Congresso Internacional
Organizzado por Irene Romera Pintor
Departament Filologia Francesa i Italiana
Facultat de Filologia Traducciò i Comunicacciò
Universitat de Valencia.



Congresso Internacional
Organizzado por Irene Romera Pintor
Departament Filologia Francesa i Italiana
Facultat de Filologia Traducciò i Comunicacciò
Universitat de Valencia.
*
MILANO, 6 -7 MARZO 2019
Università degli Studi
Sala Napoleonica
via Sant’Antonio 10/12
Responsabile scientifico Gianni Turchetta
Segreteria Chiara Melgrati
GIOVEDÌ 7 MARZO
9.30
Coordina Irene Romera Pintor (Universitat de València)
Sebastiano Burgaretta (etnologo e docente)
L’illusione di Consolo tra metafora e realtà
Rosalba Galvagno (Università degli Studi di Catania)
Il «mondo delle meraviglie e del contrasto».
Il Mediterraneo di Vincenzo Consolo
Miguel Angel Cuevas (Universidad de Sevilla)
Della natura equorea dello Scill’e Cariddi:
testimonianze consoliane inedite su Stefano D’Arrigo
11.00 | Pausa caffè
11.30
Daragh Daragh O’Connell (University College Cork)
La notte della ragione: Nottetempo, casa per casa
fra poetica e politica
Giuseppe Traina (Università degli Studi di Catania)
Per un Consolo arabo-mediterraneo
Salvatore Maira (scrittore e regista)
Parole allo specchio
MERCOLEDÌ 6 MARZO
14.30 | Saluti di apertura
Elio Franzini
Magnifico Rettore dell’Università degli Studi di Milano
15.00
Coordina Alberto Cadioli (Università degli Studi
di Milano)
Gianni Turchetta (Università degli Studi di Milano)
Introduzione ai lavori
Carla Riccardi (Università degli Studi di Pavia)
Da Lunaria a Pantalica: fuga e ritorno alla storia?
Nicolò Messina (Universitat de València)
Cartografia delle migrazioni in Consolo
16.30 | Pausa caffè
17.00
Corrado Stajano (giornalista e scrittore)
Storia di un’amicizia
Dominique Budor (Université Sorbonne Nouvelle)
“Gli inverni della storia” e le “patrie immaginarie”
Marina Paino (Università degli Studi di Catania)
La scrittura e l’isola
L’opera di
Vincenzo Consolo
e l’identità culturale del Mediterraneo
foto Giovanna Borgese
VINCENZO CONSOLO
“Al Señor Antonio Veneziani. Señor mio: dichiaro alla Signoria Vostra, come cristiano, che sono tante le fantasticherie che mi affaticano, che non mi hanno permesso di portare a compimento come volevo questi versi che Le invio, in segno del desiderio che ho di servirla, già che questo mi ha indotto a far vedere così presto i difetti del mio ingegno, fiducioso che l’alto ingegno della Signoria vostra accoglierà le mie scuse e mi animerà affinché in tempi più tranquilli non tralasci di celebrare come potrò il cielo che così tristemente la trattiene su questa terra, dalla quale ci liberi Dio, e la porti in quella dove vive la vostra Celia.
Ad Algeri, il 6 Novembre del 1579 Della Signoria Vostra vero amico e servitore. Miguel de Cervantes”. Questa lettera e le ottave a Antonio Veneziano, che essa accompagna, furono scoperte nel 1914, nella Biblioteca Nazionale di Palermo, dal professore Eugenio Mele. Lettera e versi entrarono quindi nelle Obras completas di Cervantes, a cura di Rodolfo Schevill e Adolfo Bonilla (Madrid, 1914-31). Questi alcuni versi delle Ottave a Antonio Veneziano: “Il cielo, che contempla il vostro ingegno, ha voluto impiegarvi in queste cose, e segue i vostri passi perché aspira a innalzarvi, per Celia, sino al cielo: (…)
Mi sorprende veder che quel divino ciel di Celia nasconde un vero inferno, e che la forza della sua potenza vi abbia costretto a piangere e a pensare”. Chi era Antonio Veneziano a cui Cervantes indirizza quella lettera, piena di formale deferenza ma venata d’ironia, e le Ottave? el 1894 la palermitana Società di Storia Patria pubblica il fascicolo dedicato ad Antonio Veneziano per il 3º centenario della sua morte. Scrive il bibliotecario della Società Giuseppe Lodi: “Di Antonio Veneziano, l’elegantissimo latinista, il più rinomato poeta siciliano del secolo XVI, ricorreva nell’Agosto del 1893 il terzo centenario della morte, avvenuta per lo scoppio di una polveriera, mentr’egli era detenuto entro il forte di Castellamare. La ricorrenza di questo avvenimento non potea lasciarsi passare inosservata da una Società, come la nostra, la quale (…) non trascura, all’occorrenza di tener desti con solenni commemorazioni l’amore e la riverenza per quanti hanno onorato con il loro ingegno e le loro opere questa non infima parte d’Italia, questa nostra prediletta Sicilia”. C’era spesso nei membri di quelle Società o Accademie un po’ di ampollosità, un po’ di retorica. Retorica non vi è invece in uno scienziato, un demopsicologo o etnologo: Giuseppe Pitré. Scrive nel fascicolo: “io imposi a me stesso l’assoluto silenzio sulla sua vita. Me lo imposi, non per manco di ammirazione per l’illustre poeta, ma per la ferma convinzione ch’ebbi sempre, ed ora più che mai ho, delle inesattezze e, lo dico senza reticenze, dei grossi errori che sono stati scritti su di lui”. Grossi errori, come afferma il Pitré, nati dalla leggenda popolare in cui il Veneziano era stato avvolto, a cui venivano attribuite vicende, spesso fantastiche o surreali, e rime che erano spesso di malaccorti epigoni. Un altro scritto del fascicolo è del monrealese canonico Gaetano Millunzi. Che stende la prima documentata biografi a del Veneziano. Il poeta nasce nel 1543 da una ricca famiglia di origine veneziana, come denuncia il cognome, ma che è ben assestata, già dal Quattrocento, in quel di Monreale, all’ombra della gran cattedrale dei re normanni. Il padre, Antonio, mastro notaro della Curia e pretore, ebbe ben tre mogli, un figlio dalla prima moglie, uno dalla seconda, e ben sette dalla terza, di nome Allegranza Azolina. Antonello, detto Antonio dopo la morte del padre, era il terzo di quest’ultima nidiata. Ancora nella prima adolescenza fu mandato a Palermo per studiare nel collegio dei Gesuiti, quindi a Messina e infine a Roma. È un periodo, questo del Veneziano, di severi studi: di filosofia e teologia, di lingua e letteratura italiana, latina, greca, ebraica. Nel Collegio Romano ha come professore Francesco Toleto, il quale, oltre a insegnare la filosofi a tomista, inizia gli allievi agli studi di giurisprudenza. Studi che saranno utili al Veneziano quando, lasciata la Compagnia di Gesù, ritorna a Monreale e inizia tutta una serie di cause civili contro fratelli e parenti per la divisione della roba, dell’eredità paterna; e cause penali perché accusato non solo dell’omicidio di un tal Polizzi, ma anche del rapimento di Franceschella Porretta, serva della terziaria domenicana suor Eufrigenia Diana. Per questo rapimento la madre lo disereda perché “figlio disubbidiente”, come scrive nel testamento. “Violento, sensuale, scialacquatore, carico di debiti, incostante negli affetti famigliari e negli amori, assolutamente sprovvisto di rispetto per le istituzioni e per gli uomini che le rappresentano”. Scrive del Veneziano Leonardo Sciascia1. E pensa Sciascia, che questo carattere, questo maledettismo del poeta siano stati una reazione alle costrizioni dell’educazione gesuitica. E, malgrado il carattere e la mala condotta, scrive, scrive, il Veneziano, scrive poesie in siciliano, in latino, in spagnolo, prose e composizioni in versi per gli archi di trionfo in onore dei vari viceré che s’installano a Palermo. Ma scrive anche satire contro gli stessi viceré, contro il potere politico, satire anonime
affisse sui muri. Sospettato quale autore di una di queste satire, un cartello, “appizzato alla cantonera di don Pietro Pizzinga allo piano delli Bologni”, contro il viceré conte di Albadeliste, definito uomo “fatale”, vale a dire jettatore, fi nisce nel carcere di Castellamare. Nell’educazione presso i Gesuiti, nell’accusa di omicidio, nella cultura e nelle composizioni poetiche per gli archi di trionfo, nel 1 Sciascia, L. (1967): “Introduzione a Antonio Veneziano”, Ottave, Einaudi: Milano. continuo assillo per le difficoltà economiche, nei disordini della famiglia paterna, nella varie incarcerazioni infine, non possiamo non vedere una curiosa specularità tra la vita di Cervantes e quella di Antonio Veneziano. Specularità che poi diviene immedesimazione nella comune condizione di schiavi nei bagni di Algeri. Il 1574 è l’anno in cui il Veneziano fa donazione di tutti i suoi beni ad Eufemia de Calogero, figlia di sua sorella Vincenza, la quale Eufemia è obbligata per contratto e rimanere nubile e a non farsi monaca. Questa donazione ha fatto sorgere il sospetto che ad Eufemia, la nipote, fossero indirizzate canzoni d’amore della Celia, che fosse insomma, quella di Veneziano, una passione disdicevole, vergognosa. Canta:
“Donna d’auti biddizzi fatta ‘n Celu,
mandata pri ricchezza e gloria in terra,
cu l’occhi toi lu diu di l’aureu telu
fa quasi all’universu ingiuria e guerra;
si sa quanta npi tia m’ardu e querelu,
tempra, si poi, st’arduri chi m’atterra,
ch’in tanta estrema dogghia, affannu e jelu
non dura lungamente omo di terra”.
Il 25 aprile 1578, Veneziano s’imbarca a Palermo sulla galea Sant’Angelo, al seguito di don Carlo d’Aragona, imbarcato a sua volta sulla galea detta Capitana. Al largo di Capri, vengono assalite, le due navi, da galee corsare. La Capitana riesce a fuggire, la Sant’Angelo viene bloccata dai corsari. “Gagliardamente si combatte con mortalità d’entrambe le parti, ma arrivate dopo l’altre da fianchi, dandoli un terribile assalto di saette, e d’archibugiate, furono astretti li difensori a buttare l’armi, a rendersi vivi”. Scrive il monaco cassinese Giovanni Tornamira. Antonio Veneziano viene dunque preso, insieme ad altri, chierici e frati soprattutto, e portato schiavo in Algeri. “Cervantes si trovava schiavo in Algeri da tre anni. Può darsi avesse già conosciuto il Veneziano durante il suo soggiorno a Palermo, nel 1574; certo è che ad Algeri si trovarono (o si ritrovarono) e che tra loro nacque una qualche dimestichezza e un rapporto di reciproca estimazione letteraria, se non di amicizia”. Scrive ancora Sciascia. Ne La nenia così lamenta il Veneziano: “…
l’alma in Sicilia,
già temp’è cattiva,
in manu de la diva,
cinta di forti amurusa catina,
… e lu corpu in Algeri,
fattu di genti barbara suggettu
chì, di lu gran rispettu
di stà partenza e di gran pinseri
acerbamente offi su
era lu cori esanimatu estisu”.
“Ai primi di settembre (1575) Cervantes, soldato aventajado (scelto), s’imbarca a Napoli sulla galera El Sol. Comandata da don Gaspar Pedro de Villena, questa era una delle quattro navi costituenti la piccola fl otta agli ordini di don Sancho de Leiva, che si disponevano a fare rotta per Barcellona (…) Assieme a Miguel, salgono a bordo, oltre al fratello Rodrigo e a qualche loro amico, diverse personalità di rilievo. (…) In capo a qualche giorno la tempesta disperde le galere. Tre di esse riusciranno infi ne ad arrivare in porto; ma l’ultima, El Sol, sarà sorpresa dai corsari barbareschi, e i suoi passeggeri condotti come prigionieri ad Algeri”. Così racconta Jean Canavaggio2 in Cervantes. In questo assalto dei corsari avrà provato, il futuro autore del Don Chisciotte, le stesse ansie, le stesse paure dell’archibugiere Miguel de Cervantes imbarcato sulla Marquesa in quel 7 ottobre del 1571; ma avrà dimostrato lo stesso coraggio, coraggio che allora, nella battaglia di Lepanto, gli costò la perdita della mano sinistra. Sulla mano perduta, così risponderà al falso Avellaneda, l’autore della seconda parte apocrifa del Don Chisciotte, il quale l’accusa d’essere vecchio e monco e quindi incapace di scrivere la seconda parte del suo romanzo: “Ciò di cui non ho potuto fare a meno di dolermi è che mi si accusi d’esser vecchio e monco, come se fosse stato in mio po-
2 CANAVAGGIO, J. (1986): Cervantes, biographie, Mazarine: Paris.
tere fermare il tempo perché non passasse per me, o come se l’esser monco, mi fosse stato cagionato in qualche bettola e non nella più illustre battaglia che abbiano visto i secoli passati e i presenti…”. È il rinnegato albanese Arnaut Mami che porta schiavo in Algeri Cervantes e i suoi compagni. Miguel ha solo ventotto anni quando è portato in catene ai bagni. Ci dice, Cervantes, di questa sua cattività durata cinque anni, nel racconto del Prigioniero nella prima parte del Don Chisciotte, nelle commedie La vita ad Algeri e I bagni di Algeri. Ma una notizia della prigionia di Cervantes ce la dà l’inquisitore di Sicilia, e quindi arcivescovo di Palermo e presidente del Regno di Sicilia, Diego de Haedo, autore della Topographia e Historia general de Argel (Valladolid, 1612). L’Haedo, raccogliendo notizie dagli schiavi cristiani riscattati, ci racconta tutto su Algeri, sui corsari, sui cristiani là prigionieri. Nel Dialogo secundo, il prigioniero capitan Geronimo Ramirez racconta al dottor Sosa del fallito tentativo di fuga da Algeri di Cervantes per il tradimento di un rinnegato di Melilla soprannominato El Dorador, dice che i turchi presero tutti i cristiani che stavano per fuggire, “y particolarmente a Miguel Cervantes, un hidalgo principal de Halcalà Henares, que fuera el autor deste negozio y era portanto mas culpado…”. Avrebbe dovuto essere punito, il nostro don Miguel, ma, ci racconta ancora il Prigioniero del Don Chisciotte: “Hassan Agà (il Saavedra) non lo bastonò mai, e neanche gli rivolse mai parole offensive; noi temevamo che sarebbe stato impalato ad ognuno dei suoi tentativi di fuga, cosa di cui lui stesso ebbe paura più di una volta”. E ci racconta ancora Diego de Haedo di Cervantes schiavo di Dali Mami, detto El Cojo, lo zoppo, quindi di Ramadan Pascià e infine del terribile Hassan Agà, un rinnegato veneziano che divenne re di Algeri. Nell’aprile del 1578, quando Antonio Veneziano finisce nel bagno di Algeri, Cervantes è appena uscito dal quarto fallimento di evasione dalla prigione per la delazione del prete rinnegato Juan Blasco. Si conoscono là i due, Cervantes e Veneziano, o si riconoscono dopo il loro primo incontro a Palermo? I due, in carcere, ascoltano la cantilena in sabir, la lingua franca del Mediterraneo, che i ragazzi mori cantavano sotto le finestre dei bagni.
“Non rescatar, non fugir
Don Juan no venir
acà morir…”.
Cantilena riportata da Cervantes in Vita ad Algeri e ne I bagni di Algeri. Tutti e due avranno avuto catene alle caviglie e saranno stati vestiti allo stesso modo, il modo come Cervantes descrive il Prigioniero che entra con Zoraide nella locanda, “… il quale mostrava dagli abiti d’essere un cristiano giunto recentemente da terra di mori, perché era vestito d’una casacca di panno turchino, a falde corte, con mezze maniche e senza collo; anche i calzoni erano di tela turchina, e il berretto dello stesso colore”. Antonio Veneziano giunge in Algeri infiammato d’amore, pazzo d’amore: per la nipote Eufemia o per una bella e irraggiungibile signora? Signora che sarebbe stata, secondo gli studiosi Caterina e Giuseppe Sulli (Antonio Veneziano, Palermo, 1982), Felice Orsini Colonna, moglie di Marc’Antonio Colonna, il comandante della fl otta veneziana nella battaglia di Lepanto, allora viceré di Sicilia, al cui figlio, Ascanio, Cervantes, dedica La Galatea. Ad avanzare l’ipotesi della passione del Veneziano verso la viceregina c’è una ottava del poeta che così termina:
“Pirchi’ mi tratti comu li ‘nnimici?
Rimedia cu lu meghiu modu c’hai,
Filici, fi licissima, Filici”.
Là, nel bagno di Algeri, il Veneziano avrebbe scritto La Celia. E là, nel bagno, sembra che Cervantes abbia scritto Vita ad Algeri e incominciato la stesura de La Galatea. Inimmaginabili sono gli incroci della storia, nonché della poesia. Nel 1650, un gruppo di nobili siciliani congiurava contro il viceré don Giovanni d’Austria, vagheggiando di porre sul trono di un regno indipendente di Sicilia don Giuseppe Branciforti, conte di Mazarino e principe di Butera. La congiura falliva per la delazione del prete Simone Rao e per la confessione dello stesso Branciforti. Sei dei congiurati furono giustiziati. Il Branciforti lasciava quindi Palermo e si ritirava a Bagheria, tra la fenicia Sòlunto e la greca Imera, si faceva là costruire una villa e si chiudeva in quella sua dimora che era fortezza, castello, tomba non di libri e di salme come l’Escorial, ma di orgoglio umiliato e di rimorso. Sull’arco d’ingresso della villa faceva incidere un emistichio del Tasso, O corte a Dio, e oltre, sopra un altro arco, questi versi in spagnolo:
“Ya la esperanza es perdida
Y un solo bien me consuela
Que el tiempo que pasa y buela
Lleverà presto la vida”.
E sono i versi questi che recita Teolinda nel Libro primo de La Galatea di Cervantes. Ma ritorniamo al bagno di Algeri, ai due poeti là rinchiusi, Cervantes e Veneziano. Il monrealese, preso com’è dal “vendaval erótico”, come lo defi nisce Américo Castro, dalla bufera d’amore per la nipote Eufemia o per Felice Orsini, scrive là La Celia, e Cervantes (anche lui forse in quel momento nella bufera d’amore, se nel personaggio di Lauso de La Galatea dobbiamo riconoscere lo stesso autore), e Cervantes scrive là le Ottave per Antonio Veneziano. Veneziano viene riscattato nel 1579, e il cronista Ortolani così scrive:
“Fu fatta festa in Palermu pillu ricattu e ritornu di lu celebri
poeta Veneziano”.
Morirà poi, il povero poeta, il 19 agosto 1593, come sappiamo, per l’incendio (doloso, sembra) e lo scoppio della polveriera nel carcere di Castellamare. E morirà, in quello scoppio, anche Egisto Giuffredi, l’autore di Avvertimenti cristiani. Cervantes, riscattato, lasciava Algeri il 24 ottobre 1580. Dice ancora il Prigioniero del Don Chisciotte: “Non c’è sulla terra, secondo il mio parere, gioia che eguagli quella di conseguire la libertà perduta”. E sarà, quella di Cervantes, una vita libera, ma, come quella di prima della prigionia in Algeri, una vita molto tribolata. Nulla però gli impedirà di concepire (nel carcere di Siviglia o in quello di Castro del Rio -1592) e di scrivere quindi le avventure dell’ingegnoso hidalgo, di don Alonso Quijana, ribattezzatosi Don Chisciotte della Mancia, e del suo fi do scudiero Sancio Panza. Don Chisciotte, il primo grande romanzo della storia letteraria, uno dei grandi capolavori dell’umanità. Nel 2005 ricorreva il quarto centenario della prima pubblicazione del romanzo. E, nell’aprile di quell’anno, ad Alcalà de Henares, nella casa natale-museo di Cervantes, si inaugurava la mostra delle prime edizioni del Quijote, in cui compariva l’edizione del 1610, stampata a Milano “por el Heredero de Pedromartir Locarni y Juan Bautista Bidello”, e dedicata dal Cervantes, questa edizione, non più al conte di Bejar, ma “All’Ill.mo Señor el Sig. Conde Vitaliano Vizconde”. Abbiamo voluto sin qui raccontare della prigionia in Algeri di due poeti, Cervantes e Veneziano. Ma abbiamo anche voluto signifi care, soprattutto attraverso Cervantes, la terribile vita che si svolgeva allora, nel ‘500, tra le sponde del Mediterraneo, in questo spazio dove si svolge il grande poema omerico e dove sono nate le prime grandi civiltà della storia umana. Terribile vita allora, nel ‘500, tra le sponde del Mediterraneo. E terribile di nuovo oggi, dopo cinque secoli, per le tragedie quasi quotidiane che tra queste sponde si consumano. Tragedie di poveri infelici che fuggono da luoghi di guerra, di malattia e di fame e che cercano salvezza in questo nostro mondo di opulenza e di alienazione. Infelici che spesso trovano la morte per acqua, come l’eliotiano Phlebas il Fenicio, naufragano presso le sponde di Sicilia e di Spagna. E con dolore dunque possiamo ripetere le parole di Fernand Braudel, riferite all’età di Filippo II: “In tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato, e vi conosce tutte le miserie, gli orrori e le santità degli universi concentrazionari
03/11/2005 – La prigione dei destini incrociati: Miguel de Cervantes e Antonio Veneziano nei bagni di Algeri
Instituto Cervantes Napoli
14/04/2008 Universitat de Valencia. Spagna.La pasión por la lengua: VINCENZO CONSOLO
Antonio Veneziano e Miguel de Cervantes
Vincenzo Consolo
Antonello d’Antonio, figlio di Giovanni, maczonus, mastro
scalpellino, e di Garita. Nato a Messina nel 1430 circa e ivi morto
nel 1479. Pittore. Ebbe un fratello, Giordano, pittore, da cui nacquero
Salvo e Antonio, pittori; una sorella, Orlanda, e un’altra sorella,
di cui non si conosce il nome, sposata a Giovanni de Saliba,
intagliatore, da cui nacquero Pietro e Antonio de Saliba, pittori.
Antonello d’Antonio sposò Giovanna Cuminella ed ebbe tre figli,
Jacobello, pittore, Catarinella e Fimia.
Visse dunque solo quarantanove anni questo grande pittore
di nome Antonello, e, poco prima di morire di mal di punta, di
polmonite, dettò il 14 febbraio 1479, al notaro Mangiante, il testamento,
in cui, fra l’altro, disponeva che il suo corpo, in abito
di frate minore osservante, fosse seppellito nella chiesa di Santa
Maria del Gesù, nella contrada chiamata Ritiro. “Ego magister
Antonellus de Antonej pictor, licet infirmus jacens in lecto sanus
tamen dey gracia mente… iubeo (dispongo) quod cadaver meum
seppeliatur in conventu sancte Marie de Jesu cum habitu dicti
conventus…”. E non possiamo qui non pensare al testamento
di un altro grande siciliano, di Luigi Pirandello, che suonò, allora,
nelle sue laiche disposizioni, come sarcasmo o sberleffo nei
confronti di quel Fascismo a cui aveva aderito nel 1924: “Morto,
non mi si vesta. Mi s’avvolga, nudo, in un lenzuolo. E niente fiori
sul letto e nessun cero acceso. Carro d’infima classe, quello dei
poveri…”.
Ma torniamo al nostro Antonello. Fra scalpellini, intagliatori e
pittori, era, quella dei d’Antonio e parenti, una famiglia di artigiani
e artisti. Ma Messina doveva essere in quella seconda metà
del Quattrocento, una città piena d’artisti, locali, come Antonino
Giuffrè, che primeggiava nella pittura prima di Antonello, o venuti
da fuori. Dalla Toscana, per esempio. Ché Messina era città
fiorente, commerciava con l’Italia e l’Europa, esportava sete e
zuccheri nelle Fiandre, e il suo sicuro porto era tappa d’obbligo
nelle rotte per l’Africa e l’Oriente. Una città fortemente strutturata,
una dimora “storica”, d’alto livello e di sorte progressiva. E
certamente doveva essere meta di artigiani e artisti che lì volontariamente
approdavano o vi venivano espressamente chiamati.
E proprio parlando di Antonello d’Antonio, lo storico messinese
Caio Domenico Gallo (Annali della città di Messina, ivi 1758)
fu il primo ad affermare che “il di lui genitore era di Pistoja”. E
lo storico Gioacchino Di Marzo (Di Antonello da Messina e dei
suoi congiunti, Palermo, 1903), che cercò prove per far luce nella
leggendaria e oscura vita di Antonello (“[…] mi venne fatto d’imbattermi
in un filone, che condusse alla scoperta di una preziosa
miniera di documenti riguardanti Antonello in quell’Archivio Provinciale
di Stato […]”) il Di Marzo dicevamo, che così ancora scrive:
“L’asserzione del Gallo, che il sommo Antonello sia stato figlio
di un di Pistoia, non poté andare a sangue ai messinesi cultori di
patrie memorie, fervidi sempre di vivo patriottismo, vedendo così
sfuggirsi il vanto ch’egli abbia avuto origine da messinese casato
e da pittori messinesi ab antico”. Che fecero dunque questi cultori
di patrie memorie o questi campanilisti? Tolsero dei quadri
ad Antonello e li attribuirono ai suoi fantomatici antenati, falsificando
date, affermando che già nel 1173 e nel 1276 c’erano stati
un Antonellus Messanensis e un Antonello o Antonio d’Antonio
che rispettivamente avevano lasciato un polittico nel monastero
di San Gregorio e un quadro di San Placido nella cattedrale, pretendendo
così che la pittura si fosse sviluppata in Messina prima
che altrove, meglio che in Toscana…
Il primo di questi fantasiosi storici fu Giovanni Natoli Ruffo,
che si celava sotto lo pseudonimo di Minacciato, cui seguì il prete
Gaetano Grano che fornì le sue “invenzioni” al prussiano Filippo
Hackert per il libro Memorie dei pittori messinesi (Napoli, 1792),
e infine Giuseppe Grosso Cacopardo col suo libro Memorie dei
pittori messinesi e degli esteri, che in Messina fiorirono, dal secolo
XII sino al secolo XIX, ornate di ritratti (Messina, 1821).
Strana sorte ebbe questo nostro Antonello, ché la sua pur breve
vita, già piena di vuoti, di squarci oscuri e irricostruibili, è
stata campo d’arbitrarii ricami, romanzi, fantasie. E cominciò a
romanzare su Antonello Giorgio Vasari (Vite dei più eccellenti
architetti, pittori e scultori italiani da Cimabue infino a’ tempi nostri,
1550-1568), il Vasari, di cui forse il nodo più vero è quell’annotazione
d’ordine caratteriale: “persona molto dedita a’ piaceri e
tutta venerea”, per cui Leonardo Sciascia ironicamente ricollega
l’indole di Antonello agli erotomani personaggi brancatiani.
La breve vita di Antonello viene, per così dire, slabbrata ai
margini, alla nascita e alla morte, falsificata, dilatata: negli antenati
e nei discendenti, con l’attribuzione di quadri suoi ai primi e
quadri dei secondi a lui. Ma sorte più brutta ebbero le sue opere,
specie quelle dipinte in Sicilia, a Messina e in vari paesi, di cui
molte andarono distrutte o irrimediabilmente danneggiate o presero
la fuga nelle parti più disparate del mondo. E l’annotazione
meno fantasiosa che fa nella Introduzione alle Memorie dei pittori
messinesi… il Grosso Cacopardo è quella della perdita subita
da Messina di una infinità di opere d’arte per guerre, invasioni,
epidemie, ruberie, terremoti. Dei quali ultimi egli ricorda “l’orribile
flagello de’ tremuoti del 1783, che rovesciando le chiese, ed
i palagi distrussero in gran parte le migliori opere di scultura e
di pennello”. Non avrebbe mai immaginato, il Grosso Cacopardo,
che un altro e più terribile futuro flagello, il terremoto del
28 dicembre 1908, nonché distruggere le opere d’arte, avrebbe
distrutto ogni possibile ricordo, ogni memoria di Messina. Due
testimoni d’eccezione ci dicono del primo e del secondo terremoto:
Wolfgang Goethe e David Herbert Lawrence. Scrive Goethe
nel suo Viaggio in Italia, visitando Messina, tre anni dopo il
terremoto del 1783: “Una città di baracche… In tali condizioni si
vive a Messina già da tre anni. Una simile vita di baracca, di capanna
e perfin di tende influisce decisamente anche sul carattere
degli abitanti. L’orrore riportato dal disastro immane e la paura
che possa ripetersi li spingono a godere con spensierata allegria
i piaceri del momento”.
E Lawrence, nel suo Mare e Sardegna, così scrive dopo il terremoto
del 1908: “Gli abitanti di Messina sembrano rimasti al punto
in cui erano quasi vent’anni fa, dopo il terremoto: gente che ha
avuto una scossa terribile e che non crede più veramente nelle
istituzioni della vita, nella civiltà, nei fini”.
E alle osservazioni di quei due grandi qui mi permetto di aggiungere
una mia digressione su Messina: “Città di luce e d’acqua,
aerea e ondosa, riflessione e inganno, Fata Morgana e sogno,
ricordo e nostalgia. Messina più volte annichilita. Esistono miti e
leggende, Cariddi e Colapesce. Ma forse vi fu una città con questo
nome perché disegni e piante (di Leida e Parigi, di Merian e
Juvarra) riportano la falce a semicerchio di un porto con dentro
velieri che si dondolano, e mura, colli scanditi da torrenti e coronati
da forti, e case e palazzi, chiese, orti… Ma forse, dicono quei
disegni, di un’altra Messina d’Oriente. Perché nel luogo dove si
dice sia Messina, rimane qualche pietra, meno di quelle d’Ilio o
di Micene. Rimane un prato, in direzione delle contrade Paradiso
e Contemplazione, dove sono sparsi marmi, calcinati e rugginosi
come ossa di Golgota o di campo d’impiccati. E sono angeli mutili,
fastigi, blocchi, capitelli, stemmi… Tracce, prove d’una solida
storia, d’una civiltà fiorita, d’uno stile umano cancellato… Deve
dunque essere successo qualche cosa, furia di natura o saccheggio
d’orde barbare. Ma a Messina, dicono le storie, nacque un
pittore grande di nome Antonio d’Antonio. E deve essere così se
ne parlano le storie. Egli stesso poi per affermare l’esistenza di
questa sua città, usava quasi sempre firmare su cartellino dipinto
e appuntato in basso, a inganno d’occhio, “Antonellus messaneus
me pinxit”. E dipingeva anche la città, con la falce del porto, i
colli di San Rizzo, le Eolie all’orizzonte, e le mura, il forte di Rocca
Guelfonia, i torrenti Boccetta, Portalegni, Zaera, e la chiesa di
San Francesco, il monastero del Salvatore, il Duomo, le case, gli
orti…”.
Gli orti… E la luce, la luce del cielo e del mare dello Stretto,
dietro finestre d’Annunciazioni, sullo sfondo di Crocifissioni e
di Pietà. E i volti. Volti a cuore d’oliva, astratti, ermetici, lontani;
carnosi, acuti e ironici; attoniti e sprofondati in inconsolabili
dolori; e corpi, corpi ignudi, distesi o contorti, piagati o torniti
come colonne. Tanta grandezza, tanta profondità e tali vertici
non si spiegano se non con una preziosa, spessa sedimentazione
di memoria. Ma di memoria illuminata dal confronto con altre
realtà, dopo aver messo giusta distanza tra sé e tanto bagaglio,
giusto equilibrio tra caos e ordine, sentimento e ragione, colore
e geometria.
E’apprendista a Napoli, alla scuola del Colantonio, in quella
Napoli cosmopolita di Renato d’Angiò e Alfonso d’Aragona, dove
s’incontra con la pittura dei fiamminghi, dei provenzali, dei catalani,
di Van Eyck e di Petrus Christus, di Van der Weyden, di Jacomar
Baço, di altri. E soggiorna poi a Venezia, “alla grand’aria”,
come dice Verga, in quella città, dove s’incontra con altra pittura,
altra luce e altri colori, altra “prospettiva”; incontra la pittura di
Piero della Francesca, Giovanni Bellini… Ed il ritorno poi in Sicilia,
nell’ultimo scorcio della sua vita, dove dipinge pale d’altare, e
gonfaloni, ritratti, a Messina, a Palazzolo Acreide, a Caltagirone,
a Noto, a Randazzo e, noi crediamo, a Lipari. Ma molte, molte
delle opere di Antonello in Sicilia si sono perse, per incuria, vendita,
distruzione. Su Antonello era calato l’oblìo. Vasari, sì, aveva
tracciato una biografia fantasiosa e, dietro di lui altri, come quei
correttori di date che avevano attribuito i suoi quadri a fantomatici
antenati.
Fu per primo Giovambattista Cavalcaselle, un critico e storico
dell’arte, a riscoprire Antonello da Messina, a far comprendere la
distanza fra l’Antonello delle fonti e l’Antonello dei dipinti. Era
esule a Londra, il Cavalcaselle, fuoruscito per ragioni politiche.
Aveva partecipato alla rivoluzione di Venezia del 1848, e quindi,
nelle file mazziniane e garibaldine, alla difesa della Repubblica
Romana contro l’assalto dei francesi. Rischioso e temerario dunque
il suo ritorno in Italia, il suo viaggio clandestino che parte
dal Nord e arriva fino al Sud, alla Sicilia. “Come Antonello, con il
suo complesso iter, aveva abbattuto barriere regionali e nazionali,
così per riscoprirlo era necessario fare un’operazione culturale affine:
essa è svolta proprio dai molteplici interessi del Cavalcaselle”,
scrive la giovane studiosa Chiara Savettieri nel suo Antonello
da Messina: un percorso critico.
Cavalcaselle giunge a Palermo nel marzo del 1860 (l’11 aprile
di quello stesso anno Garibaldi sbarcherà con i suoi Mille a
Marsala) e, dopo le tappe intermedie, fatte a dorso di mulo, di
Termini Imerese, Cefalù, Milazzo, Castrogiovanni, Catania, giungerà
a Messina, da dove scrive al suo amico inglese Joseph Crowe,
assieme al quale firmerà il libro Una nuova storia della pittura in
Italia dal II al XVI secolo: “Caro mio, credo sia pura invenzione
del Gallo tutte le opere date al Avo, al Zio, al padre d’Antonello,
ed abbia di suo capriccio inventato una famiglia di pittori, mentre
quanto rimane delle opere attribuite a quei pittori sono di chi ha
tenuto dietro Antonello e non di chi lo ha preceduto”.
Cavalcaselle legge e autentica i quadri di Antonello, quindi,
due studiosi, il palermitano Gioacchino di Marzo e il messinese
Gaetano La Corte Cailler, rinvengono nell’Archivio Provinciale di
Stato di Messina documenti riguardanti Antonello, dai contratti di
committenze fino al suo testamento.
Pubblicheranno, i due, quei documenti, nei loro rispettivi libri
(Di Antonello da Messina e dei suoi congiunti – Antonello da
Messina. Studi e ricerche con documenti inediti) pubblicheranno
nel 1903, salvando così quei preziosi documenti dal disastro del
terremoto di Messina del 1908.
Dopo Cavalcaselle, Di Marzo e La Corte Cailler, gli studiosi
finalmente riscoprono e studiano Antonello. E sono Bernard Berenson,
Adolfo e Lionello Venturi, Roberto Longhi, Stefano Bòttari,
Jan Lauts, Cesare Brandi, Giuseppe Fiocco, Giorgio Vigni,
Fernanda Wittengs, Federico Zeri, Rodolfo Pallucchini, Fiorella
Sricchi Santoro, Leonardo Sciascia, Gabriele Mandel e tanti, tanti
altri, fino a Mauro Lucco, che ha curato nel 2006 la straordinaria
mostra di Antonello alle Scuderie del Quirinale, in Roma, fino
alla giovane studiosa Chiara Savetteri, che mi ha fatto scoprire,
leggendo il suo libro Antonello da Messina (Palermo, 1998)
l’incontro, a Cefalù, nel 1860, tra Cavalcaselle ed Enrico Pirajno
di Mandralisca, il possessore del Ritratto d’ignoto, detto popolarmente
dell’ignoto marinaio, di Antonello. E scriverà quindi il
Cavalcaselle a Mandralisca: “[…] il solo Antonello da me veduto
fino ad ora in Sicilia è il ritratto ch’ella possiede”. Dicevo che la
Savettieri mi ha fatto scoprire, nel 1996, l’incontro tra il barone
Mandralisca, malacologo e collezionista d’arte, e il Cavalcaselle.
Scopro -di questo incontro che sarebbe stato sicuramente un altro
capitolo del mio romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio (Torino,
1976)- di cui è protagonista Enrico Pirajno di Mandralisca
e il cui tema portante è appunto il Ritratto d’ignoto di Antonello,
che io chiamo dell’Ignoto marinaio. Il marinaio mi serviva nella
trama del romanzo, ma è per primo l’Anderson che dà questo
titolo al ritratto ch’egli fotografa nel 1908, raccogliendo la tradizione
popolare.
Il primo capitolo apparve su «Nuovi Argomenti». L’avevo mandato
prima a «Paragone», la rivista di Roberto Longhi e Anna
Banti, perché il tema che faceva da leitmotiv era il ritratto di
Antonello. Longhi, in occasione della mostra del ’53 a Messina
di Antonello aveva scritto un bellissimo saggio dal titolo Trittico
siciliano. Nessuno mi rispose. Mel ’69 venne a Milano Longhi per
presentare la ristampa del suo Me pinxit e quesiti caravaggeschi.
Lo avvicinai «Mi chiamo Consolo» gli dissi «ho mandato un racconto
a Paragone…». Mi guardò con severità, mi rispose: «Sì, sì mi
ricordo benissimo. Non discuto il valore letterario, però questa
storia del ritratto di Antonello che rappresenta un marinaio deve
finire!». Longhi, nel suo saggio, polemizzava con la tradizione
popolare che chiamava il ritratto del museo di Cefalù «dell’ignoto
marinaio», sostenendo, giustamente, che Antonello, come gli altri
pittori allora, non faceva quadri di genere, ma su commissione,
e si faceva ben pagare. Un marinaio mai avrebbe potuto pagare
Antonello. Quello effigiato lì era un ricco, un signore.
Lo sapevo, naturalmente, ma avevo voluto fargli «leggere» il
quadro non in chiave scientifica, ma letteraria. Mandai quindi il
racconto a Enzo Siciliano, che lo pubblicò su «Nuovi Argomenti».
Mi scriveva da Genova, in data 13 novembre 1997 il professor
Paolo Mangiante, discendente di quel notaro Mangiante che
nel 1479 stese il testamento di Antonello. Scriveva: “Accludo anche
alcune schede del catalogo della Mostra su Antonello da
Messina che credo possano rivestire un certo interesse per lei,
riguardano rogiti di un mio antenato notaro ad Antonello per il
suo testamento e per commissioni di opere pittoriche. Particolare
interesse potrebbe rivestire il rogito del notaro Paglierino a certo
Giovanni Rizo di Lipari per un gonfalone, perché si potrebbe
ipotizzare che il suddetto Rizo sia il personaggio effigiato dallo
stesso Antonello e da lei identificato come l’Ignoto marinaio. Del
resto, a conciliare le sue tesi con le affermazioni longhiane sta
la constatazione, dimostrabile storicamente, che un personaggio
notabile di Lipari, nobile o no, non poteva non avere interessi
marinari, e in base a quelli armare galere e guidare lui stesso le
sue navi come facevano tanti aristocratici genovesi dell’epoca,
nobili sì talora, ma marinai e pirati sempre”.
Il movimento di Cavalcaselle, ho sopra detto, è da Londra al
Nord d’Italia, fino in Sicilia, sino a Cefalù; il mio, è di una dimensione
geografica molto, molto più piccola (da un luogo a un
altro di Sicilia) e di una dimensione culturale tutt’affatto diversa.
E qui ora voglio dire del mio incontro con Antonello, con il mio
Ritratto d’ignoto.
In una Finisterre, alla periferia e alla confluenza di province,
in un luogo dove i segni della storia s’erano fatti labili, sfuggenti,
dove la natura, placata -immemore di quei ricorrenti terremoti
dello Stretto, immemore delle eruzioni del vulcano, dell’Etna- la
natura qui s’era fatta benigna, materna. In un villaggio ai piedi
dei verdi Nèbrodi, sulla costa tirrenica di Sicilia, in vista delle
Eolie celesti e trasparenti, sono nato e cresciuto.
In tanta quiete, in tanto idillio, o nel rovesciamento d’essi, ritrazione,
malinconia, nella misura parca dei rapporti, nei sommessi
accenti di parole, gesti, in tanta sospensione o iato di natura e
di storia, il rischio era di scivolare nel sonno, perdersi, perdere il
bisogno e il desiderio di cercare le tracce intorno più significanti
per capire l’approdo casuale in quel limbo in cui ci si trovava. E
poiché, sappiamo, nulla è sciolto da causa o legami, nulla è isola,
né quella astratta d’Utopia, né quella felice del Tesoro, nella viva
necessità di uscire da quella stasi ammaliante, da quel confine,
potevo muovere verso Oriente, verso il luogo del disastro, il cuore
del marasma empedocleo in cui s’erano sciolti e persi i nomi
antichi e chiari di Messina, di Catania, muovere verso la natura,
l’esistenza. Ma per paura di assoluti ed infiniti, di stupefazioni e
gorgoneschi impietrimenti, verghiani fatalismi, scelsi di viaggiare
verso Occidente, verso i luoghi della storia più fitta, i segni più
incisi e affastellati: muovere verso la Palermo fenicia e saracena,
verso Ziz e Panormo, verso le moschee, i suq e le giudecche, le
tombe di porfido di Ruggeri e di Guglielmi, la reggia mosaicata
di Federico di Soave, il divano dei poeti, il trono vicereale di
corone aragonesi e castigliane, all’incrocio di culture e di favelle
più diverse. Ma verso anche le piaghe della storia: il latifondo e
la conseguente mafia rurale.
Andando, mi trovai così al suo preludio, la sua epifania, la
sua porta magnifica e splendente che lasciava immaginare ogni
Palermo o Cordova, Granata, Bisanzio o Bagdad. Mi trovai così
a Cefalù. E trovai a Cefalù un uomo che molto prima di me, nel
modo più simbolico e più alto, aveva compiuto quel viaggio dal
mare alla terra, dall’esistenza alla storia, dalla natura alla cultura:
Enrico Pirajno di Mandralisca. Recupera, il Mandralisca, in una
spezieria di Lipari, il Ritratto d’ignoto di Antonello dipinto sul
portello di uno stipo.
Il viaggio del Ritratto, sul tracciato d’un simbolico triangolo,
avente per vertici Messina, Lipari e Cefalù, si caricava per me allora
di vari sensi, fra cui questo: un’altissima espressione di arte e di
cultura sbocciata, per mano del magnifico Antonello, in una città
fortemente strutturata dal punto di vista storico qual era Messina
nel XV secolo, cacciata per la catastrofe naturale che per molte
volte si sarebbe abbattuta su Messina distruggendola, cacciata in
quel cuore della natura qual è un’isola, qual è la vulcanica Lipari,
un’opera d’arte, quella di Antonello, che viene quindi salvata
e riportata in un contesto storico, nella giustezza e sicurezza di
Cefalù. E non è questo poi, tra terremoti, maremoti, eruzioni di
vulcani, perdite, regressioni, follie, passaggi perigliosi tra Scilla e
Cariddi, il viaggio, il cammino tormentoso della civiltà?
Quel Ritratto d’uomo poi, il suo sorriso ironico, “pungente e
nello stesso tempo amaro, di uno che molto sa e molto ha visto,
sa del presente e intuisce del futuro, di uno che si difende dal
dolore della conoscenza e da un moto continuo di pietà”, quel Ritratto
era l’espressione più alta, più compiuta della maturità, della
ragione. Mandralisca destinerà per testamento la sua casa della
strada Badia, i suoi libri, i suoi mobili, la sua raccolta di statue
e vasi antichi, di quadri, di conchiglie, di monete, a biblioteca e
museo pubblico.
Fu questo piccolo, provinciale museo Mandralisca il mio primo
museo. Varcai il suo ingresso al primo piano, non ricordo più
quando, tanto lontano è nel tempo, varcai quella soglia e mi trovai
di fronte a quel Ritratto, posto su un cavalletto, accanto a una
finestra. Mi trovai di fronte a quel volto luminoso, a quel vivido
cristallo, a quella fisionomia vicina, familiare e insieme lontana,
enigmatica: chi era quell’uomo, a chi somigliava, cosa voleva significare?
“Apparve la figura di un uomo a mezzo busto. Da un
fondo scuro, notturno, di lunga notte di paura e incomprensione,
balzava avanti il viso luminoso […] L’uomo era in quella giusta
età in cui la ragione, uscita salva dal naufragio della giovinezza,
s’è fatta lama d’acciaio, che diverrà sempre più lucida e tagliente
nell’uso ininterrotto. […] Tutta l’espressione di quel volto era fissata,
per sempre, nell’increspatura sottile, mobile, fuggevole dell’ironia,
velo sublime d’aspro pudore con cui gli esseri intelligenti
coprono la pietà”.
Ragione, ironia: equilibrio difficile e precario. Anelito e chimera
in quell’Isola mia, in Sicilia, dov’è stata da sempre una caduta
dopo l’altra, dove il sorriso dell’Ignoto si scompone e diviene
sarcasmo, pianto, urlo. Diviene Villa dei Mostri a Bagheria, capriccio,
locura, pirandelliano smarrimento dell’io, sonno, sogno,
ferocia. Diviene disperata, goyesca pinturas negras, Quinta del
Sordo.
Ma è dell’Isola, della Sicilia che dice il Ritratto di Antonello o
dice del degradato Paese che è l’Italia, dice di questo nostro tremendo
mondo di oggi?
Milano, 20 ottobre 2006