Era bello sentire Vincenzo Consolo parlare di letteratura, di Sicilia, di tutto… perché con un maestro come lui ci si mette in ascolto. L’ho incontrato personalmente quattro volte. La prima fu a Sant’Agata di Militello, nella sua casa paterna. La seconda volta a Milano, col pretesto di un saggio per una rivista. Poi a Napoli, per una presentazione. La quarta volta Vincenzo non c’era già più. Ma c’era Caterina, e il suo amore lo rendeva così presente tra noi, così luminoso…
Davide Racca è nato nel 1979 a Napoli, dove si è laureato in filosofia.
Poeta e artista formato in affresco e pitture murali, ha realizzato mostre e letture in Italia e all’estero, investigando vari media espressivi. Nel 2008 ha partecipato alla XIII Biennale dei Giovani Artisti d’Europa e del Mediterraneo e ha realizzato un libro d’artista sul lavoro poetico di Amelia Rosselli, Inorganica vicenda (prefazione di Giuliano Mesa, La Camera Verde).Ha pubblicato le raccolte di versi Oltremarescuro (Poesia Italiana, e-book, ed. Biagio Cepollaro, 2007), Vacanza d’inverno (Di Felice Edizioni, 2013) e V come Vincent(La costellazione del Cigno, ed. Coup d’Idée, 2018). Ha tradotto poesia di lingua tedesca e in particolare ha curato l’antologia Johannes Bobrowski Poesie (Di Felice Edizioni, 2013) e, con apparati critici e disegni, il racconto Nella colonia penale di Franz Kafka (Zona Contemporanea, 2015). Collabora con l’inserto culturale Alias Domenica de il Manifesto e con varie riviste e blog letterari. Sull’arte . Dopo aver vissuto a Berlino ea Venezia, attualmente vive e lavora tra l’Italia e la Francia.
Questa è una serata nobile. Nobile perché è assolutamente gratuita, fatta non tanto in omaggio a me, quanto in omaggio della memoria. Lo scrittore infatti è un custode di memoria.
Molte volte, ad esempio, ci si è chiesti che cosa
significhi la parola Omero. La parola “omeros”, nel greco antico, si
traduce in italiano con la parola “ostaggio”.
E ci si è chiesti il perché di questo significato.
Ostaggio di chi?
Ebbene il poeta, quello che noi chiamiamo Omero,
naturalmente è ostaggio della memoria, della tradizione.
LO SCRITTORE E’ PORTATORE DI
MEMORIA
Tutti gli scrittori dovrebbero essere ostaggi della memoria;
i veri scrittori cioè sono coloro che assolvono al compito di tramandare una
memoria, che è poi memoria collettiva e realtà storica; coloro che esprimono,
secondo la propria sensibilità e le proprie idee, una testimonianza della
memoria, per tramandarla ai loro contemporanei e, se possibile, anche ai posteri.
Un custode di memoria ha l’obbligo di conservarla e di
servirla.
Coloro che scrivono senza essere
portatori di memoria appartengono a un’altra area, quella
del1a comunicazione.
I sapientissimi Greci dissero che Mnemosyne era la madre
delle Muse, e da lei derivano le altre arti: la Poesia e anche la Musica. Quindi
dopo aver ascoltato questa bellissima musica, posso solo dire delle parole
raccontare, narrare, secondo la mia inclinazione e il mio mestiere.
PAESTUM E NAPOLI:
LA BELLEZZA DEL PAESAGGIO
Vorrei partire da Goethe, e raccontare un aneddoto: Egli
si trova a Napoli durante il suo viaggio in Italia e vuole andare a visitare
Paestum. Ci va insieme a un suo amico pittore, che lo accompagna durante il viaggio
che, vero fotografo dell’epoca, ha il compito di prendere degli appunti, da
trasformare poi in incisioni e quindi in illustrazioni a corredo del libro sul
viaggio in Italia.
Arrivano a Paestum con un barroccio, che portava a
cassetta il barrocciaio con un suo nipote, un ragazzotto. Durante il ritorno,
alla vista di Napoli il fanciullo comincia a gridare in modo sconsiderato. I
due viaggiatori se ne preoccupano e gli chiedono: – Cosa hai da urlare? –
Il ragazzotto risponde nel modo più candido e più
allegro: – E’ il mio Paese. Non vedete
Signurì? Quello è il mio Paese. Guardate quant’è bello! –
Questo è un episodio straordinario, perché il ragazzino,
cresciuto tra tanta bellezza com’era allora il golfo di Napoli, avendo visitato
con quegli illustri personaggi la città di Paestum, si accorge che anche il suo
Paese è bello. E quindi gioisce e lo vuole mostrare ai viaggiatori: non c’è
solo Paestum, m a c’è anche Napoli.
E’ un episodio significativo anche nel senso che i viaggiatori
stranieri sono quelli che ci hanno fatto vedere l ‘ “invisibile”.
ITALIA TERRA PRIVILEGIATA
Noi Italiani, da sempre siamo fortunati, perché siamo
nati in una terra estremamente ricca e bella, dal punto di vista storico e da
quello naturale.
Però, vivendo tra tanta bellezza, abbiamo finito per non
vederla più, e sono stati quei viaggiatori, a partire da Montaigne nel ‘500,
per arrivare sino agli ultimi viaggiatori dell’ ‘800 (i nomi sono tantissimi),
che ci hanno fatto scoprire il nostro Paese. Ci hanno fatto vedere quale
preziosa eredità noi avevamo ricevuto dai nostri antenati.
Ci sono pagine di viaggiatori stranieri straordinarie, notazioni
interessanti su questa bellissima Italia.
E’ stato Moravia, grande conoscitore di Paesi ad avere
tracciato una sorta di classifica dei Paesi più belli del mondo. Lui diceva che
i Paesi sono belli quando alla natura uniscono anche la cultura. Allora al primo
posto, naturalmente, metteva l ‘Italia, al secondo, se non vado errato, il
Messico, al terzo la Spagna, al quarto la Grecia, e così via.
Quindi il nostro Paese era straordinariamente
“donato”, “munificato”.
LA SICILIA TERRA DI BELLEZZA E DI
CIVILTÀ
E la Sicilia, già in epoca preistorica, era di
eccezionale bellezza. Poi è stata arricchita da tutte le civiltà, che qui sono
passate per conquistare l ‘isola, m a anche per lasciare i segni della loro
cultura.
Ci sono stati si grandi predatori, come i Romani, ma
anche loro hanno lasciato qualcosa. I Bizantini, oppure, andando indietro, i
Fenici, i Greci. Poi la civiltà musulmana.
Sciascia dice che il modo di essere dei Siciliani, l
‘identità della Sicilia, incomincia proprio con la civilizzazione araba. Quindi
da quel momento, possiamo dirci Siciliani, dopo cioè le ruberie dei Romani e il
depauperamento bizantino.
Con gli Arabi
l’isola impoverita ha conosciuto un grande
rinascimento, durante il quale si è avuto il miracolo dei
sincretismi di religione, di cultura, di lingua.
Palermo, nel primo periodo normanno di Guglielmo il
Buono, era diventata una delle terre emblematiche, dove le varie civiltà, le
varie religioni, le varie lingue convivevano in una splendida armonia, in uno
scambio di cultura e di dono reciproco. Perciò Palermo era diventata forse la
città più bella, competeva con Cordova in Spagna, ed era una città di grandi
commerci, di grandi industrie, anche di grandi traffici. Essa era la tappa
obbligata per tutti i Musulmani andalusi, che dovevano fare il pellegrinaggio
alla Mecca.
C’erano a Palermo trecento moschee, c’erano altrettante
giudecche, perché vi era anche l ‘elemento ebraico, accanto alle popolazioni
più varie. C’erano barbari, spagnoli, africani, tutti con le loro usanze. Ma
tutto questo si era amalgamato e aveva formato una grande civiltà.
In più c’era lo sfondo di quella meravigliosa valle in cui
era stata costruita Palermo, che i Fenici chiamarono “Ziz” (fiore).
LA CONCA D’ORO
E’ un luogo a ridosso di una catena di montagne che lo
preserva dai venti africani, e che si stende sul mare in un clima di
eccezionale mitezza, che ha permesso il formarsi di quella famosa plaga che si
chiama la “Conca d’Oro”.
Qui furono costruiti quei meravigliosi gioielli che furono le ville, prima dei Mussulmani e poi dei Normanni. Le Ville di “delizie” come la grande Cuba, la piccola Cuba, la Zisa, la Favara, che erano tutti luoghi di villeggiatura.
Palermo era il simbolo di quello che è stata la Sicilia
fino a non molti anni fa. Era una delle terre più belle della terra più bella
del mondo, che era l ‘Italia.
LE CAUSE DELL’ ODIERNO DEGRADO
Questa terra hanno finito per distruggerla. Benché noi
abbiamo imparato dai viaggiatori stranieri a vedere l ‘invisibile e ad
apprezzare questo luogo, questa dimora vitale, tuttavia ci siamo comportati
anche come altri stranieri, che non erano più intellettuali, ma conquistatori
che depredavano e portavano via. Si pensi alle depredazioni che hanno fatto i
Tedeschi, gli Inglesi, i Francesi in Egitto o in Grecia. Tutto quello che hanno
portato nelle loro nazioni, depauperando queste terre di testimonianze della
loro civiltà e di grandi monumenti.
Ecco, noi ci siamo trasformati nella nostra terra in
predatori.
La ricchezza che avevamo abbiamo finito per rapinarla, a
volte anche per trasferirla altrove, come certi quadri, o certe colonne, e a
volte perfino semplicemente per distruggerla sconsideratamente.
Hanno distrutto l’ambiente, hanno distrutto i monumenti.
Tutto questo è avvenuto durante la guerra, con i bombardamenti,
ed è continuato nel dopoguerra, ma io credo che la distruzione principale è
avvenuta negli anni ’50 – ’60, con il cosiddetto miracolo economico, quando si
cominciò a ricostruire e si costruì nel modo più anarchico e più insensato,
senza alcun rispetto per l’ambiente in cui le nuove costruzioni nascevano.
Giustissima la ricostruzione, però è stata fatta nel modo
più avvilente e di conseguenza è stato distrutto quello che costituiva la
“bellezza”.
LA BELLEZZA COME CATEGORIA ETICA
La bellezza non è una categoria estetica, bensì morale. Non
è
bello cioè quello che appaga soltanto il nostro senso estetico,
ma è bello quello che soprattutto appaga anche la nostra anima.
Pirandello diceva che noi siamo quello che vediamo nei
primi anni della nostra vita. Se abbiamo avuto la fortuna di vedere luoghi
belli, io credo che la nostra crescita, il nostro sviluppo morale ed
intellettuale sarà diverso da quello di un bambino che nasce in un luogo con un
orizzonte devastato, orrendo e brutto.
Questi segni esterni fatalmente si proiettano nel nostro
interno e uccidono la nostra memoria.
Ci sono tantissimi scrittori che hanno parlato appunto
della bellezza come moralità, ma c’è soprattutto uno scrittore che voglio
ricordare particolarmente, che è Vittorini.
L’UTOPIA D I VITTORINI
Vittorini, nel libro
postumo che si intitola “Le città del mondo”, fa equivalere la
bellezza all’armonia sociale, intesa come base della democrazia, dove ognuno ha
rispetto dell’altro. Ne libro parla del viaggio che fanno alcune coppie di una
Sicilia in movimento, quando sembrava che l ‘isola dovesse togliersi di dosso
quella condanna del fato, di memoria verghiana. Vittorini, che era un
“antiverghiano” e che pensava che la Sicilia dovesse scuotersi da
questa condanna del destino e che dovesse prendere un atteggiamento attivo nei
confronti della storia, scrive questo libro alla fine degli anni ’50 (senza
riuscire a finirlo), dove c’è una Sicilia che parte per diversi itinerari di
vita. C’è ad esempio una ragazza che scappa da Milazzo, dei ragazzini che
scappano dalle Madonie, e partono senza una meta precisa, comunque
rappresentando una Sicilia che non sta pili seduta all’ombra a sonnecchiare, ma
è una Sicilia in attesa di un evento straordinario.
In quegli anni era stato scoperto il petrolio e s’erano
accese tante speranze. Vittorini aveva visto da vicino l’esperienza olivettiana,
di quel grande industriale e insieme sociologo, Adriano Olivetti, imprenditore
illuminato, che aveva creato un’industria a misura d ‘uomo. Vittorini s’era
entusiasmato di questa idea, che sembrava realizzare un sogno straordinario e
quindi aveva pensato che in Sicilia potesse avvenire qualcosa di simile. Che
cioè si sarebbe potuto lasciare alle spalle il vecchio mondo contadino, di
rassegnazione, di pena, d’ignoranza, di malattie, e finalmente con la
industrializzazione si potesse fare diventare il Siciliano protagonista della
storia.
Ma senza l
‘avvilimento, senza quella schiavitù che di solito l’industria comporta nei
confronti dei lavoratori. Lo sfruttamento, l’alienazione, quello che aveva
analizzato un signore, che Tomasi di Lampedusa chiama: “un ebreuccio di cui non ricordo il nome”, e che noi
invece ricordiamo benissimo e si chiama Carlo Marx.
Vittorini pensava nella sua utopia che ci potesse essere,
al di là del conflitto tra capitale e lavoro, un tipo di industria illuminata, dove
l ‘operaio, il bracciante, il lavoratore non venisse oppresso e non venisse
sfruttato. Utopia che si è infranta contro gli scogli della storia.
IL SICILIANO PROTAGONISTA DELLA
STORIA
Questa immagine vittoriniana di una Sicilia che rinasce,
di quella che Lui chiamò la Lombardia siciliana, lo portò a disegnare una sua
geografia lombarda in terra di Sicilia, rifacendosi appunto agli eredi degli
antichi insediamenti lombardi qui in Sicilia.
Parlava dei paesi di lingua lombarda, come San Fratello, Nicosia, Aidone,
comunità che si formarono con la conquista dei Normanni dopo la dominazione
araba.
Egli diceva che le città belle, come Caltagirone, come
Noto, creano armonia sociale, creano fantasia e mettono l’uomo in un
atteggiamento attivo e non più passivo nei confronti della storia. L’uomo deve
diventare protagonista.
Ora l ‘utopia economicista o politica di Vittorini io credo
che si sia infranta completamente, visti i risultati delle esperienze del
petrolio a Gela o ad Augusta. Resiste invece la sua idea dei luoghi belli che formano
l’uomo, lo migliorano e lo arricchiscono, mentre i luoghi brutti mortificano l
‘uomo, lo portano verso la malinconia, la depressione e a volte anche verso una
ribellione sconsiderata ed irrazionale, che degenera nella violenza.
LA DENUNZIA DELLE DISTRUZ IONI
La storia siciliana degli ultimi cinquant’anni di distruzione
dissennata ha avuto inizio con l ‘abbandono delle campagne e la trasformazione
dei nostri paesini e delle nostre città. Allora vi sono stati uomini che hanno
cominciato a denunciare queste perdite, non tanto come distruzioni materiali,
quanto per i riflessi morali e sociali che determinavano sulle persone e sulle
popolazioni.
Voglio ricordare Antonio Cederna, un urbanista che per
anni cd anni è stato un a voce clamante nel deserto, inascoltata, che ha
parlato e ha scritto prima sulle pagine de “Il Mondo”, poi su quelle
di “Repubblica”, delle devastazioni, dei gravi stupri (mi si perdoni
la parola forte), che avvenivano sul territorio del nostro Paese.
Voglio ricordare un poeta come Pasolini, che con le sue
bellissime metafore, come “La scomparsa delle lucciole”, voleva
simbolicamente segnalare questo mutamento nella Società.
Voglio ricordare un poeta come Andrea Zanzotto, che
lamentava l’”avvelenamento” dell’Eden veneto dove lui abitava, quando
i contadini hanno iniziato a mischiare veleni chimici alle sementi introducendo
una terribile alterazione ecologica.
Poi anche uno scrittore come Guido Ceronetti, che ha
scritto due libri che sono un po’ la continuazione del libro di Guido Piovene
“Viaggio in Italia”.
Però al tempo di Piovene, come al tempo del viaggio di un
altro scrittore, Riccardo Bacchelli (narrato in “Lo sa il tonno”),
ancora le perdite e le distruzioni non erano avvenute, e quindi loro scoprivano
soltanto le bellezze dei luoghi che vedevano per la prima volta.
Pensiamo ai luoghi più belli e più simbolici del cuore d ‘Italia,
quelli che pochi giorni fa hanno subito nell’Umbria e nelle Marche un terremoto
catastrofico. Pensiamo ai luoghi che abbiamo perso, alle ferite arrecate a
monumenti come la Basilica di S. Francesco, che sono delle ferite emblematiche
che in un certo senso ci dicono del nostro continuo scadimento.
In questo caso è stata la natura a determinare la distruzione,
ma in altri casi sono gli uomini ad apportare queste ferite.
Torniamo a Ceronetti che, con il precedente di Piovene,
ha scritto due libri, uno intitolato “Un viaggio in Italia” e l
‘altro “Albergo Italia”.
QUANDO LA DENUNZIA E’ REAZIONARIA
Ceronetti è un uomo singolare, di vastissima cultura, che
conosce l’ebraico, ma è un uomo che pensa che la soluzione per questo mondo di
oggi non sia altro che l’apocalisse, che finalmente potrà cancellare tutto per
ricominciare daccapo.
Egli compie il suo viaggio in Italia partendo dal veneto,
Torino, Milano, Roma, arrivando anche nei paesi più sperduti, sino in Sicilia,
dove visita Siracusa, Acitrezza, Noto, Palermo. In termini molto violenti, da
invettiva, registra le brutture che incontra, ma il suo discorso, proprio per
le sue concezioni così radicali ed apocalittiche, così tese ad aspirazione
metafisica, a volte diventa reazionario.
Io credo che quando si denunziano i mali della Società,
pur nell’invettiva, occorre sempre affermare che tutto si può rimediare, perché
la storia la fanno gli uomini e non c’è bisogno di aspettare l’azzeramento
totale, che postula pure l ‘offesa della vita.
Ceronetti arriva anche a declinare temi razzistici. C’è
una descrizione nel suo viaggio dell’incontro che ha in treno con un gruppo di
emigrati arabi. Li guarda, devo dire, con molto disprezzo. Arriva a usare
espressioni razzistiche quando afferma che dove loro passano infettano tutto,
rovinano e degradano tutto, dando la colpa a questo estraneo che viene nel
nostro contesto e sembra essere la causa prima del nostro degrado.
IL MIRACOLO ECONOMICO
E L’ORIGINE DELLO SVILUPPO
DISTORTO
In Ceronetti c’è un punto di vista discutibile. Lo
scrittore infatti viene da Torino e scrive sulla “Stampa”, che è di
proprietà del Sig. Agnelli. Nei suoi libri non mette mai in discussione queste
matrici prime dei mali italiani. Insomma, questo Paese è stato disegnato su
misura per le automobili e tutto il resto è avvenuto di conseguenza. Una certa
industrializzazione ha portato lavoro, è vero, ma non si è mai studiato se
potevano esserci delle altre dimensioni e direzioni dello sviluppo.
Con il miracolo
economico italiano si è distrutto quella che era la cultura contadina e si è
puntato solo sulla industrializzazione. Questo intendo quando affermo che il Paese
è stato disegnato su misura per l ‘industria FIAT, con tutto il processo di
emigrazione interna e di spostamento, che hanno chiamato “esodo”, di
masse di braccianti meridionali verso il nord. Ne è scaturito un processo massiccio
di inurbamento con costruzioni caotiche, veloci, repentine, per dare alloggi
nelle periferie delle città industriali. Anonime, atroci, definite dormitori, che
sono luoghi senza anima.
DEGRADO AMBIENTALE E DECADIMENTO
MORALE
E’ inutile meravigliarsi se in simili luoghi i giovani
possono avere problemi di ordine psichico, se possono scegliere di uccidersi
con una iniezione procurata dai trafficanti di droga, o di compiere atti
irrazionali e violenti.
L’ambiente degradato porta alla distruzione dell’uomo,
porta al degrado morale.
Per finire questa mia conversazione un po’ vagante di qua
e di là,
voglio leggere un pensiero di un famoso etologo, Konrad
Lorenz, contenuto negli “Otto peccati capitali della nostra civiltà“:.. Il senso estetico e quello morale
sono evidentemente strettamente collegati,
e gli uomini che sono costretti a vivere nelle condizioni sopra descritte vanno
chiaramente incontro all’atrofia di entrambi. Sia la bellezza della natura sia
quella dell’ambiente culturale, creato dall’uomo, sono manifestamente
necessarie per mantenere l’uomo psichicamente e spiritualmente sano. La totale
cecità psichica di fronte alla bellezza in tutte le sue forme, che oggi dilaga ovunque
così rapidamente, costituisce una malattia mentale che non va sottovalutata, se
non altro, perché va di pari passo verso tutto ciò che è moralmente
condannabile. “
Se noi perdiamo la nostra sensibilità verso la bellezza
perdiamo anche la sensibilità verso tutto quanto è orrore e azione ingiusta
dell’uomo, la violenza, l’ingiustizia, perdiamo la capacità di reagire contro
le offese arrecate alla civiltà stessa.
PER LA DIFESA DELLA BELLEZZA
Volevo ricordare un ‘iniziativa che, a un certo momento,
ho deciso di prendere insieme ad altri tre intellettuali, come il sen. dei
Verdi Luigi Manconi, la poetessa Viviane Lamarque e il giornalista Vittorio
Emiliani.
Ci siamo fatti promotori della difesa della bellezza, o
di quello che rimane della bellezza in questo Paese, invitando altri
intellettuali ad aderire. Subito hanno aderito cento altri intellettuali
italiani, per cercare di salvare la bellezza residua della nostra terra.
Ho cercato di spiegare il valore della bellezza, che non
è un fatto estetico, ma un fatto etico ed è anche un debito di eredità verso le
generazioni che verranno. Si è incominciato a fare qualcosa, ci siamo riuniti
la prima volta a Roma, si sta scrivendo un programma, si dovranno scegliere tre
monumenti emblematici dell’Italia settentrionale, dell’Italia centrale e
dell’Italia meridionale.
Ognuno di noi dovrà perorare la causa di un monumento
storico.
Per quanto mi riguarda ho scelto Noto, che è un paese che
sta crollando. Non è crollata solo la cupola della cattedrale, ma sta crollando
l’intero paese, pur essendo sotto la protezione dell’UNESCO. Finora non si è
fatto niente, sono stati messi soltanto tubi Innocenti a puntellare i monumenti.
Se Noto crollasse sparirebbe uno dei segni, non solo
artistici, ma anche storici di quella che era stata la progettazione ex novo di
quella insigne città.
PER IL RECUPERO DEI LUOGHI BELLI
I primi segni di ripresa
di un percorso valido si sono avuti da parte del Governo italiano e da parte
delle Amministrazioni comunali, con la demolizione di due mostri che erano
stati costruiti: uno al la periferia di Napoli che chiamano “Le Vele”
e poi un albergo abusivo sulla costa amalfitana.
Dunque ci sono già i segni del ripristino. Siamo stati
depauperati del paesaggio. Adesso è ora che si distruggano quei mostri, draghi
che bisogna abbattere.
Spero che si possa andare avanti in questo progetto di
eliminazione di orrori, per rendere più vivibile questo nostro paesaggio,
questo nostro ambiente.
Cercare di far rinascere la Conca d ‘Oro, cercare di far
rinascere la Piana di Milazzo, per quanto compatibilmente oggi si possa fare,
cercare di recuperare dei beni che c’erano e che abbiamo perduto.
Credo che questo sia compito di noi oggi riuniti in
questo scorcio del secondo millennio, e faccio questo augurio a mc stesso, di
poter vedere il paesaggio in qualche modo ricompensato, e a noi stessi di
essere in qualche modo ricompensati delle terribili perdite che abbiamo
sofferto.
SIAMO FIGLI DELLA CULTURA
La Legambiente è nata con questo scopo per la salvaguardia
del mondo, della natura e anche dei monumenti. I suoi aderenti sono un poco
come dei soldati che si impegnano contro i tentativi di perpetuare le offese.
Considero questa bella serata come omaggio a Omero, poeta
della memoria. Ho avuto la sorte di vivere a cavallo tra la civiltà contadina e
la civiltà industriale, che ho visto nascere, e poi tra due luoghi estremi come
la Sicilia e Milano, sono stato testimone di una grande trasformazione e quindi
ho cercato di conservare la mia memoria e di trasferirla agli altri che mi
leggono o mi leggeranno.
Reputo questo omaggio a me, come un omaggio alla memoria e
ai suoi custodi, siano essi scrittori, musicisti, o chiunque non abbia il vuoto
dietro le spalle.
Noi non siamo figli di nessuno. Noi siamo figli della
Cultura e ci portiamo dentro dei segni. Cerchiamo dunque di non farci cancellare questi segni dai barbari, dagli
imbecilli o dai violenti.
E’ ancora possibile il viaggio, oggi che sola ci è concessa la via unica, obbligata del risaputo e prevedibile per questo gran villaggio uguale in ogni punto che è diventato il mondo?
Oggi che siamo spinti verso la stasi – anticipo di quella definitiva -, in cui il mondo in sequenza ininterrotta di immagini ci scorre avanti agli occhi? Oggi che l’altrove, il lontano e ignorato è fuori dalla terra? Solo che dentro o fuori, qui o altrove forse poco è diverso.
Non è figura del tedio nostro, del sonno senza sogni il nero, infinito vuoto siderale; figura della nostra mente, dell’anima ogni squallido mar della Tranquillità o Serenità? (Tutto comincia, o finisce, quel 21 luglio del 1969, quando l’astronauta violò la superficie del satellite.
Si frantumò allora. cadde sulla terra a pioggia, oltre la poesia. ogni desiderio o Illusione di viaggio. Anche, crediamo, la fantasia, la gioia della ricerca nello spazio d’ ogni vero scienziato – “… appena la Luna compare, nel linguaggio di Galileo si sente una specie di rarefazione di levitazione: ci s’innalza in un’incantata sospensione” dice Calvino – non è tutto ormai sotto il dominio della fredda tecnologia?).
Impossibile oggi il viaggio. Ma mai come oggi si è viaggiato, mai tante compagnie, tanti grantours, planetours, international travels hanno mosso masse nei luoghi più “esotici” remoti del pianeta. Ma, privo d’ignoto, di scoperta, ridotto al livello dei consumi più accessibili e più rapidi, mai come oggi il viaggio ci è apparso più incosciente e insieme più innocente.
Viaggio in cui finalmente non si rischia più l’errore, I’ omissione, l’incomprensione, come al contrario si rischiava nel passato, dall’antichità e fino a ieri.
Cos’era nel passato il viaggiare? Cos’era per un uomo lasciare la propria casa, il proprio paese e mettersi sulla via, cominciare il viaggio? Era, sappiamo, il bisogno di conoscere e di conoscersi. Ma era anche interrompere una vita e viverne contemporaneamente un’altra, era un moltiplicarla; era un lasciare l’inverno e cercare la primavera, un morire e rinascere, un rigenerarsi.
La chari est triste, helas! et j’ai lu tous les livres. Fuir! là-bas fuir!…
Ma non tutti avevano letto tous les livres, non tutti hanno avuto l’ansia radicale di Mallarmé, non tutti sono stati dei Rimbaud o dei Mattia Pascal, questi viaggiatori assoluti nella metafora della vita come viaggio? Quasi sempre i viaggiatori si son portati appresso scorie dell’altra vita, memorie, sentimenti, idee, preconcetti, certezze che fossero puntelli, difesa allo smarrimento, al panico del nuovo e dell’ignoto.
I viaggiatori, per esempio, che dal nord dell’Europa tra il Sette e I’ Ottocento venivano in Italia. E, ancor di più, quelli che venivano in Sicilia. In quest’isola remota, antica (ecco due condizioni che generano poesia, dice Leopardi), carica di miti, di storia; in questa terra del caos e della minaccia, dei terremoti, dei vulcani, delle caligini, delle aride rocce, dei gessi e degli zolfo (“E la bella Trinacria che caliga / tra Pachino e Peloro, sopra il golfo / che riceve da Euro maggior briga / non per Tifeo ma per nascere solfo”: così Dante la dipinge nel Paradiso); in questa terra della quiete, dell’abbandono, della natura più bella e generosa, della luce chiara, delle acque, dei boschi, dei giardini e delle zagare.
In questa terra dei contrasti, in quest’isola ipotecata dalla letteratura, dal mito, dalla leggenda.
Già nel Medioevo e fino al Cinquecento, al Seicento e oltre – ci informa Atanasio Mozzillo nel suo saggio – la Sicilia appariva, infuocata e folgorata di lave e di sole, come un terrestre inferno, abitata da gente più simile a diavoli che ad uomini: era (per Montesquieu, per l’Encyclopédie, ad esempio) una deserta landa, una infinita distesa di ruderi, di macerie, con città come Palermo o Siracusa distrutte dai terremoti. scomparse nell’oblio.
Realistici,
attendibili altrove, messo piede in Sicilia, quasi sempre i viaggiatori si avvolgono
la testa nelle spesse bende del mito, dell’affabulazione. E l’esempio più evidente
dice Mozzillo, è il domenicano Leandro Alberti.
Ma anche successivamente, il padre Labat, il barone vC, l’abate Saint-Non, e tanti e tanti altri non sfuggono a questa legge. Sì che ci viene da immaginare che le lettres, le relazioni di viaggi in Sicilia più veritiere – vere nell’ordine del vagheggiamento, della fantasia – potrebbero forse apparirci quelle di famosi personaggi che il viaggio in Sicilia avrebbero voluto compiere e non compirono, o, anche se I’ hanno compiuto, di esso han lasciato nessuna o labile traccia.
O assolutamente “inventata”, com’è nel caso limite di Stendhal. dice ne “La duchesse de Palliano: . . . il mio scopo principale, viaggiando per la Sicilia, non è stato quello di osservare i fenomeni dell’Etna, né di chiarire, per me e per gli antichi altri, quel che gli antichi autori greci hanno detto della Sicilia. Ho cercato soprattutto il piacere degli occhi, che in questo singolare paese è grande. Si dice che assomigli all’Africa: ma quel che per me è certo, è che non all’Italia se non per passioni divoranti”.
Ecco con quali occhiali, o con quali deliziose bende, se si vuole, l’autore della Chartreuse avrebbe fatto il suo viaggio in Sicilia. Ma, più indietro nel tempo,
pensiamo ad un pittore come Pietere Bruegel, che nel 1552, dopo Napoli e Reggio Calabria, sembra che approdi nella bella, popolosa, ricca, per il suo porto. di traffici, di commerci. Messina.
“Et enfin il peut-ètre vu le détroit de Messine, ou il place un Combat naval dans une gravure…” scrive Marcel Fryns. Ma per noi è più suggestiva l’idea che Bruegel, a Palermo, abbia visto il famoso “Trionfo della morte di palazzo Sclafani” e che, nel suo Trionfo abbia ripreso quel cavallo e quel cavaliere scheletriti.
Topos pittorico che scivolerà poi fino a Guernica di Picasso. E pensiamo al viaggio, tra Siracusa e Messina e Palermo, sicuramente avventuroso e maudit, del Caravaggio.
A tanti altri pittori o disegnatori, pensiamo, che hanno o no lasciato appunti. Come quel Vivan Denon, versione francese del napoletano Liborio Pirro, quel segretario d’ambasciata a Napoli per il re di Francia e poi Direttore delle Belle Arti per Napoleone. che del suo viaggio in Sicilia oltre che con disegni, con un diario ci lascia traccia.
Ma penso soprattutto al viaggio desiderato ma non compiuto in Sicilia di Leopardi. Penso con rammarico a una mancata Ginestra dell’Etna, o a un tramonto della luna, o a un Infinito siciliani. Dicevamo sopra dei concetti o preconcetti, del bagaglio rassicurante che ogni viaggiatore in Sicilia si portava appresso.
Così il più grande di questa schiera di viaggiatori, il Viaggiatore: Goethe.
Quante omissioni, quante censure. quante imprecisioni gli hanno rimproverato. soprattutto nella parte siciliana, insigni lettori dell’Italienische reise. certo. il poeta di Weimar, partendo da Kralsbad il 3 settembre del 1786, cerca di spogliarsi di tutto – si spoglia anche del nome, ormai famoso, che cambia con un più anonimo Philipp Moller -, cerca di “morire e di rinascere”, ma non può fare a meno del suo bagaglio.
In cui vi sono. a fargli da metro, da certezza, in quel mare periglioso e infinito di natura e cultura che è la Sicilia, oltre ai classici, ad Omero, Diodoro, a Virgilio, a Ovidio, (gli affìora a Roma, davanti al colosseo), vi sono Winkckelmann, Spinoza, Michelangelo, Poussin. Lorrain, Ratfaello, Palladio. . .
E, come pratico baedeker, vi è il viaggio del predecessore e compatriota von Riedesel. Cos’è il viaggio di Goethe in Sicilia? E’ la conclusione necessaria per progressus alle origini, è il viaggio al termine della storia, della civiltà e del tempo; il viaggio anche al cuore della natura. La Sicilia, il prodigioso e antichissimo grembo di questa terra contiene, per chi sa trovarlo, l’Aleph: il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi, la storia che contiene tutte le storie… “La Sicilia per me è un preannuncio dell’Asia e dell’Africa, e il trovarsi in persona al centro del prodigioso cui convergono tanti raggi della storia del mondo non è cosa da poco” dirà alla vigilia della sua partenza per l’Isola.
In cui, una volta giuntovi, come in una iniziazione misterica o una discesa agli Inferi, gli saranno rivelati, fuori di sè e dentro di sè, veramente dei prodigi. Come il prodigio del tempio di Segesta o quello, rovesciato e contrario, di Villa Palagonia, o quello “naturale” del’ Etna, o, infine, il prodigio di vedersi, in Sicilia, al di là d’ogni particolare contingenza, cadere dagli occhi ogni benda, di sopportare la realtà nella misura più alta in cui erano arrivati a sopportarla i Greci.
Dirà, dopo il viaggio: “per quanto riguarda Omero, è come se mi fosse caduta una benda dagli occhi… Ora l’Odissea è davvero per me una parola viva”; e ancora: ‘L’aver aderito in stretto contatto al reale; mi ha dato un’incredibile scioltezza nell’esprimersi, per così dire, a prima vista su ogni cosa, e mi sento veramente felice che nel mio animo sia rimasta un’idea tanto chiara, completa e pura della grande, bella, impareggiabile Sicilia”. Goethe riassume e rappresenta tutti gli altri viaggiatori stranieri in Sicilia, quelli che, pur non vedendo o stravedendo tanti aspetti della realtà siciliana, hanno tuttavia, ciascuno a suo modo, dato la visibilità di quell’evidenza che per Sciascia ai Siciliani prima era invisibile.
Li rappresenta anche nel senso del “rischio” oggettivo che è ciascun viaggio, rischio di errore ed omissione, e nella consapevolezza di questo rischio. “Eppure spesso mi appare evidente come siano lacunose le mie osservazioni; e se il viaggio compiuto sembra trascorrere come un fiume davanti agli occhi del viaggiatore, e la fantasia ne serba un’immagine di continuità ininterrotta, ciò malgrado non ci si può sottrarre alla sensazione che questa immagine sia, in fondo, incomunicabile” scrive.
E conclude, sulla impossibilità per il viaggiatore di “rendere” compiutamente un luogo: “Davvero ci vorrebbe tutta una vita umana, anzi la vita di parecchi uomini, che man mano ci trasmettessero le loro conoscenze”. Ma sa, Goethe, che il viaggio, ogni viaggio, è sì nella realtà, ma è soprattutto nella “idealità”. Quello di Goethe, come d’ogni viaggiatore nell’Isola di ieri e di oggi, è la ricerca, come dice la Tuzet, d’una “idea” platonica della Sicilia.
Dopo La grande vacanza
orientale-occidentale (2001) e Il prodigio (2014), le Edizioni
Libreria Dante & Descartes di Napoli, nel piccolo formato che le
contraddistingue, consegnano, in questo luglio del 2020, un testo di
Vincenzo Consolo intitolato Memorie, già pubblicato nella raccolta di
saggi La mia isola è Las Vegas (Milano, Arnoldo Mondadori,
2012).
Questo prezioso libricino gode della prefazione di Claudio Masetta Milone, uno dei soci fondatori dell’associazione «Amici di Vincenzo Consolo», collaboratore anche con il Centro Studi iniziative culturali Pio La Torre, di Palermo. Claudio Masetta Milone è anche uno dei fondatori della «Casa della Letteratura di Vincenzo Consolo» a Sant’Agata Di Militello, paese natio dello scrittore.
A scanso di equivoci e senza
nessun compiacimento verso le proprie motivazioni, Vincenzo Consolo chiarisce
ciò che intende con il vocabolo «Memorie»:
Avrei potuto, o potrei, giunto
alla mia età, riempire pagine e pagine di ricordi, di memorie, ricostruire, al
di là d’ogni validità letteraria, un tempo perduto, stendere una mia, un’umile,
piccola recherche. Ma non è questo il moto e lo scopo del mio scrivere
(p. 5).
Rievocando il rapporto
esistenziale che lega lo scrittore al suo paese di origine, Claudio Masetta
introduce dialetticamente la tematica memoriale, quasi creasse un dialogo tra
sé, il lettore e lo scrittore: «Fare memoria significa essenzialmente narrare»
(p.12). Ma come nasce la narrazione? Nasce innanzitutto dal bisogno insaziabile
di Consolo di ascoltare di nuovo i minimi particolari della sua zona, che siano
geografici, umani, sociali o linguistici. Precisa Claudio Masetta: «L’ascolto
dei fatti santagatesi era lo scoglio da cui, ogni volta, la narrazione spiccava
il volo, nello spazio e nel tempo» (p.12-13).
Ricorrentemente desideroso di
definire la propria identità di uomo e di scrittore (ciò che fece in molti
scritti), Vincenzo Consolo evoca la posizione geografica di Sant’Agata Di
Militello. Comune sito a mezza strada tra Messina e Cefalù, la zona divide la
Sicilia orientale, la Sicilia greca, terra di miti, la cui espressione si
svolge prevalentemente «in forme poetiche, in toni lirici, in scansioni
musicali (p. 25), dalla Sicilia occidentale, influenzata dagli Arabi, un’area
segnata dalla storia, dai molteplici colonizzatori, dai conflitti sociali, e «che
si esprime in forme prosaiche, in toni discorsivi, in scansioni logiche» (p.
26).
Su questa «immaginaria linea»
(p. 27), data la posizione di Sant’Agata di Militello, su questo crinale, nasce
la poetica consoliana.
I ricordi, le memorie legati
a Sant’Agata, pur cari che siano, pur essendo il crogiolo di alcuni suoi
racconti, non bastano a soddisfare la sua creatività che si estende «alla
Sicilia tutta, all’Italia, al Mediterraneo e oltre, (…). Ma [si dispiega] anche
dal presente al passato – o sarebbe meglio dire – ai passati dell’isola»
(Claudio Masetta, «Prefazione», p. 13).
+
Il tono si fa man mano più
grave e le domande incalzanti. Quasi con trepidazione, Vincenzo Consolo chiede
a se stesso: «E allora: perché scrivo? Ma perché scrivo in prosa? E perchè
scrivo romanzi o racconti di contenuto storico o sociale» (p. 36). Permeato
dalla superiorità della poesia, si riferisce a componimenti di poeti maggiori
(cita qualche verso della «Ginestra» di Leopardi, allude al poemetto di T. S.
Eliot, «La terra desolata», alla raccolta di Eugenio Montale, Ossi di seppia,
nonché al suo componimento «La bufera»). Consolo si arrende alla constatazione
non priva di rammarico, che non è stato eletto a questo registro:
Scrivo dunque di temi relativi, contingenti, perché
non sono poeta, perché non sono un fanciullo, perché non sono re (non faccio
parte, voglio dire, non sono detentore del potere). Solo i poeti infatti, i
fanciulli e i re possono affrontare gli assoluti, immergersi naufragare
nell’infinito mare dell’esistenza (p. 37).
Fra queste linee, traspare la
figura del viceré Casimiro, personaggio centrale della favola teatrale Lunaria
(1985), opera in cui Vincenzo Consolo si avvicina maggiormente al mito e alla
poesia. Casimiro, essere malinconico e lunare, a metà strada tra re-fanciullo e
poeta, in grado di capire, fino ad un certo punto, la lingua poetica, edenica
di San Fratello (vicino a Sant’Agata), vero baluardo utopico contro il
disfacimento della corte palermitana, su cui regna Casimiro da troppo
tempo.
Come non pensare agli
eccentrici Casimiro e Lucio Piccolo, poeta quest’ultimo che affascinava Consolo?
Sul dritto filo di queste
parole, in un altro breve scritto, «Considerazione sulla forma racconto», in Prodigio
(Edizioni Dante & Descartes, 2014), ricorda la sua scelta narrativa:
…l’unico racconto praticabile mi sembra quello
storico-metaforico (…) ; che un modo per praticare ancora una letteratura
non ipotecata dal potere è quello di risacralizzare il linguaggio, di
restituirgli memoria, tono e modulazione di poesia : riaccostarlo, per
irriducibile, al linguaggio liturgico dei poemi (p. 25).
Consapevole di essere
cresciuto e vissuto per anni in bilico tra Oriente ed Occidente, tra mito e
storia, tra natura e cultura, Vincenzo Consolo approda al nucleo della sua
ricerca letteraria:
E non è questo poi l’essenza della
narrazione ? Non è il narrare, come dicevo, quell’incontro miracoloso, di
ragione e passione, di logica e di magico, di prosa e di poesia ? Non è
questo ibrido sublime, questa chimera affascinante ? (p. 50-51).
Non si può parlare
dell’identità letteraria di Vincenzo Consolo senza evocare il terzo polo
d’influenza della sua poetica: la città di Milano, dove si trasferisce nel
1969. Andirivieni incessanti tra la capitale lombarda e la sua isola ritmano
d’ora in poi la sua vita e la sua produzione. A questa città «progredita, ricca
e allettante, ma anche dura, ma anche pretenziosa» (p. 52-53), Consolo oppone
un orgoglioso riserbo, pur essendo aperto ai fermenti e alla cultura della
metropoli europea. Ma ha continuamente l’attenzione rivolta ai fatti siciliani.
L’attualità di questo ultimo
ventennio è prevalentemente segnata dal fenomeno migratorio. È da tempo giunto
il momento per l’Europa di aiutare popoli che soffrono per le guerre, per le
malattie e la povertà. Le ricchezze si devono oramai condividere con i paesi
più poveri e l’ordine mondiale viene totalmente travolto da questa urgente
necessità. La Grecia e la Sicilia sono le porte di ingresso verso questo nuovo eldorado.
Ventuno anni fa, nel 1999, Vincenzo Consolo era uno tra i pochissimi
intellettuali ad affrontare questa questione nella sua raccolta di saggi Di
qua dal faro (Milano, Arnaldo Mondadori Editore), nel capitolo «Uomini
sotto il sole» (p. 227). Scrive:
Di questi esodi massicci e incessanti le cronache
di ogni giorno ci consegnano tragici episodi: di clandestini soffocati dentro
stive di navi; d’altri, scoperti, gettati in pasto ai pescicani; di bambini
assiderati nei passaggi notturni per valichi montani; di carghi colati a picco
con dentro il loro carico umano; di criminali che trasportano su gommoni e
abbandonano sulle spiagge masse di disperati.
Claudio Masetta ricorda i
momenti trascorsi a parlare con Consolo, in conversazioni in cui la questione,
specie
dacché la Libia è in guerra,
dei profughi riaffiora. Parlano di cultura greca, ma non solo, e di un presente
ostile che provoca l’ira dello scrittore contro il ricordo del tempo
dell’ospitalità siciliana che fu:
E della cultura mediterranea che, (…), si è sempre
sviluppata sotto il segno dell’accoglienza. I fatti di cronaca odierna,
l’innalzamento di barriere laddove un tempo c’erano spiagge d’approdo di
innumerevoli naufraghi che, una volta a terra, nella sua Sicilia, potevano
dirsi sicuri di trovare accoglienza, lo avrebbero fatto urlare di sdegno e
vergogna.
Amava cercare i segni di questa antichissima
tradizione di ospitalità siciliana. Si entusiasmava alle prove dell’avvenuta
integrazione, sul suolo siciliano, di culture e tradizioni diverse (p. 15-16).
Claudio Masetta riporta, in
confidenza, sempre con valore didattico per il lettore, un aneddoto
interessante su questo argomento: quello del santuario della Madonna Nera di
Tindari che è sito nel grandioso golfo di Patti, in provincia di Messina.
Tindari è stata costruita nel 396 A. C. da Dionisio I°, tiranno di Siracusa, al
fine di fronteggiare gli attacchi dei Cartaginesi. Il suo nome originario era Tyndaris.
A picco sul mare, il santuario raccoglie quella singolare Vergine bizantina
nera con il bambino, alto simbolo di accoglienza dei naufraghi, la quale impedì
alla nave che la trasportava di ripartire sul mare, così evitando l’inesorabile
naufragio dovuto alla tempesta.
E Claudio Masetta,
restituendoci lo scrittore Consolo nella sua intera dimensione umana e
umanistica: «Aveva una collezione di santi neri, Vincenzo. Amava quella
collezione come simbolo di felice integrazione» (p. 18).
Con particolare
acuità, Claudio Masetta insiste per ultimo sul bisogno di trasmettere alle nuove
generazioni le chiavi del linguaggio così particolare di Vincenzo Consolo:
al tempo stesso popolare ed erudito. Non si entra facilmente nella prosa
consoliana e lui lo intuiva, lo sapeva. Tanti incontri fece con giovani di
liceo o freschi universitari, molto spesso confrontati al suo linguaggio
stratificato, complesso, a volte criptato. Ma non era mai semplice esercizio di
chiarimento di tale passo, pur studiato nei particolari. Il pubblico liceale o
universitario era da lui prediletto perché vergine da alcun a priori sul
linguaggio letterario. Si dilettava di questi incontri con il giovane pubblico,
quasi dovesse concretizzare la propria vocazione di pedagogo.
Al di là però, si trattava
sempre di infondere ai giovani una certa conoscenza della letteratura
siciliana. Consolo amava tramandare la memoria, e così scrive Claudio Masetta:
«la memoria attraverso la narrazione era per lui fatto da condividere. In modo
particolare con i giovani, a cui si rivolgeva, verso i quali amava riversare il
racconto della Sicilia, della storia, ma soprattutto della letteratura» (p.
19-20).
Per concludere, il libretto Memorie,
racchiude molto del pensiero di Vincenzo Consolo, un pensiero mai uniforme,
così come sono molteplici e variegate le forme della sua espressione letteraria
e della sua poetica.
Claudio Masetta Milone, nel
riproporre la lettura di questo testo, nel sollecito ascolto delle parole
dell’amico scrittore, nel trascriverle, ha il merito (tra tanti altri), di
contribuire in modo originale, ad una più ampia conoscenza del pensiero
universale di Vincenzo Consolo, e a ravvivarne le idee umanistiche con luce
odierna.
Gostanza, di nobile e ricca famiglia di Lipari, ama, riamata, il povero pescatore Martuccio. Per l’impossibile amore, il giovane abbandona l’isola, si fa corsaro per il Mediterraneo. Gostanza, avuta notizia che Martuccio era morto, disperata, sale su una barca per andare alla ventura e lasciarsi morire, ma il vento la sospinge e la fa approdare sulla costa di Barberia, nei pressi di Susa. Sulla spiaggia la fanciulla s’imbatte in una donna che parla latino e che è al servizio di pescatori cristiani. Questo è l’argomento della Novella Seconda della Giornata Quinta del Decamerone di Boccaccio. In cui, al di là della storia d’amore che poi felicemente si concluderà, ci colpisce il fatto che pescatori cristiani, trapanesi, tranquilli soggiornassero e pescassero nelle acque della musulmana Tunisia, di Susa, oggi Sousse. E ci conferma nella consapevolezza che ancora nel medioevo quel canale, quel breve braccio di mare tra la Sicilia e le coste africane, libiche tunisine algerine, non fosse ancora frontiera, barriera fra due mondi, ma una via di comunicazione e di scambio, che quelle acque anzi venissero allora percorse solo in un senso, dai lavoratori di Sicilia, di Calabria, di Sardegna, che volendo sfuggire alla fame cercavano fortuna in quelle ricche terre degli “infedeli”. Provetti “tonnaroti”, lavoratori delle tonnare, pescatori di alici e di sarde, di spugne e di coralli, da Trapani, da Pantelleria, da Lampedusa, s’avventuravano sulle loro esili barche per quel canale, e insieme contadini, pastori, murifabbri, minatori da ogni parte del nostro Meridione. S’ interruppe questa comunicazione, questa provvidenziale emigrazione, con la dominazione turca sulle coste africane e quella spagnola in Sicilia, con l’insorgere delle guerre corsare. Carlo V si spinse fino in Tunisia per combattere e umiliare il nemico. La battaglia di Lepanto significò lo scontro più alto e simbolico fra le due fedi, i due imperi, quello cristiano e quello ottomano. Vittoria di Lepanto che però non riuscì a domare, a scemare le incursioni barbaresche nelle nostre contrade. E corsari si fecero anche ammiragli e principi cristiani, incursioni praticarono sulle coste africane, razziando uomini e cose, riducendo in schiavitù. Ai mercati di schiavi di Algeri o di Tunisi corrispondevano quelli cristiani di Livorno o di Genova. Scrive Braudel in Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II: “In tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato, e vi conosce tutte le miserie, gli orrori e le santità degli universi concentrazionari'”. Prigionia in Algeri patirà Miguel de Cervantes, che già aveva pagato il suo tributo alla guerra nella battaglia di Lepanto con l’amputazione di una mano. Lascerà memoria di quella sua triste esperienza nel Don Chisciotte e in altre sue opere. Si hanno notizie ancora dettagliate, precise, di quel mondo di allora sulle coste africane nel secentesco libro del frate Diego de Haedo Topographia e Historia Generai de Argel. Dal quale si apprende, fra l’altro, che una nuova, massiccia emigrazione avveniva allora di italiani nel mondo ottomano. Erano, costoro, emigranti della fede, cristiani vale a dire rinnegati, che si facevano musulmani, “turcos deprofesión”, che divenivano capi corsari, razziatori nelle loro stesse terre d’origine, mercanti di schiavi. Finisce questa pagina tremenda, questa lunga guerra corsara fra le due sponde del Mediterraneo, nel 1830, con la conquista di Algeri da parte dei francesi. Ma si apre anche in quella data, nel Maghreb, la piaga del colonialismo. Riprende l’emigrazione italiana nel Maghreb nei primi anni dell’Ottocento. È un’emigrazione questa volta intellettuale e borghese, di fuoriusciti politici, di professionisti di imprenditori. Liberali, giacobini e carbonari, si rifugiano in Algeria e in Tunisia. Scrive Pietro Colletta nella sua Storia del reame di Napoli: “Erano quelli regni barbari i soli in questa età civile che dessero cortese rifugio ai fuoriusciti”. E ancora negli anni ’30, ’40 e fino all’Unità, reduci da congiure, moti rivoluzionari repressi, qui si rifugiano. Dopo i falliti moti di Genova, in Tunisia approda una prima volta, nel 1836, Garibaldi, sotto il falso nome di Giuseppe Pane. Nel 49 ancora si fa esule a Tunisi. A Tunisi s’era stabilita da tempo una nutrita colonia di imprenditori, commercianti, banchieri ebrei provenienti dalla Toscana, da Livorno soprattutto, primo loro rifugio dopo la cacciata del 1492 dalla Spagna. Conviveva, la nostra comunità, insieme alla ricca borghesia europea, un misto di venti nazioni, che s’era stanziata a Tunisi. Accanto alla borghesia, v’era poi tutto un proletariato italiano di lavoratori stagionali, pescatori di Palermo, di Tra-pani, di Lampedusa che soggiornavano per buona parte dell’anno sulle coste maghrebine. Ma la grossa ondata migratoria di bracciantato italiano in Tunisia avvenne sul finire dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, con la crisi economica che colpì le nostre regioni meridionali. Si stabilirono questi emigranti sfuggiti alla miseria nei porti della Goletta, di Biserta, di Susa, di Monastir, di Mahdia, nelle campagne di Kelibia e di Capo Bon, nelle regioni minerarie di Sfax e di Gafsa. Nel 1880 nel Consolato italiano erano registrate 12.000 presenze italiane, ma molti sfuggivano alla registrazione, e fra questi, naturalmente, gli irregolari, renitenti alla leva o colpevoli di reati. Nel 1911, le statistiche davano una presenza italiana di 90.000 unità. Alla Goletta, a Tunisi, in varie altre città dell’interno, v’erano popolosi quartieri che erano chiamati “Piccola Sicilia” o “Piccola Calabria”. Si aprono scuole, istituti religiosi, orfanotrofi, ospedali italiani. La preponderante presenza italiana in Tunisia, sia a livello popolare che imprenditoriale (i collegamenti marittimi nel Canale di Sicilia erano di compagnie italiane, italiana, dei Rubattino, era la compagnia che costruiva la ferrovia Tunisi-Algeria), fece sì che la Francia si attivasse con la sua sperimentata diplomazia e con la sua solida imprenditoria, per togliere all’Italia questa supremazia. Tutto questo portò al Trattato del Bardo del 1881 e qualche anno dopo alla Convenzione della Marsa, che stabilirono il protettorato francese sulla Tunisia. “L’Italia non è abbastanza ricca per pagarsi il lusso di un’Algeria” aveva dichiarato il ministro degli Esteri Visconti Ventosa dell’allora governo di Benedetto Cairoli. La Francia, con il protettorato, iniziò la sua politica di espansione economica e culturale in Tunisia, aprendo scuole gratuite, diffondendo la lingua francese, concedendo, su richiesta, agli stranieri residenti la cittadinanza francese. Anche sotto il protettorato, l’immigrazione di lavoratori italiani in Tunisia continuò sempre più massiccia. Ci furono vari episodi di naufragi, di perdite di vite umane nell’attraversamento del Canale su mezzi di fortuna. La reggenza francese, di fronte a quel continuo affluire di diseredati, ricorse ai rimpatri. Nei primi cinque anni del Novecento ben 13.000 furono rimpatriati. Quelli già inseriti, al di là o al di sopra di ogni nazionalismo, erano organizzati in sindacati, società operaie, società di mutuo soccorso, patronati degli emigranti. Nel 1914 giunge a Tunisi Andrea Costa, in quel momento vicepresidente della Camera. Visita le regioni dove vivevano le comunità italiane. Così dice ai rappresentanti dei lavoratori: “Ho percorso la Tunisia da un capo all’altro; sono stato fra i minatori del Sud e fra gli sterratori delle strade nascenti, e ne ho ricavato il convincimento che i nostri governanti si disonorano nella propria viltà, abbandonandovi pecorinamente alla vostra sorte”. I riflessi che la guerra di Libia, la prima guerra mondiale, il fascismo, la seconda guerra mondiale e il dopoguerra poi hanno avuto sulla comunità italiana di Tunisia è storia molto complessa per poterla qui riassumere. Rimandiamo perciò al libro di Nullo Pasotti, Italiani e Italia in Tunisia, libro dal quale abbiamo attinto per stendere questa memoria. La fine degli anni ’60 segna la data fatidica dell’inversione di rotta della corrente migratoria nel Canale di Sicilia, dell’inizio di una storia parallela, speculare a quella nostra. A partire dal 1968 sono tunisini, algerini, marocchini che approdano sulle nostre coste. Approdano soprattutto in Sicilia, a Trapani, si stanziano a Mazara del Vallo, il porto dove erano approdati i loro antenati musulmani per la conquista della Sicilia. A Mazara, una comunità di 5.000 tunisini riempie quei vuoti, nella pesca, nell’edilizia, nell’agricoltura, che l’emigrazione interna italiana aveva lasciato. Questa prima emigrazione maghrebina nel nostro paese coincide con lo scoppio di quella che fu chiamata la quarta guerra punica, la ” guerra” del pesce, il contrasto vale a dire fra gli armatori siciliani e le autorità libiche e tunisine. In questi con-fitti, quelli che ne pagavano le conseguenze erano gli immigrati arabi, i quali, oltre ad essere sfruttati, venivano di tempo in tempo perseguitati. Odiosi episodi sono avvenuti, in quella parte meridionale della Sicilia, di “caccia al tunisino”. “. Su questa prima emarginazione maghrebina in Sicilia, un giovane sociologo di Mazara, Antonio Cusumano, ha scritto un libro documentato, preciso, Il ritorno infelice, pubblicato nel 1976 da Sellerio. Sono passati trent’anni dall’inizio di questo fenomeno migratorio. Da allora, nessuna previsione, nessuna progettazione, nessun accordo fra governi, fino a giungere all’emigrazione massiccia, inarrestabile di disperati che fuggono dalla fame e dalle guerre, emigrazione che si è cercato di arginare con improvvisati metodi duri, drastici, violando anche quelli che sono i diritti fondamentali dell’uomo. Di fronte a episodi di contenzione di questi disperati in gabbie infuocate, di ribellioni, fughe, scontri con le forze dell’ordine, scioperi della fame e gesti di autolesionismo, si rimane esterrefatti. Ci tornano allora in mente le parole che Braudel riferiva a un’epoca passata: “In tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato…”.
“Al Señor Antonio Veneziani. Señor mio: dichiaro alla Signoria Vostra, come cristiano, che sono tante le fantasticherie che mi affaticano, che non mi hanno permesso di portare a compimento come volevo questi versi che Le invio, in segno del desiderio che ho di servirla, già che questo mi ha indotto a far vedere così presto i difetti del mio ingegno, fiducioso che l’alto ingegno della Signoria vostra accoglierà le mie scuse e mi animerà affinché in tempi più tranquilli non tralasci di celebrare come potrò il cielo che così tristemente la trattiene su questa terra, dalla quale ci liberi Dio, e la porti in quella dove vive la vostra Celia. Ad Algeri, il 6 Novembre del 1579 Della Signoria Vostra vero amico e servitore. Miguel de Cervantes”. Questa lettera e le ottave a Antonio Veneziano, che essa accompagna, furono scoperte nel 1914, nella Biblioteca Nazionale di Palermo, dal professore Eugenio Mele. Lettera e versi entrarono quindi nelle Obras completas di Cervantes, a cura di Rodolfo Schevill e Adolfo Bonilla (Madrid, 1914-31). Questi alcuni versi delle Ottave a Antonio Veneziano: “Il cielo, che contempla il vostro ingegno, ha voluto impiegarvi in queste cose, e segue i vostri passi perché aspira a innalzarvi, per Celia, sino al cielo: (…) Mi sorprende veder che quel divino ciel di Celia nasconde un vero inferno, e che la forza della sua potenza vi abbia costretto a piangere e a pensare”. Chi era Antonio Veneziano a cui Cervantes indirizza quella lettera, piena di formale deferenza ma venata d’ironia, e le Ottave? el 1894 la palermitana Società di Storia Patria pubblica il fascicolo dedicato ad Antonio Veneziano per il 3º centenario della sua morte. Scrive il bibliotecario della Società Giuseppe Lodi: “Di Antonio Veneziano, l’elegantissimo latinista, il più rinomato poeta siciliano del secolo XVI, ricorreva nell’Agosto del 1893 il terzo centenario della morte, avvenuta per lo scoppio di una polveriera, mentr’egli era detenuto entro il forte di Castellamare. La ricorrenza di questo avvenimento non potea lasciarsi passare inosservata da una Società, come la nostra, la quale (…) non trascura, all’occorrenza di tener desti con solenni commemorazioni l’amore e la riverenza per quanti hanno onorato con il loro ingegno e le loro opere questa non infima parte d’Italia, questa nostra prediletta Sicilia”. C’era spesso nei membri di quelle Società o Accademie un po’ di ampollosità, un po’ di retorica. Retorica non vi è invece in uno scienziato, un demopsicologo o etnologo: Giuseppe Pitré. Scrive nel fascicolo: “io imposi a me stesso l’assoluto silenzio sulla sua vita. Me lo imposi, non per manco di ammirazione per l’illustre poeta, ma per la ferma convinzione ch’ebbi sempre, ed ora più che mai ho, delle inesattezze e, lo dico senza reticenze, dei grossi errori che sono stati scritti su di lui”. Grossi errori, come afferma il Pitré, nati dalla leggenda popolare in cui il Veneziano era stato avvolto, a cui venivano attribuite vicende, spesso fantastiche o surreali, e rime che erano spesso di malaccorti epigoni. Un altro scritto del fascicolo è del monrealese canonico Gaetano Millunzi. Che stende la prima documentata biografi a del Veneziano. Il poeta nasce nel 1543 da una ricca famiglia di origine veneziana, come denuncia il cognome, ma che è ben assestata, già dal Quattrocento, in quel di Monreale, all’ombra della gran cattedrale dei re normanni. Il padre, Antonio, mastro notaro della Curia e pretore, ebbe ben tre mogli, un figlio dalla prima moglie, uno dalla seconda, e ben sette dalla terza, di nome Allegranza Azolina. Antonello, detto Antonio dopo la morte del padre, era il terzo di quest’ultima nidiata. Ancora nella prima adolescenza fu mandato a Palermo per studiare nel collegio dei Gesuiti, quindi a Messina e infine a Roma. È un periodo, questo del Veneziano, di severi studi: di filosofia e teologia, di lingua e letteratura italiana, latina, greca, ebraica. Nel Collegio Romano ha come professore Francesco Toleto, il quale, oltre a insegnare la filosofi a tomista, inizia gli allievi agli studi di giurisprudenza. Studi che saranno utili al Veneziano quando, lasciata la Compagnia di Gesù, ritorna a Monreale e inizia tutta una serie di cause civili contro fratelli e parenti per la divisione della roba, dell’eredità paterna; e cause penali perché accusato non solo dell’omicidio di un tal Polizzi, ma anche del rapimento di Franceschella Porretta, serva della terziaria domenicana suor Eufrigenia Diana. Per questo rapimento la madre lo disereda perché “figlio disubbidiente”, come scrive nel testamento. “Violento, sensuale, scialacquatore, carico di debiti, incostante negli affetti famigliari e negli amori, assolutamente sprovvisto di rispetto per le istituzioni e per gli uomini che le rappresentano”. Scrive del Veneziano Leonardo Sciascia1. E pensa Sciascia, che questo carattere, questo maledettismo del poeta siano stati una reazione alle costrizioni dell’educazione gesuitica. E, malgrado il carattere e la mala condotta, scrive, scrive, il Veneziano, scrive poesie in siciliano, in latino, in spagnolo, prose e composizioni in versi per gli archi di trionfo in onore dei vari viceré che s’installano a Palermo. Ma scrive anche satire contro gli stessi viceré, contro il potere politico, satire anonime affisse sui muri. Sospettato quale autore di una di queste satire, un cartello, “appizzato alla cantonera di don Pietro Pizzinga allo piano delli Bologni”, contro il viceré conte di Albadeliste, definito uomo “fatale”, vale a dire jettatore, fi nisce nel carcere di Castellamare. Nell’educazione presso i Gesuiti, nell’accusa di omicidio, nella cultura e nelle composizioni poetiche per gli archi di trionfo, nel 1 Sciascia, L. (1967): “Introduzione a Antonio Veneziano”, Ottave, Einaudi: Milano. continuo assillo per le difficoltà economiche, nei disordini della famiglia paterna, nella varie incarcerazioni infine, non possiamo non vedere una curiosa specularità tra la vita di Cervantes e quella di Antonio Veneziano. Specularità che poi diviene immedesimazione nella comune condizione di schiavi nei bagni di Algeri. Il 1574 è l’anno in cui il Veneziano fa donazione di tutti i suoi beni ad Eufemia de Calogero, figlia di sua sorella Vincenza, la quale Eufemia è obbligata per contratto e rimanere nubile e a non farsi monaca. Questa donazione ha fatto sorgere il sospetto che ad Eufemia, la nipote, fossero indirizzate canzoni d’amore della Celia, che fosse insomma, quella di Veneziano, una passione disdicevole, vergognosa. Canta:
“Donna d’auti biddizzi fatta ‘n Celu,
mandata pri ricchezza e gloria in terra,
cu l’occhi toi lu diu di l’aureu telu
fa quasi all’universu ingiuria e guerra;
si sa quanta npi tia m’ardu e querelu,
tempra, si poi, st’arduri chi m’atterra,
ch’in tanta estrema dogghia, affannu e jelu
non dura lungamente omo di terra”.
Il 25 aprile 1578, Veneziano s’imbarca a Palermo sulla galea Sant’Angelo, al seguito di don Carlo d’Aragona, imbarcato a sua volta sulla galea detta Capitana. Al largo di Capri, vengono assalite, le due navi, da galee corsare. La Capitana riesce a fuggire, la Sant’Angelo viene bloccata dai corsari. “Gagliardamente si combatte con mortalità d’entrambe le parti, ma arrivate dopo l’altre da fianchi, dandoli un terribile assalto di saette, e d’archibugiate, furono astretti li difensori a buttare l’armi, a rendersi vivi”. Scrive il monaco cassinese Giovanni Tornamira. Antonio Veneziano viene dunque preso, insieme ad altri, chierici e frati soprattutto, e portato schiavo in Algeri. “Cervantes si trovava schiavo in Algeri da tre anni. Può darsi avesse già conosciuto il Veneziano durante il suo soggiorno a Palermo, nel 1574; certo è che ad Algeri si trovarono (o si ritrovarono) e che tra loro nacque una qualche dimestichezza e un rapporto di reciproca estimazione letteraria, se non di amicizia”. Scrive ancora Sciascia. Ne La nenia così lamenta il Veneziano: “…
l’alma in Sicilia, già temp’è cattiva, in manu de la diva, cinta di forti amurusa catina, … e lu corpu in Algeri, fattu di genti barbara suggettu chì, di lu gran rispettu di stà partenza e di gran pinseri acerbamente offi su era lu cori esanimatu estisu”.
“Ai primi di settembre (1575) Cervantes, soldato aventajado (scelto), s’imbarca a Napoli sulla galera El Sol. Comandata da don Gaspar Pedro de Villena, questa era una delle quattro navi costituenti la piccola fl otta agli ordini di don Sancho de Leiva, che si disponevano a fare rotta per Barcellona (…) Assieme a Miguel, salgono a bordo, oltre al fratello Rodrigo e a qualche loro amico, diverse personalità di rilievo. (…) In capo a qualche giorno la tempesta disperde le galere. Tre di esse riusciranno infi ne ad arrivare in porto; ma l’ultima, El Sol, sarà sorpresa dai corsari barbareschi, e i suoi passeggeri condotti come prigionieri ad Algeri”. Così racconta Jean Canavaggio2 in Cervantes. In questo assalto dei corsari avrà provato, il futuro autore del Don Chisciotte, le stesse ansie, le stesse paure dell’archibugiere Miguel de Cervantes imbarcato sulla Marquesa in quel 7 ottobre del 1571; ma avrà dimostrato lo stesso coraggio, coraggio che allora, nella battaglia di Lepanto, gli costò la perdita della mano sinistra. Sulla mano perduta, così risponderà al falso Avellaneda, l’autore della seconda parte apocrifa del Don Chisciotte, il quale l’accusa d’essere vecchio e monco e quindi incapace di scrivere la seconda parte del suo romanzo: “Ciò di cui non ho potuto fare a meno di dolermi è che mi si accusi d’esser vecchio e monco, come se fosse stato in mio po- 2 CANAVAGGIO, J. (1986): Cervantes, biographie, Mazarine: Paris.
tere fermare il tempo perché non passasse per me, o come se l’esser monco, mi fosse stato cagionato in qualche bettola e non nella più illustre battaglia che abbiano visto i secoli passati e i presenti…”. È il rinnegato albanese Arnaut Mami che porta schiavo in Algeri Cervantes e i suoi compagni. Miguel ha solo ventotto anni quando è portato in catene ai bagni. Ci dice, Cervantes, di questa sua cattività durata cinque anni, nel racconto del Prigioniero nella prima parte del Don Chisciotte, nelle commedie La vita ad Algeri e I bagni di Algeri. Ma una notizia della prigionia di Cervantes ce la dà l’inquisitore di Sicilia, e quindi arcivescovo di Palermo e presidente del Regno di Sicilia, Diego de Haedo, autore della Topographia e Historia general de Argel (Valladolid, 1612). L’Haedo, raccogliendo notizie dagli schiavi cristiani riscattati, ci racconta tutto su Algeri, sui corsari, sui cristiani là prigionieri. Nel Dialogo secundo, il prigioniero capitan Geronimo Ramirez racconta al dottor Sosa del fallito tentativo di fuga da Algeri di Cervantes per il tradimento di un rinnegato di Melilla soprannominato El Dorador, dice che i turchi presero tutti i cristiani che stavano per fuggire, “y particolarmente a Miguel Cervantes, un hidalgo principal de Halcalà Henares, que fuera el autor deste negozio y era portanto mas culpado…”. Avrebbe dovuto essere punito, il nostro don Miguel, ma, ci racconta ancora il Prigioniero del Don Chisciotte: “Hassan Agà (il Saavedra) non lo bastonò mai, e neanche gli rivolse mai parole offensive; noi temevamo che sarebbe stato impalato ad ognuno dei suoi tentativi di fuga, cosa di cui lui stesso ebbe paura più di una volta”. E ci racconta ancora Diego de Haedo di Cervantes schiavo di Dali Mami, detto El Cojo, lo zoppo, quindi di Ramadan Pascià e infine del terribile Hassan Agà, un rinnegato veneziano che divenne re di Algeri. Nell’aprile del 1578, quando Antonio Veneziano finisce nel bagno di Algeri, Cervantes è appena uscito dal quarto fallimento di evasione dalla prigione per la delazione del prete rinnegato Juan Blasco. Si conoscono là i due, Cervantes e Veneziano, o si riconoscono dopo il loro primo incontro a Palermo? I due, in carcere, ascoltano la cantilena in sabir, la lingua franca del Mediterraneo, che i ragazzi mori cantavano sotto le finestre dei bagni.
“Non rescatar, non fugir
Don Juan no venir
acà morir…”.
Cantilena riportata da Cervantes in Vita ad Algeri e ne I bagni di Algeri. Tutti e due avranno avuto catene alle caviglie e saranno stati vestiti allo stesso modo, il modo come Cervantes descrive il Prigioniero che entra con Zoraide nella locanda, “… il quale mostrava dagli abiti d’essere un cristiano giunto recentemente da terra di mori, perché era vestito d’una casacca di panno turchino, a falde corte, con mezze maniche e senza collo; anche i calzoni erano di tela turchina, e il berretto dello stesso colore”. Antonio Veneziano giunge in Algeri infiammato d’amore, pazzo d’amore: per la nipote Eufemia o per una bella e irraggiungibile signora? Signora che sarebbe stata, secondo gli studiosi Caterina e Giuseppe Sulli (Antonio Veneziano, Palermo, 1982), Felice Orsini Colonna, moglie di Marc’Antonio Colonna, il comandante della fl otta veneziana nella battaglia di Lepanto, allora viceré di Sicilia, al cui figlio, Ascanio, Cervantes, dedica La Galatea. Ad avanzare l’ipotesi della passione del Veneziano verso la viceregina c’è una ottava del poeta che così termina:
“Pirchi’ mi tratti comu li ‘nnimici?
Rimedia cu lu meghiu modu c’hai,
Filici, fi licissima, Filici”.
Là, nel bagno di Algeri, il Veneziano avrebbe scritto La Celia. E là, nel bagno, sembra che Cervantes abbia scritto Vita ad Algeri e incominciato la stesura de La Galatea. Inimmaginabili sono gli incroci della storia, nonché della poesia. Nel 1650, un gruppo di nobili siciliani congiurava contro il viceré don Giovanni d’Austria, vagheggiando di porre sul trono di un regno indipendente di Sicilia don Giuseppe Branciforti, conte di Mazarino e principe di Butera. La congiura falliva per la delazione del prete Simone Rao e per la confessione dello stesso Branciforti. Sei dei congiurati furono giustiziati. Il Branciforti lasciava quindi Palermo e si ritirava a Bagheria, tra la fenicia Sòlunto e la greca Imera, si faceva là costruire una villa e si chiudeva in quella sua dimora che era fortezza, castello, tomba non di libri e di salme come l’Escorial, ma di orgoglio umiliato e di rimorso. Sull’arco d’ingresso della villa faceva incidere un emistichio del Tasso, O corte a Dio, e oltre, sopra un altro arco, questi versi in spagnolo:
“Ya la esperanza es perdida
Y un solo bien me consuela
Que el tiempo que pasa y buela
Lleverà presto la vida”.
E sono i versi questi che recita Teolinda nel Libro primo de La Galatea di Cervantes. Ma ritorniamo al bagno di Algeri, ai due poeti là rinchiusi, Cervantes e Veneziano. Il monrealese, preso com’è dal “vendaval erótico”, come lo defi nisce Américo Castro, dalla bufera d’amore per la nipote Eufemia o per Felice Orsini, scrive là La Celia, e Cervantes (anche lui forse in quel momento nella bufera d’amore, se nel personaggio di Lauso de La Galatea dobbiamo riconoscere lo stesso autore), e Cervantes scrive là le Ottave per Antonio Veneziano. Veneziano viene riscattato nel 1579, e il cronista Ortolani così scrive:
“Fu fatta festa in Palermu pillu ricattu e ritornu di lu
celebri
poeta Veneziano”.
Morirà poi, il povero poeta, il 19 agosto 1593, come sappiamo, per l’incendio (doloso, sembra) e lo scoppio della polveriera nel carcere di Castellamare. E morirà, in quello scoppio, anche Egisto Giuffredi, l’autore di Avvertimenti cristiani. Cervantes, riscattato, lasciava Algeri il 24 ottobre 1580. Dice ancora il Prigioniero del Don Chisciotte: “Non c’è sulla terra, secondo il mio parere, gioia che eguagli quella di conseguire la libertà perduta”. E sarà, quella di Cervantes, una vita libera, ma, come quella di prima della prigionia in Algeri, una vita molto tribolata. Nulla però gli impedirà di concepire (nel carcere di Siviglia o in quello di Castro del Rio -1592) e di scrivere quindi le avventure dell’ingegnoso hidalgo, di don Alonso Quijana, ribattezzatosi Don Chisciotte della Mancia, e del suo fi do scudiero Sancio Panza. Don Chisciotte, il primo grande romanzo della storia letteraria, uno dei grandi capolavori dell’umanità. Nel 2005 ricorreva il quarto centenario della prima pubblicazione del romanzo. E, nell’aprile di quell’anno, ad Alcalà de Henares, nella casa natale-museo di Cervantes, si inaugurava la mostra delle prime edizioni del Quijote, in cui compariva l’edizione del 1610, stampata a Milano “por el Heredero de Pedromartir Locarni y Juan Bautista Bidello”, e dedicata dal Cervantes, questa edizione, non più al conte di Bejar, ma “All’Ill.mo Señor el Sig. Conde Vitaliano Vizconde”. Abbiamo voluto sin qui raccontare della prigionia in Algeri di due poeti, Cervantes e Veneziano. Ma abbiamo anche voluto signifi care, soprattutto attraverso Cervantes, la terribile vita che si svolgeva allora, nel ‘500, tra le sponde del Mediterraneo, in questo spazio dove si svolge il grande poema omerico e dove sono nate le prime grandi civiltà della storia umana. Terribile vita allora, nel ‘500, tra le sponde del Mediterraneo. E terribile di nuovo oggi, dopo cinque secoli, per le tragedie quasi quotidiane che tra queste sponde si consumano. Tragedie di poveri infelici che fuggono da luoghi di guerra, di malattia e di fame e che cercano salvezza in questo nostro mondo di opulenza e di alienazione. Infelici che spesso trovano la morte per acqua, come l’eliotiano Phlebas il Fenicio, naufragano presso le sponde di Sicilia e di Spagna. E con dolore dunque possiamo ripetere le parole di Fernand Braudel, riferite all’età di Filippo II: “In tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato, e vi conosce tutte le miserie, gli orrori e le santità degli universi concentrazionari
03/11/2005 – La prigione dei destini incrociati: Miguel de Cervantes e Antonio Veneziano nei bagni di Algeri Instituto Cervantes Napoli
14/04/2008 Universitat de Valencia. Spagna.La pasión por la lengua: VINCENZO CONSOLO
Antonello d’Antonio, figlio di Giovanni, maczonus, mastro scalpellino, e di Garita. Nato a Messina nel 1430 circa e ivi morto nel 1479. Pittore. Ebbe un fratello, Giordano, pittore, da cui nacquero Salvo e Antonio, pittori; una sorella, Orlanda, e un’altra sorella, di cui non si conosce il nome, sposata a Giovanni de Saliba, intagliatore, da cui nacquero Pietro e Antonio de Saliba, pittori. Antonello d’Antonio sposò Giovanna Cuminella ed ebbe tre figli, Jacobello, pittore, Catarinella e Fimia. Visse dunque solo quarantanove anni questo grande pittore di nome Antonello, e, poco prima di morire di mal di punta, di polmonite, dettò il 14 febbraio 1479, al notaro Mangiante, il testamento, in cui, fra l’altro, disponeva che il suo corpo, in abito di frate minore osservante, fosse seppellito nella chiesa di Santa Maria del Gesù, nella contrada chiamata Ritiro. “Ego magister Antonellus de Antonej pictor, licet infirmus jacens in lecto sanus tamen dey gracia mente… iubeo (dispongo) quod cadaver meum seppeliatur in conventu sancte Marie de Jesu cum habitu dicti conventus…”. E non possiamo qui non pensare al testamento di un altro grande siciliano, di Luigi Pirandello, che suonò, allora, nelle sue laiche disposizioni, come sarcasmo o sberleffo nei confronti di quel Fascismo a cui aveva aderito nel 1924: “Morto, non mi si vesta. Mi s’avvolga, nudo, in un lenzuolo. E niente fiori sul letto e nessun cero acceso. Carro d’infima classe, quello dei poveri…”. Ma torniamo al nostro Antonello. Fra scalpellini, intagliatori e pittori, era, quella dei d’Antonio e parenti, una famiglia di artigiani e artisti. Ma Messina doveva essere in quella seconda metà del Quattrocento, una città piena d’artisti, locali, come Antonino Giuffrè, che primeggiava nella pittura prima di Antonello, o venuti da fuori. Dalla Toscana, per esempio. Ché Messina era città fiorente, commerciava con l’Italia e l’Europa, esportava sete e zuccheri nelle Fiandre, e il suo sicuro porto era tappa d’obbligo nelle rotte per l’Africa e l’Oriente. Una città fortemente strutturata, una dimora “storica”, d’alto livello e di sorte progressiva. E certamente doveva essere meta di artigiani e artisti che lì volontariamente approdavano o vi venivano espressamente chiamati. E proprio parlando di Antonello d’Antonio, lo storico messinese Caio Domenico Gallo (Annali della città di Messina, ivi 1758) fu il primo ad affermare che “il di lui genitore era di Pistoja”. E lo storico Gioacchino Di Marzo (Di Antonello da Messina e dei suoi congiunti, Palermo, 1903), che cercò prove per far luce nella leggendaria e oscura vita di Antonello (“[…] mi venne fatto d’imbattermi in un filone, che condusse alla scoperta di una preziosa miniera di documenti riguardanti Antonello in quell’Archivio Provinciale di Stato […]”) il Di Marzo dicevamo, che così ancora scrive: “L’asserzione del Gallo, che il sommo Antonello sia stato figlio di un di Pistoia, non poté andare a sangue ai messinesi cultori di patrie memorie, fervidi sempre di vivo patriottismo, vedendo così sfuggirsi il vanto ch’egli abbia avuto origine da messinese casato e da pittori messinesi ab antico”. Che fecero dunque questi cultori di patrie memorie o questi campanilisti? Tolsero dei quadri ad Antonello e li attribuirono ai suoi fantomatici antenati, falsificando date, affermando che già nel 1173 e nel 1276 c’erano stati un Antonellus Messanensis e un Antonello o Antonio d’Antonio che rispettivamente avevano lasciato un polittico nel monastero di San Gregorio e un quadro di San Placido nella cattedrale, pretendendo così che la pittura si fosse sviluppata in Messina prima che altrove, meglio che in Toscana… Il primo di questi fantasiosi storici fu Giovanni Natoli Ruffo, che si celava sotto lo pseudonimo di Minacciato, cui seguì il prete Gaetano Grano che fornì le sue “invenzioni” al prussiano Filippo Hackert per il libro Memorie dei pittori messinesi (Napoli, 1792), e infine Giuseppe Grosso Cacopardo col suo libro Memorie dei pittori messinesi e degli esteri, che in Messina fiorirono, dal secolo XII sino al secolo XIX, ornate di ritratti (Messina, 1821). Strana sorte ebbe questo nostro Antonello, ché la sua pur breve vita, già piena di vuoti, di squarci oscuri e irricostruibili, è stata campo d’arbitrarii ricami, romanzi, fantasie. E cominciò a romanzare su Antonello Giorgio Vasari (Vite dei più eccellenti architetti, pittori e scultori italiani da Cimabue infino a’ tempi nostri, 1550-1568), il Vasari, di cui forse il nodo più vero è quell’annotazione d’ordine caratteriale: “persona molto dedita a’ piaceri e tutta venerea”, per cui Leonardo Sciascia ironicamente ricollega l’indole di Antonello agli erotomani personaggi brancatiani. La breve vita di Antonello viene, per così dire, slabbrata ai margini, alla nascita e alla morte, falsificata, dilatata: negli antenati e nei discendenti, con l’attribuzione di quadri suoi ai primi e quadri dei secondi a lui. Ma sorte più brutta ebbero le sue opere, specie quelle dipinte in Sicilia, a Messina e in vari paesi, di cui molte andarono distrutte o irrimediabilmente danneggiate o presero la fuga nelle parti più disparate del mondo. E l’annotazione meno fantasiosa che fa nella Introduzione alle Memorie dei pittori messinesi… il Grosso Cacopardo è quella della perdita subita da Messina di una infinità di opere d’arte per guerre, invasioni, epidemie, ruberie, terremoti. Dei quali ultimi egli ricorda “l’orribile flagello de’ tremuoti del 1783, che rovesciando le chiese, ed i palagi distrussero in gran parte le migliori opere di scultura e di pennello”. Non avrebbe mai immaginato, il Grosso Cacopardo, che un altro e più terribile futuro flagello, il terremoto del 28 dicembre 1908, nonché distruggere le opere d’arte, avrebbe distrutto ogni possibile ricordo, ogni memoria di Messina. Due testimoni d’eccezione ci dicono del primo e del secondo terremoto: Wolfgang Goethe e David Herbert Lawrence. Scrive Goethe nel suo Viaggio in Italia, visitando Messina, tre anni dopo il terremoto del 1783: “Una città di baracche… In tali condizioni si vive a Messina già da tre anni. Una simile vita di baracca, di capanna e perfin di tende influisce decisamente anche sul carattere degli abitanti. L’orrore riportato dal disastro immane e la paura che possa ripetersi li spingono a godere con spensierata allegria i piaceri del momento”. E Lawrence, nel suo Mare e Sardegna, così scrive dopo il terremoto del 1908: “Gli abitanti di Messina sembrano rimasti al punto in cui erano quasi vent’anni fa, dopo il terremoto: gente che ha avuto una scossa terribile e che non crede più veramente nelle istituzioni della vita, nella civiltà, nei fini”. E alle osservazioni di quei due grandi qui mi permetto di aggiungere una mia digressione su Messina: “Città di luce e d’acqua, aerea e ondosa, riflessione e inganno, Fata Morgana e sogno, ricordo e nostalgia. Messina più volte annichilita. Esistono miti e leggende, Cariddi e Colapesce. Ma forse vi fu una città con questo nome perché disegni e piante (di Leida e Parigi, di Merian e Juvarra) riportano la falce a semicerchio di un porto con dentro velieri che si dondolano, e mura, colli scanditi da torrenti e coronati da forti, e case e palazzi, chiese, orti… Ma forse, dicono quei disegni, di un’altra Messina d’Oriente. Perché nel luogo dove si dice sia Messina, rimane qualche pietra, meno di quelle d’Ilio o di Micene. Rimane un prato, in direzione delle contrade Paradiso e Contemplazione, dove sono sparsi marmi, calcinati e rugginosi come ossa di Golgota o di campo d’impiccati. E sono angeli mutili, fastigi, blocchi, capitelli, stemmi… Tracce, prove d’una solida storia, d’una civiltà fiorita, d’uno stile umano cancellato… Deve dunque essere successo qualche cosa, furia di natura o saccheggio d’orde barbare. Ma a Messina, dicono le storie, nacque un pittore grande di nome Antonio d’Antonio. E deve essere così se ne parlano le storie. Egli stesso poi per affermare l’esistenza di questa sua città, usava quasi sempre firmare su cartellino dipinto e appuntato in basso, a inganno d’occhio, “Antonellus messaneus me pinxit”. E dipingeva anche la città, con la falce del porto, i colli di San Rizzo, le Eolie all’orizzonte, e le mura, il forte di Rocca Guelfonia, i torrenti Boccetta, Portalegni, Zaera, e la chiesa di San Francesco, il monastero del Salvatore, il Duomo, le case, gli orti…”. Gli orti… E la luce, la luce del cielo e del mare dello Stretto, dietro finestre d’Annunciazioni, sullo sfondo di Crocifissioni e di Pietà. E i volti. Volti a cuore d’oliva, astratti, ermetici, lontani; carnosi, acuti e ironici; attoniti e sprofondati in inconsolabili dolori; e corpi, corpi ignudi, distesi o contorti, piagati o torniti come colonne. Tanta grandezza, tanta profondità e tali vertici non si spiegano se non con una preziosa, spessa sedimentazione di memoria. Ma di memoria illuminata dal confronto con altre realtà, dopo aver messo giusta distanza tra sé e tanto bagaglio, giusto equilibrio tra caos e ordine, sentimento e ragione, colore e geometria. E’apprendista a Napoli, alla scuola del Colantonio, in quella Napoli cosmopolita di Renato d’Angiò e Alfonso d’Aragona, dove s’incontra con la pittura dei fiamminghi, dei provenzali, dei catalani, di Van Eyck e di Petrus Christus, di Van der Weyden, di Jacomar Baço, di altri. E soggiorna poi a Venezia, “alla grand’aria”, come dice Verga, in quella città, dove s’incontra con altra pittura, altra luce e altri colori, altra “prospettiva”; incontra la pittura di Piero della Francesca, Giovanni Bellini… Ed il ritorno poi in Sicilia, nell’ultimo scorcio della sua vita, dove dipinge pale d’altare, e gonfaloni, ritratti, a Messina, a Palazzolo Acreide, a Caltagirone, a Noto, a Randazzo e, noi crediamo, a Lipari. Ma molte, molte delle opere di Antonello in Sicilia si sono perse, per incuria, vendita, distruzione. Su Antonello era calato l’oblìo. Vasari, sì, aveva tracciato una biografia fantasiosa e, dietro di lui altri, come quei correttori di date che avevano attribuito i suoi quadri a fantomatici antenati. Fu per primo Giovambattista Cavalcaselle, un critico e storico dell’arte, a riscoprire Antonello da Messina, a far comprendere la distanza fra l’Antonello delle fonti e l’Antonello dei dipinti. Era esule a Londra, il Cavalcaselle, fuoruscito per ragioni politiche. Aveva partecipato alla rivoluzione di Venezia del 1848, e quindi, nelle file mazziniane e garibaldine, alla difesa della Repubblica Romana contro l’assalto dei francesi. Rischioso e temerario dunque il suo ritorno in Italia, il suo viaggio clandestino che parte dal Nord e arriva fino al Sud, alla Sicilia. “Come Antonello, con il suo complesso iter, aveva abbattuto barriere regionali e nazionali, così per riscoprirlo era necessario fare un’operazione culturale affine: essa è svolta proprio dai molteplici interessi del Cavalcaselle”, scrive la giovane studiosa Chiara Savettieri nel suo Antonello da Messina: un percorso critico. Cavalcaselle giunge a Palermo nel marzo del 1860 (l’11 aprile di quello stesso anno Garibaldi sbarcherà con i suoi Mille a Marsala) e, dopo le tappe intermedie, fatte a dorso di mulo, di Termini Imerese, Cefalù, Milazzo, Castrogiovanni, Catania, giungerà a Messina, da dove scrive al suo amico inglese Joseph Crowe, assieme al quale firmerà il libro Una nuova storia della pittura in Italia dal II al XVI secolo: “Caro mio, credo sia pura invenzione del Gallo tutte le opere date al Avo, al Zio, al padre d’Antonello, ed abbia di suo capriccio inventato una famiglia di pittori, mentre quanto rimane delle opere attribuite a quei pittori sono di chi ha tenuto dietro Antonello e non di chi lo ha preceduto”. Cavalcaselle legge e autentica i quadri di Antonello, quindi, due studiosi, il palermitano Gioacchino di Marzo e il messinese Gaetano La Corte Cailler, rinvengono nell’Archivio Provinciale di Stato di Messina documenti riguardanti Antonello, dai contratti di committenze fino al suo testamento. Pubblicheranno, i due, quei documenti, nei loro rispettivi libri (Di Antonello da Messina e dei suoi congiunti – Antonello da Messina. Studi e ricerche con documenti inediti) pubblicheranno nel 1903, salvando così quei preziosi documenti dal disastro del terremoto di Messina del 1908. Dopo Cavalcaselle, Di Marzo e La Corte Cailler, gli studiosi finalmente riscoprono e studiano Antonello. E sono Bernard Berenson, Adolfo e Lionello Venturi, Roberto Longhi, Stefano Bòttari, Jan Lauts, Cesare Brandi, Giuseppe Fiocco, Giorgio Vigni, Fernanda Wittengs, Federico Zeri, Rodolfo Pallucchini, Fiorella Sricchi Santoro, Leonardo Sciascia, Gabriele Mandel e tanti, tanti altri, fino a Mauro Lucco, che ha curato nel 2006 la straordinaria mostra di Antonello alle Scuderie del Quirinale, in Roma, fino alla giovane studiosa Chiara Savetteri, che mi ha fatto scoprire, leggendo il suo libro Antonello da Messina (Palermo, 1998) l’incontro, a Cefalù, nel 1860, tra Cavalcaselle ed Enrico Pirajno di Mandralisca, il possessore del Ritratto d’ignoto, detto popolarmente dell’ignoto marinaio, di Antonello. E scriverà quindi il Cavalcaselle a Mandralisca: “[…] il solo Antonello da me veduto fino ad ora in Sicilia è il ritratto ch’ella possiede”. Dicevo che la Savettieri mi ha fatto scoprire, nel 1996, l’incontro tra il barone Mandralisca, malacologo e collezionista d’arte, e il Cavalcaselle. Scopro -di questo incontro che sarebbe stato sicuramente un altro capitolo del mio romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio (Torino, 1976)- di cui è protagonista Enrico Pirajno di Mandralisca e il cui tema portante è appunto il Ritratto d’ignoto di Antonello, che io chiamo dell’Ignoto marinaio. Il marinaio mi serviva nella trama del romanzo, ma è per primo l’Anderson che dà questo titolo al ritratto ch’egli fotografa nel 1908, raccogliendo la tradizione popolare. Il primo capitolo apparve su «Nuovi Argomenti». L’avevo mandato prima a «Paragone», la rivista di Roberto Longhi e Anna Banti, perché il tema che faceva da leitmotiv era il ritratto di Antonello. Longhi, in occasione della mostra del ’53 a Messina di Antonello aveva scritto un bellissimo saggio dal titolo Trittico siciliano. Nessuno mi rispose. Mel ’69 venne a Milano Longhi per presentare la ristampa del suo Me pinxit e quesiti caravaggeschi. Lo avvicinai «Mi chiamo Consolo» gli dissi «ho mandato un racconto a Paragone…». Mi guardò con severità, mi rispose: «Sì, sì mi ricordo benissimo. Non discuto il valore letterario, però questa storia del ritratto di Antonello che rappresenta un marinaio deve finire!». Longhi, nel suo saggio, polemizzava con la tradizione popolare che chiamava il ritratto del museo di Cefalù «dell’ignoto marinaio», sostenendo, giustamente, che Antonello, come gli altri pittori allora, non faceva quadri di genere, ma su commissione, e si faceva ben pagare. Un marinaio mai avrebbe potuto pagare Antonello. Quello effigiato lì era un ricco, un signore. Lo sapevo, naturalmente, ma avevo voluto fargli «leggere» il quadro non in chiave scientifica, ma letteraria. Mandai quindi il racconto a Enzo Siciliano, che lo pubblicò su «Nuovi Argomenti». Mi scriveva da Genova, in data 13 novembre 1997 il professor Paolo Mangiante, discendente di quel notaro Mangiante che nel 1479 stese il testamento di Antonello. Scriveva: “Accludo anche alcune schede del catalogo della Mostra su Antonello da Messina che credo possano rivestire un certo interesse per lei, riguardano rogiti di un mio antenato notaro ad Antonello per il suo testamento e per commissioni di opere pittoriche. Particolare interesse potrebbe rivestire il rogito del notaro Paglierino a certo Giovanni Rizo di Lipari per un gonfalone, perché si potrebbe ipotizzare che il suddetto Rizo sia il personaggio effigiato dallo stesso Antonello e da lei identificato come l’Ignoto marinaio. Del resto, a conciliare le sue tesi con le affermazioni longhiane sta la constatazione, dimostrabile storicamente, che un personaggio notabile di Lipari, nobile o no, non poteva non avere interessi marinari, e in base a quelli armare galere e guidare lui stesso le sue navi come facevano tanti aristocratici genovesi dell’epoca, nobili sì talora, ma marinai e pirati sempre”. Il movimento di Cavalcaselle, ho sopra detto, è da Londra al Nord d’Italia, fino in Sicilia, sino a Cefalù; il mio, è di una dimensione geografica molto, molto più piccola (da un luogo a un altro di Sicilia) e di una dimensione culturale tutt’affatto diversa. E qui ora voglio dire del mio incontro con Antonello, con il mio Ritratto d’ignoto. In una Finisterre, alla periferia e alla confluenza di province, in un luogo dove i segni della storia s’erano fatti labili, sfuggenti, dove la natura, placata -immemore di quei ricorrenti terremoti dello Stretto, immemore delle eruzioni del vulcano, dell’Etna- la natura qui s’era fatta benigna, materna. In un villaggio ai piedi dei verdi Nèbrodi, sulla costa tirrenica di Sicilia, in vista delle Eolie celesti e trasparenti, sono nato e cresciuto. In tanta quiete, in tanto idillio, o nel rovesciamento d’essi, ritrazione, malinconia, nella misura parca dei rapporti, nei sommessi accenti di parole, gesti, in tanta sospensione o iato di natura e di storia, il rischio era di scivolare nel sonno, perdersi, perdere il bisogno e il desiderio di cercare le tracce intorno più significanti per capire l’approdo casuale in quel limbo in cui ci si trovava. E poiché, sappiamo, nulla è sciolto da causa o legami, nulla è isola, né quella astratta d’Utopia, né quella felice del Tesoro, nella viva necessità di uscire da quella stasi ammaliante, da quel confine, potevo muovere verso Oriente, verso il luogo del disastro, il cuore del marasma empedocleo in cui s’erano sciolti e persi i nomi antichi e chiari di Messina, di Catania, muovere verso la natura, l’esistenza. Ma per paura di assoluti ed infiniti, di stupefazioni e gorgoneschi impietrimenti, verghiani fatalismi, scelsi di viaggiare verso Occidente, verso i luoghi della storia più fitta, i segni più incisi e affastellati: muovere verso la Palermo fenicia e saracena, verso Ziz e Panormo, verso le moschee, i suq e le giudecche, le tombe di porfido di Ruggeri e di Guglielmi, la reggia mosaicata di Federico di Soave, il divano dei poeti, il trono vicereale di corone aragonesi e castigliane, all’incrocio di culture e di favelle più diverse. Ma verso anche le piaghe della storia: il latifondo e la conseguente mafia rurale. Andando, mi trovai così al suo preludio, la sua epifania, la sua porta magnifica e splendente che lasciava immaginare ogni Palermo o Cordova, Granata, Bisanzio o Bagdad. Mi trovai così a Cefalù. E trovai a Cefalù un uomo che molto prima di me, nel modo più simbolico e più alto, aveva compiuto quel viaggio dal mare alla terra, dall’esistenza alla storia, dalla natura alla cultura: Enrico Pirajno di Mandralisca. Recupera, il Mandralisca, in una spezieria di Lipari, il Ritratto d’ignoto di Antonello dipinto sul portello di uno stipo. Il viaggio del Ritratto, sul tracciato d’un simbolico triangolo, avente per vertici Messina, Lipari e Cefalù, si caricava per me allora di vari sensi, fra cui questo: un’altissima espressione di arte e di cultura sbocciata, per mano del magnifico Antonello, in una città fortemente strutturata dal punto di vista storico qual era Messina nel XV secolo, cacciata per la catastrofe naturale che per molte volte si sarebbe abbattuta su Messina distruggendola, cacciata in quel cuore della natura qual è un’isola, qual è la vulcanica Lipari, un’opera d’arte, quella di Antonello, che viene quindi salvata e riportata in un contesto storico, nella giustezza e sicurezza di Cefalù. E non è questo poi, tra terremoti, maremoti, eruzioni di vulcani, perdite, regressioni, follie, passaggi perigliosi tra Scilla e Cariddi, il viaggio, il cammino tormentoso della civiltà? Quel Ritratto d’uomo poi, il suo sorriso ironico, “pungente e nello stesso tempo amaro, di uno che molto sa e molto ha visto, sa del presente e intuisce del futuro, di uno che si difende dal dolore della conoscenza e da un moto continuo di pietà”, quel Ritratto era l’espressione più alta, più compiuta della maturità, della ragione. Mandralisca destinerà per testamento la sua casa della strada Badia, i suoi libri, i suoi mobili, la sua raccolta di statue e vasi antichi, di quadri, di conchiglie, di monete, a biblioteca e museo pubblico. Fu questo piccolo, provinciale museo Mandralisca il mio primo museo. Varcai il suo ingresso al primo piano, non ricordo più quando, tanto lontano è nel tempo, varcai quella soglia e mi trovai di fronte a quel Ritratto, posto su un cavalletto, accanto a una finestra. Mi trovai di fronte a quel volto luminoso, a quel vivido cristallo, a quella fisionomia vicina, familiare e insieme lontana, enigmatica: chi era quell’uomo, a chi somigliava, cosa voleva significare? “Apparve la figura di un uomo a mezzo busto. Da un fondo scuro, notturno, di lunga notte di paura e incomprensione, balzava avanti il viso luminoso […] L’uomo era in quella giusta età in cui la ragione, uscita salva dal naufragio della giovinezza, s’è fatta lama d’acciaio, che diverrà sempre più lucida e tagliente nell’uso ininterrotto. […] Tutta l’espressione di quel volto era fissata, per sempre, nell’increspatura sottile, mobile, fuggevole dell’ironia, velo sublime d’aspro pudore con cui gli esseri intelligenti coprono la pietà”. Ragione, ironia: equilibrio difficile e precario. Anelito e chimera in quell’Isola mia, in Sicilia, dov’è stata da sempre una caduta dopo l’altra, dove il sorriso dell’Ignoto si scompone e diviene sarcasmo, pianto, urlo. Diviene Villa dei Mostri a Bagheria, capriccio, locura, pirandelliano smarrimento dell’io, sonno, sogno, ferocia. Diviene disperata, goyesca pinturas negras, Quinta del Sordo. Ma è dell’Isola, della Sicilia che dice il Ritratto di Antonello o dice del degradato Paese che è l’Italia, dice di questo nostro tremendo mondo di oggi?
«Insieme ai resti dei templi i viaggiatori del Grand Tour trovavano le rovine della società siciliana»
«Con gli Arabi iniziò una nuova civilizzazione» «La Sicilia è metafora dell’essere italiani» «I Romani ci trattarono come una colonia e io sarei stato dalla parte di vinti» «Amo la multiculturalità dei tempi di Ruggero il Normanno» «Non condivido il meccanicismo sociale di Tomasi di Lampedusa»
Si dice che la modestia sia virtù dei grandi. Restare un po’ bambini quando tutto intorno fa rumore. Anche questo è un privilegio assoluto. Difficile non pensarci quando si è a contatto con una persona come Vincenzo Consolo. Negli occhi l’umiltà della cultura, quella vera, che vale anche e soprattutto al di fuori del tempo. Nel cuore il ricordo vivissimo di Leonardo Sciascia (1921-1989), l’amico, la guida nella e per la vita. Consolo ne parla spesso. Ricorda i loro momenti, le giornate di primavera passate alla Noce, la casa di campagna poco fuori Racalmuto (Ag), città natale dello scrittore scomparso.
In qualche modo anche per questa intervista siamo a casa sua: alla Fondazione Sciascia; in molte delle foto appese i due amici sono insieme. L’occasione è quella del Premio Parnaso (direttore artistico Piero Nicosia), manifestazione di teatro, cinema e letteratura organizzata da Comune di Canicattì, Associazione culturale Kairos e Fondazione Sciascia, riproposto per la seconda volta nel proverbiale comune siciliano sul tema “Scherzare col fuoco, ovvero con il potere legittimo e illegittimo”. Consolo è ospite d’onore. È contento di essere intervistato per Archeologia Viva: «Prima che faccia buio, però, vorrei fare visita alla tomba del mio maestro se non le dispiace».
Vincenzo Consolo è nato a Sant’Agata di Militello (Me) nel 1933. Dal 1968 vive e lavora a Milano, sua patria d’adozione. Romanziere e saggista, ha pubblicato numerose opere di narrativa ambientate soprattutto nella sua Sicilia. Ha vinto il Premio Pirandello per il romanzo Lunaria nel 1985, il Premio Grinzane Cavour per Retablo (1988), il Premio Strega (Nottetempo, Casa per casa, 1992) e il Premio Internazionale Unione Latina (L’olivo e l’olivastro, 1994). I suoi libri sono stati tradotti in francese, tedesco, inglese, spagnolo, portoghese, olandese, rumeno.
D: Nel suo Retablo è possibile rintracciare molto della Sicilia archeologica e delle civiltà che vi hanno lasciato segni importanti. Come nacque l’idea di quest’opera?
R: Il libro è sulla linea del Grand Tour e dei grandi viaggiatori del Settecento e Ottocento. Una tradizione che andò intensificandosi a partire da Goethe. Naturalmente questi viaggiatori eruopei avevano un’idea mitica della Sicilia. Solitamente s’imbarcavano a Napoli per Palermo, da dove iniziavano il loro giro passando dai siti archeologici del centrosud (Segesta, Selinunte, Agrigento, Siracusa, Catania), per poi giungere a Messina da dove tornavano in continente. Così lasciavano sempre scoperta la parte tirrenica settentrionale dell’isola, che è ricchissima d’interesse (e alla quale io appartengo!).
Ecco, il tour tipico era quello, alla ricerca della grecità e della classicità e, comunque, nell’ignoranza di ciò che era vermaente questa terra. Goethe quando arriva a Napoli scrive alla sua donna: «Vado in quella parte d’Africa che si chiama Sicilia…»; poi, però, al termine del suo “tour” afferma che «non si può comprendere l’Italia senza vedere la Sicilia che è la chiave di tutto, è qui che sono contenuti tutti i raggi della storia».
Fatalmente, i viaggiatori europei finivano per confrontarsi con la realtà. Al di là dei templi e dei teatri, oltre il mito, emergeva una Sicilia inedita condita dal barocco (che Goethe giudica letteralmente “osceno”), ma anche dalla società sciliana con tutte le sue contraddizioni. Dunque, questi viaggiatori venivano sì con in testa l’idea della Sicilia classica, ma se ne ripartivano con altre sensazioni.
C’era questa volontà esclusiva di visitare le rovine, ma poi evidentemente non si poteva fare a meno di osservare altri ruderi, quelli della società, con le sue distanze paurose. Soprattutto nelle grandi città, per esempio a Palermo, era macrospopico il fasto delle residenze nobiliari rapportato al degrado dei quartieri popolari. Inoltre, era impossibile non rendersi conto che in Sicilia la civiltà greca, l’Arcadia, era ormai lontana, cancellata prima di tutto dalla dominazione romana, poi dai bizantini, con le loro devastazioni. Quelli furono momenti duri, infelici per la mia terra. Basta leggere le Verrine di Cicerone. E la desertificazione… L’isola divenne il granaio d’Italia, ma le foreste scomparvero, tagliate per coltivare frumento e costruire navi. […]
Archeologia Viva n. 116 – marzo/aprile 2006 pp. 80-82
“ Un eterno medio- evo riemerge e getta le sue tenebre in vari momenti della storia. Il medio – evo che ha creato le esclusioni e le reclusioni delle diversità. Debolezze, povertà, malattie. Per i lebbrosi ed i malati venerei, gli appestati o i colerici, sono state le separatezze, le emarginazioni, le prigioni, ma soprattutto per i folli sono stati creati quei luoghi di violenza , di disumanità, di orrore che sono i manicomi.
Di questi luoghi ci racconta M. Foucault in Storia della follia, questi luoghi ci rappresenta goya, ci rappresenta i mostri creati dal sono della ragione, mostri che sono fuori dalle mura del manicomio, che sono tra noi, sono nella società, nel potere politico.
Desastres,caprichos, disparates, goyeschi, sono la rappresentazione della nostra “normale” locura, della follia, della società che legittima torture, pena di morte, manicomi… Si difende, questa folle società, dalla follia pura, innocente dei cosiddetti malati mentali, si difende riempiendo navi di folli, costruendo atroci corral de locos.
Di tempo in tempo tuttavia si accendono bagliori di ragione, calori di umanità che riescono a fugare le tenebre, a rivoluzionare la storia, riescono a riscattarci dalle nostre colpe.
Nel vento di rinnovamento, nella luce che ha relegato nel passato ogni oscurità medievale,nelle giuste, umane, istanze, in campo culturale e specificatamente psichiatrico, Franco Basaglia con la sua “istituzione negata” è stato il maggiore e più eroico protagonista.
In questo tempo di involuzione, di regressione culturale, civile, politica si cerca di vanificare e annullare l’opera di Basaglia. Se riusciranno a far questo, gli uomini del potere politico, si renderanno colpevoli di un crimine contro la civiltà.
Ma i miei timori si attenuano pensando che gli oscurantismi troveranno a sbarrare loro la strada – oggi come domani – la saldezza, la compattezza e la passione di Psichiatria Democratica”.
Vincenzo Consolo, scrittore
Tratto da “Negli occhi e nel cuore “ – Trent’anni del movimento di Psichiatria Democratica , pag. 55 – Napoli, ottobre 2003.
Ma il prodigio riprende, nell’assenza del mago, del palco, riprende sul fondo nero, sopra il nero velluto del sipario. Appaiono, si librano su quello schermo notturno, cristalli, porcellane, trionfi di fiori, di frutta, neve di mughetti, corallo di ciliegie, opale dei limoni, granato di mezzelune di meloni, e viole da gamba, violini, contrabassi. Appaiono al comando del mago nascosto dal sipario, appaiono e trapassano, sospesi, lievi, come in una danza. La danza del sogno, la stregoneria del segno, la scrittura del mago, la magia soave dell’incisore notturno.
Vincenzo Consolo
Milano, 25 febbraio 2002.
“Il prodigio” Con una Considerazione sulla forma racconto , prefazione di Ambrogio Borsani. in copertina: disegno di Manuela Bertoli.