IL DEBITO MODERNISTA DI VINCENZO CONSOLO: LA FERITA DELL’APRILE E DEDALUS



Margherita Martinengo

1. Solo Ulysses? Una ricezione bifronte Quando si riflette sul debito modernista di Vincenzo Consolo, un nome che viene senza dubbio alla mente è quello di Thomas Stearns Eliot; diversi infatti sono i luoghi della produzione consoliana in cui si può rintracciare un riferimento, più o meno esplicito, all’autore della Terra desolata1. Tuttavia, quando nel 1963 Consolo esordisce con La ferita dell’aprile, l’esperienza del modernismo anglo-americano è associata in Italia non solo al nome di Eliot, ma anche a quelli di Ezra Pound e, soprattutto, di James Joyce. Proprio all’esordio romanzesco di Joyce, A Portrait of the Artist as a young Man, la Ferita è legata da una serie di analogie. Così, opportunamente, nota Gianni Turchetta: come per Stephen Dedalus, anche per Scavone l’educazione in un istituto confessionale mette in rilievo il rapporto fra religione e politica, il conflitto fra la cultura dominante e le culture marginali con le loro lingue, delineando un percorso di crescita che coincide con la presa di coscienza di una vocazione letteraria2. 1 Lo stesso titolo del romanzo d’esordio rielabora un verso di Eliot: «April is the cruellest month», v. 1 di The burial of the dead, prima sezione di The Waste Land; diversi riferimenti sono alla quarta sezione del poemetto, Death by Water. 2 Gianni Turchetta, Da un luogo bellissimo e tremendo, saggio introduttivo a Vincenzo Consolo, L’opera completa, a I rilievi macro-strutturali di Turchetta si accompagnano, e vengono quindi corroborati, a una serie di corrispondenze tematiche e formali piuttosto precise, su cui si tornerà. Innanzitutto, però, va notato che con il riferimento al Portrait Consolo assume una posizione intermedia rispetto alle due tradizioni con cui viene recuperata la lezione joyciana in Italia. Sembra infatti che quella di Joyce sia una fortuna bifronte: da un lato il giovane autore di Gente di Dublino e di Dedalus, ancora apprezzati dalla generazione formatasi negli anni Trenta e Quaranta, dall’altro il Joyce più sperimentale di Ulisse e di Finnegans Wake, che diventa un modello di riferimento per gli scrittori più votati allo sperimentalismo. È un dato noto che il modernismo anglo-americano arriva in Italia con un certo ritardo, e il caso di Joyce non sfugge a questa regola3. Anche se, come mette in luce nella cura di Gianni Turchetta e con uno scritto di Cesare Segre, Milano, Mondadori, 2015, pp. XXIII-LXXIV, a p. XXXVIII. Cfr. anche Gianni Turchetta, L’esordio romanzesco di Vincenzo Consolo, siciliano milanese, in Italiani di Milano. In onore di Silvia Morgana, a cura di Massimo Prada e Giuseppe Sergio, Milano, Ledizioni, 2017, pp. 779-788, a p. 784. Turchetta riprende un rilievo comparso in Tom O’Neill, nella voce Vincenzo Consolo, in Dictionary of Literary Biography, vol. 196, Italian Novelists since World War II, 1965-1990, a cura di Augustus Pallotta, Detroit-Washington-Londra, Gale Research, 1998. Il tramite per Dedalus è la traduzione del ‘33 di Cesare Pavese. Le citazioni da La ferita dell’aprile sono tratte da Consolo, L’opera completa, cit., pp. 3-121; d’ora innanzi FA. 3 Sulla ricezione di Joyce in Italia, oltre al fondamentale Giovanni Cianci, La fortuna di Joyce in Italia. Saggio e bibliografia (1917-1972), Bari, Adriatica, 1974, si vedano Umberto Eco, Joyce’s Misfortunes in Italy, in Joyce in Progress. Proceedings of the 2008 James Joyce Graduate Conference in Rome, a cura di Franca Ruggieri, John McCourt e Enrico Terrinoni, Newcastle upon Tyne, Cambridge Scholars, 2009, pp. 248-257; Eric Bulson, Getting noticed: James Joyce’s sua ricchissima ricostruzione storica Serenella Zanotti, ci sono delle illustri eccezioni da considerare4, è solo negli anni Cinquanta, mentre escono i primi studi sulla sua opera5 e viene completata la traduzione di Ulysses di De Angelis, che rinasce una certa attenzione verso Joyce. In questi anni l’autore gode di particolare fortuna nel filone sperimentalista del panorama letterario italiano ed è la parte più decisamente sperimentale della sua produzione a essere protagonista: parlare di un ‘caso Joyce’ significa sostanzialmente parlare di Ulysses e di Finnegans Wake6. Italian translations, in «Joyce Studies Manual», 12 (2001), pp. 10-37; Serenella Zanotti, James Joyce among the Italian writers, in The reception of James Joyce in Europe, a cura di Geert Lernout e Wim Van Mierlo, Londra, continuum, 2004, pp. 328-361. 4 Zanotti, James Joyce among the Italian writers, cit., pp. 329-346. Zanotti approfondisce per esempio il ruolo giocato da Carlo Linati, cui va il merito di aver riconosciuto il valore di Joyce molto prima dei suoi connazionali; nel 1926 Linati traduce per la rivista «Il Convegno» alcuni passi dell’Ulisse, facendolo conoscere e destando l’attenzione di diversi giovani scrittori italiani. Di Joyce, ricorda Zanotti, si parla anche nel gruppo legato a «Solaria», rivista in cui rimangono forti le istanze di una cultura «europeisticamente orientata» in opposizione alla chiusura favorita dal regime (cfr. Cianci, La fortuna di Joyce in Italia: saggio e bibliografia 1917-1972, cit., p. 83; cfr. anche le celebri dichiarazioni di Vittorini su «Solaria»: «[…] solariano era parola che negli ambienti letterari di allora significava antifascista, europeista, universalista, antitradizionalista…», da Elio Vittorini, Diario pubblico, Milano, Bompiani, 1957, p. 163). 5 Lo studio che apre la strada alla ricerca italiana su Joyce viene tradizionalmente individuato in Giorgio Melchiori, Joyce and the Eighteenth-century novelists, in «English Miscellany», 2 (1951), pp. 227-245. 6 Cfr. Francesco Gozzi, La rottura dei codici: il linguaggio protagonista, in Modernismo/Modernismi: dall’avanguardia storica agli anni Trenta e oltre, a cura di Giovanni Cianci, Milano, Principato, 2001, pp. 290-313. Per la Così commenta, per esempio, Contini: «se espressionismo è violenta sollecitazione linguistica volta a esplorare l’Io interno, nessun dubbio che l’iperbole ne vada riconosciuta nell’Ulysses di James Joyce»7. Non stupisce, poi, che due dei maggiori mediatori dell’opera di Joyce in Italia, Luciano Anceschi e Umberto Eco, fossero legati all’ambiente che forse più di tutti puntava sulla necessità di un rinnovamento formale della letteratura: il Gruppo 63. Anceschi fu un pioniere degli studi sul modernismo anglo-americano in Italia8. Eco dedica diversi interventi a Joyce e in lui individua l’espressione più chiara delle proprie riflessioni teoriche: «È superfluo qui richiamare alla mente del lettore, come esemplare massimo di opera “aperta” – intesa proprio a dare una immagine di una precisa condizione esistenziale e ontologica del mondo contemporaneo – l’opera produzione di Joyce, Melchiori usa l’espressione «banchetto di linguaggi» (Giorgio Melchiori, The languages of Joyce, in The languages of Joyce. Selected papers from the 11th International James Joyce Symposium, Venezia, 11-18 giugno 1988, a cura di Rosa Maria Bellettieri Bosinelli et al., Philadelphia-Amsterdam. John Benjamins, 1992, pp. 1-18; Id., Joyce. Il mestiere dello scrittore, Torino, Einaudi, 1994, pp. 3-20); cfr. anche Alberto Rossi, Prefazione a Dedalus. Ritratto dell’artista da giovane, trad. it. Cesare Pavese, Milano, Frassinelli, 1934 (ora Milano, Adelphi, 1976, da cui si cita; d’ora in poi indicato come DED); John MacCabe, James Joyce and the revolution of the word, Londra, Macmillan, 1979; Carla Marengo Vaglio, Joyce. Dall’Ulysses a Finnegans Wake, in Modernismo/Modernismi, cit., pp. 342-360, in particolare alle pp. 353-357. 7 Gianfranco Contini, Ultimi esercizi ed elzeviri, Torino, Einaudi, 1988, p. 79. 8 Cfr. John Picchione, The New Avant-garde in Italy: theoretical debate and poetic practices, Toronto, University of Toronto Press, 2004, p. 17. di James Joyce»9. L’interpretazione che Eco dà di Joyce, e che ha grande ricaduta sul modo in cui l’autore verrà recepito nel Gruppo 63, è essenzialmente formalistica, ovvero ha come punto di partenza lo studio della forma: Qui [in Ulysses] l’oggetto della distruzione è più vasto, è l’universo della cultura e – attraverso di esso – l’universo tout court. Ma questa operazione non viene attuata sulle cose: si attua nel linguaggio, col linguaggio e sul linguaggio (sulle cose viste attraverso il linguaggio)10. Contestualmente a questa lettura, gli autori della Neoavanguardia italiana trovano in Joyce un autore di riferimento, l’iniziatore di un lavoro sul linguaggio letterario considerato come assolutamente necessario anche quarant’anni dopo la prima pubblicazione dell’Ulisse11. 9 Umberto Eco, Opera aperta. Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee, Milano, Bompiani, 1995, p. 42. Un saggio di Opera aperta viene opportunamente pubblicato nel 1966 come opera a sé con il titolo Le poetiche di Joyce (Milano, Bompiani; le citazioni sono dall’edizione del 1982). Sul ruolo di Umberto Eco nella ricezione di Joyce cfr. Hermann van der Heide, On the Contribution of Umberto Eco to Joyce Criticism, in «Style», vol. 26/2 (1992), pp. 327-339. 10 Umberto Eco, Le poetiche di Joyce, Milano, Bompiani, 1982, p. 61. 11 Per quanto gli autori afferenti al Gruppo 63 costituissero un insieme eterogeneo per personalità e orientamento, la necessità della rifondazione del linguaggio letterario può essere considerato uno dei principi condivisi del gruppo. Sul carattere esemplare di Joyce per la Neoavanguardia è assai esplicito questo rilievo di Barilli: «Per noi, poi, l’esempio joyciano è particolarmente significativo. […] l’Ulysses esaurisce ogni possibile sperimentazione a livello di frase; o in altre parole, Joyce anticipa di mezzo secolo quell’esaurimento di risorse da cui è partito il presente discorso» (Renato Barilli, Viaggio al termine della parola. La ricerca intraverbale, Milano, Feltrinelli, 1981, p. 22). Anche giudizi meno entusiasti suggeriscono che al cuore di quella che si veniva configurando come una ‘funzione Joyce’ stavano le innovazioni linguistico-formali su cui si reggono Ulisse prima e Finnegans Wake poi; innovazioni che vengono immediatamente ricondotte all’alveo dello sperimentalismo, quando non del completo formalismo (questa volta da intendersi come vuoto manierismo). Zanotti sottolinea, per esempio, i giudizi espressi da Calvino e Moravia12. Celebre il commento di Calvino formulato in Una sfida al labirinto: Una spinta visceral-esistenziale-religiosa accomuna l’espressionismo, Céline, Artaud, una parte di Joyce, il monologo interiore, il surrealismo più umido, Henry Miller e giunge fino ai nostri giorni. Su questa corrente viscerale dell’avanguardia il mio discorso non vorrebbe mai essere di sottovalutazione o di condanna perché è una linea che continua a contare […], però non posso farci niente se non riesco a parlarne con simpatia e adesione13. Ma si veda anche una lettera a Fortunato Seminara datata 10 gennaio 1955: Devo dirti fin da principio che io ho una prevenzione sia per tutte le narrazioni in cui c’entrano i pazzi sia per tutte le opere di tipo “monologo interiore”: tanto che non sono riuscito a finire l’Ulysses e anche Faulkner mi sta piuttosto sullo stomaco»14. 12 Zanotti, James Joyce among the Italian writers, p. 355. 13 Italo Calvino, La sfida al labirinto, in «Il menabò», n. 5 (1962), poi raccolto in Id., Una pietra sopra, Torino, Einaudi, 1980, pp. 82-97, a p. 89. 14 Italo Calvino, I libri degli altri. Lettere 1947-1981, a cura di Giovanni Tesio e con una nota di Carlo Fruttero, I toni di Moravia, che pure negli anni di «Solaria» aveva guardato con favore a Joyce, non sono più morbidi: «Mi meraviglia l’accostamento degli Indifferenti all’Ulysses di Joyce. Il mio romanzo vuole essere una reazione all’andazzo joyciano»15. 2. Consolo e Joyce Consolo, si diceva, sembra mantenere una posizione intermedia rispetto a queste due tradizioni: più giovane rispetto agli autori formatisi negli anni Trenta e Quaranta e senz’altro collocabile nel filone dello sperimentalismo, con il suo romanzo d’esordio fa chiaramente (anche se mai esplicitamente) riferimento non a Ulisse o a Finnegans Wake, ma al Portrait of the Artist as a young Man. Pur inserendosi esplicitamente nel «solco sperimentale » della letteratura italiana, Consolo è anche uno strenuo oppositore di quelli che definisce gli «azzeramenti avanguardistici » del Gruppo 6316. La ragione principale per l’opposizione sperimentazione-avanguardia risiede per Consolo nel rapporto con la tradizione; nelle sue parole: la sperimentazione è tutt’altra cosa. Essa tiene conto della tradizione letteraria, dunque lo sperimentatore non è dimentico di ciò che è avvenuto fino a lui, e cerca di condurre più avanti che può l’esperienza letteraria, di adeguarla al suo tempo17. Torino, Einaudi, 1991, p. 153. 15 Citato in Pasquale Voza, Nel Ventisette sconosciuto. Moravia intorno al romanzo, in «Belfagor», 27/2 (1982), pp. 207-210, a p. 207. 16 Vincenzo Consolo, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Roma, Donzelli, 1993, p. 15. 17 Conversazione con Vincenzo Consolo, con una Prefazione di Antonio Franchini, Milano, Medusa, 2014, p. 55. Dall’altra parte, è anche vero che l’esperienza del modernismo anglo-americano costituisce una delle eccezioni che si sottraggono ai vigorosi colpi di spugna della Neoavanguardia e, anzi, viene innalzata a precedente illustre. Autori come Joyce ed Eliot sono quindi un riferimento che accomuna Consolo al tanto osteggiato Gruppo 63 (anche se, come si anticipava, il Joyce di Consolo e quello della Neoavanguardia non combaciano perfettamente). Si tratta di un dato significativo innanzitutto perché conferma la nuova attualità di cui alcune questioni affrontate dal modernismo tornano a godere a metà Novecento e alle quali, con proposte anche molto diverse, gli autori e gli intellettuali di questo periodo cercano di rispondere; per dirla con Consolo: «Oggi i mostri profetizzati da Kafka, da Joyce, da Pirandello sono i mostri della nostra storia. Si ha l’obbligo di affrontare questi mostri»18. In secondo luogo, questa convergenza di riferimenti testimonia di una affinità non così scontata – ma, a pensarci bene, del tutto comprensibile alla luce di queste circostanze – tra Consolo e il Gruppo 63. 3. La ferita dell’aprile e Dedalus: le tappe del percorso di formazione I dodici brevi capitoli di cui si compone La ferita dell’aprile raccontano un anno di vita del giovane Scavone, che, dopo la morte del padre, viene mandato a studiare in un Istituto religioso; alcune delle analogie più evidenti, come è logico, si trovano con i capitoli del Portrait che seguono l’educazione di Stephen Dedalus presso i Gesuiti. L’architettura di entrambi i romanzi, fondata non sul racconto continuo ma sull’accostamento di episodi significativi per la crescita 18 Cito dal ricordo di Giuliana Adamo scritto in occasione della morte di Consolo (Giuliana Adamo, Ricordo di Vincenzo Consolo (1933-2012), in «Italica», 89/4 (2012), pp. V-X, a p. VI). dei due protagonisti, è influenzata dal contesto religioso. Stephen aspetta con ansia le festività natalizie per rivedere la famiglia dopo il primo periodo trascorso a Clongowes ed è durante il ritiro dedicato a San Francesco Saverio che matura la sua conversione spirituale. Analogamente, le giornate e l’anno di Scavone e dei suoi compagni sono scandite dai riti e dai momenti fondamentali dell’anno liturgico, dei quali assume particolare rilevanza la settimana pasquale, che si svolge nell’aprile del titolo. Proprio come Stephen, Scavone affronta un percorso di formazione durante il quale prende coscienza dei suoi rapporti con la realtà circostante, e cioè con i pari, con l’altro sesso, con i rappresentanti dell’autorità. La prima analogia tra Stephen e Scavone è di tipo caratteriale. Entrambi dimostrano di provare un profondo senso di estraneità rispetto al contesto in cui sono immersi. Mentre i compagni irrompono sulla scena rumorosi e scalmanati, i due protagonisti si collocano sempre in posizione defilata, di pacata e timorosa osservazione piuttosto che di partecipazione attiva; rispetto ai coetanei, di cui in ogni caso ricercano irrimediabilmente l’approvazione, sono allo stesso tempo più maturi e più ingenui19. 19 Sul carattere riflessivo di Stephen cfr., tra gli altri passaggi: DED, p. 33: «Stephen sedeva in un angolo della sala da gioco fingendo di osservare una partita a domino […]»; p. 41: «Il babbo gli aveva detto che qualunque cosa facesse, non facesse mai la spia a un compagno. Scosse la testa, rispose di no e si sentì contento»; p. 62: «Stephen era in mezzo a loro, temendo di parlare, ascoltando. Provò un leggero malessere di spavento»; p. 88 «Non aveva desiderio di giocare. Aveva desiderio d’incontrare nel mondo reale l’immagine corporea che la sua anima contemplava tanto costantemente». È un atteggiamento che Stephen mantiene fino alla fine del romanzo, quando ormai è all’università: «[…] e tenterò di esprimere me stesso in un qualche modo di vita o di arte quanto più potrò liberamente e integralmente, adoperando per difendermi le sole armi che mi concedo di usare: il silenzio, l’esilio e l’astuzia». Su Scavone cfr. FA, p. 7: «Io, per 212 Emblematica la confusione provata da entrambi i protagonisti negli episodi dei romanzi che riguardano la scoperta della sessualità, tradizionale rito di passaggio all’età adulta. Quando un ingenuo e confuso Scavone assiste all’incontro amoroso tra l’amico Filippo Mustica e una ragazza cieca, tutta l’attenzione è rivolta alla scomodità del suo nascondiglio: Io non ce la facevo più a restare, così sempre impalato, contro la porta, la lancella che trasudava e mi bagnava la gamba: mi stavo piegando adagio sopra le ginocchia, ma il ferro della porta si abbassò e fece un verso come un miagolio di gatto (FA, pp. 26-28). Alla fine del settimo capitolo, poi, Scavone sfoglia insieme a Tano Squillace un album con delle fotografie erotiche (o forse sarebbe più corretto dire che fa compagnia a Squillace che lo sfoglia). La reazione di Tano di fronte alle immagini proibite non viene completamente compresa da Scavone: Tano l’aveva morso la tarantola, aveva addosso il ballo di sanvito, parlava grasso, con la faccia rossa, si me, l’avevo pensata bene quell’una due volte che mi toccò di farlo (dice che diventavo rosso, e che motivo c’era), occhi a terra […]»; FA, pp. 11-12: «Io rimasi al mio posto, inginocchiato, per finta che pregavo, per studiare ancora don Sergio, lì in un angolo di raccoglimento […]»; FA, p. 25: «Mi prese a ben volere dal primo giorno che spuntai all’Istituto, così spaventato che, se non era per lui, me ne tornavo al paese […]»; FA, p. 104: «Ero capace di sfuggire ai grandi, stare diffidente, muto, chiuso nel mio guscio e fare il morto come la tartaruga stuzzicata con la verga, ma poi, solo che uno mi parlava buono, mi faceva un sorriso, subito m’aprivo […]», ma si pensi anche all’atteggiamento defilato di Scavone di fronte alle discussioni di politica tra Mustica e Benito Costa (pp. 15-16; p. 102). dimenava, esclamava: quel libro era suo e pareva lo vedeva per la prima volta. Io ero preso dal freddo, forse per l’umido dentro quel bugigatto, mi salivano i tremori per la schiena (FA, p. 73). È la stessa confusione provata da Stephen nel primo capitolo, quando non capisce cosa stessero facendo alcuni ragazzi più grandi, scoperti in bagno durante la notte: Stephen guardò in faccia i compagni, ma tutti guardavano attraverso il campo. Voleva chiedere a qualcuno una spiegazione. Che cosa significava quel far porcherie nei gabinetti? […] Ma perché nei gabinetti? Si andava là quando si aveva qualche bisogno (DED, pp. 64-65). È da notare che lo stanzino segreto in cui Tano porta Scavone per sfogliare le immagini è uno scantinato in cui passano i tubi di scarico di casa Squillace («Per i muri scrostati e umidicci, tubi e rubinetti, il tubo grosso dello scarico del cesso», FA, p. 73). In entrambi i casi, il tema del corpo viene spostato dall’ambito della sessualità, legato al mondo adulto e sconosciuto a Stephen e Scavone, a quello, più basso e più familiare, delle escrezioni, con un effetto comico che getta una luce grottesca ed estraniante sulla scena. Così si conclude l’episodio nella Ferita: «Si udì un rovescio d’acqua dentro il tubo grosso», p. 73). Il senso di estraneità di Stephen e Scavone non emerge esclusivamente dalla relazione con i coetanei, ma è dato anche dalle volubili circostanze personali e storiche in cui i personaggi sono immersi. Se in Dedalus l’estraneità prende la forma dell’esilio20, nella Ferita si declina come 20 Chiarissima la già citata dichiarazione d’intenti: «[…] e tenterò di esprimere me stesso in un qualche modo di vita o di arte quanto più potrò liberamente e integralmente, adoperando per difendermi le sole armi che mi concedo di usare: il silenzio, l’esilio e l’astuzia» (DED, p. 297). orfanità: Scavone, infatti, non solo perde il padre, ma vedrà anche morire il padre putativo, lo zio Peppe. In entrambi i romanzi, infine, l’estraneità provata dai protagonisti – un tratto che a questo punto possiamo definire identitario – viene segnalata da un dato linguistico: sia Stephen che Scavone si trovano immersi in un contesto dove si parla una lingua che non sentono come propria. In Dedalus è particolarmente significativo il passaggio della «pèvera», termine con cui Stephen chiama l’imbuto e che desta la curiosità del direttore della scuola. La conversazione produce una presa di consapevolezza in Stephen: La lingua in cui parliamo è prima sua che mia. Come differiscono le parole patria, Cristo, birra, maestro, sulle sue labbra e sulle mie! Io non posso pronunciare o scrivere queste parole senza inquietudine di spirito. La sua lingua, tanto familiare e tanto estranea, sarà per me sempre un idioma acquisito. Non le ho fatte né accettate io queste parole. La mia voce oppone loro resistenza. La mia anima si dibatte sotto l’ombra della lingua che è sua (DED, p. 232). In una condizione simile si trova il protagonista di Consolo: Scavone parla sanfratellano, è ciò che viene chiamato uno «zanglé», e si trova quindi in una condizione di doppia estraneità linguistica, sia rispetto all’italiano del potere, sia rispetto al siciliano di matrice messinese dei compagni21. L’epiteto «zanglé» svolge una funzione analoga a quella del particolare nome «Stephen Dedalus», un elemento che desta l’attenzione, solitamente in senso 21 Cfr. Daniela La Penna, Enunciazione, simulazione di parlato e norma scritta. Ricognizioni tematiche e linguistico-stilistiche su La ferita dell’aprile di Vincenzo Consolo, in La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo, a cura di Giuliana Adamo, San Cesario di Lecce, Piero Manni, 2006, pp. 13-48, a p. 21. negativo, degli interlocutori del protagonista fin dall’inizio del romanzo22. Tanto l’origine, evidentemente non irlandese, quanto la figura mitologica da cui il nome deriva, il Dedalo che attraverso l’ingegno riesce a fuggire dal labirinto del Minotauro, sono rappresentativi della condizione di Stephen rispetto al contesto. Come il nome di Stephen, anche la lingua di Scavone è oggetto di attenzioni indesiderate: Don Sergio me lo chiese, un giorno che dicevo la lezione: “Dì un po’: non sarai mica settentrionale?” e le risate di que’ stronzi mi fecero affocare. […] Tanto, francese o non francese, era lo stesso: in questo paese, e per tutti i paesi in giro, quando sentivano zanglé, zarabuino, sentivano diavolo. […] Uno che non mi aveva mai chiamato zanglé era il Mustica (FA, p. 24)23. 22 Cfr. ad esempio DED, p. 78. 23 Come si è già visto per l’episodio del rapporto con la ragazza cieca, anche questo passaggio dimostra che, nell’ambito della relazione con i pari, quella con Mùstica costituisce un’eccezione. Filippo svolge nei confronti di Scavone un ruolo di guida e di iniziatore non solo al sesso, ma anche alla politica e alle leggi della storia. Il protagonista di Dedalus non incontra mai un personaggio che ricopra questo ruolo, anzi: solitamente è Stephen il più maturo e consapevole del gruppo dei compagni (anche nella relazione con Lynch, che è il personaggio con cui più di tutti condivide il percorso intellettuale, emerge sempre una superiorità di Stephen). Scavone non sarebbe mai stato portato in trionfo come Stephen alla fine del primo capitolo, dopo aver avuto il coraggio di denunciare i soprusi di padre Dolan; è Mustica, in cui peraltro Consolo individua il vero protagonista del romanzo (cfr. una lettera di Vincenzo Consolo a Basilio ‘Silo’ Reale datata 31 marzo 1962, in Turchetta, Da un luogo bellissimo e tremendo, cit., p. XXXVII: «Il protagonista (Filippo, non chi racconta!) è il personaggio contro l’Istituto (assieme a chi racconta)»), a ricoprire questo ruolo nella Ferita. È Mustica che si ribella alle imposizioni dei padri dell’Istituto, che Per entrambi i personaggi, però, è proprio alla luce di questa alterità linguistica che prende forma la vocazione letteraria. Alla fine del quarto capitolo di Dedalus le storpiature del nome fanno da controcanto ai pensieri di Stephen, mentre il protagonista prende coscienza dei suoi desideri per il futuro, che immagina non tra i doveri della vita religiosa, ma, appunto, come artista: Che cosa significava questo? […] una profezia dello scopo che egli era nato a servire e che aveva seguìto attraverso le nebbie dell’infanzia e dell’adolescenza: un simbolo dell’artista che rifoggia nel suo laboratorio dalla materia inerte della terra una nuova creatura, ascendente, impalpabile, indistruttibile? […] Questo era il richiamo della vita alla sua anima, non la brutta voce monotona di un mondo di doveri e di disperazioni, non la voce disumana che lo aveva chiamato al pallido servizio dell’altare. Un attimo di volo rapito lo aveva liberato e l’urlo di trionfo che le labbra trattenevano gli fendeva il cervello. – Stephaneforos! (DED, pp. 208-209). Nel caso di Scavone, è anche la sua estraneità linguistica a garantirgli fin da giovane uno sguardo lucido e disincantato sulla realtà circostante, a partire dallo smascheramento del carattere ideologico e falsificante della lingua dei padri dell’Istituto. 4. La vocazione letteraria di Stephen e Scavone Come già notato da Turchetta, l’analogia più grande tra i due romanzi si ritrova nell’esito del percorso di formazione, che per entrambi i protagonisti corrisponde alla presa discute di politica con il compagno Benito Costa; che, alla fine del romanzo, arriva ad abbandonare la scuola dopo l’ennesimo sopruso. di coscienza di una vocazione letteraria. Queste due conclusioni, tuttavia, presentano alcune differenze. Come merge dalla conversazione con Lynch nel quinto capitolo, Stephen elabora il suo destino da artista nel segno della comprensione e della rappresentazione della realtà: lo dimostrano i suoi riferimenti alla filosofia classica e medievale nelle figure di Aristotele e Tommaso d’Aquino. Semplificando, potremmo dire che in questo quadro teorico di riferimento comprensione della realtà e produzione artistica procedono di pari passo. La felicità di un’operazione estetica, in altre parole, è legata a doppio nodo con la capacità di afferrare quella che nella scolastica viene definita come «quidditas», ovvero «l’essenza di una cosa. Questa suprema qualità l’artista la sente, quando la sua immaginazione comincia a concepire l’immagine estetica» (DED, p. 259). Si tratta del presupposto alla base della poetica dell’epifania, che pure, rispetto alla prima formulazione in Stephen Hero, subisce già una rielaborazione nel Portrait (in cui la parola «epifania» non compare mai), dove si insiste sulla capacità dell’artista di rivelare qualcosa attraverso la sua creazione, più che sul momento di visione o rivelazione24. È vero che le stesse modalità con cui Stephen prende coscienza della propria vocazione letteraria (l’epifania centrale del romanzo è quella della ragazza tramutatasi in uccello marino, DED, pp. 210-211) correggono, almeno in parte, questo tipo di poetica: la rivelazione nasce non tanto dal dispiegarsi di qualcosa nella sua essenza oggettiva (nella sua quidditas), bensì nel particolare valore che la cosa assume per chi la guarda in un determinato momento, e che la rende quindi strettamente legata al mondo interiore del soggetto25. È anche vero che A Portrait of the Artist as a young Man racconta di una formazione; inevitabile, 24 Su questo passaggio cfr. almeno Eco, Le poetiche di Joyce, cit., pp. 44-51. 25 Ivi, p. 51. quindi, che Stephen sia un personaggio in continua evoluzione e che presenti dei tratti di immaturità. Infine, non si tratta di una formazione qualunque, bensì proprio di quella dell’artista che, pur attraverso un narratore apparentemente eterodiegetico, la scrive: vista la natura semi- autobiografica di questo Künstlerroman è inevitabile che il rapporto sempre ambiguo tra l’autore e il personaggio che ne rappresenta l’alter ego sia ulteriormente problematizzato. Quando Joyce parla dell’artista da giovane, quell’artista non esiste più, è già stato superato, e con lui le sue categorie filosofiche26. Tuttavia, anche guardando agli stadi successivi del percorso di formazione (se accettiamo che le opere successive di Joyce possano essere lette come le tappe successive del percorso iniziato da Stephen nel Portrait), vediamo che i nuovi paradigmi di cui si va alla ricerca, pure in maniera sempre più radicale, sono sempre finalizzati alla rappresentazione della realtà, delle cose o dell’io, nelle nuove forme caotiche con cui si presenta27. 26 Ivi, p. 57: «[…] di fatto il Portrait non vuole essere il manifesto estetico di Joyce, ma il ritratto di un Joyce che non esiste più quando l’autore termina questo ironico rapporto autobiografico e pone mano allo Ulysses»; cfr. anche Annalisa Volpone, James Joyce: implosione ed esplosione del romanzo, in Il romanzo modernista europeo. Autori, forme, questioni, a cura di Massimiliano Tortora e Annalisa Volpone, Roma, Carocci, 2019, pp. 213-234, a p. 215. 27 Giacomo Debenedetti traccia un’analogia tra le epifanie joyciane e le intermittenze di Proust: «Ne concludiamo che i due grandi romanzieri, che inaugurano il romanzo del Novecento e gli danno l’impronta […] perseguono, per vie diverse, analoghi metodi di conoscenza della realtà con cui tessono e costruiscono le loro narrazioni. […] Le une e le altre [analogie e intermittenze] stabiliscono che la rappresentazione delle cose ha valore, interesse poetico narrativo solo in quanto quella rappresentazione riveli la quiddità o l’anima infusa nelle cose […]» (Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento, con una presentazione Di altro tipo, invece, è la sfida che si pone di fronte a Scavone. Nel nono capitolo, dopo l’auto-rimprovero per la mancata conquista di Caterina (e la mancata conquista della giovane desiderata è un ennesimo elemento in comune con il Portrait), troviamo il passaggio più evidentemente metaletterario del romanzo: Uno che pensa, uno che riflette e vuol capire questo mare grande e pauroso, viene preso per il culo e fatto fesso. E questa storia che m’intestardo a scrivere, questo fermarmi a pensare, a ricordare, non è segno di babbìa, a cangio di saltare da bravo i muri che mi restano davanti? Diceva zio: «È uomo l’uomo che butta un soldo in aria e ne raccoglie due: lo sparginchiostro non è di quella razza» (FA, p. 92). Rimane certamente il problema della rappresentazione della realtà, ma nel racconto di Scavone non c’è spazio per elucubrazioni filosofiche sulle categorie su cui fondarla. Questo non solo perché rispetto a Stephen il protagonista di Consolo si trova a un punto diverso del percorso di formazione; che il «mare grande e pauroso» non possa essere incasellato in categorie razionali è ormai considerato un (tragico) dato di fatto. Più che sul come si possa fare arte, quindi, Scavone si interroga sulla stessa legittimità della produzione artistica (e in particolare della scrittura) e lo fa inserendo nel suo discorso un’obiezione: non sarà segno di «babbìa» continuare a scrivere e tralasciare ciò che è concretamente importante nella vita (e che è rappresentato dalle parole dello zio)? Rispetto a una riflessione tutta interna alle ragioni dell’arte come è quella di Stephen, nella quale esperienza della realtà e produzione artistica procedono di pari passo, in quella di Scavone la realtà di Eugenio Montale e testi introduttivi di Mario Andreose e Massimo Onofri, Milano, La nave di Teseo, 2019, p. 60). entra anche con ragioni proprie, che prescindono e anzi si oppongono a quelle dell’arte. Si tratta, tra l’altro, di un polo oppositivo che poi avrà la meglio, perché Scavone, a differenza di Stephen, non coltiverà la propria vocazione letteraria. Il problema posto da Joyce-Dedalus si arricchisce nel racconto di Consolo-Scavone di un livello di complessità che attiene alla dimensione concreta del vivere, qui declinata nella forma della produttività e del guadagno economico (si ricordi che gli anni in cui la Ferita viene elaborata sono quelli immediatamente successivi al boom economico). Rispetto a Dedalus, in effetti, nella Ferita il polo della realtà storica è tendenzialmente più presente. Se nel Portrait i riferimenti alla questione irlandese fanno da sfondo alla crescita di Stephen senza assumere mai a livello dell’intreccio un ruolo centrale, nella Ferita il contesto e gli avvenimenti storici (le elezioni, la strage di Portella della Ginestra, ma in generale gli strascichi del fascismo e le circostanze del secondo dopoguerra28), pur messi sullo stesso piano delle avventure degli studenti dell’Istituto, si configurano come una colonna portante. Già l’esordio contiene insomma tutti i temi che saranno cari a Consolo e che verranno sviluppati nella sua produzione successiva: la denuncia dei meccanismi del potere, l’immobilità, il dogmatismo e l’ipocrisia della società che si va formando dopo la seconda guerra mondiale, di cui l’Istituto religioso non è che una rappresentazione in miniatura. Nel tematizzare esplicitamente la vocazione letteraria, Joyce e Consolo creano dei personaggi che, rispetto a questa vocazione, si pongono domande e obiettivi diversi: 28 Presente sia in Dedalus che nella Ferita è la denuncia delle ingerenze del potere religioso sulla politica (rispettivamente si vedano la discussione tra la zia Dante e il padre di Stephen durante la cena di Natale, DED, pp. 52-56, e gli ammonimenti dei padri dell’Istituto in merito alle imminenti elezioni amministrative, FA, p. 70). mentre Stephen è descritto come tutto assorto nella ricerca di strumenti adatti alla comprensione della realtà, Scavone si confronta con il dubbio che, di fronte alla concretezza e alle leggi di quella realtà, la scrittura non possa niente. 5. La lingua e le modalità del racconto Sia Dedalus che la Ferita sono romanzi semi-autobiografici. Stephen e Joyce condividono l’educazione presso i Gesuiti, il dissesto economico famigliare, la decisione di abbandonare l’Irlanda; meno evidenti sono le corrispondenze tra autore e protagonista della Ferita, ma è difficile non scorgere dietro all’Istituto di Scavone quelli gestiti dai Salesiani dove Consolo frequenta le scuole medie e il Ginnasio. Soprattutto, in comune tra Stephen e Joyce, e tra Scavone e Consolo c’è la vocazione letteraria. È naturale, quindi, che si tenda a considerare i personaggi come alter ego più giovani dei loro autori e in effetti, tanto nel Portrait quanto nella Ferita, possono essere individuate le prime prove di quella sperimentazione che caratterizzerà le opere successive di Joyce e Consolo. Solo apparentemente il narratore del Portrait può essere classificato come eterodiegetico: tutta la narrazione è infatti condotta in funzione di un unico punto di vista, e cioè quello di Stephen. La lingua del narratore evolve e diventa più complessa mano a mano che matura il protagonista; gradualmente, dalle filastrocche e dalle onomatopee apprezzate dal bambino si arriva alle argomentazioni filosofiche del giovane adulto. Il narratore, è vero, mantiene sempre una certa distanza rispetto a Stephen, tanto che può dare voce alle sue impressioni quando, ancora troppo piccolo, il protagonista non è in grado di verbalizzarle29. Il grado di questa distanza varia costantemente: lungo tutto 29 Sul narratore in Dedalus cfr. Richard Brandon Kershner Jr., Time and language in Joyce’s Portrait of the Artist, in «ELH», vol. 73, n. 4 (1976), pp. 604-619; Id., The il romanzo si registra una continua alternanza tra brani in cui si presentano o commentano gli eventi, e brani assimilabili al monologo interiore, in cui emergono, in modo più o meno controllato e più o meno esplicitamente introdotti, i pensieri del protagonista. La continua mescolanza di questi passaggi, tuttavia, dimostra che si tratta di una «onniscienza selettiva»30 e che il centro gravitazionale della narrazione rimane, per tutto il romanzo, Stephen. Qualcosa di simile a questa complicazione della narrazione lungo due assi – uno che segue orizzontalmente la crescita di Stephen e uno per così dire verticale, che divide eventi e flusso di pensieri – si ritrova anche nell’esordio consoliano, che è scritto direttamente in prima persona da uno Scavone ormai adulto. Anche in questo caso si assiste all’emersione di tratti linguistici che sono legati a fasi diverse del percorso di crescita; l’andamento, però, non è progressivo come in Dedalus. La lingua più matura dell’adulto che scrive e racconta di un anno determinante della sua gioventù, che riconosciamo per esempio nelle descrizioni nostalgiche del paesaggio siciliano e nelle riflessioni amare sulla fine dell’adolescenza, e che teoricamente è quella che dovrebbe prevalere nella narrazione, è a tratti sostituita da quella dello Scavone adolescente. In questi passaggi, la lingua si adatta alla sua confusione, alla sua ingenuità, al suo tono canzonatorio. Un passaggio in cui le prospettive del ragazzo e dell’adulto si incontrano direttamente è la fine del secondo capitolo. Si riprende qui l’episodio della cacciata dalla casa in cui il ragazzo risiedeva per frequentare l’Istituto. Così si chiude la scena, con l’attenzione rivolta alla gatta della donna di casa: Artist as Text: Dialogism and Incremental Repetition in Joyce’s Portrait, in «ELH», vol. 53, n. 4 (1986), pp. 881-894. 30 Cfr. Antonio Sichera, Pavese nei dintorni di Joyce: le «due stagioni» del Carcere, in «Esperienze letterarie», XXV/3-4 (2000), pp. 121-152, a p. 124. Vai, vai muscitta, pari sua figlia: lo stesso odore avete, tutta la casa lo stesso odore ha. Mangia muscitta bella, gioia, veleno che ti faccia, così la finisci di cacare sotto letto, di portare le lucertole nel cesso. Con tutto che non m’ero affezionato a quella casa, mi venne rabbia e tristezza, ché mi sentivo sfrattato, cacciato via, d’un colpo senza una casa e senza un letto in questo paese grande senza un parente. A queste cose uno non ci pensa, come alle gambe, alle braccia, fino a che non gliele tolgono. Il gatto le avrei ammazzato prima d’andarmene, il gatto (FA, p. 19). All’inizio e alla fine della citazione la lingua rende la rabbia e la volontà di vendetta dello Scavone ragazzo, mentre nella parte centrale il sentimento provato al momento dello sfratto viene elaborato più razionalmente, anche da un unto di vista linguistico, dall’adulto, che ne coglie l’origine più profonda. Rispetto alla focalizzazione interna e all’approfondimento psicologico che caratterizzano Dedalus, anche a livello linguistico la Ferita dimostra una maggiore apertura verso il mondo esterno31. Qualsiasi rischio di uniformità monologica dato dalla prima persona viene superato grazie ad una pluralità di voci che di volta in volta contaminano quella di Scavone. Voce del narratore e voci dei personaggi si susseguono senza soluzione di continuità, in una applicazione radicale della tecnica del discorso indiretto 31 Cfr. Turchetta, L’esordio romanzesco di Vincenzo Consolo, siciliano milanese, cit., p. 786: «la conturbante problematicità del narratore della Ferita viene messa in scena mediante una rappresentazione radicalmente anti-psicologica, che si nega per programma ogni possibile indugio introspettivo, condensando la psicologia dei personaggi nei loro gesti e nei loro modi espressivi, con modalità lato sensu behavioristiche che, una volta di più, fanno pensare alle influenze dei modelli americani» libero. Talvolta si assume la pesante retorica di don Sergio, di cui la lingua fascistoide, insieme all’ironia con cui viene ripresa, rivela le intenzioni propagandiste e repressive dei padri dell’Istituto: Il male la corruzione il caos dilagano, dilagano. Sorgono nuovi profeti e banditori di dottrine: noi non abbiamo da temere, noi fortunati, abbiamo l’Istituto con i padri. Che importa vincere o perdere una guerra? Importa il dopoguerra: vincere e vinceremo il male e il dopoguerra. Il segreto è la purezza. Una parola d’ordine: la morte, ma non i peccati. Puressa, puressa, primavera di bellessa. Noi siamo i nuovi, incomincia da noi il nuovo mondo, tutto dipende da noi: non abbiamo passato, abbiamo il futuro, la speranza cammina con noi. Suonò il campanello (FA, p. 14) Talvolta la voce narrante riprende invece i modi bruschi dello zio: «Cammina, destino infame, e se non facciamo presto, pure la notte sopra. Per Cesarò ci potevano essere quattro cinque chilometri: moviti, va’, sciroppati sta strada» (FA, p. 37). Talvolta, ancora, la registrazione della lingua altrui viene segnalata esplicitamente; di seguito qualche esempio: Accorse il sorvegliante, che bada all’ordine e alla disciplina, e fece i psi ehi psi con una faccia che poi mi sentite (FA, p. 8); Le travaglianti dello scantinato sotto il balcone della stanza mia sono spartane, sempre a scialare, chissà le cose belle che si contano: Giuliano è mascolo dolce, culo grosso com’un avvocato, Pisciotta sì, è mascolo amaro. […] e loro cantano a struggimento s’è maritata Rosa Sarina e Peppinella, col canto e controcanto, ed io che sono bella mi voglio maritar (p. 66); E il monaco continuava coi peccatori, faceva il paragone degli ebrei coi nemici attuali della Chiesa: vigili siate quel giorno d’aprile, sappiate discernere gli onesti dagli infidi (p. 70). Le tante voci con cui Scavone entra in contatto nel suo percorso di formazione compaiono direttamente sulla scena, a differenza di quanto avviene in Dedalus, in cui il focus è esplicitamente sulla negoziazione degli stimoli esterni da parte di Stephen. I rilievi sull’impianto formale fanno sistema con quelli sulla dimensione contenutistica e tematica dei romanzi, e suggeriscono che si possa individuare una matrice comune per le differenze tra la Ferita e Dedalus: diverso è il valore che viene riconosciuto nelle due opere alla realtà esterna, al di fuori dell’individuo. Se Dedalus ha come punto focale l’interiorità di Stephen, nella Ferita Consolo rifiuta questo tipo di approfondimento psicologico e, scegliendo – a questo punto si potrebbe dire quasi paradossalmente – la prima persona, usa la voce di Scavone per denunciare i meccanismi del contesto storico malato che attende i ragazzi dell’Istituto. È un dato che ci ricorda che, al netto di tutti i punti di contatto, si tratta di due opere elaborate in momenti storici e contesti culturali che sono anche profondamente diversi (e qui alludo naturalmente alla particolare carica politica a cui la letteratura, e specialmente la sperimentazione letteraria, era connaturata nell’Italia del secondo dopoguerra). Dall’altra parte, le innegabili analogie tematiche e formali che si è cercato di mettere in evidenza in queste pagine testimoniano innanzitutto la rilevanza dell’esperienza modernista nella formazione di Consolo, un aspetto ancora non approfondito dalla critica32; in secondo luogo, dimostrano l’esistenza di una linea di ricezione dell’opera 32 Cfr. Gianni Turchetta, Le parole (non) sono pietre: la scrittura plurale di Vincenzo Consolo, fra sperimentalismo e meridionalismo, testo della conferenza tenuta a Nancy l’8 marzo 2016. di Joyce che va sì sotto il segno della sperimentazione ma rimane parallela e sempre separata rispetto a quella della Neoavanguardia.


James Joyce

Vincenzo Consolo
foto Claudio Masetta Milone

Il sorriso dell’ignoto marinaio e L’ipotesto di libertà.

GUIDO BALDI

Università di Torino

II saggio si propone di esaminare i punti di contatto tra Il sorriso dell’ignoto marinaio e la novella Libertà (evidentemente presa da Consolo come punto di riferimento), e al tempo stesso le divergenze nell’impostazione del racconto, che risalgono ai diversi orientamenti ideologici dei due scrittori nei confronti della materia, una rivolta contadina. Se in Verga si registra un atteggiamento fermamente negativo verso la sommossa e le sue atrocità, temperato solo dalla pietà per i contadini diseredati, in Consolo invece si nota la volontà di comprenderne le ragioni. Non solo, se in Libertà la rappresentazione appare scarsamente problematica, a causa dell’atteggiamento dell’Autore che predetermina rigidamente le reazioni del lettore in un unica direzione, Consolo conferisce problematicità al racconto grazie all’uso dei punti di vista e delle voci, giocati abilmente a contrasto.

  1. GLI ANTECEDENTI DELLA SOMMOSSA

Alla base del romanzo di Vincenzo Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976), si colloca una rivolta contadina, quella scoppiata il 17 maggio 1860 in un piccolo paese sui monti Nebrodi, Alcara Li Fusi, provocata come in Libertà,(1) dalle speranze e dalle illusioni nate all’arrivo dei garibaldini in Sicilia. Ma rispetto a Libertà si registra una differenza sorprendente: la sommossa non viene rappresentata. Il romanzo ruota intorno a un vuoto, a una clamorosa ellissi narrativa, che non può non sconcertare il lettore, deludendo le sue attese, specie se si accosta al testo avendo nella memoria quello famoso di Verga. Eppure tutto il congegno narrativo del romanzo, nella sua prima parte, prima di arrivare al momento decisivo, fa supporre che la rappresentazione della rivolta debba essere il culmine del racconto, il suo punto di convergenza centrale, la sua Spannung. Al capitolo terzo, il folle eremita che vive in una grotta sulla montagna incontra nello spiazzo della forgia a Santa Marecùma un gruppo di fabbri e pastori, “omazzi rinomati per potenza di polso e selvaggiume», (2)dai nomi “grottescamente eloquenti di briganti più che di uomini, simili agli antichi epiteti che si davano ai diavoli”

(1) I rimandi alla novella verghiana nel romanzo sono numerosi, pertanto essa, per usare la terminologia genettiana, ne viene a costituire l’ipotesto (GERARD GENETTA. Palinsesti La Letteratura al secondo grado, trad. it.Torino, Einaudi, 1997).

(2) Tutte le citazioni sono tratte dalla seconda edizione del romanzo, Milano, Mondadori, 1997, che reca un’importante Nota dell’autore, vent’anni dopo.

(come nota finemente Giovanni Tesio nel suo commento), (1) «Caco Scippateste Car-cagnintra Casta Mita Inferno Mistêrio e Milinciana», intenti a oliare fucili arrugginiti, a fondere piombo, a riempir cartucce, a ritagliare proiettili, a molare falci, accette, forconi, zappe, coltelli, forbicioni. La scena è interamente colta attraverso il punto di vista dell’eremita, che, se a tutta prima crede di essere capitato all’inferno, pur nella sua esaltazione ha l’intuito pronto e capisce che vi è qualcosa di strano e sospetto in quell’armeggiare. Le stesse risposte dei presenti all’ eremita sono ammiccanti e allusive: alla sua domanda se intendono scannare maiali, rispondono: «- Porci di tutti i tempi, frate Nunzio – Ce n’è tanti – Tanti – Stigliole salsicce soppressata coste gelatina lardo, ah, l’abbondanza di quest’anno”; poi all’altra domanda se l’indomani pensano di fare festa a San Nicola, affermano: «Saltiamo questa volta, frate Nunzio. Non vedete quanto travaglio? […) Faremo festa per il giovedì che viene – Festa – Festazza […J – Scendete dall’eremo, frate Nunzio, e vedrete -». Il clima infernale che avvolge la scena potrebbe far supporre, nell’Autore, l’intento di usare immagini fortemente connotate e subliminalmente suggestive per mettere in risalto il carattere demoniaco della rivolta e così condizionare la reazione emotiva e il giudizio del lettore in una precisa direzione (come avviene in Libertà con la «strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie», che sta innanzi ai rivoltosi ubriachi di sangue); in realtà non si ha nulla del genere: al contrario, usare il punto di vista di un folle delirante, al quale va tutta la responsabilità dell’immagine, ottiene un effetto straniante, per cui l’adunanza dei futuri rivoltosi che preparano le loro armi assume un carattere di fervore gioioso, e la deformazione espressionistica della rappresentazione fa sentire la forza latente e la rabbia repressa che cova in quei diseredati in vista della prossima rivolta. Cosi le immagini gastronomiche da loro usate non hanno il valore delle allusioni verghiane alla ferocia cannibalica della folla affamata, anch’esse cariche di un pesante giudizio sull’ atrocità delle stragi dissimulato nella trama segreta del racconto, ma possiedono qualcosa di pantagruelicamente allegro. Infine le allusioni alla rivolta come festa non hanno nulla a che vedere con il «carnevale furibondo di luglio» di Libertà, ma fanno pensare a uno scatenamento liberatorio di quella forza e di quella rabbia.

Arrivato sulla piazza del paese, l’eremita vede che la caverna piena di gente rovescia per la porta aperta uno sfavillio di luce, «come antro di fornace» (un rimando interno alla forgia di prima), insieme a voci e urla. Da un gruppo che siede sul sedile di pietra, composto dal lampionaio, dall’usciere comunale, dall’inserviente del Casino dei galantuomini e dal sagrestano, il frate apprende il motivo di quella baldoria:

– Un tizio chiamato Garibardo

– Chi e ‘sto cristiano?

  • Brigante. Nemico di Dio e di Sua Maestà il Re Dioguardi. Sbarca in Sicilia e avviene un    quarantotto…

– Scanna monache e brucia conventi, rapina chiese, preda i galantuomini e protegge       avanzi di galera

– Questi vanno dicendo che gli da giustizia e terre…

Segno rapido di croce, mani giunte, capo chino e masticare un sordo paternostro

A differenza di Verga, che avvia la narrazione della sommossa in medias res, saltando tutti gli antefatti e partendo con il racconto dei primi atti compiuti dai rivoltosi, il romanzo di Consolo indugia sugli antefatti, sul come il diffondersi delle notizie sullo sbarco

  • VINCENZO CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio, a cura di Giovanni Teso, Torino, Einaudi 1995, p 63, nota 19

di Garibaldi ecciti gli animi dei diseredati e persino, come si è visto, sulla preparazione delle armi per i futuri eccidi. L’impostazione sembra voler insinuare nel lettore l’attesa di ciò che dovrà accadere, la convinzione che la rivolta sarà allo stesso modo diffusamente rappresentata, quasi a rendere poi più sconcertante la delusione delle aspettative. Nel passo citato le notizie dell’arrivo dei garibaldini e delle reazioni da essi provocate sono date attraverso il punto di vista degli uomini d’ordine, che stanno dalla parte dei signori e guardano con esecrazione e paura gli avvenimenti. In Libertà il punto di vista conservatore sul processo risorgimentale è riportato solo mediante un rapido accenno, l’uso spregiativo del verbo «sciorinarono» riferito al tricolore, qui invece quel modo malevolo di interpretare l’impresa dei Mille è proposto con ampiezza, evidentemente per mettere in piena luce una gretta chiusura dinanzi a ogni avvisaglia di cambiamento sociale che dall’alto si irradia verso il basso, contagiando anche i satelliti della classe padronale, come questi modesti paesani che stanno a chiacchierare in piazza.

Quello che nella novella verghiana era un rapido moto di disappunto dell’Autore dinanzi alla sordità dei «galantuomini» ai valori patriottici, qui si fa aperta polemica, ma più contro la chiusura sociale dei conservatori che quella politica. È chiaro da che parte sta lo scrittore.

Ancora al capitolo quinto si ha un’ampia narrazione di un momento preparatorio della sommossa, il raduno dei rivoltosi sempre nella conca di Santa Marecúma, la sera precedente il giorno fissato. Giungono tre uomini a cavallo, due «civili» e un capo dei braccianti, che sono i capi della rivolta e tengono i loro discorsi alla folla. Grazie ad essi si delineano non solo le motivazioni dell’insurrezione, ma anche le correnti per cosi dire ‘ideologiche’ che l’attraversano. Mentre in Libertà non emergono figure di capi e i contadini sono presentati come una massa spinta da impulsi ciechi e del tutto spontanei, una collettività indifferenziata in cui vi è una perfetta unità di intenti nella pura esplosione di rabbia selvaggia e di irrazionale furia distruttiva (tanto che viene escluso dal racconto il dato storico dell’avvocato Lombardo, l’ideologo e l’organizzatore del moto), qui Consolo ha cura di presentare le varie tendenze che, almeno nei capi, si profilano tra la collettività rurale. Don Ignazio Cozzo, borghese e sommariamente “alletterato”, cioè almeno capace di leggere e scrivere, rappresenta la tendenza a conciliare le spinte più radicali e le posizioni più moderate: il fine ultimo è una conciliazione delle istanze di giustizia sociale, rivolte contro l’oppressione della classe dei proprietari, con il riconoscimento delle autorità istituzionali, monarchia e Chiesa. Con tutto questo, l’oratore sa toccare le corde più sensibili dell’uditorio, facendo leva sui suoi impulsi più violenti, e invita a non farsi fermare da «pietà o codardia», perché grande è la «rabbia«, dopo anni di «sopportazione”, ordinando a ciascuno, al segnale stabilito, «Viva l’Italia!«, di scagliarsi «sopra il civile che si troverà davanti«. Poi, sempre come spia del relativo moderatismo di questa tendenza, l’oratore da appuntamento a tutti, a mezzanotte, per un solenne giuramento sopra il Vangelo, davanti a un ministro di Dio, il parroco del Rosario.

A contrastare questa linea insorge l’altro oratore, non un borghese ma il capo dei braccianti, Turi Malandro, che rappresenta le tendenze più estremistiche del movimento. Innanzitutto rifiuta il grido di «Viva l’Italia!« come segnale della sommossa, proponendo invece «Giustizial»: all’impostazione istituzionale, patriottica, contrappone quella sociale, eversiva dei rapporti di proprietà, perché giustizia in quel contesto significa sostanzialmente redistribuzione della terra. Una linea dura e spietata prospetta anche per l’azione: avverte che sarà facile lo «scanna scanna pressati dalla rabbia», il difficile verrà dopo, quando «il sangue, le grida, le lacrime, misericordia, promesse e implorazioni potranno invigliacchire i fegati più grossi. Non bisogna dunque cedere alla pietà: «Se uno, uno solo si lascia brancare da pena o da paura, tutta la rivoluzione la manda a farsi fottere». Se in Libertà la ferocia senza pietà dei rivoltosi era solo effetto di rabbia spontanea e di odio accumulato contro gli oppressori, qui la violenza non appare cieca, ma preordinata, teorizzata, ideologizzata, Non si ha una massa irrazionale, ma una forza organizzata, indirizzata verso obiettivi precisi, consapevole dei propri strumenti di lotta. In entrambi i casi gli atteggiamenti ideologici degli Autori verso la massa popolare, le posizioni conservatrici di Verga e quelle di sinistra di Consolo, non condizionano solo le tecniche narrative della sua rappresentazione, ma determinano la fisionomia stessa dell’oggetto rappresentato.

Il borghese don Ignazio sa muoversi con destrezza in questo dibattito con il suo contraddittore più estremista: accetta la parola d’ordine «Giustizia!», declassandola però a puro segnale convenzionale, al pari dell’altra, «Viva l’Italia!», Si allinea sulle posizioni anticlericali del capo bracciante, proclamando: «Siamo contro il Borbone e i servi suoi, ma anche contro la chiesa che protegge le angherie e i tiranni», ma distingue tra i preti «amici e soci degli usurpatorio e preti liberali come il parroco del Rosario. Insinua poi ragioni di opportunità, in quanto il prete è parente di un capitano che segue Garibaldi, e i rivoltosi non possono fare a meno della protezione dei garibaldini, che sono in grado di legittimare il loro operato agli occhi del mondo.

Ultimo preannuncio della sommossa è alla fine del capitolo l’incontro del gruppo di braccianti e pastori nel paese con un «civile», il professor Ignazio, figlio del notaio don Bartolo, il più odiato dei notabili, che alloro passaggio getta loro provocatoriamente in

Faccia i suoi scherni («Ah, che puzzo di merda si sente questa sera.»), ai quali fa eco, ripetendo le stesse parole, il figlio quindicenne. Tutti impugnano i falcetti, le zappe e le cesoie, pronti alla reazione violenta, ma uno di essi, più padrone di sé, riesce a conte nerne l’impeto, invitandoli a portare pazienza sino all’indomani. E il gruppo prosegue con i denti serrati, soffiando forte dal naso «per furia compressa e bile che riversa», È l’ultima immagine della rabbia che sta per esplodere.

2. L’ELLISSI NARRATIVA

A questo punto, dopo così ampi indugi preparatori, il lettore si sente legittimato ad aspettarsi subito dopo il racconto dettagliato della sommossa, Invece non trova nulla del genere: il capitolo successivo è costituito da una lunga lettera del barone di Mandralisca, già protagonista del primo, secondo e quarto capitolo, che per le sue ricerche di naturalista si è trovato sul luogo degli eventi e mesi dopo, a ottobre, scrive all’amico Giovanni Interdonato, procuratore dell’Alta Corte di Messina che dovrà giudicare gli insorti scampati alla fucilazione sommaria, come preambolo a una memoria che intende compilare sui fatti di Alcara. E evidente allora che il principale problema interpretativo proposto dal Sorriso dell’ignoto marinaio è capire le ragioni di questa clamoroSa ellissi narrativa e la sua funzione strutturale nell’economia dell’opera.

La lettera del barone è il centro ideale del romanzo, e in essa si possono rinvenire le ragioni dell’ellissi, del fatto che lo scrittore rinunci sorprendentemente alla rappresentazione della rivolta popolare, II Mandralisca vorrebbe narrare i fatti come li avrebbe narrati uno di quei rivoltosi, e non uno come don Ignazio Cozzo, «che già apparteneva alla classe de’ civili», ma uno «zappatore analfabeta». In questo proposito dell’aristocratico intellettuale si può intravedere un’allusione alla tecnica abituale delle narrazioni verghiane  incentrate sulle «basse sfere», che consiste proprio nell’adottare una voce narrante al livello stesso del personaggi popolari (tecnica peraltro solo parzialmente applicata in un testo come Libertà, par dedicato a una sommossa contadina, poiché per buona parte il narratone terno al piano del narrato è portavoce dei «galantuomini»).

Ma il barone, che qui diviene il narratore in prima persona (con un passaggio al racconto omodiegetico, mentre i capitoli precedenti erano affidati a un narratore eterodiegetico), scarta decisamente questa possibilità: «Per quanto l’intenzione e il cuore siano disposti, troppi vizi ci nutriamo dentro, storture, magagne, per nascita, cultura e per il censo, Ed è impostura mai sempre la scrittura di noi cosiddetti illuminati, maggiore forse di quella degli ottusi e oscurati da’ privilegi loro e passion di casta». Qui chiaramente il barone è alter ego e portavoce dell’Autore stesso: se ne può dedurre facilmente che Consolo rinuncia a narrare la sommossa perché è convinto che una simile operazione, condotta da lui, intellettuale borghese, viziato nella sua visione dalla sua posizione di classe, dalle «storture» che le sono connaturate, sarebbe un «impostura», non sarebbe in grado di riprodurre le ragioni che hanno determinato l’evento, anzi ne tradirebbe inevitabilmente il senso, risolvendosi in una mistificazione. Il barone rintuzza poi l’obiezione che ci sono le istruttorie, le dichiarazioni agli atti, le testimonianze: «Chi verga quelle scritte, chi piega quelle voci e le raggela dentro i codici, le leggi della lingua? Uno scriba, un trascrittore, un cancelliere»; e anche se esistesse uno strumento meccanico capace di registrare quelle voci, come il dagherrotipo fissa le immagini, «siffatta operazione sarebbe ancora ingiusta: poi che noi non possediamo la chiave, il cifrario atto a interpretare que’ discorsi», e non solo sul piano linguistico: «Oltre la lingua, teniamo noi la chiave, il cifrario dell’essere e del sentire e risentire di tutta questa gente?»

Il discorso del barone passa poi a toccare un altro punto di centrale rilevanza, strettamente legato al precedente: l’impossibilità per i privilegiati, anche per quelli «illuminati», di condividere i valori fondamentali, soprattutto quelli politici e culturali, con le classi subalterne. Essi ritengono come unico possibile il loro codice, il loro modo di essere e di parlare che hanno «eletto a imperio a tutti quanti «Il codice del dritto di proprietà e di possesso, il codice politico dell’acclamata libertà e unità d’Italia, il codice dell’eroismo come quello del condottiero Garibaldi e di tutti i suoi seguaci, il codice della poesia e della scienza, il codice della giustizia e quello d’un’utopia sublime e lontanissima…». Per questo la classe dominante parla di rivoluzione, libertà, eguaglianza, democrazia, e riempie di quelle parole libri, giornali, costituzioni, leggi, perché quei valori li ha già conquistati, li possiede. Ma le classi subalterne sono estranee a quei valori, non possono parteciparli: «E gli altri, che mai hanno raggiunto i dritti più sacri e elementari, la terra e il pane, la salute e l’amore, la pace, la gioia e l’istruzione, questi dico, e sono la più parte, perché devono intender quelle parole a modo nostro?». Quei valori non possono essere semplicemente calati dall’alto: le classi subalterne devono da sole conquistarseli, e allora «li chiameranno con parole nuove, vere per loro, e giocotorza anche per noi, vere perché i nomi saranno intieramente riempiti dalle cose»; e allora «la storia loro, la storia, la scriveran da sé, non io, non voi, Interdonato, o uno scriba assoldato. tutti per forza di nascita, per rango o disposizione pronti a vergar su le carte fregi. svolazzi, aeree spirali, labirinti…* Quindi, per il barone, il riscatto dei subalterni varrà a riscattare gli stessi privilegiati, ridando verginità e sostanza autentica a valori che rischiano di ridursi, nelle loro mani, a meri flatus  vocis inconsistenti o a vacue ornamentazioni retoriche. Se gli intellettuali non possono non mistificare la storia degli oppressi con la loro scrittura, la scrittura autentica di tale storia non potrà essere che degli oppressi stessi, quando avranno conquistato gli strumenti concettuali attraverso l’istruzione e l’emancipazione dalla loro subalternità.

Risulta evidente, da tutte queste riflessioni del barone di Mandralisca, e dietro di lui dello scrittore, la distanza ideologica che, sul tema comune della rappresentazione di una rivolta contadina, separa il romanzo di Consolo da Libertà. Verga, dal suo punto di vista di conservatore deluso e pessimista, registra con la sua gelida oggettività, che tradisce una desolata amarezza, l’estraneità dei contadini ai valori risorgimentali, il loro ridurre l’ideale di libertà alla semplice redistribuzione della proprietà della terra. Consolo invece, da una prospettiva storica che, grazie alla conoscenza dell’ampio dibattito intervenuto nel frattempo, ha ben chiari i limiti del Risorgimento, specie nei suoi riflessi sul Mezzogiorno, e soprattutto considerando la rivolta contadina da tutt’altra angolatura, quella dell’intellettuale di sinistra, arriva a comprendere le motivazioni profonde di quella estraneità e a giustificarla storicamente e socialmente. Non solo, ma in chiave di materialismo storico attribuisce agli aspetti materiali, cioè proprio alla terra, un peso determinante rispetto agli ideali astratti. Il barone nel 1856 aveva partecipato ai moti patriottici di Cefalù, ed ora rievoca le figure degli eroi e dei martiri che allora avevano dato la vita per la causa: «Io mi dicea allora, prima de’ fatti orrendi e sanguinosi ch’appena sotto comincerò a narrare, quei d’Alcara intendo, finito che ho avuto questo preambolo, io mi dicea: è tutto giusto, è santo. Giusta la morte di Spinuzza, Bentivegna, Pisacane… Eroi, martiri d’un ideale, d’una fede nobile e ardente». Però ora, sotto l’impressione sconvolgente della sommossa di Alcara, è assalito da dubbi: «Oggi mi dico: cos’è questa fede, quest’ideale? Un’astrattezza, una distrazione, una vaghezza, un fiore incorporale, un ornamento, un ricciolo di vento.. Una lumaca.” La lumaca, l’oggetto dei suoi studi eruditi e futili, è assunta dal barone come immagine del vuoto sterile di una cultura di classe c, nella sua forma a spirale(1) che si chiude su se stessa, «di tutti i punti morti, i vizi, l’ossessioni, le manie, le coartazioni, i destini, le putrefazioni, le tombe, le prigioni… Delle negazioni insomma d’ogni vita, fuga, libertà e fantasia, d’ogni creazion perenne, senza fine». Per cui alla lumaca contrappone ciò che è solido e concreto, la terra: «Perché, a guardar sotto, sotto la lumaca intendo, c’è la terra, vera, materiale, eterna: e questo riporta il suo pensiero alla rivolta dei contadini: «Ah la terra! È ben per essa che insorsero quei d’Alcàra, come pure d’altri paesi, Biancavilla, Bronte, giammai per lumache», cioè per ideali astratti e retorici.

Inoltre, mentre il pessimismo induce Verga a essere profondamente scettico su una diversa organizzazione della società, e quindi a convincersi che un’eventuale redistribuzione della terra porterà comunque allo scatenarsi della lotta per la vita e a nuovi sopraffattori, scaturiti dalla massa popolare stessa, che si sostituiranno agli antichi, Consolo per bocca del suo aristocratico illuminato prospetta come una conquista determinante l’accesso dei contadini alla terra, nella prospettiva di una distruzione della proprietà privata, «la più grossa, mostruosa, divoratrice lumaca che sempre s’è aggirata strisciando per il mondo», distruzione che il barone vagheggia rifacendosi alle idee di Mario Pagano e di Pisacane, citato testualmente: «Il frutto del proprio lavoro garantito; tutt’altra proprietà non solo abolita, ma dalle leggi fulminata come il furto, dovrà essere la chiave del nuovo edifizio sociale. È ormai tempo di porre ad esecuzione la solenne sentenza che la Natura ha pronunciato per bocca di Mario Pagano: la distruzione di chi usurpa». Se Libertà ha alla base la negazione di ogni possibilità di progresso, dalle

  • Sull’importanza della figura della spirale nel romanzo si veda CESARE SEGRE, La costruzione a chioccola del «Sorriso dell’ignoto marinaio» di Consolo, in IDem, Intrecci di voci La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino. Einaudi, 1991, pp 71-86. Per una complessa interpretazione in chiave antropologica, si rimanda a Giuseppe Traina,  Vincenzo Consolo, Fiesole, Cadmo, 2001, pp. 60 sgg

parole del barone risalta una ferma fiducia nel progresso, in senso sociale, come riscatto delle masse oppresse ad opera delle masse stesse, capaci di distruggere il sistema iniquo della proprietà privata avviando a una totale rigenerazione del mondo: «Per distruggere questa i contadini d’Alcàra si son mossi, e per una causa vera, concreta, corporale: la terra: punto profondo, onfalo, tomba e rigenerazione, morte e vita, inverno e primavera, Ade e Demetra e Kore, che vien portando i doni in braccio, le spighe in fascio, il dolce melograno…. E, in questo proiettarsi in un futuro ritenuto possibile, la cui immagine lo esalta, la sua prosa diviene lirica, enfatica, infarcita di rimandi classici e mitologici, tradendo la sua natura di letterato: la scelta stilistica dello scrittore, che mima lo stile del personaggio stesso, vale a denunciare, mediante un processo di distanziamento e di straniamento, quanto di cultura aristocratica ed elitaria permanga nel nobile, nonostante la sua apertura ideologica, quindi a sottrarlo a ogni rigidezza esemplare e apologetica, a presentarlo in una luce critica (ma su questo dovremo ritornare).

Per la presa di coscienza dell’impossibilità di narrare i fatti di Alcara, «se non si vuol tradire, creare l’impostura», al barone «è caduta la penna dalla mano»: rinuncia pertanto all’idea di stendere quella memoria sullo svolgimento della sommossa che intendeva sottoporre all’amico Interdonato, procuratore dell’Alta Corte. Si limita a invitarlo ad agire «non più per l’Ideale, si bene per una causa vera, concreta», «decidere della vita di uomini ch’ agiron si con violenza, chi può negarlo?, ma spinti da più gravi violenze daltri, secolari, martiri soprusi angherie inganni. ». Ed in effetti il procuratore, rispondendo alla sollecitazione dell’amico, manda liberi i rivoltosi per amnistia, con un’ardita interpretazione di una legge del governo dittatoriale che assolveva da delitti commessi contro il regno borbonico. Evidentemente è significativa questa soluzione adottata da Consolo, se paragonata a quella di Libertà: Verga insiste sul processo in cui i rivoltosi, giudicati da giudici ostili per pregiudizio di classe, subiscono pesanti condanne, nel romanzo di Consolo invece essi (a parte quelli fucilati subito da una commissione speciale, come quelli fatti giustiziare da Bixio nella novella) non subiscono pene. In entrambi i casi viene rispettata la realtà storica: ma è importante che Consolo abbia scelto un fatto conclusosi con una soluzione positiva, grazie all’apertura illuminata di chi rappresenta la giustizia, mentre Verga abbia optato per un fatto risoltosi negativamente. Lo scrittore di sinistra punta cioè su un episodio che consente un’apertura verso il futuro la speranza in un ordine diverso in cui la giustizia non sia solo vendetta di classe, mentre Verga sceglie un episodio storico che conferma il suo pessimismo negatore di ogni prospettiva verso il futuro (e che lascia solo un margine alla pietà per le vittime di una giustizia ingiusta).

Se rinuncia a narrare l’evento in sé, il Mandralisca ritiene agevole e lecito parlare solo «de’ fatti seguiti alla rivolta», «in cui i protagonisti, già liberi di fare e di disfare per più di trenta giorni, eseguir gli espropri e i giustiziamenti che hanno fatto gridar di raccapriccio, ritornano a subire l’infamia nostra, di cose e di parole», cioè le fucilazioni sommarie e poi il processo a Messina. Per cui, come il romanzo rappresenta la preparazione della sommossa, così si sofferma sul quadro spaventoso del paese devastato da essa: le tombe del convento dei cappuccini scoperchiate, con i cadaveri sparsi all’aria aperta. la fontana con le carogne a galla nella vasca, «macelleria di quarti, ventri, polmoni e di corami sparsi sui pantani e rigagnoli dintorno, non sai di vaccina, becchi, porci, cani o cristiani», poi nella piazza del paese «orridi morti addimorati» che «rovesciansi dall’uscio del Casino e vi s’ammucchiano davanti, sulle lastre, uomini fanciulli e anziani. Pesti, dilacerati, nello sporco di licori secchi, fezze, sughi, chiazze, brandelli, e nel lezzo di fermenti grassi, d’acidumi, lieviti guasti, ova corrotte e pecorini sfatti. Sciami e ronzi di mosche, stercorarie e tafani.. Su questo turpe ammasso si avventano cornacchie, corvi, cani sciolti, maiali a branchi, «briachi di lordura», un «vulturume» «piomba a perpendicolo dall’alto come calasse dritto dall’empireo», «si posa sopra i morti putrefatti» affondando il rostro e strappando «da ventre o torace, un tocco», poi «s’ erge, e vola via con frullio selvaggio», mentre passa una carretta guidata da garibaldini, che costringono gli astanti i caricarvi i morti per portarli al cimitero. Consolo insiste su particolari orrorosi e ripugnanti ben più di quanto non faccia Verga, ma mentre in Libertà lo scrittore soffermandosi sulle atrocità punta a suscitare nel lettore reazioni emotive di sdegno e raccapriccio con tecniche di suggestione sotterranea, qui più che l’orrore in sé è in primo piano chi lo osserva, cioè il barone, con il suo atteggiamento dinanzi allo spettacolo: vale a dire che i brani descrittivi, come crediamo risulti chiaramente dalle citazioni, sono in primo luogo esercizi di bravura stilistica intesi a mimare il particolare idioletto dell’aristocratico intellettuale. L’orrore insomma è allontanato di un grado, sempre per presentare il personaggio filtro del racconto in una prospettiva critica, per equilibrarne l’eccessiva positività ed evitarne un ritratto apologetico, mostrando attraverso il linguaggio i limiti storici della sua cultura.

Alla prospettiva del barone, aperta a comprendere con acuta intelligenza politica e sociale le ragioni della rivolta, è contrapposta subito dopo la prospettiva contraria di chi conduce la repressione. Viene cioè riportato il discorso che il colonnello garibaldino, che già con l’inganno aveva indotto i rivoltosi a deporre le armi per arrestarli, rivolge alla popolazione del paese raccolta in chiesa, dopo il Te Deum di ringraziamento per la fine dei disordini. Nelle sue parole i prigionieri incatenati «non sono omini ma furie bestiali, iene ch’approfittaron del nome sacro del nostro condottiero Garibaldi, del Re Vittorio e dell’Italia per compiere stragi, saccheggi e ruberie. lo dichiaro qui, d’avanti a Dio, que’ ribaldi rei di lesa umanità. E vi do la mia parola di colonnello che pagheranno le lor tremende colpe que’ scelerati borboniani che lordaron di sangue il nostro Tricolore. […] L’Italia Una e Libera non tollera nel suo seno il ribaldume». La registrazione di queste parole, con tutto il loro livore forcaiolo, che arriva alla mistificazione di bollare come «borboniani» i rivoltosi, ha il compito di denunciare come i garibaldini non fossero solo i paladini dell’ideale, e tanto meno i portatori di una palingenesi sociale, come si erano illusi i contadini, ma semplicemente venissero a imporre un ordine solo esteriormente nuovo, che in realtà riproduceva in forme diverse l’oppressione di classe precedente. Un’opposizione così forte tra la prospettiva illuminata dell’intellettuale e quella reazionaria del militare portavoce degli interessi del nuovo ordine non può essere priva di significato: occorrerà quindi riflettere sul gioco di punti di vista congegnato dallo scrittore e cercar di capire la sua funzione nella struttura del testo. Però prima è necessario mettere in luce una più ampia opposizione che l’Autore costruisce per chiudere il romanzo, e che presenta caratteristiche analoghe, suscitando gli stessi problemi interpretativi.

3. LA SOMMOSSA ATTRAVERSO LE VOCI DEI PROTAGONISTI

Se il barone rinuncia a descrivere la rivolta per l’impossibilità di narrare come narrerebbero i contadini senza determinare un tradimento mistificatorio, alle voci dei rivoltosi viene egualmente dato spazio nel romanzo. Il Mandralisca infatti, recatosi nel castello dove erano stati rinchiusi i prigionieri, trascrive le scritte da essi tracciate col carbone sui muri del sotterraneo. È come il primo passo verso la realizzazione dell’auspicio formulato dal barone, che i subalterni dovranno scrivere da sé la propria storia.

In tal modo, attraverso le voci dirette dei protagonisti, emergono momenti fondamentali della sommossa e viene in qualche modo colmato il vuoto dell’ellissi che ne aveva cancellato la narrazione

Dalle scritte affiorano, in forme elementari e sintetiche ma cariche di una forma dirompente, le ragioni della rivolta, l’odio per i possidenti, la rabbia per i soprusi e le ruberie ai danni dei diseredati, al tempo stesso, per rapidi ed essenziali scorci, si profilano gli episodi più atroci, che sono affini a quelli descritti da Verga, ma invece di essere affidati a un narratore non neutrale, che indulge su determinati particolari per condizionare sottilmente il giudizio del lettore, sono lasciati, senza filtri, alle parole secche degli autori stessi delle efferatezze, al momento di scrivere ancora pienamente sotto l’impulso dell’odio che allora li aveva mossi. Unica eccezione è la seconda scritta, che solo all’inizio inveisce contro proprietari, pezzi grossi del consiglio comunale, parroci e «civili» che si sono appropriati delle terre del Comune escludendo chi ne aveva diritto, sia «galantuomini» sia «poveri villani»: chi scrive è un «galantuomo» egli stesso che, pieno di rabbia per essere stato estromesso dalla spartizione, ha capeggiato la rivolta, ma ora confessa di essersi pentito del processo devastante a cui aveva dato origine («Aizzai gli alcaresi a ribellarsi / ah male per noi / nessuno fu più buono / di fermare la furia / dei lupi scatenati), per cui chiede perdono a tutti. L’immagine dei «lupi» scatenati sembra proprio un intenzionale rimando, da parte dello scrittore, al lupo «che capita affamato nella mandra» di Libertà: ma certamente un suono diverso ha la stessa immagine usata da un narratore portavoce delle classi alte vittime della rivolta, delegato a esprimere l’esecrazione, il disprezzo e la paura che esse nutrono per la furia popolare, oppure impiegata da chi è stato dentro la sommossa e ora prende coscienza delle atrocità commesse, provandone orrore.

La scritta successiva evoca l’uccisione del nipote del notaio, al presente, come se chi scrive rivivesse in quel momento l’atto compiuto e ancora ne godesse: «Puzza di merda a noi / la sera di scesa nel paese / stano turuzzo / nipote del notaro / strascino fora / serro colle cosce / sforbicio il gargarozzo / notaro saria stato pure lui». Anche qui si inserisce un’evidente allusione a Libertà: la conclusione della scritta ripete quasi testualmente l’affermazione nella novella verghiana proferita da uno della folla dinanzi al figlio del notaio abbattuto con un colpo di scure dal taglialegna: «Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui!». Ma proprio il collegamento esplicito fa risaltare la distanza fra le due impostazioni del racconto. In Verga la registrazione della frase vale a gettare una luce sinistra sul cinismo disumano dei rivoltosi, qui invece la stessa frase riflette solo la comprensibile indignazione dell’oppresso contro gli oppressori e il suo bisogno di giustizia.

Inoltre in Libertà il ragazzo trucidato è biondo come l’oro, notazione che mira a conferire alla vittima qualcosa di puro e angelico, e quindi a potenziare il patetismo del racconto e a suscitare raccapriccio per la barbara uccisione dell’innocente; nel romanzo di Consolo invece questo ragazzo, nell’episodio a cui la scritta fa inizialmente riferimento, appare come una figura laida, ripugnante sia moralmente sia fisicamente: la sera prima della rivolta aveva schernito provocatoriamente, a imitazione del padre, pastori e fabbri al loro passaggio in piazza, sostenendo di sentire puzzo di merda, rivelando cosi l’odioso disprezzo della sua classe di privilegiati per i poveracci, per di più era descritto «grasso come ‘na femmina, babbaleo, mammolino, ancora a quindici anni sempre col dito in bocca, la bava e il moccio», ed era definito spregiativamente «garrusello», cioè effeminato. È evidente la volontà di rovesciare l’impostazione verghiana. Già nell’episodio della vigilia la figura appariva ignobile perché presentata attraverso la prospettiva dei villani insultati e la loro reazione furibonda, come rivelava il linguaggio adottato, che mimava quello dei villani stessi; poi nella scritta la descrizione dello sgozzamento viene subito dopo la rievocazione degli insulti, a far sentire come l’atto atroce sia scaturito dalla rabbia ancora viva e cocente per l’affronto subito da parte del rappresentante degli oppressori: per cui nella rievocazione dell’eccidio non si innesca alcuna reazione emotiva di commozione e sdegno per l’innocente trucidato, in quanto la vittima non è innocente per nulla, anzi, si ricava l’impressione che la feroce vendetta sia in qualche modo giusta.

Le altre scritte ricalcano sostanzialmente lo stesso schema, evocazione delle angherie ed efferata punizione. Un’ulteriore eco di Libertà è il giovane Lanza che cade senza un lamento, con gli occhi sbarrati «che dicono perché», e rimanda al don Antonio di Verga che cade con la faccia insanguinata chiedendo «Perché Perché mi ammazzate?.

L’ultima scritta, riportata inizialmente nel dialetto alcarese, afferma che «u populu

“ncazzatu ri Laccara» e degli altri paesi siciliani ribellatisi «nun lassa supra a facci ri ‘sta terra/manc’ ‘a simenza ri/ surci e cappedda», e termina nell’antico dialetto di Sanfratello, di origine lombarda: «mart a tucc i ricch / u pauvr sclama / au faun di tant abiss / terra pan / l’originau è daa / la fam sanza fin / di / libirtâá». La parola conclusiva, «libirtãà, sembra ancora un rimando al testo verghiano, ma se là risultava usurpata dai contadini che la intendevano solo come appropriazione delle terre, qui la libertà è decisamente identificata con la terra che dà pane, in coerenza con il discorso fatto in precedenza dal barone, inteso a rivendicare la base materiale che assicura contenuto reale a autentico ai valori ideali.

Il romanzo però non termina qui: dopo la riproduzione delle scritte, vi sono ancora tre appendici di documenti, di cui uno assume un’importante funzione strutturale. si tratta di un libello, a firma di tal Luigi Scandurra, pubblicato a Palermo nel 1860, che contiene una violenta requisitoria contro la decisione del procuratore di mettere in libertà gli accusati. Qui i fatti di Alcara sono presentati in una ben diversa luce rispetto alle parole del barone di Mandralisca e alle scritte sui muri del carcere: i rivoltosi sono definiti «una mano di ribaldi», «un orda di malvaggi [sic], spinti dal veleno di private inimicizie, e dal desio di rapina» che «assassinò quanti notabili capitò [sic] nelle sue mani. saccheggiando e rubando le loro sostanze e le pubbliche casse,

Come si vede la sommossa, dopo essere stata rievocata dall’interno, con le parole dei protagonisti stessi, viene presentata da un punto di vista opposto, quello degli uomini d’ordine, ferocemente ostili al moto popolare, di cui forniscono un quadro deformante, riducendone le cause a motivazioni ignobili di interessi personali e descrivendo gli oppressori come persone di specchiata virtù e come innocenti agnelli sacrificali. Però non si direbbe che la registrazione dei due opposti punti di vista, come già al capitolo settimo la contrapposizione tra la prospettiva del barone e quella del colonnello garibaldino, risponda a intenti di equidistanza e neutralità, come avviene in Libertà, dove a tal fine si alternano il punto di vista dei «galantuomini» e quello dei rivoltosi. La posizione dello scrittore si offre molto netta. Non vi è dubbio, come testimonia tutta l’impostazione del romanzo, che egli voglia presentare in una luce positiva il barone e abbia un atteggiamento estremamente aperto e disponibile verso la rivolta e le sue ragioni, nonostante ne sottolinei chiaramente i limiti politici e le atrocità, e che per converso la riproduzione del libello e dei discorsi dell’ufficiale assuma una forte valenza critica: i conservatori, attraverso la pura registrazione delle loro parole, della loro bolsa retorica, del loro lessico pomposo e approssimativo, delle loro sgrammaticature, denunciano tutto il loro livore forcaiolo e il loro squallore intellettuale e morale. Ma mentre Verga a dispetto dei propositi di obiettività punta su immagini e particolari di forte valore connotativo ed emotivo, che,

suggestionino nel profondo il lettore condizionandone il giudizio, Consolo al contrario, proprio con il gioco dei punti di vista, mira a suscitarne non l’emotività ma la riflessione razionale e la valutazione critica, quindi riesce a preservare la problematicità della rappresentazione.

L’analisi e del romanzo di Consolo a confronto della novella di Verga conferma quanto era facile aspettarsi, conoscendo le rispettive posizioni ideologiche dei due scrittori: cioè che la trattazione della sommossa contadina è condotta con tecniche di rappresentazione e assume una peculiare coloritura in rispondenza a tali posizioni. I rischi insiti nel pessimismo fatalistico di Verga, di ascendenza conservatrice, non sono stati interamente evitati in Libertà, come prova la scarsa problematicità della rappresentazione, dovuta all’atteggiamento autoritario del narratore, che predetermina rigidamente le reazioni del lettore in un’unica direzione (prima esecrazione per sommossa e poi pietà per gli autori delle efferatezze divenuti vittime). Ma rischi simmetrici ed equivalenti erano impliciti nell’ideologia di Consolo: l’impostazione “da sinistra’ poteva dare adito egualmente a rappresentazioni rigidamente univoche e a procedimenti manipolatori, oppure a soluzioni predicatorie, parenetiche, pedagogiche, propagandistiche, come testimonia certa narrativa sociale dell’Ottocento oppure del neorealismo novecentesco.

Ci sembra di poter concludere che tali rischi sono stati da Consolo evitati:(1) a ciò ha contribuito proprio la scelta dell’ellissi narrativa, la rinuncia a una descrizione diretta della sommossa, che sarebbe stata piena di insidie difficili da evitare; vi ha inoltre cooperato il gioco dei punti di vista, tra la prospettiva alta dell’aristocratico, aperto alle istanze popolari però ben consapevole dei rischi di una scrittura che scaturisse dalla cultura dei privilegiati, la voce diretta dei subalterni affidata alla riproduzione testuale delle scritte sui muri del carcere, ed ancora la voce dei conservatori rappresentata dalle tirate reazionarie del principe Maniforti contro la disonestà e le ruberie dei villani, dal discorso del colonnello garibaldino e dal libello contro la scarcerazione degli imputati.

(1) Su questo la critica é in genere concorde. Per Romano Luperini «attraverso il linguaggio, Consolo riesce a scrivere un romanzo politico senza invadenza alcuna di ideologia» (Romano Luperini, Il Novecento, Torino, Loescher, 1981, pag.868), tesi ripresa dal critico più di recente: «Lo sforzo polifonico di Consolo […] nasceva da un intento realistico di conoscenza e di giudizio (Toma, Rinnovamento e restaurazione del codice narrativo nell’ultimo trentennio: prelievi testuali da Malerba, Consolo, Volponi, in I tempi del rinnovamento, Atti del Convegno Internazionale Rinnovamento del codice narrativo in Italia dal 1945 al 1992, ( a cura di Serge Vanvolsem. Franco Musarra, Bart Van den Bossche, Roma, Bulzoni, 1995, p. 544), Per Massimo Onofri, in Consolo cultura e politica, letteratura e ideologia possono intersecarsi, senza che per questo la dimensione estetica si neghi a se stessa, risolvendosi in pedagogia sociale ed oratoria. Il critico richiama poi il rifiuto, da parte del protagonista di Nottetempo, casa per casa, Pietro Marano, dei versi di Rapisardi, il quale ricapitola in sé ‘tutti i tratti di una poesia civile e politica per cosi dire ingaggiata, sempre sul punto di travalicare nell’orazione»: Consolo invece è e resta scrittore politico proprio in quanto, nel contempo, elabora una sua implacabile condanna della retorica dell’impegno. […] Ciò significa che la disposizione politica della scrittura di Consolo si gioca prima di tutto sul piano della forma che su quello dei contenuti, «attraverso un’oltranza di stile»; la sua «è una letteratura che, in un’accezione tutt’altro che formalistica, ha fatto della forma una questione di sostanza» (Massimo Onofri, Nel magma Italia: considerazioni su Consolo scrittore politico e sperimentale, in ldem. Il sospetto della realtà, Saggi e paesaggi italiani novecenteschi,
Cava de’ Tirreni, Avagliano, 2004, pp. 195-197)