 75 años, a cura di Irene Romera Pintor (Generalitat Valenciana: Universitat de Valencia, 2008), pp. 29-38. Luigi Meneghello, ‘L’apprendistato’, in Lectio Magistralis, documento ciclostilato (Palermo: Università degli Studi di Palermo, Facoltà di Lettere e Filosofia, 2007), pp. 49-56; ora in Luigi Meneghello. Biografia per immagini, pp. 36-40 (è questa l’edizione a cui faccio riferimento). 6 Consolo alla p. 24 della sua lectio ricorda: ‘Nel 1894 la palermitana Società di Storia Patria pubblica il fascicolo dedicato ad Antonio Veneziano per il terzocentenario della sua morte’ e annota che il bibliotecario della Società era Giuseppe Lodi, a cui si devono le parole riportate nella citazione. 7 I romanzi di Vincenzo Consolo, di cui cito solo le prime edizioni: La ferita dell’aprile (Milano: Mondadori, 1963); Il sorriso dell’ignoto marinaio (Torino: Einaudi, 1976); Lunaria (Torino: Einaudi, 1985); Retablo (Palermo: Sellerio,1987); Nottetempo, casa per casa (Milano: Mondadori, 1992); Lo spasimo di Palermo (Milano: Mondadori, 1998). 8 Leonardo Sciascia, ‘Introduzione’ in Antonio Veneziano, Ottave (Torino: Einaudi, 1967), p. 7. 9 Enrico Testa, Lo stile semplice (Torino: Einaudi, 1997), p. 348. 10 Sulla plurivocità della lingua consoliana d’obbligo il riferimento al saggio di Cesare Segre, ‘La costruzione a chiocciola nel Sorriso dell’ignoto marinaio’, in Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento (Torino: Einaudi, 1991), pp. 71-86 (p. 83). 11 A proposito della descrizione riportata a testo, alludo di volata alla necessità visiva della scrittura di Consolo che – basti solo pensare a qualche suo titolo: Il sorriso dell’ignoto marinaio (Antonello da Messina), Lo Spasimo di Palermo (Raffaello), Retablo etc. –, contrae un debito sostanziale e fondante con la pittura analogamente a Meneghello che notoriamente rimase folgorato, all’inizio del suo apprendistato inglese, dal metodo didattico del Warburg Institute su cui ha scritto pagine importanti e sui cui ha ampiamente basato il suo insegnamento e quello del dipartimento di Studi Italiani da lui fondato a Reading. Si veda, inoltre, quanto riportano Giuseppe Barbieri e Ernestina Pellegrini, rispettivamente, alle pp. 191 e pp. 197-202 di Luigi Meneghello. Biografia per immagini. 12 Renato Nisticò, ‘Cochlìas legere. Letteratura e realtà nella narrativa di Vincenzo Consolo’, Filologia antica e moderna, 4 (1993), 179-223 (p. 182). 13 Sulla salvezza della scrittura, da varie prospettive, si ricordino le parole di Meneghello: ‘la crisi di tutto il mio sistema di idee pre-inglesi, durata decenni, un lungo, interminabile periodo in cui ho dovuto tener duro, hold tight, come un naufrago su uno scoglio: usando ciò che potevo, aggrappandomi a ciò che avevo, per esempio, la prosa di Leopardi’: Luigi Meneghello, Le Carte. Materiali manoscritti inediti 1963-1989 trascritti e ripuliti nei tardi anni Novanta, 3 voll. (Milano: Rizzoli, 2001), III, p. 185. E ancora: ‘“Scavi”. Estrarre “salvezza” dallo scrivere […]. È una specie di scavo continuo […]. Vado a scavare in tutto quello che mi è capitato: scavo, butto via e ricomincio, perché sono convinto che in qualche parte là sotto deve esserci quello che cerco, i nuclei del materiale effusivo e il luccichìo delle scorie vetrificate dove si Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 55 vede risplendere, che cosa di preciso? come dirlo?’ (ibid., p. 258). 14 Si confronti con quanto, analogamente, dichiara Meneghello, a proposito dell’autobiografia, nell’intervista concessa a Luca Bernasconi, in Luigi Meneghello. Biografia per immagini, p. 205: ‘Però tutto questo non è fondato sull’idea che ciò che è accaduto a me ha qualche importanza, anzi sono convinto che non ne ha praticamente nessuna per gli altri, se non per me. Ma dentro contiene qualche cosa che non appartiene solo a me e, scrivendo, qualche volta emerge. Quando emerge, allora va bene, ce l’abbiamo fatta; e l’autobiografia è diventata qualche cosa di più e di diverso.’ 15 A questo argomento nel 2002 è stato dedicato un convegno a Parigi, alla Sorbonne Nouvelle, i cui atti si possono leggere nel seguente volume: Vincenzo Consolo. Étique et Écriture a cura di Dominique Budor (Parigi: Presses Sorbonne Nouvelle, 2007). 16 Su questi aspetti si veda Nisticò, ‘Cochlìas legere. Letteratura e realtà nella narrativa di Vincenzo Consolo’. 17 Cfr. I seguenti volumi: Le Carte. Materiali manoscritti inediti 1963-1989 trascritti e ripuliti nei tardi anni Novanta. Volume I: Anni Sessanta (Milano: Rizzoli, 1999); Le Carte. Materiali manoscritti inediti 1963-1989 trascritti e ripuliti nei tardi anni Novanta. Volume II: Anni Settanta (Milano, Rizzoli, 2000). Per il volume III delle Carte si rimanda alla nota 13. 18 Si confrontino Meneghello e Consolo: le operazioni fatte sono diverse ma analoghe. Entrambi scavano nella propria lingua. Meneghello in quella parlata e non scritta del paese natale, nell’ambito storicamente ristretto alla propria esperienza biografica infantile e giovanile a Malo, nei due decenni degli anni ’20- ’40 del Novecento. Consolo, dal canto suo, scava storicamente e socialmente in un contesto storico millenario, secolare per: a) restituire la ricchezza linguistica del passato altrimenti destinata all’oblio; b) per rapportarsi sempre, metaforicamente, al presente. Meneghello: lingua della propria memoria biografica; Consolo: lingua della memoria storica collettiva. Ma la spinta etica a cercare di raccogliere nella loro lingua di espressione quanto di essenziale, di universale sia possibile reperire e tale da travalicare le proprie esperienze individuali è quello che li accomuna nel loro essere due ‘classici’ fuori dal coro. 19 Cfr. Ludwig Wittgenstein, ‘Lecture on Ethics: 1929- 1930’, ora in Ludwig Wittgenstein’s Lecture on Ethics. Introduction, Interpretation and Complete Text, a cura di Valentina Di Lascio, David Levy, Edoardo Zamuner (Macerata: Quodlibet, 2007), p. 42. 20 Sulle lingue di Meneghello, si vedano i lavori di Giulio Lepschy: ‘“dove si parla una lingua che non si scrive”’, in Su/Per Meneghello, a cura di Giulio Lepschy (Milano: Edizioni di Comunità, 1983), pp. 49- 60; ‘Le parole di Mino. Note sul lessico di Libera nos a malo’, in Luigi Meneghello, Il tremaio. Note sull’interazione tra lingua e dialetto nelle scritture letterarie (Bergamo: Lubrina Editore, 1987), pp. 75- 93. 21 Lepschy, ‘“dove si parla una lingua che non si scrive”’, p. 49 e p. 50. 22 Cfr. Giulio Lepschy, ‘In che lingua?’, in Per Libera nos a malo. A 40 anni dal libro di Luigi Meneghello, pp. 15-22; ‘Introduzione’, pp.xliii-lxxxiv. 23 Lepschy, ‘In che lingua?’, p. 22 24 Cesare Segre, La letteratura italiana del Novecento (Roma-Bari: Laterza, 2004), p. 92. 25 Vincenzo Consolo, ‘I muri d’Europa’, Estudos Italianos em Portugal, Nova Série, numero a cura di Giovanna Schepisi, 3 (2008), 229-236 (p. 233). 26 Il sorriso dell’ignoto marinaio (Milano: Oscar Mondadori, 2004), p. 114. 27 Cfr. quanto Meneghello dice a proposito di Leopardi nella nota 13. 28 Franco Fortini, Attraverso Pasolini (Torino: Einaudi, 1993), p. 67

The Italianist (2012)

Consolo “Le ombre della nostra cultura”

L’INTERVISTA

Consolo “Le ombre della nostra cultura”

Vincenzo Consolo

Vincenzo Consolo

Il suo viaggio di ritorno in Sicilia è iniziato nello stesso momento in cui è partito da Sant´Agata di Militello, sulla spinta di quella verghiana «fantasia dell´ignoto». Vincenzo Consolo nei sui quarant´anni e passa poi vissuti a Milano non ha fatto altro che rimuginare sull´Isola e a scriverne. Il passato e il presente della sua terra sovrapposti alla quotidianità di un luogo altro. La storia è antica. Verga in una lettera a Capuana scriveva che bisogna partire per andare alla «grand´aria» per vedere da lontano la realtà siciliana e così poterla capire meglio. Ma poi, aggiungeva, occorre ritornare per verificare. «Il mio è un eterno ritorno – dice Consolo – Non sono d´accordo con Quasimodo, che asseriva che nessuno lo avrebbe più portato in Sicilia. Oggi tra l´altro in questo mondo riavvicinato, oltre che con la fantasia si può viaggiare con comodi aerei. Io vivo dentro la storia isolana». Lo scrittore de “Il sorriso dell´ignoto marinaio” è il testimonial del convegno di “Repubblica” per fare il punto sui dieci anni dell´edizione di Palermo che si terrà martedì 20 novembre al teatro Biondo. “Dalla Sicilia al mondo, il viaggio della cultura”, è il tema su cui si confronteranno i personaggi dell´arte, della letteratura e dello spettacolo isolani. Con l´intervista a Consolo diamo il via al dibattito.

Consolo, c´è oggi una letteratura siciliana?
«No. Non esistono più letterature radicate in uno specifico territorio. Né del Nord né del Sud. La globalizzazione ha omologato tutto. Funzionano solo i modelli che detta il mercato a cui tutti ormai sembrano asserviti. Sono i potentati editoriali o della distribuzione che hanno il monopolio dell´offerta e quindi decidono i temi da consumare. Basta entrare in una qualsiasi libreria per provare un giramento di testa di fronte a quelle pile di libri, moltissimi cloni negli argomenti e nel linguaggio».

Quali sono i generi più frequentati dagli scrittori?
«Gialli, polizieschi che dir si voglia, intimismo, sesso, storia addomesticata, maghi e maghetti e fantasy vari».

Quindi ci sta dicendo che la Sicilia è stritolata da questo meccanismo?
«Sicuramente. Ormai quel che conta è apparire. In Sicilia e altrove. Non sembrano più esserci margini per una narrativa che esplori in lungo, in largo e in profondità, un´area circoscritta, per capire e non per mettere insieme una trama da fiction finalizzata a fare cassetta. Ed è il numero a determinare la qualità».

In una delle sue ultime interviste, il poeta Mario Luzi ci disse che la letteratura del Novecento sarebbe povera cosa senza gli autori siciliani. Dopo tanta grandeur dobbiamo ora rassegnarci a una marginalità senza futuro?
«La crisi è iniziata negli anni Settanta del secolo scorso, quando è diventata visibile quella mutazione antropologica teorizzata da Pasolini. Il nostro Paese si modernizzava velocemente, subendo però modelli importati dall´esterno. Da qui un asservimento culturale, linguistico, negli usi, nei costumi e nei consumi. Oggi ogni luogo è per molti versi intercambiabile con ogni altro. Quindi, la letteratura perde quella capacità di esplorazione, di introspezione di un contesto unico. Da qui la perdita di ogni forza espressiva e di ogni verità storica».

Molti dicono che il “noir”, abbastanza praticato nell´Isola, ha suonato a morte le campane della narrativa. Cosa ne pensa?
«Con Sciascia ho discusso parecchie volte di questo argomento. Io sostenevo che il “noir” fosse il genere più conservativo, perché con la sua filosofia consolatoria forniva un grosso sostegno alle società capitalistiche».

Si spieghi.
«Qual è lo schema che seguono Agatha Cristhie, Rex Stout e altri? C´è un assassinio, poi un´indagine caratterizzata da colpi di scena, alla fine la scoperta del colpevole. Con la condanna tutto torna al suo posto. Il corpo sociale resta protetto e quel mondo continua a essere, citando Voltaire, il migliore dei mondi possibili. Le magagne della società restano ben nascoste. Con Sciascia questo teorema viene completamente rovesciato: con lui – vedi “Il giorno della civetta”, “A ciascuno il suo”, ma anche gli ultimi suoi “gialli” – c´è il morto, c´è un´indagine, ma non si arriva mai alla verità. Perché così succede nella realtà. Mafia e politica al potere riescono ad occultare ogni verità. Ed è quello che è accaduto nell´ultimo secolo nel nostro Paese. Sciascia, che viveva in una realtà permeata dallo strapotere mafioso, ricorreva all´espediente del giallo per denunciare queste commistioni e l´eterna mancanza di verità».
Sciascia però amava il poliziesco tout court a prescindere da ogni valenza politica e sociologica. Come lo spiega?
«Leonardo era uno scrittore razionale e quindi era portato ad apprezzare le dinamiche logiche della dialettica poliziesca. Il fatto che mi consideri un allievo di Sciascia, non significa essere però d´accordo con lui su tutto. Un critico russo, Victor Slowsky, ha sostenuto che la storia della letteratura è una storia di parricidi. Quasi sempre c´è un rovesciamento dell´assunto del padre da parte dei figli. Parricidi sono stati, ad esempio De Roberto nei confronti del suo maestro Verga, Pirandello per De Roberto e io per Sciascia. E lui stesso nella prefazione de “Il sorriso dell´ignoto marinaio” rimarca questo parricidio. La devozione a Leonardo non mi ha impedito di cercare una mia verità».

Parricida in che modo? Sui contenuti, sul linguaggio?
«Sui contenuti condivido tutto di Sciascia. A cominciare dalla sua capacità di leggere le cose del passato, facendone metafora della contemporaneità. Sul linguaggio, invece, lui e altri grandi scrittori degli anni Sessanta, penso a Calvino, Moravia, Elsa Morante, continuavano sul solco di una pulizia linguistica che partiva da Manzoni. Un gruppo di giovani, io, Luigi Meneghello e Lucio Mastronardi, allora abbiamo ritenuto che la mutazione in atto della società, anche linguistica, abbisognava di un nuovo idioma per poterla raccontare. È nato sotto questi auspici il mio primo libro “La ferita dell´aprile” nel 1963. Una ricerca che poi ha trovato più consistenza nel “Sorriso”».

Figli o nipotini di Gadda e di Pasolini?
«No. I due grandi autori muovevano da Manzoni per ritornare al dialetto. Io invece partivo, e parto ancora, dalla profondità del nostro lessico per approdare alla lingua nazionale. Col siciliano convivono tante lingue “sepolte”, quelle delle varie dominazioni che si sono succedute. E allora io ne dissotterravo, e ne dissotterro, frammenti – di greco, spagnolo, arabo – per tradurli in italiano, ritrovando così grande vigore espressivo».

In questi giorni si parla molto de “I vicerè” di Federico De Roberto, riletti per il cinema dal regista Roberto Faenza. Sciascia, contravvenendo alla scomunica di Benedetto Croce, scrisse che era il romanzo più importante di tutta la letteratura dopo “I promessi sposi”. È d´accordo?
«Completamente. È un grande romanzo che ci racconta le utopie e le disillusioni dell´Unità, le stesse che contraddistinsero il Risorgimento. Ma in quel momento storico – “I vicerè” uscì nel 1894, l´anno della feroce repressione dei Fasci dei lavoratori – De Roberto era scomodo. Anche gli altri suoi libri “L´illusione” e “L´imperio” erano fuori dalle poetiche del tempo, seppure specchio di quella società. Non dimentichiamo che eravamo in pieno dominio del decadentismo dannunziano, per cui bisognava parlare dei trionfi e non dei fallimenti».

Anche il “Gattopardo” racconta il fallimento di quella rivoluzione annunciata da Garibaldi. Ma lei su questo capolavoro da sempre esprime riserve. Dove è la differenza con “I vicerè”?
«Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che aveva un conto in sospeso con De Roberto, spietato con la nobiltà del tempo, ci propone una sua visione meccanicistica e pessimistica della storia, a suo dire incapace di registrare cambiamenti. In realtà lui nel “Gattopardo” non fa altro che assolvere la classe nobiliare di cui fa parte. Quando dice che ai gattopardi succederanno le iene e gli sciacalli, dimentica di aggiungere che quelle iene e quegli sciacalli li hanno allevati loro, gli aristocratici, ricevendone in cambio le risorse per continuare a fare la bella vita. Loro hanno creato i Sedàra. Loro hanno armato la mafia nei loro feudi. Non si può autoassolversi così come se non ci fossero responsabilità».

È una lettura ideologica che forse non rende giustizia alla grandezza del romanzo. Lo stesso errore che ha fatto Vittorini bocciandolo. O no?
«Mettiamo i puntini sulle “i”. “Il Gattopardo” è un grandissimo romanzo scritto da un uomo sapientissimo, ma esprime un punto di vista che ritengo inaccettabile. In quanto a Vittorini, ha portato addosso una croce che non si meritava. Le cose sono andate così: Fausto Flaccovio gli ha mandato il romanzo. Vittorini pensando che glielo segnalasse per i suoi “Gettoni” Einaudi, e ritenendolo inadatto per quella collana sperimentale, lo ha inviato alla Mondadori segnalandolo per la “Medusa”, una “contenitore” più congeniale. Lì, il solito burocrate non capendo la qualità del manoscritto, lo ha rimandato indietro. Me lo hanno raccontato i due collaboratori di Vittorini testimoni del tempo. Ma la verità come sempre fatica a farsi strada».

da Repubblica del 16 novembre 2007

 

Conversazione con Vincenzo Consolo

A colloquio con lo scrittore siciliano

Conversazione con Vincenzo Consolo

Ho sentito il bisogno di incontrare Vincenzo Consolo dopo aver letto uno a poca distanza dall’altro, due dei suoi romanzi, Il sorriso dell’ignoto marinaio del 1976 e Nottetempo casa per casa del 1992. Lo spazio di tempo che ho lasciato tra i due libri mi è servito per gustare appieno il piacere e l’emozione per la scoperta de Il sorriso, nel timore forse che un secondo libro avrebbe potuto smorzare il grande entusiasmo che mi era nato.

   “Perché li hai letti uno di seguito all’altro? – mi chiede Consolo – Io li considero un dittico, potrei metterli accanto, questi due libri, perché oltre a svolgersi nello stesso luogo (Cefalù), sono complementari proprio perché partono da una concezione diametralmente opposta: nell’uno c’è il racconto di un’utopia politica,  nell’altro c’è il racconto del crollo di questa utopia, di una sconfitta. Sono due momenti storici diversi: il primo è il 1860, quando si erano accese le speranze per le classi emarginate; il secondo è attorno agli anni Venti, quando c’è l’arrivo del fascismo.”

   Non so neppur io perché abbia letto proprio quei due libri e in quell’ordine. Lo considero un segno benevolo del destino mentre mi guardo attorno, seduta nel suo studio milanese:

   Non avevo voluto sapere nulla di lui, tranne quel poco che avevo letto sui giornali durante l’infuocata campagna elettorale della primavera passata per le amministrative a Milano, quando era intervenuto, provocatoriamente contro la Lega.

   Dolcevita di lana e golf (vestito allo stesso modo, avevo incontrato un altro siciliano, qualche anno fa, in una fredda giornata d’inverno, Giuseppe Migneco), si scusa: “Perdoni se qui fa caldo, ma noi teniamo il riscaldamento un poco alto”.

   Allora penso subito al calore della sua terra, al sole, mentre fuori piove e Milano, è immersa nell’intenso, intimo grigio dell’autunno lombardo. (Questa grande città deve avere esercitato un fascino profondo, seppure non facile, su tanti grandi siciliani, da Verga a Vittorini, da Quasimodo a Guttuso e Migneco…)

   Le pareti della stanza sono coperte da semplici scaffali di legno chiaro pieni di libri; un poco ovunque, attorno, segni del suo gusto, della sua storia: dall’antica incisione della pianta di Messina alla raccolta di letteratura francese (è figlio della ragione illuministica, Vincenzo Consolo, rinato però alla speranza nella visione marxiana della storia, oggi naufragata); dalla maschera di morte di Giacomo Leopardi (dietro lo scrittoio, un poco di lato) ai tanti libri, librini e libroni sulla Sicilia; dai preziosi volumi di letteratura italiana della Ricciardi e dei classici Mondadori e Bompiani all’ antica piastrella di maiolica e al grande piatto con limoni, di Migneco. Il lampadario, in legno dorato, è di gusto barocco; ceramiche dalle forme e dalla patina antica (in Nottetempo descriverà accuratamente l’arte del costruire una giara, come segno di conoscenza e di rispetto della cultura dei vinti, dai potenti, della storia…)  si accompagnano a stampe di gusto simbolista ( ce n’è una di Max Klinger, autore già amato da Sciascia, che lo cita in Una storia semplice); due piccoli divani, bianco e verde-mare, completano il mio ricordo della stanza. (Mi perdoni professore ho cercato di conoscerla anche attraverso le sue cose). Tutto è come calato in una precisa misura, dove chiara è la predilezione per la semplicità; non ci sono esagerazioni. La stessa compostezza è in lui, gentile davvero, il volto sereno ed espressivo, animato da passioni certo vive che non devono però amare gesti plateali, radicate come sono nel profondo, nell’antico.

       Tra novembre e dicembre due sono stati gli incontri: il primo fatto di un lungo colloquio un po’ su tutta la sua vicenda letteraria; il secondo, divenuto necessario per chiarire e precisare un paio di punti rimasti in ombra. Ascoltarlo è stato un piacere: la voce calda e profonda, il parlare piano e semplice, attento sempre all’interlocutore.

      Il titolo di questo articolo è, naturalmente, un omaggio al grande libro di Vittorini Conversazioni in Sicilia e ad una terra anche da noi conosciuta e tanto amata.

Dove è nato, professore? A Cefalù?

      C.: Sono nato in un paese vicino a Cefalù, a Sant’Agata di Militello, sulla costa tirrenica. Per ragioni di ordine letterario, diciamo, nella mia immaginazione mi sono spostato più verso il mondo occidentale, perché il mondo occidentale siciliano è quello più strutturato dal punto di vista storico, mentre il mondo orientale (Messina e tutta la costa ionica) è un mondo meno strutturato da questo punto di vista, perché lì la storia è stata cancellata dai disastri umani, è più invasa dalla natura (il terremoto di Messina e la presenza di un fenomeno come quello dell’Etna). Questo ha fatto si – almeno io, nella mia immaginazione, l’ho potuto constatare – che ci siano in Sicilia due letterature, diametralmente diverse e opposte: quella della Sicilia orientale e quella della Sicilia occidentale. Quella orientale è contrassegnata da una sorta di propensione al canto, al lirismo e soprattutto alla forma. Il caso eclatante è quello di Verga. Uno scrittore come Verga non poteva che nascere sulle falde dell’Etna, con la presenza di questo fenomeno naturale che toglie ogni speranza. Un discorso storicistico da quella parte è difficile che nasca.

     Poi, naturalmente, ci sono le eccezioni, come De Roberto, però lì sono nati i poeti. Quasimodo è nato da quella parte. Vittorini stesso, che era impegnato sul piano della storia, quando scriveva era estremamente lirico.  D’Arrigo, per esempio, è un altro caso di lirismo, come lo stesso Bufalino, con impegno formale più accentuato.

     Dalla parte occidentale, invece, gli scrittori sono più logici.

All’inizio, quando mi sono trovato a scrivere, ho avuto lo svantaggio di vivere alla confluenza di questi due mondi; ero al centro. E poi ho capito che avrei potuto trovare la mia identità cercando di far unire questi due mondi:  partire da un presupposto storicistico, razionale e poi spostarmi verso la zona poetica, verso la zona lirica e formale.

Lei ha compiuto studi classici, immagino. In Sicilia?

       C.:  Sì, sono cresciuto in Sicilia, ma sono venuto a Milano per fare gli studi universitari. E poi, quando ho capito che volevo fare lo scrittore, me ne sono tornato in Sicilia. Ma L’idea che avevo di fare lo scrittore era di tipo sociologico, perché allora le letture erano proprio di tipo meridionalistico. Scrittori per me centrali erano il Carlo Levi di Cristo si è fermato a Eboli…

Quando è arrivato a Milano?

        C.: Era il 1952, una Milano molto diversa da quella che avrei ritrovato più tardi.

Una città però molto viva, allora.  

     C.: Sì, erano gli anni della ricostruzione. Io sono venuto per frequentare l’Università Cattolica; avevo trovato alloggio nel collegio universitario. Avrei voluto iscrivermi a lettere, ma per l’opposizione della mia famiglia ho scelto legge come via di compromesso.

     In quegli anni, in quell’ateneo, c’erano tante persone che poi sarebbero diventate classe dirigente italiana: c’erano i De Mita, i fratelli De Mita; c’erano Riccardo Misasi e Gerardo Bianco; c’era Fanfani che insegnava ad Andreatta; e molti altri ancora!

     Io approdai lì casualmente, seguendo l’esempio di un mio compaesano. Il convitto costava poco, garantendomi una stanza e una mensa, ma non è che avessi una particolare convinzione di tipo ideologico o religioso; la mia era una famiglia laica.

     L’Università Cattolica era allora frequentata sia dai rampolli della borghesia milanese e lombarda di tipo cattolico, per i quali era una scelta, sia da una gran massa di meridionali (e tra questi i nomi che ho citato), gente modesta per lo più, mandata lì dai parroci e dai vescovi della provincia italiana, molto spesso con un certificato di povertà, grazie al quale studiavano gratuitamente.

     Mentre vivevo lì, ho visto una cosa che mi ha colpito molto. Nella piazza Sant’Ambrogio c’erano allora due realtà importanti: una era l’Università, il luogo degli studenti; l’altra era il Centro Orientamento Emigrati, così si chiamava. Era ospitato in un vecchio convento, una sorta di casermone, dove adesso c’è la Celere e anche un posto di Polizia. In quegli anni, quando andavo nella piazza, vedevo masse di meridionali che, prelevate alla stazione su appositi tram, venivano scaricate lì.

Portate in questo Centro Orientamento venivano poi sottoposte a visite mediche e avviate in seguito nei vari luoghi di emigrazione. Da Milano partivano per andare in Francia, in Belgio, in Svizzera, nell’Europa centrale, insomma; quelli che andavano in Germania. Venivano raccolti a Verona.

    A noi studenti poteva capitare di incontrare dei compaesani che emigravano oppure dei compaesani vestiti da poliziotti, che per bisogno si arruolavano nella cosiddetta polizia di Scelba.  Io ho incontrato un compaesano che giocava con me all’oratorio, si chiamava Giacomino, era vestito da poliziotto, col manganello.  Io non so se quelli che sono diventati poi uomini politici abbiano visto, abbiano osservato la realtà che io osservavo.

     Allora sarei potuto rimanere a Milano, perché in quegli anni il lavoro si trovava.

Erano gli anni in cui a Milano c’era anche Marotta, e c’erano naturalmente Vittorini e Quasimodo…                

       C.: Io ero venuto proprio sulla scia di questa mitologia milanese della letteratura siciliana. Amavo molto la letteratura e inconsciamente ero venuto anche per quello, sapevo della presenza loro e di altri artisti.

Li conosceva già? 

     C.: No, assolutamente. L’unica persona che avrei desiderato conoscere in quegli anni era Vittorini, però ero talmente timido che non osavo…

     Al finire degli studi, poi, me ne sono tornato in Sicilia, per scrivere.

     Per vivere mi misi ad insegnare, in scuole agrarie, in paesi di montagna, sui Nebrodi, alla confluenza con le Madonie, con paesi a 1000 metri di altezza. Andavo ad insegnare a San Fratello, a Caronia; erano luoghi quanto mai lontani. Insegnavo diritto, che allora si chiamava Educazione Civica e Cultura generale (significava italiano, storia e diritto). Però poi mi accorsi che quella scuola era una finzione perché i ragazzi erano destinati all’emigrazione; l’agricoltura stava chiudendo e quindi… I loro padri erano già emigrati.

Lei parla degli anni a cavallo tra il 1950 ed il ’60. I contadini venivano spesso trattati ancora come servi della gleba. Da ragazzina io ho vissuto non pochi mesi, proprio allora, in Sicilia e ricordo bene quella realtà.     

     C.: Era una realtà tremenda. Non era ancora stata fatta la riforma agraria (che fu poi una beffa, che non approdò a niente perché le terre migliori se le appropriarono gli amministratori e ai contadini diedero le pietraie, in luoghi irraggiungibili). C’era allora il processo di industrializzazione del paese, quindi questa gente era costretta ad emigrare.

     Comunque io avevo preso questa decisione di raccontare il mondo contadino nel momento in cui questo spariva. Nel ’63, però, quando mi misi a scrivere, misi da parte le intenzioni che avevo, che erano fortemente politiche e sociologiche; l’istinto mi portò a scrivere in un altro modo, che è quello proprio della forma prettamente letteraria, con una connotazione stilistica molto, molto accentuata. Sentivo quest’impegno della storia, ma amavo e seguivo molto la letteratura.

     Nel primo libro parlavo degli anni di me adolescente: ho voluto raccontare il dopoguerra in Sicilia, la caduta del fascismo, l’arrivo degli americani, la ricostituzione dei partiti, le prime elezioni del ’47 e poi la strage di Portella delle Ginestre e quindi le elezioni del ’48, con questa sorta di pietra tombale che cadde su questo paese. Voleva essere una storia emblematica di quello che era successo, raccontando delle ennesime speranze che s’erano accese in Sicilia nel secondo dopoguerra e del come queste speranze finirono quando arrivò quel grande partito, che è durato cinquant’anni da noi…

     E il libro narrava proprio questo, ma visto con gli occhi di un adolescente, quindi con un linguaggio molto trasgressivo. Io mi rifiutavo di scriverlo in italiano e allora mi sono costruito, come cifra stilistica di estrema opposizione, un dialetto. Mi sono immaginato di un paese vicino al mio, che si chiama San  Fratello ed è un’antica colonia lombarda, un’isola linguistica. È una cifra che mi ha accompagnato anche per altri libri, anche nel Sorriso, in Lunaria e, in modo più accentuato, nelle Pietre di Pantalica e questo per dire, appunto, di una estremità linguistica da cui io sempre parto per approdare poi alla lingua, al toscano.

     Istintivamente, allora mi collocai proprio come un ragazzo che veniva da quel paese dove si parla un antico gallico, che era la lingua che si parlava nella pianura padana (la diversità linguistica nell’estrema diversità siciliana quindi).  Fu una forma istintiva di trasgressione, di opposizione al codice linguistico dei grandi, che era quello paterno. C’era già, in quel primo libro, questa sorta di impasto linguistico.

Che è già la ricerca di quel «nuovo significato delle parole»? Lei ha scritto, in un passo bellissimo del Sorriso, a proposito di tutti quelli «che mai hanno raggiunto i diritti più sacri ed elementari, la terra e il pane, la salute e l’amore, la pace, la gioia e l’istruzione»: «…tempo verrà in cui da soli conquisteranno que’ valori, ed essi allora li chiameranno con parole nuove, vere per loro e giocoforza anche per noi, vere perché i nomi saranno intieramente riempiti dalle cose».

     C.: Sì, e queste parole nuove sono parole antiche, nel senso che sono parole seppellite dal codice imperante, dal codice della comunicazione, che io cerco di disseppellire, di «rimettere» in circolo… Non è solo un gioco formale, è un gioco anche di contenuti, perché la letteratura è scrittura. C’è stato in me questo rifiuto di adottare il solito codice comunicativo, per praticare un codice fortemente espressivo; si tratta di un bisogno «oppositivo» per così dire: poiché i contenuti vogliono essere così, la forma deve corrispondere ai contenuti.

     Poi ho lasciato la Sicilia, nel ’68, perché lì non c’era più niente da fare, perché, appunto i giochi erano stati fatti. Quando sono andato via avevo 35 anni, non c’era più spazio per uno che non poteva vivere di rendita, isolato e che aveva bisogno di lavorare; l’alternativa per un giovane intellettuale come me era o aggregarsi al potere, e al potere mafioso, o fare le valigie e andarsene.

     Quindi sono andato via.

     Negli anni vissuti in Sicilia, le uniche due persone che ho frequentato sono stati due archetipi, due persone emblematiche della mia formazione.  Uno era Lucio Piccolo, un poeta; era cugino di Lampedusa questo grande poeta, purtroppo poco conosciuto. Era un poeta straordinario; ha avuto il torto di morire presto. Lui è apparso sulla scena letteraria prima di Lampedusa; lo scoprì Montale, poi fu pubblicato nello «Specchio» di Mondadori, però non riuscì a completare il suo ciclo poetico perché morì abbastanza giovane, schiacciato dall’esplosione del fenomeno Gattopardo.  Lui veramente, quando lo nominavano come il cugino di Lampedusa, si dispiaceva. Una volta ebbe a dire: «È Lampedusa che è mio cugino» rimettendo le cose nel giusto senso.

     L’altra persona che ho frequentato è stato Sciascia, che ho conosciuto dopo aver pubblicato il mio primo libro. Glielo mandai, e lui poi mi invitò ad andarlo a trovare (allora stava a Caltanissetta); poi siamo diventati amici.

     Quando l’uno era il poeta puro, un barone, con questa poesia terribilmente ermetica, difficile ma affascinantissima, di tipo spagnolo, una poesia molto accesa, tanto l’altro era invece logico, limpido, cristallino, storicistico, di impegno civile.

     Per me sono stati veramente come due maestri, due poli.

     E nel ’68, anche su consiglio di Sciascia, presi le valigie e ritornai a Milano.

Non a Roma?

     C.:  No. Perché io credo che dalla Sicilia ci sono due modi per uscire: uno è romano e l’altro milanese. C’è una corrente milanese che è fatta soprattutto di scrittori che hanno vagheggiato una sorta di utopia politica, perché Milano era l’antitesi della Sicilia, era la città dove c’era la trasparenza amministrativa prima di tutto, e poi dove si era realizzata in qualche modo, una certa equità sociale. Quindi approdavamo a Milano come al luogo antitetico alla Sicilia.

     A Roma invece approdavano degli scrittori a cui interessava il discorso del potere, e quindi Brancati e Pirandello.  Un Pirandello che, con quella sua scrittura, aveva illustrato, aveva raccontato quello che era la crisi della piccola borghesia italiana, di una borghesia fascista, non poteva che andare a Roma. A Milano sarebbe stato fuori posto.

     E poi Sciascia, naturalmente, con il suo discorso sul potere, sul «palazzo». È quello che fece Pasolini e, in un certo senso, anche Moravia.

Torniamo un momento alla letteratura siciliana. Abbiamo parlato di Verga, di Vittorini, dei poeti della costa orientale, ma non degli autori della parte occidentale.

     C.:  Per la parte occidentale, a fronte dei Verga, dei Brancati o Quasimodo, o Vittorini o dello stesso Bufalino, il primo nome che viene in mente è il Pirandello dei romanzi storici, soprattutto di un romanzo, I vecchi e i giovani. In Pirandello, come dice anche Gramsci, tutte le novelle sono prese da storie locali, da racconti che lui sentiva fare nel mondo girgentano, agrigentino. Ma forse, dopo l’uscita de I Viceré di De Roberto, che è questo grande affresco storico – perché erano i temi dell’epoca, erano i temi storicistici della grande letteratura francese – anche lui si è cimentato nel grande affresco storico con I vecchi e i giovani. E questo romanzo, che può essere manchevole in qualche parte, è però un grande tentativo di restituire una realtà storica siciliana (come nessuno fino ad allora aveva tentato), soprattutto di una Sicilia occidentale, la Sicilia delle solfare. Lui parte da che cosa è successo dopo l’Unità d’Italia in Sicilia proprio in quella zona. Il centro del racconto sono i moti socialisti del 1893, con tutte le rivolte contadine, con l’occupazione delle miniere e quindi con lo scontro tra operai delle solfare e i proprietari delle medesime.

     È la rappresentazione amara, da parte di Pirandello, di quello che era il malinteso «sicilianismo» da cui poi vengono tutti i mali siciliani della mafia, del potere politico mafioso e via discorrendo.

Prima che andasse a Roma, l’ha scritto.

     C.:  Prima che andasse a Roma, prima che facesse la grande svolta di proiettarsi cioè sul piano della crisi dell’identità, di tutte le scoperte che vanno sotto il nome di pirandellismo, del dramma dell’essere e dell’apparire, di proiettarsi dal piano dello storicismo, della contingenza al piano dei valori dell’esistenza, dell’inquietudine dell’esistenza. D’altra parte Pirandello ha operato in antagonismo, per così dire, allo stesso Verga. Verga ha immaginato un mondo immobile, dominato dal fato, dove l’uomo inutilmente si agitava perché tanto il suo destino sarebbe stato segnato per il solo fatto di esistere, quindi era impossibile, in questa esistenza, ogni possibilità di riscatto.  E tutta la tematica verghiana è la tematica dell’immobilità e del fato, che blocca l’uomo nella sua vicenda umana.

     Pirandello ha cercato, ha tentato di ribellarsi a questa legge dell’immobilità e del fato, a questa legge quasi metafisica verghiana, operando, attraverso la dialettica, quello che era un contrasto verbale con l’entità destino.  E, quindi, attraverso il sofisma, la dialettica ha cercato di smuovere questa condanna del fato sull’uomo. Però, naturalmente, il mondo di Pirandello diventa forse ancora più atroce e più tragico; è quello che Giovanni Macchi chiama «la camera della tortura» : i personaggi non fanno altro che tormentarsi, che torturarsi, con queste verità sfaccettate, una verità contro l’altra: con queste identità che si perdono e continuamente si inseguono, in una ricerca continua dell’ identità.

È poi anche, se si vuole guardare, un modo d’essere del siciliano, questa ricerca d’identità, perché noi siamo dilaniati continuamente da questa perdita di identità continua dovuta anche alla nostra storia.

      Noi siamo tante culture messe insieme, siamo questo crogiuolo di culture, per cui da noi il rischio è un continuo vacillare dell’ identità e dell’io; questo io è l’Uno, nessuno, centomila del Pirandello che si moltiplica all’infinito, come vivere sulle sabbie mobili, senza una consistenza.  E in questa incertezza sta il nostro dramma, ma sta forse anche quella che è la grandezza (adesso uso un termine retorico): in questa dialettica, in questa ricerca continua dell’identità sta forse il nostro essere più umani e quindi più comprensivi, quando si prende coscienza di tutto questo.

     Pirandello attinge proprio al modo d’essere siciliano, al mondo siciliano per costruire quella che era la sua filosofia, la sua concezione. Nel Mattia Pascal, per esempio (che è il libro dove è messo subito in luce questo dramma, dell’identità), quando parla di Mattia (e parla di se stesso) dice di questa «maturezza» (lui usa il termine «maturezza») a cui è arrivato da piccolo a furia di ammaccature.

     L’io siciliano è ammaccato, e quindi arriva a questa maturità molto prima e con più dolore degli altri, forse. Il rischio però è di non maturare assolutamente e di perdere la ragione; il crinale su cui si cammina pericolosamente è quello di annientarsi, di perdere la ragione, oppure di avere un consapevole dolore di questa maturità a cui si arriva con le ammaccature.

     Quelli che precipitano da questo crinale sono quelli che più straziano, in questo lasciarsi andare in questa specie di vortice e di perdita della ragione… Mantenere la ragione, in Sicilia, è estremamente difficile ed è una fatica continua.

      Ma, per tornare al romanzo storicistico, oltre Pirandello c’è stato Lampedusa e poi Sciascia. Sciascia è lo scrittore storicista per eccellenza, di uno storicismo critico, oppositivo. Tutta la letteratura della parte occidentale dell’isola è segnata da questo impegno con la storia.

      Sciascia ha fatto di più. Ha rinunciato a quelli che erano i grandi temi illuministici e manzoniani (il grande tema del Manzoni era la giustizia) che inizialmente aveva scelti ( e che poi sono cristiani), quindi il tema della verità e della menzogna, dell’impostura, il tema della pena di morte, della tortura, del rispetto della dignità dell’uomo.

     Quando vede, in Sicilia, quello che era il grande rischio della nostra società, la mafia, abbandona questi grandi temi e affronta il tema della mafia, che era un tema contingente ma che lui fa diventare un tema assolutamente metaforico e quasi assoluto. E quindi scrive tutta questa serie di gialli politici, dove rovescia quella che era la tecnica del giallo, cioè si parte dalla verità e si arriva al mistero: il mistero è il rispecchiamento del mistero, del potere mafioso, che è sempre misterioso. Oggi stiamo constatando, attraverso i giudici, quali erano questi misteri; ancora non li conosciamo tutti, ma Sciascia ci ha fatto intuire qual era l’enigma del potere mafioso.

Quando ha conosciuto Sciascia?

     C.: Dal punto di vista biografico, avevo conosciuto Sciascia sin dal primo libro che aveva pubblicato: Le parrocchie di Regalpetra. Allora le mie letture erano di indirizzo sociologico. Siamo nel ’56, credo. Quando sono tornato in Sicilia dopo essere stato a Milano, non osavo importunarlo.  Sapevo che c’era questo scrittore, che a me è sembrato subito uno scrittore importante in questa Sicilia desertica. E quando io pubblicai il mio primo romanzo (La ferita dell’aprile) nel ’63, ho avuto subito l’avventura di mandarglielo con una lettera dove gli dichiaravo il mio debito nei suoi confronti: perché era lui che mi indicava la strada che avrei dovuto seguire, oltre a Lucio Piccolo, di avere cioè di fronte questi due mondi, lo storicismo e la poesia, e di farli finalmente unire, di fare da trait-d’union fra questi due mondi, quello che era il substrato storicistico da una parte e la poesia piccoliana dall’altra parte. E lui mi rispose con una bella lettera, invitandomi ad andarlo a trovare a Caltanissetta, e poi siamo diventati amici.  Questa amicizia durò quanto lui è vissuto; è stato un continuo dialogo.

Parlavate di letteratura? Anche di impegno civile? 

     C.:  C’era uno strano pudore; non parlavamo delle nostre cose, solo molto raramente, ma si parlava dei fatti politici, dei libri degli altri, soprattutto dei fatti che accadevano in Italia. E poi così, nelle pieghe del discorso, si lasciava cadere il titolo di un libro che si era letto… 

     Un suo rammarico era che io scrivevo poco. Voleva che scrivessi di più.

Adesso lei sente su di sé l’impegno che è stato di Sciascia?  

     C.:  Sento il dovere di continuare su questa linea con lo stesso impegno, per essere degno di questa tradizione, anche perché vedo che da ogni partesi cerca di distruggere la letteratura siciliana.

     Il mio diventa quindi un impegno con la letteratura e spero di mantenerlo perché nel mondo d’oggi si ha questa volontà di abbassare tutti i valori, di distruggere quelle che sono le verità con le imposture. E queste cose non sono sopportabili…

Lei aveva citato prima Pasolini. Mi chiedevo se anche questo non sia stato uno scrittore di riferimento nel suo percorso letterario e civile.    

     C.:  Lui era fondamentalmente poeta; l’impegno sociale lo estrinsecava attraverso una scrittura di intervento, sui giornali.  Scritti corsari, Lettere luterane, Empirismo eretico: era questo suo bisogno di intervenire direttamente, al di là del romanzo e della poesia.

Mentre lei ha sempre sentito la necessità della letteratura come mediazione?

     C.:  Non sempre. Anch’io… I tempi letterari, i tempi della metafora sono dei tempi lunghi e la storia diventa qualche volta più impellente e quindi si sente il bisogno, veramente, di intervenire, per cui anch’io – certo non con quella forza e con quella assiduità con cui lo fece Pasolini, e con l’autorità con cui lo fece Pasolini – ho sempre scritto sui giornali.

Lei appare come un signore pacato, ma la passione con cui scrive denuncia una…

     C.:  No, non lo sono. Per esempio, quando sono arrivato nel ’68 a Milano, io subivo una sorta di spaesamento e di blocco anche creativo. Ero venuto a Milano perché desideravo raccontare questa grande trasformazione italiana, parlare di queste masse di meridionali che arrivavano nel nord industriale, in una città come Milano e che poi, da contadini che erano, si sarebbero trasformati in operai.

Lei era venuto come insegnante?

     C.:  No. Avevo fatto un concorso in una azienda; il primo di gennaio del ’68 (ho viaggiato in treno la notte di San Silvestro) ho dovuto presentarmi al posto di lavoro.

Quindi ha fatto una scelta anche in questo campo.

     C.:  Sì. Allora c’era una rivista letteraria, diretta da Vittorini e Calvino

(“Il Menabò”), che dibatteva proprio questi temi: del rapporto tra industria e letteratura, di questo nuovo mondo, della rivoluzione industriale italiana (questa grande trasformazione sociale), soprattutto nel processo di inurbamento. E poi c’era un’altra rivista, che si chiamava «Questo e altro», che sollecitava appunto a lasciare le vecchie professioni, cosiddette liberali, degli scrittori (insegnamento e altro) e ad entrare nell’industria. Io feci questa scelta: Feci un concorso, lo vinsi e mi presentai a questo posto di lavoro.

     Vittorini, per esempio, invitava a studiare i nuovi linguaggi che si sarebbero formati qui, nell’area industriale, dall’incrocio dei dialetti   coi dialetti del nord: Questi linguaggi lui li chiamava le «koiné», le nuove «koiné». Queste non si sono formate, ma si è formata una «superkoiné», che poi sarebbe l’italiano che ha analizzato Pasolini, nel ’64 mi pare, che era la lingua dei media e che si sarebbe  sovrapposta…

Insomma l’Italia è un paese veramente singolare nel contesto europeo, perché nessuno ha avuto così rapidamente e radicalmente le vicende italiane.  È un paese terremotato; era un vecchio paese ancora agricolo e contadino, ha avuto questa rivoluzione. E poi questo grande spostamento di masse di meridionali dentro queste città che sono esplose, con tutto quello che è successo e di cui, forse, paghiamo le conseguenze. È stata la dannazione di Pasolini, questo…

     Quando si fanno questi discorsi, sembra che uno abbia nostalgia del vecchio mondo contadino. Quello che rimproveravano a Pasolini era: «Ma come?».

     No, nostalgia del mondo contadino credo non ce l’abbia nessuno, perché il mondo contadino era un mondo di sofferenza, di ignoranza, era un mondo un po’ anche di conservazione; non era un mondo progressivo, insomma, perché i contadini erano portati ad una sorta di atteggiamento passivo, di rassegnazione. Quello che portava la novità e il senso di presa di coscienza di classe era il mondo operaio, perché i temi politici che si dibattevano erano del mondo operaio.

Perché c’era aggregazione, mentre il contadino era un isolato.

     C.:  Sì, erano isolati. Soprattutto, poi nel latifondo siciliano, questi contadini erano angariati, vessati. Quindi la rivoluzione culturale che è avvenuta in Sicilia si è realizzata nel mondo sotterraneo, proprio perché quella era l’unica forma di operaismo siciliano, quando da contadini si trasformarono in minatori nelle solfare. Lì c’è stata una sorta di rivoluzione culturale, che sfociò nei «fasci siciliani», nelle rivolte del 1893 in Sicilia.

     Io non ho nostalgia del mondo contadino (questo l’ho anche raccontato nelle Pietre di Pantalica); volevamo però uno sviluppo diverso da quello che abbiamo avuto, con più rispetto nei confronti dell’uomo.  

Qui, invece, i valori umani sono stati distrutti, per non parlare di tanti altri valori. È quello che Pasolini chiamava «sviluppo senza progresso», lo chiamava semplicemente «sviluppo» e non «progresso»; molto spesso è stato un regresso. In Sicilia questo l’abbiamo sofferto sulla pelle, con l’industrializzazione attraverso le raffinerie di petrolio. Queste hanno distrutto città, Gela, Siracusa, Priolo…, che erano innanzi tutto ecologicamente sane, belle, luoghi arcaici, antichi.

     In mezzo alle raffinerie di Priolo ci sono ancora i resti di Thàpsos Megàra Iblea, dove sono sbarcati i Greci (nel 739 a.C.).  Io sono andato a rivederli, ancora questa estate, in mezzo a tralicci, a ciminiere. Erano patrimoni culturali che appartenevano a tutti e che sono andati distrutti.

      Città come Gela e Licata sono diventate degli inferni, delle cose tremende; hanno subito questa trasformazione e sono diventate degli orrori.      Non c’è idea di che cosa è un paese come Gela! È una cosa che toglie il fiato…  Hanno portato le raffinerie ma non hanno risolto i problemi: la gente ha continuato a emigrare; hanno assorbito poca manodopera, i tecnici venivano dal Nord.  I petrolieri venivano lì, rastrellavano soldi dalla Regione, dalla Cassa del Mezzogiorno, dall’Erario e poi, dopo aver fatto i loro affari, regalavano gli impianti allo Stato. Il signor Moratti, tanto per non fare nomi, ha fatto questo a Milazzo, una città ora distrutta e sconvolta dal punto di vista paesaggistico, ed ecologico, a causa delle raffinerie.  La Sicilia, il meridione sono diventati luoghi spopolati, in cui sono arrivati i profittatori, luoghi di rapina e di sfruttamento.

     Poi, quando ci si chiede dei mali meridionali, di tutte le cose tremende che sono successe, si deve sapere che le responsabilità sono di ordine storico, di ordine politico.

     Non si deve pensare, come fanno certi signori di certe Leghe, come fa il signor Miglio, che sia un fatto genetico, quasi noi, nel sangue, avessimo il gene della delinquenza, della mafia, della ‘ndrangheta. Ci sono responsabilità ben precise.

     Nel dopoguerra c’era un sovraccarico di manodopera sulle terre e, quindi, bisognava «alleggerire»; le leggi del mercato sono le leggi del mercato. Però tutto poteva avvenire in un modo più rispettoso, più organico, non in questo modo selvaggio.

     Al potere politico interessava soltanto fare di queste zone del Meridione delle riserve di clientelismo politico, dei feudi dove racimolare voti. Le masse meridionali erano quelle che dovevano dare il voto democristiano (perché nel Nord, operaistico, erano forti le sinistre), con tutte le trame di malcostume e di corruzione che adesso stanno emergendo.

Ancora poco nel Sud, mi pare.

     C.:  Perché ci sono state delle cose più gravi nel Sud, ci sono stati i cadaveri, le strade piene di cadaveri e, quindi, si è prima pensato a quello. Io spero che si passi al secondo sipario, il sipario del malaffare.

Io spero che vengano coinvolti un poco tutti davvero, dai magistrati agli imprenditori, alla stampa, perché non è possibile pensare che solo i politici siano i grandi colpevoli.

     C.:  C’è ora nella gente, anche in quella che era passiva, che in un certo senso aveva avuto anche vantaggi (spero che non sia retorico quello che dico, io l’ho constatato), c’è un bisogno di riscatto, di riconquistare la dignità perduta. Io l’ho visto a Palermo, quest’estate. Credo che le prossime elezioni siano estremamente importanti.

     Questo è un momento molto, molto delicato, per tutto il paese, ma per la Sicilia e il Meridione soprattutto.

Delicato, ma, lei dice, di speranza.

C.:  Di speranza, sì. È un momento di passaggio, dove si può tornare indietro, ma… Credo che ci sia nella gente un bisogno di togliersi questa vergogna e quest’ipoteca del malaffare, della mafia, del delitto. Questa è stata veramente una perdita d’onore e c’è un bisogno, nella gente, di riconquistare quest’onore perduto, un onore sociale, non privato, e c’è volontà di togliersi dalla soggezione del potere politico da cui era ricattata. Questo si vedeva bene alle elezioni: ogni volta che c’erano referendum, per esempio, il risultato era di un tipo, quando si tornava alle elezioni politiche il risultato era un altro.

Anche noi, al Nord, abbiamo perduta una intiera classe di amministratori e, per tradizione, avevamo gente che davvero amministrava.

     C.:  Sì. È saltato anche questo, c’è stato un processo di degenerazione.

     Poi, al Nord, è venuta fuori anche la Lega, per un bisogno di pulizia, per cui adesso ci sono questi revanscismi, del resto molto semplici, schematici e pedagogici. Come sempre capita nei momenti in cui crollano i regimi, vengono fuori forme scomposte.

     Io queste forme, queste rivendicazioni locali, le ho viste da ragazzo, in Sicilia, nel ’47, con il Movimento Indipendentista Siciliano. E capivo, anche se ero molto giovane allora, che cosa significava: significava ancora una regressione, un passo indietro.

     Quando, dopo tutti i disastri democristiani e socialisti, in questo campo di macerie, si presenta qui al Nord un movimento che si chiama Lega Nord (e già la denominazione stessa mi sembra che escluda una parte del contesto italiano) mi sono preoccupato. Io non sono un politico, sono uno scrittore,: la spia, allarmante l’ho avuta quando si sono visti i primi segni, nelle traduzioni – diciamo così – sulle strade delle scritte in italiano in dialetto lombardo. Questo mi ha messo subito in allarme perché so, proprio da scrittore che usa il linguaggio, so che cosa significano questi ritorni verso le forme dialettali. Sono modi di regressione e anche di aggressione e di esclusione, messi in atto, per di più, in un contesto come quello lombardo che, proprio per la sua storia e per la sua economia, ha cancellato il dialetto.  Questo rifugiarsi di nuovo nel dialetto per escludere la lingua politica (uso «politica» nel senso etimologico, lingua cioè della comunicazione) ha voluto dire passare da una afasia e una impraticabilità del linguaggio proprio del potere (perché il potere usa sempre una lingua impraticabile, non volendosi far capire, una lingua di tipo aziendale e tecnologico, che Pasolini ha studiato) al vecchio dialetto che non esiste più, quindi alla chiusura e alla incomunicabilità totali.

     (Il dialetto si può scandagliare in letteratura, per tornare alle radici e approdare poi alla comunicazione, ma il linguaggio politico deve essere sempre quello della comunicazione).

     Ora, queste considerazioni, secondo me, sono importanti, significano molto. Vogliono dire che dietro non c’è ideologia. L’ideologia liberale o socialista sono delle ideologie!  Che poi ci siano stati dei mascalzoni, che le hanno degenerate, questo è un altro discorso.

     Queste forme regressive sono le «vandee» di cui ha parlato Benedetto Croce, e anche Vittorini, a proposito dei Vespri Siciliani.  Vespro Siciliano che, sulla scorta del melodramma verdiano, è stato sempre visto come un fatto progressivo e che invece è un fatto assolutamente regressivo, perché la Sicilia abbandonava i legami con la Francia e si rifugiava in una conservazione di tipo spagnolo.

Il problema degli intellettuali in Italia è un triste problema, mi pare.

     C.:  È un triste problema, si. C’è sempre questa nostra viltà. L’intellettuale, in questo paese, è stato sempre considerato un ornamento del potere, ragion per cui l’intellettuale «disorganico» viene subito additato, messo ai margini. È sempre successo. Da Dante in poi, quelli che non si sono voluti piegare al potere e che hanno adempiuto a quella che è la funzione dell’intellettuale, essere coscienza critica, sono stati esclusi. Non può essere il cantore alla mensa del principe, altrimenti diventa un cortigiano e l’intellettuale che non vuole essere cortigiano viene naturalmente bandito: questa è la sua sorte.

     È successo sempre, fino a Pasolini, a Sciascia e altri.

Tanti altri no.

     C.:  Durante il fascismo, i professori che non hanno prestato giuramento sono stati sei in tutta Italia. Tra questi, lo dico con orgoglio, c’era Giuseppe Antonio Borgese, che stava qui a Milano, un siciliano, un grande scrittore: se n’è dovuto andare in America. Non so quanti fossero allora i professori universitari ma soltanto in sei non hanno prestato giuramento al fascismo.

Lei ricordava gli anni intorno al ’68: la sua posizione è sempre stata isolata o ha partecipato direttamente a quegli avvenimenti?

     C.:  No, guardi, quando sono arrivato qui mi sono trovato talmente spaesato che non ho avuto legami con i movimenti politici e neppure con quelli intellettuali. Era un mondo che osservavo per la prima volta, perché mi portavo dietro un’altra memoria, la memoria del mondo contadino. Mi mancava la memoria del mondo industriale, mi mancava quel linguaggio soprattutto.  E quindi sopperivo a questa afasia letteraria facendo attività giornalistica. Scrivevo su «L’Ora» di Palermo e poi su «Il tempo illustrato», un settimanale molto vivace, molto bello e devo dire anche molto libero, dove ci scrivevano in quegli anni Pasolini, Giorgio Bocca, Padre Turoldo. Ho pubblicato parecchie inchieste su quel giornale.

     Poi ho capito che per tornare a scrivere e raccontare Milano sarei dovuto tornare di nuovo in Sicilia, non fisicamente ma almeno con la memoria, ritornare al mio linguaggio, alla mia matrice culturale. E per questo, ho scelto il romanzo storico; lo sentii proprio come una necessità, questo di riandare indietro con il tempo per poter raccontare il presente. 

Il suo gusto di reinventare la parola, il linguaggio?

     C.:  A parte Gadda, Pasolini, Mastronardi e altri di allora, io avevo un grande sperimentatore che mi era più congeniale: Verga, il primo che ha compiuto la rivoluzione linguistica attuata abbassando a livello dialettale quello che era il codice toscano.

     La sua conversione è avvenuta proprio a Milano. Anche lui, se questo mi è permesso, quando arrivò a Milano nel 1872 venendo da Firenze (fino a quel punto aveva scritto dei libri, i cosiddetti romanzi «mondani»), trovò questa città in preda alla prima rivoluzione industriale; era una città che stava subendo uno sconvolgimento: nuove stazioni ferroviarie, nuovi cantieri. C’era poi anche il movimento operaio e c’erano i primi conflitti.

A Lodi si faceva un giornale che si chiamava «La plebe»; c’erano i primi scioperi, quindi, da una parte, c’era la rivoluzione industriale, e dall’altra la presa di coscienza delle masse popolari. Il tutto culminò con la esposizione universale dell’81, con il Ballo Excelsior. E lui abitava proprio vicino a questa esposizione.

     Verga subì una sorta di spaesamento e da questo venne la sua conversione. Tornò con la memoria alla Sicilia. Ma quella di Verga era una Sicilia della sua infanzia; Sapegno dice «ferma e intatta».  Era una Sicilia un poco cristallizzata, mitizzata nella sua memoria, seppure di un mito negativo, quella della irredimibilità del destino umano.

     Per esempio, quando uscì la prima inchiesta in Sicilia di Franchetti e Sonnino del 1876, dove si cominciò a parlare di mafia e della malavita siciliana, dei rapporti fra il potere politico e la mafia, Verga si ribellò.Diceva che era una diffamazione della Sicilia, non lo voleva ammettere…Come poi non ammise i movimenti dei solfatari e dei contadini siciliani del ’93.

     Verga, nella vita, era considerato un reazionario e ciò è dovuto a questa sua idea di una Sicilia mitica, quella, ripeto, della sua infanzia. Però questo gli permise di scrivere dei capolavori.     La sua rivoluzione avvenne prima con i. racconti, con le Novelle rusticane e poi con quel poema straordinario che è I Malavoglia.

La follia ha un ruolo preciso nei suoi romanzi. Nel Sorriso, per esempio…

     C.:  Ci sono due forme di follia, per la verità: il libro si apre con un gesto di follia, compiuto nell’antefatto dalla ragazza Atena (che non è una folle, è un’intellettuale), fidanzata con Giovanni Interdonato, che è questo capo risorgimentale rivoluzionario. Lei sfregia il quadro di Antonello da Messina proprio per una sorta di impazienza, perché era animata dal desiderio di uscire fuori della ragione dall’alto, attraverso la fantasia creatrice, che può essere anche una fantasia politica (lei aveva immaginato un nuovo ceto sociale).

     E quindi l’assunto dal quale io sono partito è che dalla ragione – che è rappresentata da questo quadro, da questo sorriso ironico – si può uscire dall’alto, attraverso appunto la fantasia creatrice, l’arte, attraverso questi furori che sono furori positivi.

     Oppure per la disgregazione della ragione, dal basso, Il monaco – un monaco allucinato – è proprio l’altra faccia di questo gesto di insania della ragazza. Poi lei non compare più come personaggio, però è quella che muove tutta l’azione, è una specie di Annunciazione.

     L’ambizione mia è stata di dare una struttura originale al libro; non ho voluto scrivere il romanzo storico di tipo ottocentesco, sapienzale, con l’autore che dall’alto dirige le fila della vicenda.  Il mio romanzo parte dall’assunto dell’inattendibilità della storia, della responsabilità di chi scrive la storia, di chi ha il potere della struttura, anche di chi scrive letteratura insomma; e quindi ho voluto far vedere due aspetti della struttura e cioè quello storiografico e quello letterario.

Si è anche tolto da una cronaca di denuncia, quale può aver fatto Vassalli con la sua ricostruzione del Seicento.

     C.:  Sì. Vorrei dire che non è che io scelga gli argomenti di carattere storico casualmente. Non è che mi interessino tanto i personaggi collocati nella storia, mi interessano le epoche storiche, che siano anche metaforiche. C’è la lezione del Manzoni, insomma. Ci sono dei momenti storici che somigliano ai nostri; si scandaglia il passato per poter capire questo nostro presente. È quello che ci ha insegnato il Manzoni.

     Altrimenti diventano storie romanzate e allora si possono prendere infinite storie.

Basterebbe prendere spunti d’archivio, lei dice. In questo non si differenzia da Sciascia, che ha fatto invece un recupero davvero d’archivio, di lettura documentale?

     C.:  Ma i romanzi storici di Sciascia erano estremamente metaforici; scaturivano proprio dalla lezione manzoniana. Il suo Consiglio d’Egitto e Morte dell’inquisitore erano nati soprattutto dalla lettura della Colonna Infame: niente di più attuale, di più eternamente attuale, purtroppo, dell’impostura, delle menzogne, della violenza. L’assillo del Manzoni era la giustizia e ha scelto il Seicento perché era un secolo estremamente ingiusto. E ha preso questa distanza storica per poter raccontare l’Ottocento.

Dopo di che lei prende l’Ottocento per poter raccontare…

     C.: A me interessavano altre cose oltre la giustizia, altri tipi di ingiustizia; oltre ai principi generali della dignità dell’uomo, della libertà, mi interessavano anche la sorte delle classi emarginate, di tutti quelli che non hanno il potere della scrittura.

     Quello di Manzoni e di Sciascia è chiaramente un assunto più di tipo illuministico; il mio, se vuole, è un assunto di tipo marxiano: questa forse è la differenza: Io faccio un discorso anche di classe.

E di speranza nella storia.

     C.:  Di speranza nella storia e di ammettere che nella storia ci sia giustizia per tutti gli strati, soprattutto per quelli socialmente più deboli. Questa è la mia utopia, l’utopia da cui parto io.

E che scrive, mi pare benissimo, nel capitolo introduttivo alla relazione sui fatti…

     C.:  Sì. Il libro parla della crisi di un intellettuale, che era chiuso nella sua scienza, nella sua torre d’avorio: era un privilegiato, questo barone Mandralisca! Quando poi sbatte il naso contro la storia, siccome è un uomo di coscienza, non un cinico, entra in crisi. La sua soluzione è quella di donare tutti i suoi beni al Popolo di Cefalù. Può sembrare retorica demagogica, però il personaggio era un personaggio ottocentesco, quello che poteva fare lui, era questo.

C’è un po’ di autobiografia in questo?

     C.:  Io sono tutt’altro che un barone. Tuttavia negli anni Settanta, quando ho scritto quel libro, uno dei temi che si dibattevano era proprio il ruolo dell’intellettuale di fronte alla storia. Rappresentando un intellettuale ho inteso rappresentare anche me stesso nel momento in cui scrivo e cosa significhi questo mio scrivere un romanzo storico.

Nottetempo, casa per casa è ambientato invece negli anni Venti.  

     C.:  Questo libro l’ho concepito veramente non solo come un poema, ma anche come una sorta di tragedia. Ogni capitolo è come una scena di una rappresentazione tragica. Dentro poi ho aperto delle pause con delle digressioni, dove l’autore viene in prima persona (è la funzione del coro) a commentare i fatti che accadono man mano, con un tono un po’ più alto, più lirico.

     Certo ci sono anche dei capitoli di sarcasmo, di ironia, di comicità… Ci sono dei personaggi negativi che cerco di connotare anche beffardamente, come il dannunziano barone Cicio. Però il tema è la follia: la follia privata, esistenziale, e la follia della storia, questa perdita di razionalità. Mentre quella privata è una follia tragica, pietosa, quella della storia è una follia colpevole, perché stiamo insieme e abbiamo il dovere della razionalità. Io sono convintissimo (leopardianamente, diciamo, io non ho fedi di sorta, non credo ai mondi al di là di questa vita) che la vita, che l’esistenza sia dolorosa, anche se è una cosa meravigliosa, però è dolore, e che questo dolore si possa correggere soltanto «con la confederazione degli uomini tra loro» diceva Leopardi, si possa correggere con il contesto storico, con lo stare civilmente assieme. 

     Se, però, questo non avviene, allora abbiamo infelicità sui due fronti: abbiamo l’infelicità dell’esistenza e l’infelicità della storia, come succede al protagonista di questo libro, a Marano.  Ci sono tanti significati, insomma. Il nome Marano viene da «marrano».

«Marrani» in Sicilia, come in Spagna del resto, erano quelli di origine ebraica, che avevano dovuto abdicare alla propria identità religiosa e culturale e convertirsi al cristianesimo per non essere cacciati via. Quindi c’era, da parte di questa famiglia, la memoria di perdita di identità, di marginalità, di persecuzione. Poi questa famigliola di contadini era diventata una famigliola di piccoli proprietari terrieri grazie a questo suo protettore eccentrico che la fa cambiare di classe. Questo cambiamento comporta da parte dei componenti l’abbandono della loro cultura e il dover adottare leggi di classe che non erano le loro. E quindi il sacrificio da parte della sorella, che non può sposare il pastorello di cui è innamorata e rinunzia alla vita, impazzisce, per l’impazzimento dovuto proprio a questo cambio di classe, a questa negazione all’amore.

     E il senso, e qui è metaforico, il senso è che noi tutti abbiamo perso il contatto con quella che è la nostra identità di classe, di cultura. Oggi abbiamo perso tutti i legami con la nostra classe e siamo diventati «massa».

     E, quindi, in questa civiltà di massa abbiamo perso quella che è la nostra cultura e la nostra identità e soffriamo di questa forma di follia, di alienazione.

     Questo voleva essere, non so se ci sono riuscito…

     Il ragazzo Marano è un piccolo intellettuale di paese, che, di fronte a questo carico di dolore famigliare, aveva creduto di poterlo distribuire nella società e per questo si era impegnato politicamente. Anche lui viene deluso, poveretto, e quindi trova anche la follia fuori casa. Poi fa questo gesto estremo, di mettere la finta bomba ed è costretto a scappare, ad andare via.  L’unica cosa che gli rimane è quella di scrivere tutto quello che aveva sofferto, che aveva visto.

Dopo il crollo dei regimi dell’Est la sua speranza marxiana nella storia è ancora in vita?

     C.:  C’è stato il crollo delle ideologie, il crollo di tante utopie, di tante speranze che ci eravamo costruiti in questi anni. Ci è crollato tutto, e io vivo in questa grande angoscia, di vedere questi orizzonti che si sono fatti bui.

     Non c’è ancora un lume di speranza.

Le uniche cose che vedo, di questo lume che la fanciulla tiene in mano, sono certe forme di solidarietà spontanea, come il volontariato dei giovani…  E anche certi ecologisti, che cercano di salvare questo nostro patrimonio, che è l’unico che abbiamo, di rendere vivibile questo nostro pianeta.

     Queste sono cose che veramente mi lasciano sperare molto, però il ceto politico…

   A cura di Lia De Pra Cavalleri
Dalla rivista “Verifiche” gennaio febbraio 1994