Contro l’«im-mondo» dei morti in mare, il dialogo tra i popoli. Le parole di Vincenzo Consolo

Mediterraneo (ph. Claudio Masetta Milone)

di Ada Bellanova 

Nostri questi morti dissolti/ nelle fiamme celesti, / questi morti sepolti/ sotto tumuli infernali, nostre le carovane d’innocenti / sopra tell di ceneri e di pianti. / Nostro questo mondo di follia. Quest’im-mondo che s’avvia...[1]

In questi versi, di Frammento, Consolo accusa l’umanità intera, inchiodandola alle proprie responsabilità di fronte alla morte di innocenti: lo fa definendo «nostro» sia lo spazio stravolto del pianeta e della contemporaneità – l’ «im-mondo» – sia la massa di cadaveri che ne sono vittime. Non si fa fatica a leggere in questo breve e raro testo poetico soprattutto l’indignazione per le morti generate da guerre e migrazione nel mare nostrum, quel mare in cui, come scrive Braudel, più volte citato, «l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato» [2].

Penso che oggi, di fronte ai nuovi, continui sbarchi, di fronte ai nuovi morti in mare, alle politiche europee ancora non risolutive e divisive, ma anche di fronte ai nuovi conflitti, Consolo avrebbe simili, se non identiche, parole di indignazione. Mi vengono in mente altri versi però, anche questi poco noti, che mi sembra possano costituire una sintesi dell’alternativa all’«im-mondo» proposta dall’intellettuale, proposta sempre valida, tanto più per chi abita il Mediterraneo. 

Sei nato dal carrubo
e dalla pietra
da madre ebrea
e da padre saraceno.
S’è indurita la tua carne
alle sabbie tempestose
del deserto,
affilate si sono le tue ossa
sui muri a secco
della masseria.
Brillano granatini
sul tuo palmo
per le punture
delle spinesante [3].

 Mi piace pensare che con l’ignoto “tu” Consolo alluda ad un’identità sua e di tutti i figli del Mediterraneo, un’identità non priva di sofferenze, nata da una relazione vecchia di secoli con la terra, le piante, i muri a secco, con i paesaggi, soprattutto un’identità nata dagli incroci («sei nato da madre ebrea / e da padre saraceno»). 

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Il Mediterraneo di Consolo

La riflessione sulla complessità del Mediterraneo è il filo conduttore di tutta l’opera di Consolo e si innesta sulle considerazioni a proposito della varietà e della molteplicità che caratterizzano la storia, l’ambiente, il patrimonio della Sicilia [4]. Come estremamente significativo è nell’Isola il flusso incessante di energie umane e culturali, che hanno condizionato e condizionano il paesaggio, accostando e sovrapponendo più identità [5], allo stesso modo l’intero Mediterraneo è amalgama, crocevia di popoli differenti, non solo territorio della conflittualità ma anche patrimonio ricchissimo, possibilità della relazione e dello scambio.  

Dello spazio estremamente vario e molteplice Consolo coglie caratteri ricorrenti, corrispondenze e somiglianze: memoria di paesaggi noti, conoscenze geografiche, storia della rappresentazione si intrecciano nel proporre associazioni relative al patrimonio naturalistico, considerazioni sulle fragilità degli spazi urbani e sui problemi ecologici. Tutto il Mediterraneo è, ad esempio, regno solare degli aranci [6]; pini, ulivi, fichi e vigne caratterizzano il paesaggio balcanico ma anche quello greco, siciliano, turco [7]; le colline rocciose della Palestina somigliano a quelle degli Iblei siciliani [8]. Città, anche distanti, sono accomunate dalla fatica nella gestione della verticalità, della stratificazione, dal segno della decadenza a contatto con la modernità: la Casbah di Algeri è come il centro storico di Palermo [9], il paesaggio urbano siracusano somiglia a quello di Salonicco [10]. L’intero Mediterraneo, poi, è segnato da «piccoli luoghi antichi e obliati», dove natura e resti del passato si intrecciano [11] e che sono privi dell’attenzione che invece sarebbe doverosa.

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In questo scenario complesso l’uomo si macchia infatti della colpa dell’incuria nei confronti del patrimonio naturalistico e culturale. Ma ancor di più è responsabile della violenza contro la vita umana, in svariate forme. Il Mediterraneo è, per Consolo, spazio della conflittualità: Palermo, in preda alle lotte di mafia, è come Beirut [12]; Comiso, coi suoi missili Cruise, rappresenta la minaccia costante della violenza tra popoli [13]; l’integralismo del Maghreb stravolge la preghiera nella violenza brutale delle armi [14]; uno «scenario apocalittico, sconvolgente», un «paesaggio di macerie» [15] caratterizzano la Sarajevo del 1997; infernale è la Palestina, visitata dall’autore con altri membri del PIE nel 2002 [16]. Soprattutto il mare nostrum è teatro della violenza nei confronti dei migranti.

Alla rappresentazione del loro destino concorre l’uso del mito antico. I migranti, infatti, ripetono il tormento del vagare di Ulisse, che non è proposto come l’eroe del ritorno – tanto più che non si può più tornare davvero nella terra da cui si è partiti – ma è piuttosto il naufrago, l’esule senza nome alla corte del re dei Feaci [17]; essi sono Enea in fuga da una terra in fiamme, sono Troiane, fatte schiave e costrette ad allontanarsi dalla propria patria [18].

Ma ancor di più i versi eliotiani di Morte per acqua riescono a parlare della realtà contemporaneaIn Retablo l’episodio in cui la statua dell’Efebo di Mozia si perde nel mare suscita la riflessione su un’altra perdita, ben più grave, quella delle vite umane che in ogni tempo si sono spente e si spengono nell’acqua, «sciolte nelle ossa» come Phlebas il fenicio [19]. In L’olivo e l’olivastro la citazione si lega esplicitamente al ricordo della morte del giovane Bugawi, morto nel 1981 per il naufragio del Ben Hur e condannato a rimanere per sempre in fondo al mare [20]. Anche i naufraghi di Scoglitti [21] sono Phlebas il fenicio, e lo sono tutti i morti del Mediterraneo, tutti quelli che barconi stracarichi e responsabilità umane hanno lasciato affogare [22].

Pagina del manoscritto con la citazione di Braudel

Già in un testo del ‘90 Consolo evidenzia l’ampliamento smisurato del braccio di mare tra Sicilia e Nord Africa [23]: l’autore osserva un confine laddove prima non c’era «frontiera, barriera fra due mondi, ma una via di comunicazione e di scambio» [24]. Non è un caso che si riferisca in più occasioni all’emigrazione di lavoratori di Sicilia, di Calabria o di Sardegna nelle terre degli «infedeli», all’emigrazione specie ottocentesca fatta anche di intellettuali e borghesi [25]. La sua insistenza va considerata in relazione al suo interesse per quell’emigrazione africana in Italia che ha avuto origine negli anni Sessanta e che non si è più arrestata. Le riflessioni a tal proposito sono estremamente lucide e inquadrano precocemente la questione. 

I primi lavoratori tunisini, forniti del semplice passaporto con il visto turistico e sprovvisti di quell’autorizzazione che permetteva un regolare contratto di lavoro, giungevano in Sicilia nel 1968. La presenza di questi primi immigrati, costretti a ritornare in patria alla scadenza del visto turistico, rispondeva alla domanda di lavoro a buon mercato da parte di proprietari terrieri e di armatori, per i quali reclutare questa manodopera e sfruttarne la condizione abusiva era senza dubbio un vantaggio.  Ai primi immigrati si aggiunsero allora parenti e amici e il fenomeno si allargò [26].

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«L’emigrazione in Italia dei poveri del Terzo Mondo» [27] ha inizio a Mazara, città che il 17 giugno 827 – ricorda Consolo citando Amari – accolse lo sbarco dei musulmani [28]. A distanza di secoli il miracolo economico degli anni Sessanta attiva di nuovo la rotta dal Nord Africa [29] che va a riempire i vuoti lasciati dall’altro flusso migratorio, quello dei meridionali verso il Nord. Anche se il caso di Mazara ha una sua indiscussa esemplarità, il fenomeno già all’origine riguarda un po’ tutto il trapanese: una terra che ha più di un tratto in comune con la regione di partenza [30]. Ma mentre, accennando alla somiglianza geografica e culturale delle due rive del Mediterraneo, porta l’attenzione sulla vicinanza tra i popoli e sui risvolti positivi dello scambio del passato, Consolo fa emergere la stortura del presente e individua in questa nuova migrazione l’inizio di una lunga serie di episodi di xenofobia e persecuzione [31].

Nel 1999, in Di qua dal faro, l’intellettuale già lamenta l’assenza di previsioni, progettazioni, di accordi tra governi [32]. Gli articoli successivi, suscitati in particolare dalla legge Bossi-Fini, si concentrano sul contrasto evidentissimo, soprattutto a Lampedusa e nelle altre Pelasgie, tra l’opulenza del turismo nella natura incontaminata e la disperazione dell’approdo dei migranti [33]. Il procedimento antifrastico con cui Consolo si finge sostenitore delle ragioni dei ricchi vacanzieri contro gli sbarchi invadenti degli stranieri evidenzia lo stridere dei due mondi: «Ma lì, a Lampedusa, inopinatamente vi giungono anche, mannaggia, gli emigranti clandestini»[34]. Così la bella Lampedusa diventa scenario di guerra contro l’infedele, come nel poema ariostesco. Nel Duemila l’isola, divenuta da «remoto scoglio», «meta ambitissima del turismo esclusivo», è luogo d’approdo di pescherecci e gommoni che rovesciano «i nuovi turchi, i nuovi invasori saracini», ovvero il carico di clandestini [35]. E – ancora è dominante l’antifrasi –, se non ci sono gli antichi paladini a combatterli e neppure le navi militari auspicate da Bossi, c’è però il mare che s’infuria e travolge ogni imbarcazione [36].

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Assurde si rivelano le leggi per gestire gli arrivi e, se già prima della Bossi-Fini, Consolo lamentava la violazione sistematica dei diritti dell’uomo, dopo il 2002 è ancora più duro. Bersaglio polemico sono le nuove normative, più rigide: le nuove disposizioni prevedono che le carrette siano bloccate in acque extraterritoriali, «forse anche speronate e affondate. Con tutto il loro carico umano» [37]. Bersaglio polemico sono i centri di prima accoglienza che – scrive – non meriterebbero questo nome, perché piuttosto di lager si tratta, luoghi atroci, di violenza e umiliazione [38]. Bersaglio polemico è la diffusione di sentimenti xenofobi, suscitati dalla politica nella mentalità comune, ben rappresentata dall’io narrante del racconto eponimo di La mia isola è Las Vegas che invoca la costruzione di muri d’acciaio per arrestare la marea dei migranti [39].

In quest’ottica di critica alla nuova legge e all’inadempienza del dovere morale verso i migranti va letta la netta opposizione di Consolo al progetto di un museo della migrazione a Lampedusa, promosso nel 2004 dalla deputata regionale dell’Udc Giusy Savarino. A lei l’autore si rivolge pubblicamente, accusando l’ipocrisia profonda di una tale iniziativa [40] e riflettendo su quanto sia irrimediabilmente compromessa l’identità dello spazio mediterraneo. Niente rimane del mare di miti e storia, niente della straordinaria convivenza tra culture diverse. Il monito dei reperti archeologici, delle narrazioni risulta poca cosa di fronte al mutamento dello sguardo collettivo sancito dalle leggi e ai lager mascherati da centri di accoglienza: il mare si è fatto frontiera, confine, che gli altri, gli stranieri, non devono superare. Ed è contemporaneamente cimitero, spazio del sacrificio, della tragedia. Perciò il progetto di un museo a Lampedusa è, per Consolo, strumento di una retorica ipocrita, che non è giusto appoggiare: che senso avrebbe un monumento all’emigrazione, quando proprio i migranti vengono combattuti, respinti, lasciati morire in mare?   

Divenuto, nei fatti, confine, limite, addirittura cimitero a causa della grande quantità di morti, il mare potrebbe essere, invece, occasione di arricchimento in virtù dello scambio tra popoli. È un’immagine ideale, eppure realizzabile, quella che Consolo propone, insistendo su una storia di civiltà, quella siciliana in particolare, che ha la radice della sua grandezza proprio nell’incontro tra le differenze: se l’isola è divenuta luogo di approdo dei migranti che provano a sfuggire alla guerra, alla persecuzione o alla povertà, non si deve dimenticare che il progresso, quello vero, è sempre figlio dell’arricchimento che proviene dall’alterità. Lo dimostrano gli straordinari effetti della dominazione araba in Sicilia, a cui Consolo riconosce, sulla base di un ricco corredo di fonti e seguendo l’opinione di Sciascia, un valore fondante in termini di identità [41]. Non a caso l’insistenza sulla presenza degli Arabi nell’Isola si traduce nella frequente celebrazione delle innovazioni in ambito agricolo, tecnico, delle trasformazioni in ambito artistico-culturale.

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Che l’arrivo di nuovi popoli – tutti, non solo gli Arabi – produca progresso è poi testimoniato per l’autore anche da migrazioni più antiche come dimostra l’entusiastica rappresentazione della Sicilia come museo a cielo aperto, che accoglie rovine del passato, città greche, elime, puniche. Numerosi sono i riferimenti alla nascita delle colonie, a volte molto precisi, con indicazione dell’ecista, del territorio di origine, degli sviluppi della vicenda coloniale, sulla base dei dati forniti da fonti antiche, come l’opera di Tucidide, o su testi più recenti che rinviano però alla storiografia greca: testi saggistici e prove narrative offrono una rappresentazione della Sicilia e del Mediterraneo che ne valorizza l’aspetto di crocevia di popoli e, concentrandosi sulle migrazioni dell’antichità, impostano un implicito confronto con gli spostamenti della contemporaneità, riconoscendovi ragioni identiche o simili, ovvero guerra, fame, difficoltà economiche.

Ne L’olivo e l’olivastro [42], ad esempio, Consolo si sofferma sull’emigrazione megarese verso la parte orientale dell’isola. La visita ai resti di Megara Hyblaea, assediata dall’orrendo polo industriale siracusano, suscita una rievocazione estremamente positiva dell’opera dell’ecista Lamis, dell’idea di uguaglianza e progresso dei coloni, della fertilità e della geometria nella suddivisione del terreno in lotti. All’enfasi sulla fondazione Consolo aggiunge il plauso per le capacità che i Megaresi, scacciati dai Corinzi di Siracusa, dimostrarono, affrontando l’ignoto della Sicilia occidentale dove fondarono Selinunte [43]. Se poi, in La Sicilia passeggiata, il mistero sull’origine di Segesta richiama i versi 755-758 del V libro dell’Eneide che, con il cenno alla costruzione del tempio di Venere sul monte Erice, fanno riferimento alla ktisis [44], questo accade perché allo scrittore interessa evidenziare la conseguente fusione tra popolazione straniera migrante (i Troiani) e popolazione locale (gli Elimi).

Risulta chiaro allora che per Consolo gli incontri, gli scambi tra popoli di culture diverse sono stati da sempre causa del cammino della civiltà, e che la chiusura, il rifiuto dell’ignoto che arriva da fuori, è perdita, regressione [45].Perciò, egli, servendosi di una frase di Zanzotto, «Ci troviamo oggi tra un mare di catarro e un mare di sperma», descrive il vecchio continente come scioccamente arroccato nelle sue posizioni. Vecchia davvero è l’Europa, vecchia l’Italia, non solo per l’età media della popolazione, ma per una cecità di fronte all’arrivo delle masse disperate dei profughi che non riconosce la ricchezza dell’accoglienza e addirittura produce morboso attaccamento ai privilegi, difesi con pericolosi atteggiamenti xenofobi [46].

All’imperativo dell’accoglienza umanitaria, a cui implicitamente alludono nell’articolo Gli ultimi disperati del canale di Sicilia le immagini tremende del mare-cimitero («bare di ferro nei fondali del mare») e dell’orrenda pesca dei morti («i corpi degli annegati nelle reti dei pescatori siciliani»), Consolo aggiunge la necessità di una valutazione delle possibilità economiche e culturali, persino letterarie, che derivano dai flussi di migranti. 

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Conclusioni

Se l’emigrazione a cui si riferiva Consolo era soprattutto quella dal Nord Africa – anche se non mancano nella sua opera riferimenti ad altre rotte, non mediterranee – oggi la provenienza dei migranti è più varia e non interessa solo il canale di Sicilia, sebbene Lampedusa continui ad essere punto di approdo per molti. Siamo atrocemente avvezzi alle immagini di tragedie in mare: per citarne solo alcune, quella del 3 ottobre 2013 proprio nelle acque di Lampedusa, il naufragio nei pressi di Bodrum del 2015, tristemente noto per la foto del corpo del piccolo Alan Kurdi, o quello più recente di Steccato di Cutro.

Di fronte ad uno scenario complicato dalla varietà di provenienze e rotte e, ancora, da politiche non risolutive, la lezione di Consolo resta quanto mai valida. Dalla conoscenza storica deve venire la consapevolezza che il progresso è sempre figlio dell’incontro e non si può allora guardare al Mediterraneo, e a nessun altro luogo, in termini di confine, limite: in gioco ci sono, proprio come scriveva l’autore, questioni culturali e economiche che non possono essere trascurate e ciò da parte dell’uomo comune e da parte dei politici. L’invito alla memoria del nostro passato inoltre implica l’invito al recupero dell’umanità – i Feaci accolgono e soccorrono Ulisse quando lo trovano naufrago – e della pacifica convivenza tra popoli diversi – la civiltà araba, ad esempio in Sicilia, seppe proporre un lodevole dialogo tra le diversità. Se non vogliamo che l’«im-mondo» prenda il sopravvento, allora, dobbiamo soprattutto restare umani. 

Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023
Note
[1] V. Consolo, Frammento, in Per una Carta “visiva” dei Diritti civili, Viennepierre, Milano 2001, anche in “Microprovincia”, 48, gennaio-dicembre 2010: 5.
[2] La citazione del passo di Braudel è molto frequente nell’opera di V. Consolo, ad esempio a conclusione di Il ponte sul canale di Sicilia (Di qua dal faro, in L’opera completa,a cura e con un saggio introduttivo di G. Turchetta e uno scritto di C. Segre, Mondadori, Milano 2015: 1198). Il passo di Braudel è in F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, trad. it. di C. Pischedda, Einaudi, Torino 1976: 921-922.
[3] Accordi. Poesie inedite, a cura di F. Zuccarello e C. Masetta Milone, Zuccarello editore, Sant’Agata di Militello 2015.
[4] Sull’argomento, ho già scritto diffusamente in A. Bellanova, Un eccezionale baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo, Mimesis, Milano 2021: 281-307.
[5] Emblematico Uomini e paesi dello zolfo, in Di qua dal faro, cit.: 981-982.   
[6] Arancio, sogno e nostalgia, in “Sicilia Magazine”, dicembre 1988:35-46, ora in La mia isola è Las Vegas, a cura di N. Messina, Mondadori, Milano 2012: 128-133, 128-129.
[7] Ma questa è Sarajevo o Assisi?, in “L’Espresso”, 30 ottobre 1997.
[8] Madre Coraggio, in La mia isola è Las Vegas, cit.: 196. 
[9] Orgogliosa Algeri tra mitra e coltello,in“Il Messaggero”, 20 settembre 1993.
[10] Le pietre di Pantalica, in Le Pietre di PantalicaL’opera completa, cit.: 619. Neró metallicó, in Il corteo di Dioniso, La Lepre edizioni, Roma 2009: 9.
[11] L’olivo e l’olivastroL’opera completa, cit.: 836.   
[12] Le pietre di Pantalica, in Le pietre di Pantalica, cit.: 625.
[13] Ivi: 623.
[14] Ad esempio in Quei parabolizzati che sognano l’Italia, in “Corriere della sera”, 20 giugno 1991 o Orgogliosa Algeri tra mitra e coltello, in “Il Messaggero”, 20 settembre 1993.
[15] Ma questa è Sarajevo o Assisi, cit.
[16  Madre Coraggio, in La mia isola è Las Vegas, cit.: 195-200.
[17] Sulla presenza del mito di Ulisse nell’opera di Consolo, si veda A. Bellanova, Un eccezionale baedeker, cit., passim.
[18] Versi dall’Eneide di Virgilio (II 707-710) e dalle Troiane di Euripide (vv. 45-47) vengono citati in più di un’occasione, soprattutto nei testi giornalistici, come monito e come testimonianza di un dramma che si ripete. Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, in “La Repubblica”, 18 settembre2007, o in I muri d’Europa, cit.: 25, o Migrazione, la civiltà come arte della fuga, cit. Ma si veda anche l’inserimento dei versi Aen. II 780 a epigrafe dell’ultimo capitolo di Nottetempo, casa per casa, quello su fuga-emigrazione di Petro (Nottetempo, casa per casa, in L’opera completa, cit.: 748).
[19] Retablo, in L’opera completa, cit.: 453.
[20] L’episodio è rievocato, con citazione da Eliot, in L’olivo e l’olivastro, in L’opera completa, cit.: 865-866. Nel giugno del 1981 appena dopo il terremoto che aveva colpito Mazara, gli armatori ebbero fretta di rimandare in acqua le navi. Nel naufragio del Ben Hur morirono cinque mazaresi e due tunisini. L’identità di questi rimase ignota per diversi giorni: un indizio della condizione di sfruttamento e illegalità in cui lavoravano gli stranieri. Sullo stesso episodio, sempre con riferimento a Phlebas il fenicio, si veda Morte per acqua, in “Il Messaggero”, 15 luglio 1981, o “Ci hanno dato la civiltà”, in “La Voce”, 23 giugno 1994.
[21] Dedicato ai morti per acqua, in “L’Unità”, 29 settembre 2002. La citazione dei versi di Eliot chiude l’articolo e, che mi risulti, è l’unico caso in cui il passo è riportato per intero. Consolo si riferisce a quanto avvenuto il 24 settembre 2002: uno scafista abbandona a 300 metri dalla spiaggia di Scoglitti il suo carico di migranti; le onde impediscono l’approdo, muoiono 14 persone. 
[22] Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, cit., o in I muri d’Europa, cit.: 29. Meno esplicito il riferimento a Eliot in Immigrati avanzi del mare, in “L’Unità”, 18 giugno 2003, dove è l’aggettivo “spolpato” (“qualche corpo gonfio o spolpato finisce nelle reti dei pescatori”) che allude a Phlebas il fenicio.
[23] Cronache di poveri venditori di strada, in “Corriere della sera”, 21 ottobre 1990.
[24] Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, cit.: 1193.
[25] Si veda in particolare Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, cit.: 1195-1196; Il Mediterraneo tra illusione e realtà, integrazione e conflitto nella storia e in letteratura, in G. Interlandi (a cura di), La salute mentale nelle terre di mezzo. Per costruire insieme politiche di inclusione nel Mediterraneo, Atti del Convegno di Psichiatria Democratica, Caltagirone, 12-13 marzo 2009, numero monografico di “Fogli di informazione”, terza serie, 13-14, gennaio-giugno 2010: 5-7. Si veda anche l’inserimento della vicenda come elemento narrativo in Nottetempo, casa per casa, che si conclude proprio con l’emigrazione di Petro in Tunisia (Nottetempo, casa per casa, cit.: 753-754).
[26] Sul fenomeno si veda A. Cusumano, Il ritorno infelice, Sellerio, Palermo 1978. Consolo lo cita in diverse occasioni, ad esempio, Il ponte sul canale di Sicilia, cit.: 1197.
[27]  L’olivo e l’olivastro, cit.: 865.
[28] Ivi: 864.
[29] Ibidem. Si veda anche Il ponte sul canale di Sicilia, cit.: 1197-1198. Molti gli articoli sul caso di Mazara, ad esempio I guasti del miracolo, in “Il Messaggero”, 10 luglio 1981; Morte per acqua, cit; “Ci hanno dato la civiltà”,cit. Ancora precedente l’articolo uscito su “Sans frontières” nel 1980 che si sofferma sulla storia di Mazara prima di concentrarsi sulla quarta guerra punica o guerra del pesce i cui protagonisti erano proprio i tunisini immigrati della casbah: Quatrième guerre punique, in “Sans frontières”, 30 settembre 1980.
[30] Alla somiglianza tra Italia meridionale e Nord Africa Consolo fa riferimento in “Ci hanno dato la civiltà”, cit. Sulla questione anche un articolo del 1981, Immigration africaine en Italie (“Sans frontières” 3 gennaio 1981): l’Italia è la prima tappa dei migranti per necessità geografiche ma anche perché è una terra non veramente straniera.
[31] L’olivo e l’olivastro, cit.: 865; Il ponte sul canale di Sicilia, cit.: 1197. Nel precedente I guasti del miracolo (cit.) Consolo rileva lo scandalo del dopo terremoto di Mazara (7 giugno 1981): ai tunisini vengono negate le tende, perché stranieri e perché non votanti e quindi ininfluenti nelle imminenti elezioni regionali.  
[32] Il ponte sul canale di Sicilia, cit.: 1197-1198.
[33] Il mondo di Bossi Fini stupido e spietato, in “L’Unità”, 29 agosto 2002.
[34] Ibidem.                                                               
[35] Lampedusa è l’ora delle iene, in “L’Unità”, 28 giugno 2003.
[36] Ibidem.
[37] Il mondo di Bossi Fini stupido e spietato, cit. 
[38] Ibidem ma anche Immigrati avanzi del mare, cit.
[39] La mia isola è Las Vegas, in La mia isola è Las Vegas, cit.: 217.
[40] Solo un monumento per gli immigrati, in “La Repubblica”, 21 agosto 2004. Sulla questione Consolo si era già espresso qualche giorno prima: Perché non voglio quel museo, in “La Repubblica”, 19 agosto 2004.
[41] Estremamente rappresentativa appare a proposito la sezione Sicilia e oltre in Di qua dal faro e, in particolare, il saggio introduttivo, La Sicilia e la cultura araba (Di qua dal faro, cit.: 1187- 1192).
[42] L’olivo e l’olivastro, cit.: 783.
[43] Ivi: 783-784, ma anche Retablo, cit.: 432; La Sicilia passeggiata, con fotografie di G. Leone, Nuova Eri, Torino, 1991: 94-95; Malophoros, in Le pietre di Pantalica, cit.: 578.
[44] La Sicilia passeggiata, cit.: 106.
[45] Quando i Lombardi emigrarono in Sicilia, in “Corriere della Sera”, 4 maggio 1991.
[46] Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, cit. La frase di Zanzotto è ripresa da A. Zanzotto, In questo progresso scorsoio. Conversazione con M. Breda, Garzanti, Milano, 2009: 68-69. Nell’ultima intervista Consolo riflette in modo particolare sull’ignoranza di chi solleva lo scontro di civiltà e accosta integralismo e islam: V. Pinello, La Sicilia di Consolo: l’ultima intervista, 27 gennaio, 2012, in“Golem”, in rete http://www.goleminformazione.it/articoli/vincenzo-consolo-e-la-sua-sicilia-sorriso-dellignoto-marinaio.html#.WHS021ycHDQ (verificato in data 15 ottobre 2023). 
Riferimenti bibliografici
Opere di Vincenzo Consolo
La Sicilia passeggiata, con fotografie di G. Leone, Nuova Eri, Torino 1991.
Il corteo di Dioniso, La lepre, Roma, 2009.
La mia isola è Las Vegas, a cura di N. Messina, Mondadori, Milano 2012.
L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di G. Turchetta e uno scritto di C. Segre, Mondadori, Milano 2015.
Accordi. Poesie inedite, a cura di F. Zuccarello e C. Masetta Milone, Zuccarello editore, Sant’Agata di Militello 2015.  
Articoli di Vincenzo Consolo
Quatrième guerre punique, in “Sans frontières”, 30 settembre 1980.
Immigration africaine en Italie, in“Sans frontières”, 3 gennaio 1981.
I guasti del miracolo,in“Il Messaggero”, 10 luglio 1981.
Morte per acqua, in “Il Messaggero”, 15 luglio 1981.
Cronache di poveri venditori di strada,in “Corriere della Sera”, 21 ottobre 1990.
Quei parabolizzati che sognano l’Italia, in“Corriere della sera”, 20 giugno 1991.
“Ci hanno dato la civiltà”, in “La Voce”, 23 giugno 1994.
Il mondo di Bossi Fini stupido e spietato, in “L’Unità”, 29 agosto 2002.
Dedicato ai morti per acqua, in “L’Unità”, 29 settembre 2002.
Immigrati avanzi del mare, in “L’Unità”, 18 giugno 2003.
Lampedusa è l’ora delle iene, in “L’Unità”, 28 giugno 2003.
Perché non voglio quel museo, in “La Repubblica”, 19 agosto 2004.
Solo un monumento per gli immigrati, in “La Repubblica”, 21 agosto
Gli ultimi disperati del canale di Sicilia,in“La Repubblica”, 18 settembre2007.
Migrazione, la civiltà come arte della fuga, in “L’Unità”, 18 settembre 2007.
I muri d’Europa, in L. Restuccia, G.S. Santangelo (a cura di), Scritture delle migrazioni: passaggi e ospitalità, Palumbo, Palermo 2008: 25-30.
Il Mediterraneo tra illusione e realtà, integrazione e conflitto nella storia e in letteratura, in G. Interlandi (a cura di), La salute mentale nelle terre di mezzo. Per costruire insieme politiche di inclusione nel Mediterraneo, Atti del Convegno di Psichiatria Democratica, Caltagirone, 12-13 marzo 2009, numero monografico di “Fogli di informazione”, terza serie, 13-14, gennaio-giugno 2010: 5-7.
Altra bibliografia 
Bellanova A., Un eccezionale baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo, Mimesis, Milano 2021
Braudel F., Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, trad. it. di C. Pischedda, Einaudi, Torino 1976.
Cusumano A., Il ritorno infelice, Sellerio, Palermo 1978.
Pinello V., La Sicilia di Consolo: l’ultima intervista, 27 gennaio, 2012, in“Golem”, in rete http://www.goleminformazione.it/articoli/vincenzo-consolo-e-la-sua-sicilia-sorriso-dellignoto-marinaio.html#.WHS021ycHDQ (verificato in data 15 ottobre 2023).
Zanzotto A., In questo progresso scorsoioConversazione con M. Breda, Garzanti, Milano 2009.

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Ada Bellanova, insegna lettere in un liceo pugliese. Si interessa di permanenza della letteratura greca e latina nel contemporaneo, di ecocritica, della percezione dei luoghi, dei temi della memoria, delle migrazioni e dell’identità. Si dedica da alcuni anni allo studio dell’opera di Vincenzo Consolo: da qui è nata la monografia Un eccezionale baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo (Mimesis 2021). Ha collaborato con La macchina sognanteErodoto108.  Nel 2010 ha pubblicato il libro di racconti L’invasione degli omini in frac, con prefazione di Alessandro Fo e nel 2016 Papamusc, un breve romanzo edito da Effigi.

Kalasìa. Parole contro il potere.

“Kalasìa” è termine dialettale raro e tipico di Sant’Agata di Militello che proviene dal greco e sottintende una memoria antica della bellezza. Con questo titolo sono raccolte alcune delle più interessanti interviste a Vincenzo Consolo rilasciate a Concetto Prestifilippo tra il 1992 e il 2011. Questo omaggio al Premio Strega di Retablo è arricchito da un racconto fotografico di rara intensità del maestro Giuseppe Leone, nonché da un prezioso scritto inedito dedicato a un tema ricorrente in Consolo e quanto mai attuale: il Mediterraneo e la tragedia dei migranti. A distanza di anni, la rilettura di questi articoli colpisce per l’analisi lucida, a tratti spietata, di alcuni momenti epocali della storia repubblicana.

Vincenzo Consolo, “Kalasìa. Parole contro il potere”.

“L’ultimo pensiero di Consolo per i migranti”

«Era la mattina di martedì10 maggio 2011, l’ultimo soggiorno di Vincenzo Consolo in Sicilia – Il ricordo è di Claudio Masetta Milone, uno degli amici più intimi dello scrittore di Sant’Agata di Militello – “Dimmi cosa ne pensi” mi chiese, indicandomi un foglio poggiato sul tavolo». Il testo evocato è composto da due pagine scritte a mano con una grafia tonda e chiara. Due le frasi sottolineate con un tratto risoluto, rimandano alle opere letterarie “L’Orlando furioso” di Ariosto e “Civiltà ed imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II” di Fernand Braudel.

«È stato questo l’ultimo scritto di Consolo. Il riferimento è alla tragedia dei migranti alla deriva nel Mediterraneo. Un tema che gli stava molto a cuore. Forse era stato commissionato da qualche giornale o rivista. Non è mai stato pubblicato perché tutto precipitò, subito dopo, al cospetto di una serie di terribili accadimenti. Fino alla successiva evoluzione delle sue condizioni di salute».
foto: Claudio Masetta Milone

Perché questo testo non è mai stato pubblicato?

«Consolo aveva deciso, dopo ripetuti tentativi, di tornare definitivamente a Sant’Agata. Aveva cominciato anche a cercare una casetta sulle colline che guardano il mare. Ma un terribile lutto familiare lo aveva profondamente colpito. La morte del nipote Rino, un grande intellettuale, studioso di filosofie orientali che per Consolo era come un figlio, fu per lui una vera tragedia. Una vicenda che lo segnò profondamente, accelerando il decorso di una grave malattia che, dopo il suo ritorno a Milano, lo stroncò nel giro di pochi mesi. Dopo la scomparsa del nipote non solo non scrisse più nulla ma si isolò. Non volle più parlare e incontrare nessuno, solo una ristretta cerchia di amici. In un primo momento mi aveva chiesto di pubblicare questo brano sul suo sito ufficiale e sulla sua pagina social, poi mi chiese di ritirarlo. Il testo che mi aveva mostrato quella mattina è dunque rimasto nel cassetto per tutti questi anni. La signora Caterina Pilenga Consolo lo aveva però annotato in una sorta di libro mastro, dove puntualmente registrava tutti gli scritti e gli interventi del marito. Riordinando un fascicolo dell’archivio ho ritrovato questo lavoro che appare ancora tragicamente attuale».

Come mai alla fine del testo, firmando, lo scrittore scrive: Sant’Agata Militello, omettendo la preposizione di?

«Era una cosa che lo divertiva. Anche una semplice preposizione per lui non era un dettaglio di poco conto. Continuava a spiegare che eliminare quel “di” equivaleva a sottolineare un’autonomia, quella conquistata rispetto alle località che rimandavano alla fondazione del paese. Come ripeteva sempre, Sant’Agata è stato per tutta la sua vita il luogo dello scontro e del riscontro. Aveva scritto che non si nasce in un luogo impunemente. La geografia santagatese, la sua peculiare collocazione tra la dorsale dei monti Nebrodi e l’affaccio sul mare Tirreno, lo avevano dotato di una duplice radice, terrena e marina. Dualità che si intrecciava con l’altra biforcazione, quella storica e naturale tra est e ovest dell’Isola».

Questo testo inedito rimanda a Lampedusa e al Mediterraneo.

«Erano temi centrali nel suo lavoro. Scriveva che il Mediterraneo doveva essere il luogo dell’incontro delle culture. Questo trasformarsi in un tragico cimitero era per lui una tragedia insopportabile. Nel brano ricorda come siamo stati noi meridionali, noi siciliani ad attraversare il Canale di Sicilia e approdare nel Maghreb. Scrive che nel 1900 vi erano in Tunisia più di centomila immigrati italiani».

foto: Claudio Masetta Milone

Il suo ultimo ricordo dello scrittore?

«A Milano dove ero andato a trovarlo a Natale, pochi giorni prima della sua scomparsa. Mi regalò una copia della prima edizione del libro “Il sorriso dell’ignoto marinaio”. Sul frontespizio una dedica straziante, il cui ricordo mi commuove ancora. Mi chiese di stare vicino a Caterina. Prima di congedarci, volle ricordarmi una parola che amava particolarmente: Kalasìa. È un termine dialettale, tipico di Sant’Agata, pressoché ignoto in altre parti della Sicilia. Serve a designare la bellezza. Un termine che, mi spiegò con il suo ultimo sorriso, proveniva sicuramente dal greco e sottintende una memoria antica della bellezza».

                                                                                              Concetto Prestifilippo

Giovedì, 20 luglio 2023 Repubblica

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Lampedusa, lepidusa, isola pietrosa, aspra , dove ci racconta l’Ariosto nel suo grande poema Orlando Furioso, si conclude la guerra tra cristiani e infedeli con lo scontro dei “tre contro tre”. Ma altri scontri, sappiamo, avvengono oggi in Lampedusa, di poveri migranti che li affrontano, migranti che non sono morti come migliaia d’altri, inghiottiti dalle acque del Canale di Sicilia. Migranti approdati fortunosamente a Lampedusa contro i quali si scontra il nostro feroce egoismo di italiani, di europei ben pasciuti, sazi. Egoismo quando non è xenofobia, razzismo. Ma siamo stati noi per primi, noi meridionali, noi siciliani ad attraversare il Canale di Sicilia e ad approdare nel Maghreb, in Tunisia. Nel 1900 vi erano in Tunisia più di centomila immigrati italiani e lì si sono impegnati, facendo i pescatori, i contadini, o gli operai nelle miniere di Sfax. La storia del mondo è storia di emigrazione da un paese all’altro, da un continente all’altro. Più di venti milioni di italiani sono emigrati sono emigrati nei vari paesi del mondo negli anni passati. Ma, rimanendo nel Mediterraneo, vogliamo qui riportare quel che ha scritto Fernand Braudel in Civiltà ed imperi nel Mediterrano nell’età di Filippo II: “Su tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato, e vi conosce tutte le miserie, gli orrori e le santità degli ‘universi concentrazionari’ ”.

Sant’Agata di Militello, 10 maggio 2011

Vincenzo Consolo

Consolo e i Nebrodi

Dieci anni fa a Milano la morte del grande scrittore siciliano, collaboratore dell’Ora.

Fino al 25 febbraio numerose manifestazioni culturali. Da oggi l’omaggio de L’Ora Edizione Straordinaria con analisi, ricordi, foto, testimonianze. CONSOLO, IL DESTINO DI UN ULISSE SICILIANO
di FRANCO NICASTRO

“Più nessuno mi porterà nel Sud, lamentava Quasimodo. Invece – se m’è concesso il confronto – io nel Sud ritorno sovente”. Così Vincenzo Consolo spiegava il suo ininterrotto rapporto con la terra e la cultura siciliane: “Da Milano, dove risiedo, con un volo di un’ora e mezza, atterro in Sicilia. Dalla costa d’oriente o d’occidente, ogni volta, come per ossessione, vizio, coazione a ripetere, celebrazione d’un rito, percorro l’isola da un capo all’altro, vado per città e paesi, sperduti villaggi, deserte campagne, per monti e per piane, per luoghi visti e rivisti non so quante volte”. L’ultima volta che Consolo era tornato in Sicilia è stato nell’estate del 2010. A Gratteri, sopra l’amata Cefalù, in una limpida serata d’estate si presentava “L’isola in me”, un film documentario di Ludovica Tortora de Falco sulla Sicilia suggestiva e straziante di Consolo. Era un ritratto dello scrittore, dell’uomo e dell’artista attraverso i luoghi, i temi, le suggestioni letterarie della sua vita. Consolo si era assegnato quello che chiamava il “destino d’ogni ulisside di oggi”: quello di “tornare sovente nell’isola del distacco e della memoria e di fuggirne ogni volta, di restarne prigioniero…”. Di questo intenso legame passionale, civile e letterario con la Sicilia Consolo ha sempre dato testimonianza. Dalle profondità del mito ha ricavato una lettura lucida della storia italiana e siciliana dal dopoguerra a oggi. Lo ha fatto attraverso alcuni temi cruciali: l’emigrazione, la vita dei minatori delle zolfare, l’industrializzazione e le devastazioni del territorio, i terremoti e le selvagge ricostruzioni, le stragi mafiose. È una storia che Consolo ha vissuto in prima persona, condividendola con altri scrittori, in primo luogo Leonardo Sciascia a cui era profondamente legato. E proprio Sciascia aveva segnato il suo percorso letterario cominciato nel 1963 con “La ferita dell’aprile”. Prima che nel 1976 pubblicasse il suo secondo romanzo, quello che gli diede la notorietà, “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, Consolo si era lasciato tentare (lui diceva “irretire”) da Vittorio Nisticò e da Milano era approdato a Palermo nella redazione del giornale L’Ora. Ma vi era rimasto solo pochi mesi, poi era tornato a Milano da dove ha continuato a tenere un rapporto intenso, e continuamente rinnovato, con la Sicilia. Di questo legame con la storia e la cultura siciliana sono testimonianza, oltre al sodalizio con Sciascia e all’amicizia con Gesualdo Bufalino, anche la sua intensa produzione letteraria, da “Le pietre di Pantalica” a “Retablo”, da “Nottetempo casa per casa” (premio Strega 1992) a “L’olivo e l’olivastro”, da “Lo Spasimo di Palermo” a “Di qua dal faro”. A cui si aggiungono saggi di forte intonazione civile, interventi e una densa raccolta di articoli per il Messaggero e per l’Unità. Aveva scelto di vivere a Milano ma il suo cuore e la sua curiosità intellettuale erano radicati in Sicilia. ”La tentazione di sottrarmi alla Sicilia c’è – diceva – ma il meccanismo memoriale della mia narrativa me lo impedisce fino in fondo, è connaturato a uno stile che ingloba la memoria attraverso il linguaggio”. E proprio al linguaggio dedicava la sua cura sperimentale in una ricerca che lo allontanava sempre più dai canoni correnti. Da qui la sua invettiva contro la deriva di un paese “telestupefatto”, cioè scivolato verso la volgarità del linguaggio che uccide il pensiero critico. ANSA 21 gennaio 2012

-BIOGRAFIA VINCENZO CONSOLO Vincenzo Consolo era nato a Sant’Agata di Militello il 18 febbraio 1933. Sesto di otto figli, negli anni Cinquanta si era trasferito a Milano per frequentare la Cattolica dove si è laureato in giurisprudenza. A Milano è poi tornato, dopo un breve periodo di insegnamento in Sicilia, negli anni Sessanta per seguire una sua aspirazione letteraria sulla scia di Verga, Capuana, De Roberto. A Milano lavora nella struttura di programmazione della Rai ma intreccia un intenso rapporto con il grande giro culturale. Collabora con Einaudi, stringe rapporti intensi con Leonardo Sciascia e il poeta Lucio Piccolo. Nel 1976 viene chiamato a Palermo dal direttore del giornale L’Ora, Vittorio Nisticò, con il quale già collaborava da alcuni anni. Conclusa l’esperienza siciliana, ritorna a Milano mentre esce il romanzo che gli dà una grande notorietà: ”Il sorriso dell’ignoto marinaio”. Nel 1985 pubblica ”Lunaria” e due anni dopo ”Retablo”. Seguiranno ”Le pietre di Pantalica” e ”Nottetempo casa per casa”. Nel 2015 esce postuma la sua opera completa per i Meridiani Mondadori. Il curatore Gianni Turchetta, che a lungo ha lavorato sull’archivio dello scrittore poi rilevato dalla Fondazione Mondadori scrive: “Nel panorama italiano del XX secolo, pochi scrittori possono, come Vincenzo Consolo, mostrare in modo tanto conseguente e radicale che cosa è stato per l’Occidente moderno, per oltre un paio di secoli e che cosa forse si ostina ad essere quella che chiamiamo letteratura”. Per il critico Cesare Segre, “Consolo è stato il maggiore scrittore italiano della sua generazione”. Nei libri ma anche nei saggi e negli articoli per il ”Messaggero” e ”L’Unita”’ Consolo mantiene un intenso rapporto con la Sicilia. Si è sempre sentito un moderno Ulisse che torna nella sua Itaca dalla quale non riesce a staccarsi. Tutte le sue opere hanno infatti la Sicilia come punto di partenza e di approdo. CONSOLO, LE MANIFESTAZIONI Promosso dalla Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, dall’Associazione “Amici di Vincenzo Consolo” fondata per volontà di Caterina Pilenga, moglie dello scrittore, e da Arapán Film Doc Productionm si apre domani il #MESECONSOLO coordinato da Ludovica Tortora de Falco. Alle 15 su RadioTre Fahrenheit ospiterà critici, esperti e giornalisti per analizzare l’eredità di Consolo. Alle 20 Radio Tre Suite dedicherà in diretta dalla Sala di via Asiago a Roma una serata di letture di Consolo e brani musicali. L’evento clou a Sant’Agata di Militello, dove alle 21 al cinema teatro Aurora andrà in scena #Lunaria di Vincenzo Consolo nello storico allestimento dell’omonimo Teatro Lunaria di Genova diretto da Daniela Ardini che ne cura la regia. Interprete Pietro Montandon. Lunaria è la storia del Viceré e della Luna che cade su una remota contrada senza nome. Ancora a Sant’Agata di Militello, il 26 e 27 gennaio, presso il Palauxilium proiezione del film documentario #Lisolainme, in viaggio con Vincenzo Consolo per le classi quinte dei licei del territorio dei Nebrodi.Sempre il 26, a Milano presso il Laboratorio Formentini per l’editoria, via Marco Formentini, 10, Reading . Ricordi di Vincenzo Consolo a cura di Paolo Di Stefano e Gianni Turchetta. Voci recitanti Valerio Bongiorno e Laura Piazza. Il 28 gennaio all’University College Cork, in Irlanda, #MemorialConsolo a cura di Daragh O’Connell, organizzato da Claudio Masetta Milone, il concittadino dello scrittore che da sempre lo ha affiancato e curato nelle sue ricerche, l’amico di una vita, instancabile promotore della Casa letteraria Consolo di Sant’Agata e della serata evento di domani. Temi del convegno: tradurre, curare, studiare, raccontare Consolo con Joseph Farrell, Gianni Turchetta, massimo esperto italiano dello scrittore, curatore del Meridiano Mondadori, Nicolò Messina e Salvatore Maira. Link per i quattro appuntamenti: https://us02web.zoom.us/i/88579217433…. Meeting ID: 88579217433. Password: 060633.L’8 febbraio alle ore 10, a Palermo alla Sala Bianca dei Cantieri Culturali della Zisa a cura di Film Commission regionale, Centro Sperimentale di Cinematografia, Centro Studi Pio La Torre sarà proiettato per gli studenti dei licei il film documentario #InviaggioconVincenzoConsolo, prodotto nel 2008 da Arapán.Il 9 febbraio a Milano presso la Biblioteca Valvassori Peroni (via Valvassori Peroni, 56) serata con letture di testi di Vincenzo Consolo tra la Sicilia e Milano.Evento di particolare importanza l’11 febbraio alle ore 17 a Palermo presso la Biblioteca Centrale della Regione Siciliana, quando la Biblioteca presenterà l’e-book, promosso dal direttore Carlo Pastena e realizzato grazie alla cura di Antonella Bentivegna, che contiene il catalogo del patrimonio bibliografico di e su Vincenzo Consolo custodito presso la Biblioteca stessa. Contiene fotografie di Consolo tratte dall’archivio L’Ora, e i suoi articoli per il giornale di Vittorio Nisticò e per altre testate italiane. Coordinerà il convegno Antonio Calabrò, parteciperanno Salvatore Ferlita, Claudio Masetta Milone, Salvatore Silvano Nigro, Concetto Prestifilippo, Dario Stazzone e Piero ViolanteIl 15 febbraio alle ore 18,30 presso il Cineclub Arsenale di Pisa (vicolo Scaramucci, 2) Per Vincenzo Consolo, mostra fotografica a cura di Francesco La Francesca e Cecco Ragni. Infine il 25 febbraio alle ore 17,30 a Catania, alla Libreria Cavallotto di corso Sicilia, 91, presentazione del libro L’oggetto perduto del desiderio. Archeologie di Vincenzo Consolo di Rosalba Galvagno, Milella editore.

L’Ora Edizione Straordinaria
20 gennaio 2022

L’IGNOTO ANTIGATTOPARDO

“Mese Consolo”, una serie di eventi per celebrare i dieci
anni dalla scomparsa dello scrittore Vincenzo Consolo

Sbeffeggiando chi lo accusava di essere anacronistico, con un sorriso sardonico, rispondeva che era anche anacreatico. Sono trascorsi dieci anni dalla scomparsa di Vincenzo Consolo, uno dei più grandi scrittori del Novecento italiano. Era un gelido pomeriggio milanese del 21 gennaio 2012. L’anniversario sarà ricordato nel corso di un intenso “Mese Consolo”, una serie di eventi curati da Ludovica Tortora de Falco, regista nel 2008 del film “L’isola in me, in viaggio con Vincenzo Consolo”. Manifestazioni che si snoderanno dalla Sicilia a Milano in collaborazione con la “Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori”. Vincenzo Consolo, per tutta la vita, ha difeso, custodito, una lingua feriale che non esisteva più, conferendo incessantemente asilo alle parole espunte dall’imperante linguaggio televisivo plastificato.Ma ad un certo punto della sua carriera è come se l’autore di “Retablo” avesse avvertito la fatale stanchezza della parola.

“Aborriva il romanzo, questo genere scaduto, corrotto, impraticabile. Se mai ne aveva scritti, erano i suoi in una lingua diversa, dissonante, in una furia verbale ch’era finita in urlo, s’era dissolta nel silenzio”. Così scriveva Vincenzo Consolo ne “Lo Spasimo di Palermo” (1998). La riflessione maturata tra le pagine del romanzo era affidata al protagonista, Gioacchino Martinez, scrittore di libri difficili, fratti, complessi. Il protagonista, invecchiando, si sentiva uno sconfitto, un vinto verghiano. Si interrogava sul significato, sull’efficacia del suo lavoro, sulla funzione della letteratura. Vincenzo Consolo raccontava spesso del triste finale di partita scelto da Giovanni Verga, l’afasia, il suicidio del narratore. Il grande scrittore catanese, abbandonata Milano, fece ritorno in Sicilia e decise di non scrivere più. Il rimando all’autore de “I Malavoglia”, alla sua scelta estrema, Consolo lo aveva affidato al suo duale letterario Martinez. Il silenzio, come già per l’Empedocle di un altro suo testo, “Catarsi”.

Scrittore eccentrico e irregolare.

Consolo aveva dunque deciso per la progressiva ritrazione. Disubbidienza e continua sottrazione che lo avevano sempre caratterizzato. Non aveva mai ceduto alle lusinghe dell’esposizione televisiva. Non aveva mai accettato di affollare talk-show, librerie e classifiche. Le scansioni temporali che separano le uscite dei suoi libri non attengono ai continui singulti nevrotici dell’industria letteraria. Consolo era un irregolare, non era irreggimentabile, era un eccentrico. Non gli hanno perdonato la sistematica diserzione delle adunate, delle parate. Un conto che ha pagato caro a Milano e anche in Sicilia. “È siciliano, non scrive in italiano. È barocco. È oscuro. È pesante come una cassata. Le sue narrazioni non sono filanti: ma chi si crede di essere, ma come si permette?”.  Era questo il paradigma declinato dai suoi detrattori. Erano tanti i suoi nemici: cardinali della letteratura italiana, maggiordomi untuosi di consorterie politiche, raccontatori a cottimo delle gazzette di palazzo, maestri di inenarrabili gilde e di buie consorterie. Avevano ragione a detestarlo, perché a ognuno di loro aveva dedicato parole di disprezzo ineguagliabili. Vincenzo Consolo era un impertinente, irriguardoso, sprezzante, fiero, severo e inflessibile. “Credo che uno scrittore debba essere comunque contro, scomodo. Se un intellettuale non è critico, diventa cortigiano. È stato così per Vittorini, per Pasolini e per Sciascia, intellettuali contro che il sistema non è riuscito a fagocitare, assoldare, arruolare, ostentare”. Un intellettuale contro, questo è stato il suo paradigma esistenziale.

Milano approdo di ragione.

Come l’amato Verga, Consolo era approdato a Milano. La città lombarda era stata per una fitta schiera di scrittori siciliani luogo di speranza, approdo di ragione.  La stessa città che, presto, si trasformerà per lui in illusione infranta, amara realtà. La città lombarda dell’approdo e la Sicilia disperante sono state il suo cruccio, una Tauride duale. Come lo zio Agrippa di vittoriniana memoria, Consolo continuava a fare la spola tra la Sicilia e Milano.  Operava un continuo dettato esplicito di denuncia all’indirizzo di una Sicilia irredimibile e disperante. Non perdevano occasione per rinfacciarglielo i sicilianuzzi dileggiati. Facevano garrire sul pennone più alto lo stendardo abusato della Trinacria rinfacciandogli la fuga, l’abbandono. Un proclama di palazzo aveva messo al bando i libri di Consolo. Libri bollati come inadeguati, colpevoli di un insopportabile rimando a una Sicilia cupa, operando così l’isolamento e la sconfessione, consolidate pratiche criptomafiose. Il continuo dileggio operato da certa intellettualità isolana è stato un vero tormento per Consolo. Non amava le piccole patrie lo scrittore di Sant’Agata di Militello, non firmava manifestini autonomisti, non rivendicava insulse predominanze culturali.

Ignoto antigattopardo

La sua è stata una letteratura alta, di respiro internazionale. Lo testimoniano i numerosi riconoscimenti, come il “Premio dell’Unione Latina”, una sorta di Nobel per gli scrittori di lingua latina. Lauree honoris causa gli sono state conferite dagli atenei più autorevoli. Riconoscimenti accademici tributati a Parigi, Madrid, Salamanca, Dublino, Amsterdam. Mirabile l’attacco del suo romanzo Retablo :  “Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha ròso, il mio cervello s’è mangiato (…)”. Libro che gli varrà il “Premio Grinzane Cavour” nel 1988. La figura centrale è il pittore lombardo, Fabrizio Clerici giunto a Palermo in un vago Settecento. Il libro fu pubblicato dalla casa editrice “Sellerio” con una nota introduttiva di Leonardo Sciascia. Scrittura icastica quella consoliana, connaturata da un’intensa immaginazione pittorica. La pittura era la sua seconda grande passione.  Esemplari le sue prefazioni di mostre. Inserti, racconti, prove d’autore che lo scrittore traslava, successivamente, nei capitoli dei suoi libri. Raffinata la pittura delle sue ricercatissime copertine, opere di grandi artisti: Antonello da Messina, George de la Tour, Fabrizio Clerici, Ruggero Savinio, Caravaggio, Raffaello. Giungevano sempre dal mare i protagonisti dei romanzi di Consolo. Dal mare giunge il protagonista del suo primo grande successo, “Il sorriso dell’ignoto marinaio” (1976). Cesare Segre fu il primo a intuire la specificità dell’invenzione linguistica consoliana. Lo studio di Segre era incentrato sull’eccentricità di quel giovane scrittore siciliano che non forniva al lettore nessuna indicazione didascalica. Il lettore attento di Consolo, aveva dunque fatto l’abitudine all’improvviso cambiamento di registro, all’enciclopedismo ipnotico della sua scrittura, alle scansioni ritmiche in battere e levare, ai capovolgimenti di fronte. Era una compitazione musicale da cuntista, quella dello scrittore di Sant’Agata di Militello. Parole antiche che tracciavano l’ordito complesso delle sue pagine. Come accade per i grandi, per i classici, ogni successiva rilettura dei libri di Consolo disvelava una trama invisibile, texture impercettibili, un’architettura accennata, una raffinatezza impareggiabile, il recupero di una lingua extraletteraria, financo del dialetto. Il rinvenimento di memorie antiche, forme dialettali è stata la sua cifra stilistica controcorrente: “Fin dal mio primo libro ho cominciato a non scrivere in italiano. Ho voluto creare una lingua che esprimesse una ribellione totale alla storia e ai suoi esiti. Ma non è dialetto. È l’immissione nel codice linguistico nazionale di un materiale che non era registrato, è l’innesto di vocaboli che sono stati espulsi e dimenticati”. Come ha scritto il critico Massimo Onofri, rileggere i libri di Consolo è come entrare a occhi chiusi in una miniera e uscirne, ogni volta, con un’insospettata nuova pietra preziosa. “Il Sorriso dell’ignoto marinaio” è stato il libro risolutore, non solo nel senso della rivelazione dell’autore. Un libro che, a distanza di anni, appare quanto mai attuale e urgente. Il protagonista è Enrico Pirajno, barone di Mandralisca, un aristocratico siciliano ottocentesco. Vive un’esistenza di ordinaria beauté aristocratique, sconvolta dall’incontro con il rivoluzionario Giovanni Interdonato e dalle rivolte dei contadini. Accadimenti che gli imporranno di mettere cultura e ricchezze al servizio della causa risorgimentale. Nell’edizione parziale del romanzo (1975), Corrado Stajano salutava l’opera come: “Un nuovo Gattopardo, ma più sottile, più intenso”. Il critico Antonio Debenedetti scrisse un articolo dal titolo “L’ignoto Antigattopardo”.

Il sorriso di Consolo il marinaio

Il falso ritratto che di lui si tratteggiava, quello di uno scrittore scorbutico e irriverente, non corrispondeva all’immagine privata, quella vera. Un uomo che appariva invece solare, ironico, dal sorriso ineffabile, quello di un Vincenzo Consolo privato, insospettato, autoironico. Scherzava spesso prendendo in giro la radice stessa del suo cognome: “Da quel cognome suo forse di rinnegato, di marrano di Spagna o di Sicilia, che significava eredità di ansime, malinconie, rimorsi dentro nelle vene. O dall’incrocio, di questo di Giudea o Samaria, con semierranti per venti d’invasioni terremoti carestie, d’Arabia, Bisanzio Andalusia”. Come accade per le grandi invenzioni della letteratura, Vincenzo Consolo, ha anticipato con i suoi libri gli avvenimenti della storia di questa nazione infetta. Così come è accaduto con il romanzo “Nottetempo, casa per casa” (1992). Il libro, ambientato nei primi anni Venti del Novecento, racconta dell’avvento del fascismo. I luoghi del romanzo sono quelli che vanno da Cefalù a Palermo. Si narra delle vicende della famiglia Marano. In realtà tratteggia l’Italia della fine degli anni Novanta, con l’avvento della destra violenta, l’insorgere di nuove metafisiche, misticismi e sette misteriche. Milano, Cefalù e Palermo, nella sua personale geografia letteraria compongono l’invisibile triangolo della complessa scenografia linguistica di Consolo.  

Odiosamata Palermo

Palermo era, dopo Milano, l’altra città-tormento dello scrittore siciliano. Come si fa con i grandi amori e le passioni insopprimibili, all’odiosamata Palermo, Consolo ha riservato pagine di esaltazione e invettive furibonde.  Il suo snodo centrale era l’Isola, la Sicilia il tema dominante di tutti i suoi libri:  “Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta di addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca”. Consolo operava un distinguo ineludibile tra scrittore e narratore. La sua scrittura sconfinava con rapide incursioni nella poesia, come nella favola teatrale “Lunaria”. Il protagonista è un viceré malinconico e misantropo, costretto a vivere in una città solare e violenta di cui è l’unico a vedere la reale decadenza. Sogna la caduta della luna. E la luna cade davvero, in una contrada del vicereame, gettando scompiglio tra i contadini ma ancor più tra gli accademici chiamati a spiegare il prodigio con la loro povera scienza. La poesia è legata anche a un grande personaggio che compare tra le pagine del suo libro “Le pietre di Pantalica”, il barone magico Lucio Piccolo. Consolo ricordava spesso l’immenso poeta aristocratico di Capo d’Orlando e i suoi versi lunari: “Spento il rigore dei versetti a poco a poco / il buio è più denso / sembra riposo ma è febbre: / l’ombra pende al segreto / battere di un immenso / Cuore / di / fuoco”.

Tragico finale di partita

In una gelida Milano, Vincenzo Consolo lascia tutti orfani della bellezza delle sue parole. Consolo il marinaio lascia libri straordinari, un romanzo inedito al quale lavorava da anni che non sarà mai pubblicato, l’amata moglie Caterina, l’inseparabile compagna: “A Caterina devo tutto. Mi ha conferito coraggio, fiducia, serenità”. Un addio crudele dunque. Ogni finale di partita è sempre tragico, solenne. Come accade all’Empedocle consoliano tra le righe del testo teatrale Catarsi:

Ánthropoi therés te kai ichthúes”.

                                                                                               Concetto Prestifilippo

Centro di studi e iniziative culturali Pio la Torre
Rivista: ASud’europa direttore Angelo Meli
16 gennaio 2022

Giuseppe Leone “Io e Vincenzo da casa Sciascia ai viaggi nell’Isola”

«Il volto di un uomo misteriosamente invecchiato di colpo. Questo è l’ultimo ricordo di Consolo che conservo nella memoria». Il fotografo Giuseppe Leone, 85 anni, sta ultimando i preparativi per la mostra che ha dedicato al celebre scrittore di Sant’Agata di Militello. In occasione del decennale della scomparsa dell’autore di Retablo, l’università di Catania rende omaggio alla memoria di Vincenzo Consolo con una serie di eventi. La mostra di Giuseppe Leone si inaugurerà il 24 gennaio, alle ore 17.00, nei locali del Centro universitario teatrale di palazzo Sangiuliano a Catania. Il fotografo ragusano presenterà settanta ritratti, molti dei quali inediti.

Quando ha conosciuto Vincenzo Consolo?

«Nel 1980, ovviamente in contrada Noce, a casa di Leonardo Sciascia a Racalmuto. Dico ovviamente, perché quel luogo raccolto, modesto, lontano da ogni dove, è stato per anni l’ambasciata della cultura siciliana. Tutti gli artisti che operavano in Sicilia finivano per incrociare il loro cammino con la contrada Noce. Una mattina, mentre conversavo placidamente con Sciascia, giunse un’autovettura con a bordo una signora e un uomo. Vidi scendere e avanzare un uomo piccolo di statura. La prima impressione fu quella di avere di fronte un funzionario di una qualche casa editrice. Leonardo ci presentò e, nel corso del pranzo, ho avuto il piacere di scoprire l’eleganza dell’eloquio di Consolo e la sua grande cultura. Rimanemmo tutti incantati dalla sua personalità magnetica».

Come si è evoluto il vostro rapporto di collaborazione?

«Il primo lavoro nacque da un’intuizione proprio di Leonardo Sciascia. Il Sole 24 ore gli aveva conferito l’incarico di curare cinque pubblicazioni dedicate alla Sicilia. Affidò a me e a Vincenzo Consolo il volume sul barocco siciliano. Consolo venne a trovarmi e ci inoltrammo in una lunga perlustrazione tra le città di Ragusa, Noto e Palazzolo Acreide. Si instaurò subito una grande intesa che presto maturò in una grande e lunga amicizia. Era un uomo che amava e apprezzava la bellezza della vita in ogni sua forma. A dispetto dell’immagine stereotipata che si ha di lui, non era affatto un uomo ombroso. Certo, aveva le sue asperità e quando necessario attaccava a testa bassa, anche ferocemente. Ma era un artista autentico. Trovammo subito un’intesa. Lui scrisse “Anarchia equilibrata” uno dei testi più intensi che abbiamo mai accompagnato una mia pubblicazione. Nel corso degli anni, il rapporto di collaborazione si intensificò. Pubblicammo subito dopo un libro dedicato a Cefalù, la città che fa da naturale fondale a tre dei suoi più bei romanzi. Devo a lui la scoperta di angoli misteriosi di quella città. La stessa cosa avvenne quando decidemmo di pubblicare un libro fotografico dedicato ai Nebrodi, i luoghi dove era nato. Anche in quel caso, gli devo la scoperta di feste religiose, spazi sacrali, paesini affascinanti. Seguì poi un libro dedicato a Ortigia e Siracusa, città che lui amava e dove aveva comprato casa. Con lui ho firmato due dei libri più belli della mia produzione. Il primo, edito da Bompiani, ancora una volta dedicato al barocco siciliano, grazie al coinvolgimento del direttore editoriale Mario Andreose. Il secondo, decisamente un autentico capolavoro fu “Sicilia teatro del mondo”, commissionato dalle edizioni Eri, con un suo testo magistrale. Libro che è stato ripubblicato dalla casa editrice “Mimesis” proprio in occasione del decennale della sua scomparsa. Ma in verità, il nostro ultimo lavoro insieme è stata la copertina del suo ultimo libro, pubblicato postumo. La moglie, Caterina Pilenga, mi chiamò dopo la sua scomparsa per scegliere l’immagine che campeggia in copertina di “Al di qua del faro” pubblicato da Mondadori». 

Ci racconta cosa c’è di vero della contrapposizione tra Consolo e Bufalino?

«Io li ho fotografati sorridenti e gioviali nella mia foto più celebre, quella che li ritrae in compagnia di Leonardo Sciascia. Ma diciamo la verità, senza infingimenti, tra i due non correva buon sangue. Erano due uomini totalmente diversi, con due modi opposti di intendere il ruolo dello scrittore. Senza partigianerie, bisogna riconoscere che Consolo ha incarnato, coraggiosamente e per tutta la vita, la figura dell’intellettuale contro, non è stato mai cortigiano. Una singolarità che ha duramente pagato, anche con la continua esclusione. Se posso azzardare un confronto, onestamente, bisogna riconoscere che il vero erede della scrittura civile e di impegno di Leonardo Sciascia è stato proprio Vincenzo Consolo. Una figura di artista e intellettuale contro che in Sicilia non abbiamo più. In questi anni è emersa una schiera di narratori che sembra vogliano accontentarsi di intrattenere il pubblico. Licenziano storie ben confezionate, pronte per essere consegnate alla successiva riduzione televisiva. Producono libri gradevoli, materni, avvolgenti. Mai però un impeto di denuncia civile come osava fare frequentemente Consolo dalle pagine dei giornali. Ecco siamo passati da Consolo ai consolatori».

Il suo ultimo ricordo?

«Pochi mesi prima della sua scomparsa a Ragusa Ibla. Era stato invitato dagli studenti della facoltà di Lingue. Fu un incontro misterioso. Appariva stanco. Ricordo l’ultimo scatto, guardava fisso l’obiettivo con un’espressione di totale disillusione. Era il volto di un uomo che, misteriosamente, era invecchiato di colpo».

                                                                       Concetto Prestifilippo

La repubblica Sabato, 15 gennaio 2022 ediz. Palermo

La “Sicilia passeggiata”: il viaggio di Consolo nell’Isola del ritorno

di Concetto Prestifilippo

La ristampa di un volume illustrato dalle foto di Giuseppe Leone e arricchito ora da nuove immagini

“La vita o si vive o si scrive”. Parafrasando il Pirandello de “Il fu Mattia Pascal”, anche la Sicilia la si vive o si ammira nei libri. Come quello di rara bellezza pubblicato dall’editore Mimesis, “La Sicilia passeggiata”, con un testo di Vincenzo Consolo e fotografie di Giuseppe Leone (pag. 176, 16 euro). Il volume, curato al professore Gianni Turchetta, è inserito nella collana “Sguardi e visioni” diretta da Francesca Adamo.

Si tratta di una riproposizione arricchita di una prima edizione presentata in occasione della 42a edizione del Premio Italia, tenuto a Palermo nel settembre del 1990. Il titolo muove da un’opera secentesca di Ambrogio Maia. Sono pagine connaturate da un ritmo gioiosamente mozartiano. Un continuo rimando tra la scrittura ipnotica e onirica di Vincenzo Consolo e lo stupore affatturante delle immagini di Giuseppe Leone.

La filosofia che sottende questa pubblicazione sta tutta nelle parole dello scrittore siciliano: “Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta di addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca”.

Il libro svela una Sicilia sognante, forse illusoria, popolata da monumenti, chiese, piazze, paesaggi, un continuo racconto di prodigi, sortilegi, incantamenti. “Da molti anni speravo di ripubblicare “La Sicilia passeggiata” – sottolinea Gianni Turchetta, docente di Letteratura italiana all’università Statale di Milano e curatore dell’opera completa di Vincenzo Consolo per i Meridiani della Mondadori – Mi piace ricordare subito come anche Caterina, la compagna di una vita di Vincenzo Consolo, lo desiderasse molto. Benché rimasto appartato, e conosciuto quasi solo dagli specialisti, questo testo, esercita sul lettore una seduzione intensa, fatta di leggerezza e profondità, dinamismo e erudizione. Queste qualità sono rilanciate e riecheggiate a ogni pagina dalla forza vibrante e dalla fulminea capacità di condensazione visiva e simbolica delle foto di Giuseppe Leone”.

Grazie anche al contributo di Claudio Masetta Milone, è stato possibile recuperare le postille al testo di Consolo che hanno consentito non solo di ampliarlo materialmente, ma hanno anche contribuito a spostare l’intonazione verso l’alto. Questa nuova edizione si avvale di una appendice fotografica integrativa, oltre cento immagini firmate dal celebre fotografo ragusano.

“Questo libro, grazie al testo di Consolo è tra i più belli che io abbia mai pubblicato – commenta Giuseppe Leone – Ricordo ancora, con intensa emozione, le lunghe conversazioni con Vincenzo nella sua casa di via Volta a Milano. Abbiamo scelto con cura le immagini che compongono questo racconto fotografico. Ancora oggi, sfogliando queste pagine, assumono un’intensità di rara bellezza, soprattutto in questo triste momento di crisi mortale dell’editoria d’arte Sono felice di aver firmato questo volume, lo interpreto come un omaggio dovuto in ricordo di un grande scrittore, un artista raro, un intellettuale contro”.

Il testo di Consolo è una narrazione che fonde felicemente poeticità e saggismo. L’autore de “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, dal suo esilio milanese, la sua aspra Tauride, evoca una Sicilia sognante: “Sospinti dal vento, immaginiamo d’approdare sulla costa siciliana tra Thapsos e Megara Hyblaea, dove gli uomini dell’età del bronzo costruirono villaggi, dove giunsero i coloni di Micene, Megara Nisea, Calcide, Corinto; oppure d’inoltrarci nel golfetto, più in su di punta Izzo”

Questo è l’attacco di Consolo, marcato a ogni passo dai verbi di moto, in una continua sosta e ripartenza: “Siamo giunti: all’Ànapo che gorgoglia sonoro tra le gole di Pantàlica. Perché è da qui che vogliamo partire, per un nostro viaggio, per una nostra ricognizione della Sicilia, per inventarci, liberi come siamo da confini di geografia, da limiti d’epoca storica o da barriere tematiche, un modo, tra infiniti altri, per conoscere quest’isola al centro del Mediterraneo, questo luogo d’incrocio d’ogni vento e assalto, d’ogni dominio e d’ogni civilizzazione”. Una scrittura che rapisce, questa cifra dello scrittore di Sant’Agata di Militello. Un’elencazione ipnotica, dalle sonorità antiche e mediorientali, un’architettura linguistica perfetta, tonda e fratta allo stesso tempo, come certe partiture musicali.

Un innesto continuo da saggio storico, trattato di botanica, testo di archeologia. Quello proposto è un viaggio in verticale attraverso le stratificazioni storiche della Grande Isola. Come era già accaduto nel romanzo “Retablo” che vede protagonista Fabrizio Clerici, un pittore lombardo giunto in una Sicilia di un vago Settecento. Consolo e Leone, in questo libro, come Clerici e Isidoro, intraprendono un viaggio da oriente a occidente, dal Mito alla storia. Le pagine più intense sono quelle dedicate a Palermo, l’approdo finale: “Rossa, Palermo, come immaginiamo fosse Tiro o Sidone, fosse Cartagine, com’era la porpora dei Fenici; di terra rossa e grassa, con polle d’acqua, da cui alto e snello, pieghevole ai venti, s’erge il palmeto fresco d’ombra, eco e nostalgia di oasi, verde moschea, tappeto di ristoro e di preghiera, immagine dell’eterno giardino del Corano”.


22 OTTOBRE 2021 da La Repubblica
ediz. Palermo

Leone di Sicilia, epopea di un’isola in 500mila scatti

Un archivio monumentale. Per raccontare la fine della civiltà agricola, gli scempi edilizi, le feste patronali. E quella celebre foto che ritrae Bufalino, Consolo e Sciascia (foto di Giuseppe Leone)
di Concetto Prestifilippo

29 GIUGNO 2021 

«Caro Andreose, mi permetta di segnalarle un fotografo con bottega a Ragusa che sembra scivolato da una pagina di Brancati». Giuseppe Leone è il nome del fotografo citato. La bizzarra lettera di patronage reca la firma di Leonardo Sciascia. Destinatario della missiva, Mario Andreose, direttore editoriale della Bompiani. Milano, era il 1986. Seguì una serie di elegantissimi libri fotografici di grande successo. Dopo trentacinque anni, Andreose ha inviato la stessa eccentrica fideiussione a Elisabetta Sgarbi. Questa volta l’invito trova realizzazione nella mostra fotografica “Metafore”, appena inaugurata a Bergamo presso la galleria Ceribelli, evento inserito nel palinsesto delle manifestazioni di “Milanesiana 2021”.
«Non andrò mai più in Sicilia», scrive nella sua introduzione al catalogo della mostra Elisabetta Sgarbi. Un proposito doloroso legato alla scomparsa dei suoi amici Claudio Perroni e Franco Battiato. Mentre si arrovellava tra questi pensieri, è giunta la proposta della retrospettiva. «La mia adesione è stata istantanea, la mostra fotografica di Giuseppe Leone è stato un rimbalzo nel passato», sottolinea lei con trasporto: «A lui mi legano i primi ricordi da giovane editor, quando Mario Andreose, direttore dell’allora gruppo editoriale Fabbri Bompiani, mi portava in Sicilia, per sedurre i due massimi scrittori siciliani: Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino».


Giuseppe Leone, 84 anni, custodisce nel suo archivio più di 500 mila scatti, sessanta i libri fotografici con testi firmati dai grandi autori della letteratura del Novecento. Trovarlo è semplicissimo. Chiedi informazioni nel centro storico di Ragusa e tutti rispondono con un’esclamazione: «Ah, Peppino», e indicano il suo studio-galleria che troneggia sulla salita di corso Vittorio Veneto a pochi metri della cattedrale di San Giovanni Battista, la chiesa dove per quasi sessanta anni fu maestro d’organo il padre. Voleva fare il pittore ma si ritrovò a fare il ragazzo di bottega nello studio del fotografo Antoci. Giusto il tempo di apprendere l’arte della foto di studio e di comprare una prima macchina fotografica a soffietto, una Voigtlander Bessa 6×9. La stessa macchina che gli consentì, appena sedicenne, di immortalare uno dei suoi più celebri scatti: un treno che attraversa ansimante il ponte della vallata San Leonardo e Ragusa Ibla sullo sfondo.


A dispetto della sua età, il dopo Covid per il fotografo siciliano è un tripudio di iniziative. Oltre l’esposizione bergamasca, a Ragusa è stata inaugurata una mostra dedicata agli scrittori Gesualdo Bufalino, Vincenzo Consolo e Leonardo Sciascia. In Campania, a luglio, si inaugura una mostra dedicata alle meraviglie della Costiera amalfitana. In autunno è prevista l’uscita del libro “La Sicilia passeggiata” con un testo di Vincenzo Consolo, curato dal critico letterario Gianni Turchetta. Altri due libri in uscita per il prossimo Natale.


Leone è un bracconiere di epifanie. Nel corso di quasi settanta anni di attività ha percorso in lunga e largo la Sicilia. Non c’è villaggio dell’entroterra o paesino della costa che non abbia fotografato, prima che uno dei due sparisse, definitivamente, per dirla con le parole del suo grande amico, lo scrittore Vincenzo Consolo. Scattando, senza sosta, ha messo in salvo, condotto a riva i relitti di un naufragio culturale. Immagini che testimoniano una trasformazione sociale epocale, la fine della civiltà contadina. Alberga ormai solo in questo mezzo milione di fotogrammi la Sicilia della grande emigrazione. Tra il 1960 e il 1970, 700 mila siciliani lasciarono l’isola. Duecentomila nella sola Germania. Il treno del Sud, che di solare aveva solo il nome, era una tradotta con tanfo di creolina. Scaricava nelle gelide stazioni padane eserciti di braccianti trasformati in operai utili al nascente triangolo industriale del nord. Seguendo il monito inascoltato di Pier Paolo Pasolini, Leone ha continuato a fermare questi attimi. Mentre l’Italia si omologava inesorabilmente, ha registrato l’abbandono delle campagne, lo spopolamento dei centri storici, lo stravolgimento del paesaggio, la distruzione del patrimonio archeologico, la sistematica spoliazione delle chiese, la speculazione edilizia, il deturpamento delle coste, l’imbarbarimento dei costumi. Un casellario fotografico che vale un intero museo antropologico. Nei suoi classificatori albergano le sequenze delle feste patronali, quelle delle confraternite dolenti e degli incappucciati spagnoleggianti. Il mare vagheggiato immortalato guadagnando promontori sospesi. Svelato il fasto d’antan varcando la soglia di palazzi nobiliari. Mostrato le ritualità dei contadini scapicollando per colline ineffabili. Rianimato l’atmosfera sospesa delle botteghe artigianali. Catturato scorci sconosciuti agguattato nei conventi e nelle chiese. I suoi scatti sono stati pubblicati sulle copertine delle riviste più prestigiose. Ha ritratto i grandi intellettuali e gli artisti più affermati. Fotografie che continuano a disvelare la Sicilia bramata dai viaggiatori del Grand Tour. Vengono a intervistarlo le troupe delle Bbc, giungono collezionisti da tutto il mondo, grandi couturier come Dolce & Gabbana utilizzano le sue foto per le loro campagne pubblicitarie mondiali, ma la Sicilia non ha mai trovato il tempo di dedicargli un’antologica.


L a sua carriera muove dall’incontro di due straordinari artisti, Leonardo Sciascia ed Enzo Sellerio. Fu una strana coincidenza. Una di quelle stranezze misteriose che Sciascia amava tanto. Il loro primo incontro ebbe come scenario la sede palermitana della casa editrice Sellerio. Leone aveva chiuso l’impaginazione del suo primo libro “La pietra vissuta”. Enzo Sellerio, maestro di tutti i maestri della fotografia siciliana, gli chiese di seguirlo, voleva presentargli una persona. Il fotografo di Ragusa si trovò al cospetto di Sciascia, seduto su un divano mentre fumava l’eterna sigaretta. A colpirlo fu l’immediata domanda del maestro di Regalpetra che gli chiese se conoscesse la prefettura di Ragusa. Leone, intimorito, rispose ingenuamente di sì. Sciascia rincalzò, divertito, spiegando che il riferimento era alle tempere realizzate da Duilio Cambellotti. Pitture che adornavano il palazzo della prefettura. Lo scrittore aveva già in mente un lavoro dedicato a una pagina rimossa della storia italiana. Paradossalmente quella sua prima domanda, dopo qualche anno, si trasformò nel loro ultimo libro: “Invenzioni di una prefettura”, edito da Bompiani. Il libro fu pubblicato proprio dal direttore editoriale Mario Andreose, dopo la bizzarra lettera di presentazione sciasciana. A Ragusa, Sciascia riuscì a visitare i saloni della prefettura. Le pareti erano state foderate, per anni, da teloni scuri che coprivano le pitture di Cambellotti. Fu dunque un autentico disvelamento. Realizzarono un libro autenticamente sciasciano. Contraddistinto dalla sua cifra stilistica: la spasmodica ricerca della verità. Anche la verità scomoda, come quella del regime fascista.

Dunque misteriosamente, la prima cosa che Sciascia aveva chiesto a Leone, fu l’ultimo libro della loro lunga collaborazione. Dopo il primo incontro palermitano, i due entrarono subito in sintonia. Sciascia si recò a Ragusa, più volte. Batterono la Sicilia in lungo e largo per mostre, convegni, feste di piazza. Ma in tanti anni di amicizia, il fotografo non osò mai dare del tu all’autore del “Giorno della civetta”. Sciascia è stato una persona determinante, per la carriera di Leone. Le sue parole, le sue indicazioni, gli hanno aperto orizzonti inesplorati, conferendo metodo al suo lavoro di fotografo. Il loro primo libro fu “La Contea di Modica”. In quell’occasione, ricorda Leone, ebbe modo di conoscere il grande valore dell’uomo e dello scrittore. Quando gli chiese, intimidito, come procedere, Sciascia gli rispose che dovevamo agire in piena autonomia. Al fotografo lasciava l’autonomia di sviluppare il suo racconto per immagini, Sciascia avrebbe tratteggiato la sua narrazione con le parole. Quando Sciascia arrivava a Ragusa, non mancava l’appuntamento a Scicli, nello studio del pittore Piero Guccione che lo scrittore stimava e apprezzava per la sua maestria e per il suo riserbo, una taciturna discrezione che sembrava accomunarli. La conversazione con Leone è un continuo affastellarsi di aneddoti legati al carosello di ritratti che affollano le pareti del suo studio. Osserva le immagini che tratteggiano i volti di Enzo Sellerio, Danilo Dolci, Ignazio Buttitta, Franco Battiato, Piero Guccione, Elvira Sellerio e mille altri artisti. Ma una spicca su tutte.


Una fotografia che ormai diventata una foto simbolo, quella che ritrae i tre scrittori Gesualdo Bufalino, Vincenzo Consolo e Leonardo Sciascia. Un frammento in bianco e nero dell’intensa intimità che si registrava in contrada Noce, la tenuta estiva di Leonardo Sciascia. Lo scatto è del 1982 e segna non solo la fine del Novecento letterario, ma anche il tramonto della cultura eccentrica. Quella incarnata da tre intellettuali che operarono lontano dai centri del potere della cultura ufficiale. Scrittori di provincia ma non provinciali. Artisti di levatura europea, nati in tre minuscoli paesi siciliani: Racalmuto, Sant’Agata di Militello e Comiso. Ad organizzare il rendez-vous a Racalmuto fu Aldo Scimè, intellettuale e giornalista della Rai. Una circostanza memorabile, per il tenore della conversazione e per gli argomenti trattati, permeato da un clima di meravigliosa complicità. La risata immortalata nella sequenza fotografica smonta anche un altro abusato assunto, quello che vedeva i tre grandi autori siciliani tratteggiati come tristi e inguaribili pessimisti. A scatenare l’incontenibile e fragorosa risata fu il riferimento ad altri due grandi autori isolani: Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Lucio Piccolo. Sciascia raccontò del loro arrivo a Milano, invitati dall’organizzatore del premio San Pellegrino, Eugenio Montale. Il poeta aveva convocato i due cugini siciliani che accompagnati da un valletto, si presentarono infagottati in pesanti pastrani, bizzarri come Totò e Peppino nella celebre sequenza cinematografica. Mentre Sciascia raccontava l’episodio e si appalesò la scena dei due cugini a Milano curiosamente intabarrati, scoppiò la fragorosa risata dei tre scrittori, eternizzata dal bianco e nero della sequenza fotografica.

A conclusione della lunga conversazione, Giuseppe Leone racconta un episodio accaduto alla fine degli anni Ottanta, l’arrivo in Sicilia proprio del direttore editoriale della Bompiani Mario Andreose, personaggio dal quale muove questa conversazione. Uomo elegante, colto e raffinato, si ritrovò smarrito al cospetto delle complessità della Sicilia. Leone e Andreose partono alla volta di Racalmuto. Ad attenderli lo scrittore e la moglie Maria. Nel caldo di un’estate siciliana infuocata, non vengono risparmiati all’inappuntabile intellettuale veneto, ragù ribollenti e succulenti manicaretti. Con lo stesso smarrimento che attanagliava il buon Chevalley tra le pagine de “Il Gattopardo”, Andreose rivolgendosi di soppiatto al vicino Leone, chiese furtivamente se il numero delle portate fosse destinato ad aumentare. Ricevuto, per tutta risposta, che si era solo all’inizio, allentò con discrezione il nodo della cravatta, estraendo un fazzoletto dal taschino della giacca, asciugando con altrettanta discrezione la fronte dalle minuscole gocce di sudore che imperlavano la sua fronte.


L’Espresso del 29 giugno 2021

L’illusione di Consolo tra metafora e realtà

                                           di Sebastiano Burgaretta

C’è un libro di Vincenzo Consolo, La Sicilia passeggiata, che, sebbene si presenti come opera minore, legata a un evento occasionale[1], riveste, come ha recentemente evidenziato Miguel Ángel Cuevas[2], un ruolo importante nel rapporto tra Consolo e la Sicilia, e, aggiungo io, per estensione, tra Consolo e l’Italia, Consolo e il mondo, in particolare per ciò che attiene al bacino del Mediterraneo. Il ruolo di questo libro è lo stesso che è narrato e descritto anche nelle due opere che – a parte il racconto La grande vacanza orientale-occidentale[3]si configurano come viaggio dello scrittore nell’isola. Scrive, infatti, Cuevas nella sua introduzione all’edizione spagnola: La Sicilia passeggiata è in effetti, per quanto opera minore, un testo centrale, e non solo né principalmente sul piano cronologico, fra le altre opere narrative: fra il sollievo erudito, il balsamo sentimentale di Retablo e l’insanabile frattura, le contemporanee lande desolate dell’Olivo e l’olivastro[4]. È vero, infatti, che nelle opere di Consolo si registra una tensione costante tra la volontà di intonare uno scongiuro propiziatorio e quella di svelare le atrocità. Nella Sicilia passeggiata è la prima pulsione a vincere[5]. Anche Giuseppe Traina, già nel 2001, scriveva che il testo si potrebbe per certi versi considerare un incunabulo del viaggio in Sicilia compiuto poi in L’olivo e l’olivastro ma fin dal titolo rasserenante, dimostra – anche rispetto agli esiti di Retablo e Le pietre di Pantalica – una disposizione d’animo meno direttamente coinvolta negli scempi dell’attualità[6]. La descrizione procede dritta, schivando le angustie dell’attualità, le ferocie mafiose palermitane, le chimeriche disgregazioni siracusane, e si svolge scioltamente, ha scritto Salvatore Mazzarella, con tono sereno e disteso, onirico[7]. È lo stesso Consolo, del resto, a precisare nella nota introduttiva all’edizione del 1991, che il libro era nato da una commissione e da una illusione…L’illusione mia, di mostrare – agli stranieri soprattutto! –, contro quella negativa e sconveniente che la cronaca ogni giorno ci consegna, una immagine positiva della Sicilia. Ho ripercorso così brevemente…una Sicilia onirica, illusoria. Nell’illusione anche, prendendo a metafora il mito di Persefone o Kore, che questa terra, la sua storia, possa, in una prossima desiderata primavera, risorgere dalle tenebre dell’attuale inverno, dal fondo dell’inferno[8].

Intenzionalmente e significativamente perciò egli intitolò il testo, nella prima edizione, Kore risorgente. L’illusione suscitata nello scrittore da un fatto occasionale e documentata nel libro è in realtà l’aspirazione costante, dolorosa che Consolo si portò dentro sino alla fine; il desiderio, mai appagato, di vedere una buona volta in Sicilia l’ulivo crescere e fruttificare in pace senza le briglie soffocatrici dell’olivastro, di vedere la positività soppiantare la negatività, il bene trionfare sul male. Quella di Consolo era una tensione dolorosa, che angustiava l’uomo e che si trasferiva tormentosamente nelle pagine delle sue opere con sempre maggiore intensità[9]. I suoi frequenti e attivissimi ritorni nell’isola ne sono stati la spia evidente, come egli stesso lasciò chiaramente intendere nelle pagine delle Pietre di Pantalica: Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e rigirare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca[10].

Una tensione dolorosa che era figlia dell’amore viscerale che lo scrittore aveva per la Sicilia e la sua storia culturale, memoriale e linguistica. Una storia che non perdeva occasione di rivisitare e documentalmente illustrare sotto vari aspetti, tematiche e tradizioni etnoantropologiche, cui prestava profonda attenzione. E io conservo tanti bei ricordi di escursioni qua e là per l’isola. Mi ha fatto visitare con la sua sapiente guida, Palermo, i Nebrodi, Alcara Li Fusi, i resti archeologici di Apollonia, il bosco della Miraglia con i luoghi descritti e i linguaggi dei quali gli fu maestra la piccola Amalia[11], Cefalù, la stessa Sant’Agata Militello, Villa Piccolo a Capo d’Orlando, Santo Stefano di Camastra, e poi ancora insieme Siracusa, Sortino, Palazzolo Acreide, Cittadella dei Maccari, Eloro, Vendicari, Cava d’Ispica, Noto, Serravento, Testa dell’Acqua, Cava Grande del Cassibile, tutta la Montagna d’Avola con la delizia delle sue erbe aromatiche, alcuni di questi luoghi anche ripetutamente. Era questa la Sicilia, terra geograficamente e storicamente crocevia al centro di quel Mediterraneo che Consolo amava e proponeva nel bene e nella positività, senza tuttavia che il suo amore per l’isola facesse velo alle realtà negative e atroci di cui è lontana portatrice, come invece qualche benpensante in Sicilia gli rimproverava, tutt’altro anzi, perché non smise mai di denunciare i mali di cui soffre la Sicilia.

Lo scrittore aveva chiara consapevolezza del positivo portato storico-culturale e memoriale della gente dell’isola e ne ha dato prova in molti testi di natura saggistica pubblicati nel corso degli anni e poi riuniti in volumi, il più ricco dei quali è Di qua dal Faro. In questo sono confluiti, per esempio, con il titolo Uomini e paesi dello zolfo, lo scritto Un uomo di alta dignità, che era stato pubblicato coma saggio introduttivo al volume curato da Aurelio Grimaldi ‘Nfernu veru[12], La pesca del tonno, già uscito con Sellerio[13], Vedute dello Stretto di Messina, anch’esso già uscito da Sellerio[14], I pupi[15], argomento, questo, del quale si occupò più volte[16], La rinascita del Val di Noto, già uscito da Bompiani[17]. Tutti questi saggi sono incursioni in e approfondimenti di alcuni aspetti della storia e della cultura della Sicilia, che hanno la loro centralità nella matrice mediterranea della civiltà e dell’evoluzione culturale dell’isola. Sono scritti solo apparentemente d’occasione, perché lo scrittore è capace, ogni volta, di trasformarli e funzionalizzarli positivamente all’interno della sua ricerca – amorosa illusione – storico-memoriale[18] e, perché no, anche linguistica, stando ai documenti in essi studiati e citati, e ciò anche a non voler considerare il valore fondante che la lingua e la scrittura verticale, figlie della memoria storico-culturale, hanno in tutta l’opera di Consolo. Nella nota conclusiva del volume Di qua dal Faro lo scrittore dichiara: La scelta (dei testi) è dettata dalla coerenza e dalla sequenza degli argomenti tra loro. Utile, questa scelta, a dare ancora una mia idea della Sicilia[19]. È la Sicilia dell’olivo non sopraffatto dall’olivastro, la Sicilia che fa dire allo scrittore, per bocca del pescatore messinese Placido Alessi: Ora mi pare d’essere, ridotto qui tra Pace e Paradiso, come trapassato, in Contemplazione, statico e affisso a un’eterna luce, o vagante, privo di peso, memoria e intento, sopra cieli, lungo viali interminati e vani, scale, fra mezzo a chiese, palazzi di nuvole e di raggi. Mi pare (vecchiaia puttana!) ora che ho l’agio e il tempo di lasciarmi andare al vizio antico, antico quanto la mia vita e pure avanti, di distaccarmi d’ogni reale vero e di sognare[20]. È la Sicilia degli amici costanti lungo il tempo, che offrono conforto, quando si sente smarrito[21]. La Sicilia nella quale gli può succedere d’esser in un luogo in disparte, lontano dagli uomini che mangiano pane, lontano dai Ciclopi, d’essere ai confini del mondo, in un’isola di sopravvivenza d’una umana misura ormai perduta[22]. Una terra in disparte, come quella che nell’isola di Scheria permette al re Alcinoo di coltivare, lontano dall’incivile convivenza in una terra in disparte, ai confini del mondo, oltre all’accoglienza di chi ha bisogno, anche l’esercizio della ragione, l’amore per il canto, la poesia[23]. In altri termini la Sicilia che porta i segni della sua antica civiltà e che è da sempre crocevia e ponte per uomini in viaggio e cammino all’interno del Mediterraneo, la Sicilia incrocio e centro d’ogni antica navigazione dell’uomo[24].

Di qua da Faro è il chiaro segnale del rovesciamento della prospettiva dalla quale i Borboni guardavano – da Napoli – al Faro e allo Stretto che separa la Sicilia dal continente. Consolo guarda, posto “di qua dal Faro”, facendo della Sicilia ciò che essa è realmente stata in passato, collocata com’è al centro del Mediterraneo: l’asse dal quale ruotare lo sguardo a 360 gradi, alla ricerca di quei contatti e di quelle aperture che la storia non ha lesinato agli abitanti dell’isola e che oggi si rendono necessari alla sopravvivenza di una civiltà, giunta “alla fine”, come quella del mondo occidentale. Anche in tempi epocali di “fine”, sembra voler dire lo scrittore, la Sicilia forse non ha esaurito il suo ruolo storico[25]. E noi oggi siamo testimoni dell’avverarsi di questo intimo desiderio dello scrittore. Stiamo, infatti, assistendo, in questi anni, a una sorta di rinnovata funzione mediatrice della Sicilia al centro del Mediterraneo. L’isola sta ridiventando quella che è già “in costrutto”: ponte reale, oltre che, poi anche, metaforico e letterario[26]. Questo, di fatto, ci insegna, che lo vogliamo o no, il fenomeno epocale dei drammatici sbarchi nell’isola. Questo ci è testimoniato dai tanti segnali positivi di ricerca scientifica e di collaborazione culturale presenti nell’isola. Penso, per esempio, al ruolo che da tanti anni riveste la Fondazione delle Orestiadi, messa su da quel Ludovico Corrao che Consolo omaggio in Retablo, penso al lavoro proficuo e mirato della casa editrice messinese Mesogea, con la quale lo scrittore collaborò, penso all’attività dell’Istituto Euro arabo di Mazara del Vallo, che in particolare con la rivista bimestrale “Dialoghi mediterranei”, grazie al lavoro del suo fondatore Antonino Cusumano spesso ricordato da Consolo, contribuisce all’arricchimento del patrimonio  culturale e scientifico dei paesi mediterranei “considerati nella propria unità e diversità”, aprendo spazi e occasioni di riflessione su argomenti strettamente legati all’incontro dei vari popoli dell’area mediterranea sui diversi aspetti relativi ai rapporti intrattenuti nel passato, nel presente e in prospettiva, tra la Sicilia, l’Italia e l’Europa, da un lato, e il mondo arabo-islamico, dall’altro[27]. Il segreto del felice modello Mazara, che resiste al virus del razzismo, è costituito dal lavoro e dalla cultura, un modello, ha dichiarato il vescovo della città, Domenico Mogavero, nato su quello della Tunisia, quando ad andare lì erano i siciliani. E qui c’è tolleranza, anche fra le religioni. Un clima che ormai non fa più notizia ma che forse è il momento che torni a fare notizia[28]. E qui è il ruolo degli intellettuali chiamati a dover intervenire, come Consolo non mancava di sottolineare già in una intervista del lontano 1992: Penso a quando, nel 1968, i primi tunisini sbarcavano a Trapani. Nessuno si accorgeva della presenza dei tunisini quando sui pescherecci o nelle vigne servivano le loro braccia. Ma nei momenti di crisi, nei momenti in cui i lavoratori locali sentivano la concorrenza dei tunisini, si scatenava una vera e propria caccia all’immigrato, cui partecipavano “onesti cittadini”, per ripulire la città da discriminazioni razziali… C’è nei letterati come una cautela, una reticenza, perché “l’impegno” era prima connotato come schieramento politico a sinistra. Oggi, di fronte a episodi di razzismo, nessuno interviene. Ci sono piuttosto interventi al contrario, di rifiuto del “diverso”[29]. Non perdeva occasione di denunciare la latitanza degli intellettuali davanti a certe emergenze sociali. Oggi gli intellettuali sono pressoché distanti dall’impegno sociale; la parola stessa “impegno” è ormai tabù, quasi scandalosa dichiarava a Domenico Calcaterra[30]. E a Roberto Andò: Piango la scomparsa delle eccentricità letterarie[31]. Non mancò di intervenire energicamente e anche con una punta di ironia Consolo, accendendo peraltro un vivace dibattito sulla stampa del tempo[32], nel 2004, alla notizia che una deputata dell’Udc aveva proposto una legge regionale che istituisse un museo dei migranti a Lampedusa. In anni nei quali si consumava, come ancora oggi si consuma, la tragedia di tanti immigrati morti nelle acque del Mediterraneo, Consolo bollò come retorica e ipocrita quella proposta: Cosa ci metterebbe dentro quel museo di Lampedusa la signora deputata dell’Udc? Ci metterebbe tibie incrociate e teschi? … È retorica pensare a un museo nel momento in cui il dramma dell’immigrazione terzomondista nel nostro crasso e ameno Paese è in attoUn monumento piuttosto a quella giovane madre africana, alla madre africana che affida alle acque il corpicino del figlio morto sulla carretta del mare durante il tragico viaggio della speranza[33].

È altra, invece, non quella della retorica di circostanza, la Sicilia amata, agognata, cercata da Vincenzo Consolo. È la Sicilia di cui egli ha ripetutamente scandagliato la storica matrice mediterranea, identificandone la vocazione geografica e storica di mesogea, di terra di mezzo, il cui accesso non va negato a nessuno. Ecco quanto ebbe a dichiarare Consolo sulla centralità della Sicilia nel lontano dicembre del 1988: Questa regione è la più periferica e insieme è al centro del Mediterraneo. Anche per Goethe è una terra miracolosa: qui si sono incrociati tutti gli eventi. Si sono svolte qui tragedie e cose sublimi. Il susseguirsi dei popoli ha portato una grande infelicità sociale e insieme una grande ricchezza culturale[34]. Rifacendosi, come già Sciascia, al pensiero di Américo Castro, Consolo, nei suoi scritti, è più volte tornato a parlare della vocazione storica alla convivenza tra popoli diversi sperimentata nell’isola in età medievale. Soprattutto fu sotto la dominazione araba che si registrarono, scrive, lo spirito di tolleranza e la convivenza fra popoli di cultura, razza, religione diverse. Questa tolleranza, questo sincretismo culturale erediteranno poi i Normanni, sotto i quali si realizza veramente la società ideale, quella società in cui ogni cultura, ogni etnia vive nel rispetto di quella degli altri[35]. La Sicilia, insomma, che, al di là delle metafore di ascendenza omerica, ci porta alla realtà variegata del suo cammino storico. La Sicilia che coltivava buoni rapporti col Maghreb. Citando Francesco Gabrieli, Consolo evidenzia i rapporti della Tunisia con la Sicilia, così vicine le due, geograficamente e culturalmente, così uguali. E ricordava Gabrieli che, già sul finire della dominazione araba in Sicilia, il grande letterato tunisino Ibn Rashîq faceva in tempo a venire a chiudere la sua vita a Mazara, mentre sull’opposta sponda tunisina, a Monastir, s’innalzava un mausoleo al giureconsulto mazarese, all’Imàam al Màzari[36].

L’incanto della tolleranza e della convivenza civile fu rotto poi dai cristiani: Culminò, l’intolleranza, con i re cattolici di Spagna, con la cacciata dall’Isola, nel 1492, dei Mori e degli Ebrei. Decadde Palermo, decadde la Sicilia, da quella sua età dell’oro, da quel momento unico e irripetibile di equilibrio ateniese, di composta e alta civiltà, dal momento in cui si entrò nell’età dei conflitti e si piombò in quella paralisi culturale, e insieme sociale, storica, che, al di là dei tre secoli che Américo Castro attribuisce alla Spagna, è durata in Sicilia sino a ieri, dura sino ad oggi[37]. E il Mediterraneo divenne mare che conobbe migrazioni e spostamenti di popoli con ogni tipo di boat people, antico e moderno, dai settemila cavalieri di Gerusalemme, che cacciati da tutti i porti, ha scritto Francesco Merlo, errarono dal 1522 al 1530, alla famosa Exodus con a bordo 4515 profughi ebrei scampati ai campi di concentramento nazisti. E fino alla nave Diciotti[38]. S’era rotto l’incanto, s’erano guastati i civili rapporti tra la Sicilia e i paesi del Maghreb. Il ponte sul Canale di Sicilia, ponte umano già rappresentato dal Boccaccio nella seconda novella della giornata quinta del Decamerone, quella di Gostanza che ama Martuccio, ebbe a subire scossoni e colpi che non sono finiti più, nel corso dei secoli, fino ai nostri giorni. Le cronache, ha scritto Consolo due anni prima di morire, ci dicono di disperati che cercano di raggiungere l’isola di Lampedusa. Disperati che partono soprattutto dalla Libia, ma anche dalla Tunisia e dal Marocco…Il governo italiano intanto non fa altro che promulgare leggi xenofobe, razzistiche, di vero spirito fascistico. Di fronte a episodi di contenzione di questi disperati in gabbie infuocate, di ribellioni, di fughe, scontri con le forze dell’ordine, scioperi della fame, gesti di autolesionismo e di tentai suicidi, di gravi episodi di razzismo e di norme italiane altrettanto razzistiche si rimane esterrefatti. Ci ritornano allora le parole di Braudel[39] riferite a un’epoca passata: “In tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato, e vi conosce le miserie, gli errori e le santità degli universi concentrazionari[40]. A questo ponte distrutto e alla sua storia, in particolare quella dei primi anni del XX secolo, che vide una folta immigrazione di siciliani in Tunisia, Consolo ha dedicato un capitolo intero, riprendendo un articolo pubblicato già sul “Messaggero”[41]; e ha dedicato anche il testo di una conferenza tenuta, col titolo I muri d’Europa, agli studenti dell’Università di Milano nella sede di via della Passione nel 2006 e successivamente ripresa al Palazzo Ducale di Genova, nel giugno del 2009, nell’ambito degli incontri della manifestazione “Mediterranea”[42] E la Tunisia, oltre che terra amata dallo scrittore, nel suo immaginario letterario è diventata anche terra d’esilio per siciliani amanti della libertà, come l’anarchico Paolo Schicchi e il protagonista di Nottetempo, casa per casa, Pietro Marano[43].

Purtroppo il veleno che aveva intossicato le acque del Mediterraneo s’era diffuso per osmosi all’intero mondo e dall’Egeo era giunto fino alle acque della costa somala – amara ironia degli stravolgimenti della storia – su di una nave greca, il cui capitano, in anni recenti, ha fatto gettare in mare un gruppo di giovani clandestini neri scoperti a bordo dell’imbarcazione; tragico e profetico prologo consoliano, nel 1988, di quello che sarebbe stato, ed è ancora oggi, il destino di tanti infelici che vogliono fuggire dalla guerra e dalla fame e s’avventurano, in mano a criminali speculatori, nelle acque del Mediterraneo, dove in gran parte lasciano la vita e il corpo in quello che è diventato un cimitero subacqueo, da Mare Bianco, che era, mare nero. Consolo prefigura tutto ciò nel racconto che significativamente chiude Le pietre di Pantalica, quello che nell’endiade del titolo ho sempre pensato reca un cordiale omaggio a Basilio Reale[44], amico e mentore di Vincenzo Consolo, che lo scrittore mi fece conoscere un’estate a Capo d’Orlando. Al disincanto dello scrittore verso il degrado della civiltà contemporanea presente in questo libro aveva fatto riferimento Flora Di Legami nella sua monografia dedicata a Consolo[45]. Della cancellazione dei buoni rapporti tra popoli all’interno del Mediterraneo Consolo avrebbe scritto poi nello Spasimo di Palermo[46], puntualizzando poi in un’intervista: Con la citazione dell’Algeria, prendendo spunto dalla moschea che c’è a Parigi e dalla sosta che fa il protagonista nel giardino della moschea, ho voluto dire della distruzione della civiltà mediterranea, della cancellazione della nostra cultura, che avviene in modo anche visibile e atroce, come appunto in Algeria o nella ex-Jugoslavia[47].

Sono stato personalmente privilegiato testimone[48] di questo suo disincanto, dell’amarezza che ne inficiava l’animo, della sua ansia di vita nuova per la Sicilia, della sua attesa speranzosa di una primavera, per così dire, “cerealicola” e “floreale” nella terra di Kore e nell’Italia tutta, attesa speranzosa che purtroppo puntualmente abortiva nella delusione, sino a fargli scrivere, in una pagina dell’Olivo e l’olivastro, davanti a Palermo, centro aggregante e sintesi della Sicilia della storia, contrapposta a quella appagante del  mito e del canto poetico: Via via, lontano da quella città che ha disprezzato probità e intelligenza, memoria, eredità di storia, arte, ha ucciso i deboli e i giusti[49]. La stessa Palermo, contraddittoria e infelice di cui parla nel racconto Il boato di Santa Rosalia[50].

Purtroppo, come per Sciascia la linea della palma s’era spostata a nord[51], così per Consolo, e in verità per tutti, i miasmi socio-antropologici e politici, e dunque sostanzialmente culturali, di Palermo e della Sicilia si erano propagati in tutto il paese, raggiungendo quella Milano che, per Consolo, anni prima, era stata il punto di un approdo culturale liberante e potenzialmente fecondo. Scoraggiato dichiara, in occasione dell’uscita dello Spasimo di Palermo: Sciascia si riferiva solo alla mafia, mentre io sento questo spasimo (in progressione, da Palermo alla Sicilia, al mondo) come distruzione della civiltà, come passaggio epocale, perché questa grande rivoluzione tecnologica che ci schiaccia e ci annulla è il mondo della sottocultura, dello spettacolo, della canzonetta, dove nessuno è se non appare[52]. Conseguenza ne fu che, sul piano creativo, lo scrittore si ritrovò senza il tessuto memoriale del luogo e perciò afasico, mentre, sul piano personale e civile, si ritrovò davanti agli stessi mali sociali e politici che soffocavano la Sicilia. Percepiva Milano e il suo decadimento culturale e civile come la proiezione geometrica dei mali siciliani nell’Italia tutta, di cui Milano era stata il cuore pulsante, giusta la storica tradizione degli illuministi lombardi di ogni tempo, da Beccaria a Manzoni a Dossi, fino all’amato Vittorini, a Sereni e al lui caro Leonardo Mondadori.

Crimine organizzato, mala politica, nuovi fascismi rampanti, forme variegate di irrazionalismo caratterizzano il panorama nel quale l’ombra della Sicilia si è estesa a tutta la nazione. In Nottetempo, casa per casa tutto ciò è evidenziato in modo chiarissimo, ed è lo stesso Consolo a dichiarare in un’intervista: La questione dell’irrazionalismo delle neometafisiche sembra essere di grande attualità. In un periodo di crisi delle ideologie e delle relative estetiche, questo ritorno all’irrazionale non lascia prefigurare nulla di buono[53]. E in un’altra intervista, con riferimento alla metafora del presente insita nella storicità d’inizio Novecento di Nottetempo, casa per casa, dichiara: Un’alienazione dolorosa percorre quegli anni: sono tempi di sradicamento…Nel quotidiano smarrimento trionfano gli squadristi, i più umani soccombono al carnefice, i politici rincorrono utopie…Oggi l’Italia ha subito tali scosse in termini di classe, cultura, politica ed economia da ricordare quella del ’20. Ciò si traduce, ripeto, in perdita di sé, incapacità di sopportazione del reale, che genera nevrosi e barbarie[54]. Scrisse al riguardo Oreste del Buono: Vincenzo Consolo sa che quanto avviene in Sicilia, avviene anche a Milano, avviene in tutto il mondo. Lui scrive della Sicilia, perché ci è nato e perché a Sicilia è così bella, eccessiva ed esemplare anche nell’orrore[55]. Consolo stesso dichiara nel 1988: Non è migliorata Milano. Qui tutto è merce, denaro, falsi valori. Milano ha grandi responsabilità. Da Milano partono i messaggi. Milano è un pezzo d’America. Ci sono i giornali, c’è la televisione, uno strumento con cui si persuadono le masse[56]. E oggi noi possiamo aggiungere: c’è la rete telematica, che consente a chicchessia di lasciarsi piacevolmente persuadere dal primo villan che parteggiando viene e che perciò stesso diviene un Marcello[57]. Conferma tutto quanto Lo spasimo di Palermo, che Massimo Onofri definì tutto il romanzo della Sicilia, dell’Italia – tra Milano e Palermo – degli ultimi cinquant’anni: a complicare di un capitolo nuovo quella controstoria d’Italia letteraria e civile che ci ha affidato tanta letteratura siciliana[58]. Luca Canali, definendo l’ultimo romanzo di Consolo il più bello forse, e il più compatto dei libri dello scrittore di Sant’Agata Militello, riscontrò in esso il quadro “nero” della società italiana (da Palermo a Milano)[59]. È poi lo stesso scrittore a dichiarare: È un libro estremo, è l’esito o l’esodo di tutto il mio percorso letterario…Questo libro riassume la storia di un uomo nell’arco di cinquant’anni, a partire dal dopoguerra con l’orrore dei bombardamenti, la violenza dei tedeschi, dei razzisti, e arriva sino ai giorni nostri, nel ’92… Ho guardato a questo cinquantennio come a una perdita, a un’età di orrori, di dolore, un cinquantennio anche di violenza dalle forze che non amano la civiltà, che agiscono solo per i propri interessi. Parlo delle responsabilità di chi ha amministrato, di chi ha diretto i fili della nostra vita e ha deciso per la nostra vita. E quindi parlo di Milano, parlo di Palermo, parlo di Parigi, di questo nostro contesto[60]. Per bocca del protagonista, Chino Martinez, lo scrittore consuma tutta la sua delusione nei riguardi della scrittura e in particolare del romanzo, genere letterario ormai inadeguato di fronte alla realtà di degradazione in cui versa la società. Sono vari i luoghi del libro significativi al riguardo: Non scrivo più nemmeno dediche[61]; sai bene che non sono più uno scrittore, se mai lo sono stato[62]; ho assoluta ripugnanza, in questo stordimento, nell’angoscia mia e generale[63]; sarebbe riuscito forse a scrivere d’una realtà storica…fuori da ogni invenzione, finzione letteraria. Aborriva il romanzo, genere questo scaduto corrotto, impraticabile. Se mai ne aveva scritti erano i suoi in una diversa lingua, dissonante, in una furia verbale ch’era finita in urlo, s’era dissolta nel silenzio[64].

Quello dello Spasimo di Palermo è un urlo d’amore che porta Consolo a fare finalmente i conti con Milano, divenuta metafora dell’Italia intera e perciò oggetto di ricerca poetico-creativa, come lo era stata la Sicilia. E attraverso la città lombarda, che già fu antitesi al marasma, cerchia di rigore, civile convivenza[65], lo scrittore, servendosi di Chino Martinez, fa i conti con l’Italia del nostro tempo, confessandosi in una sorta di esame di coscienza storico-generazionale (è debolezza d’un vecchio, desiderio estremo…[66]), nel quale non può non sentirsi coinvolto ogni lettore sensibile e attento. La Milano con cui si confronta l’alter ego di Consolo è quella dell’omologazione e della corruzione: Illusione infranta, amara realtà, scacco pubblico e privato, castello rovinato, sommerso dall’acque infette… palazzo della vergogna, duomo del profitto, basilica del fanatismo e dell’intolleranza, banca dell’avventura e dell’assassinio, fiera della sartoria mortuaria…stadio della merce e del messaggio, video dell’idiozia e della volgarità[67]. Non è più la Milano di Vittorini, nella quale il giovane scrittore aveva sperato più di trent’anni prima. È invece la Milano della logica dell’avere e non dell’essere, arrasso dalla quale era fuggito Fabrizio Clerici, il protagonista di Retablo. Oggi la Milano dei miei sogni, delle mie aspettative è una città irriconoscibile, per dirla con Rushdie. Una città centrale della menzogna[68]. Una Milano omologata a Palermo, alla Sicilia, all’Italia tutta, quella che non ha potuto conciliare a sé lo spirito critico e irrequieto, si direbbe pasoliniano, “irriducibile all’utile” di Vincenzo Consolo. Tutto il Paese ridotto ad un unicum di corruzione e di degrado: In questo Paese, in quest’accozzaglia d’assolvenza, dove lo stato è occupato da cosche o segrete sette di Dévorants…dove tutti ci impegnamo, governo e cittadini, ad eludere le leggi, a delinquere, e il giudice che applica le leggi ci appare come un Judex, un giustiziere insopportabile, da escludere, rimuovere. O da uccidere[69]. L’impossibilità di scrivere un romanzo storico-metaforico su Milano, sperimentata o patita per anni dallo scrittore, si è mutata nella realtà di un rapporto d’amore sofferto — Addio ai luoghi del dolore e dell’affetto[70] –, maturato e approdato compiutamente alla pagina, pur nei modi dell’invettiva pasoliniana, soltanto quando la città lombarda è diventata come tutte le altre città e, in virtù dei suoi mezzi produttivi, forse peggiore delle altre. Di un Paese tale ormai Milano, più che Palermo, è divenuta metafora. Ecco perché, non essendo stato Consolo ad “andare” a Milano, è stata questa, ormai irrimediabilmente mutata, ad “andare” da lui. Da questa odiosamata Milano lo scrittore, attraverso il protagonista del romanzo, dolorosamente si congeda, invocando la compagnia e l’assistenza degli spiriti magni che fecero grande la città e che da tempo costantemente lo confortano[71].

Ebbero un bel dire quanti si indignarono davanti alla dichiarazione, che Consolo fece sulle pagine del “Messaggero”[72], di voler lasciare Milano in caso di vittoria della Lega di Bossi alle elezioni amministrative del 20 giugno 1993. Una dichiarazione che… potrà apparire a chi legge…insensata, carica di esibizionismo, di prevenzione e presunzione, inopportunamente provocatoria, ma credo che essa possa trovare una sua motivazione e legittimità nel fatto che altri intellettuali milanesi – editori, scrittori, giornalisti ben più autorevoli e famosi di me – hanno dichiarato la loro simpatia e adesione politica allo schieramento della Lega Nord e quindi, implicitamente, la loro soddisfazione e felicità nel trovarsi a vivere in una Milano amministrata da domani dai leghisti[73]. Dichiarava che se ne andava specificando: Me ne andrò, voglio chiarire, non in quanto militante dell’altro schieramento politico…ma in quanto cittadino di Milano, in quanto lavoratore, in quanto, è la parola che si usa, un intellettuale[74]. E ancora precisava, data l’omologazione socio-culturale e civile del Paese tutto: Non si è più di nessun luogo. E, d’altra parte, credo che oggi non si possa più fuggire da nessun luogo, penso che siamo prigionieri, a Milano, a Roma, a Palermo, della stessa realtà, affetti tutti dallo stesso male. La mia dichiarazione di lasciare Milano era un gesto simbolico di protesta[75]. Il gesto, è chiaro, di un uomo libero, di uno abilitato a scrivere: Solo pochi scrittori, solo pochi isolati, “non protetti”, hanno sentito il dovere morale di parlare, di battersi per la verità e la giustizia…Lo scrittore rimane solo. Quando Zola affermava reiteratamente “sono uno scrittore libero”, “sono uno scrittore solo” affermava. O solo perché libero[76].

La libertà e il coraggio di elevare una simile protesta, che irritò e inquietò tanta gente[77], gli venivano dall’essere, nonostante egli se ne schermisse, un seguace degli scrittori-intellettuali che osavano partecipare alla vita del Paese con la scrittura cosiddetta d’intervento; dall’essere una persona nella quale non c’era separazione fra l’uomo e lo scrittore, una persona che, nonostante la forza, e in virtù anzi, dei suoi mezzi linguistici, meditava e pesava bene le parole, prima di parlare e scrivere. Una persona che, davanti a quella che i benpensanti gli rimproveravano come una contraddizione evidente la sua scrittura e i suoi interventi pubblici, da una parte, e l’essere pubblicato dalla casa editrice acquisita dal fondatore di Forza Italia, dall’altra, ebbe a confidarmi testualmente: Jano, bisogna imparare a sapere sputare nel piatto in cui si mangia, se si vuole conservare la libertà personale. Questo era Consolo. E a proposito di “contraddizioni” rinfacciate a grandi scrittori, non posso qui sottacere quanto testualmente mi disse, durante una sua visita ad Avola, a una mia esplicita domanda circa il suo “contraddisse e si contraddisse”, Leonardo Sciascia: Dissi questa battuta per gli stupidi[78], per coloro, insomma, che non sanno cogliere la portata, a volte profetica, di determinate dichiarazioni e che si soffermano a guardare non la luna ma il dito che la indica, spesso con esiti di insipienza socio-culturale che porta alla miopia politica e apre strade a scenari regressivi di demagogia, populismi, razzismi e titillamenti di pancia delle cosiddette masse, come quelli che sono sotto gli occhi e sulla pelle di tutti nell’Europa di oggi.

La battuta dello scrittore di Racalmuto mi riportò alla mente il saggio di Miguel De Unamuno Sobre la consecuencia la sinceridad, col quale il filosofo e scrittore basco nel 1906 combatteva contro l’ipocrisia e il perbenismo utilitario di certi intellettuali del suo tempo. Essere coerente, scriveva il pensatore basco, suole significare, la maggior parte delle volte, essere ipocrita. E questo arriva ad avvelenare le sorgenti stesse della vita morale intima[79]…È ridicolo, sommamente ridicolo, chiedere coerenza a un pensatore puro[80]. E ancora nel saggio Mi religión affermava: Il mio più grande impegno è inquietare il mio prossimo[81], la mia religione, insomma, è inquietare gli altri. Nella determinazione di Sciascia e di Consolo ravviso lo stile e la determinazione dell’intellettuale puro che fu Unamuno. E un intellettuale vero non può non essere un pensatore puro. Sciascia e Consolo lo furono entrambi ed entrambi ne pagarono il prezzo. Consolo, ha scritto Concetto Prestifilippo, non esercitava diplomazie linguistiche. Non operava concessioni. Non salvava potentati. Non blandiva accademie. I suoi interventi potevano irritare, non essere condivisi ma erano sempre onesti, veri[82]. Consolo era un irregolare, non era irreggimentabile, era un eccentrico. Non gli hanno perdonato la sistematica diserzione delle adunate, delle parate. Un conto che ha pagato caro a Milano e anche in Sicilia[83]. Un intellettuale contro. Questo è stato il suo paradigma esistenziale[84]. Le parole che chiudono Fuga dall’Etna sono emblematiche a tale riguardo: La mia ideologia o se volete la mia utopia consiste nell’oppormi al potere, nel combattere con l’arma della scrittura, che è come la fionda di David, o meglio come la lancia di Don Chisciotte, le ingiustizie, le sopraffazioni, le violenze, i mali e gli orrori del nostro tempo[85].

Con Lo Spasimo di Palermo, ultima opera fondamentale, che chiude la trilogia aperta da Nottetempo, casa per casa, passando per L’olivo e l’olivastro, la furia verbale ch’era finita in urlo, come s’è detto, s’era dissolta nel silenzio[86], un silenzio che fu al tempo stesso metafisico e reale. Ma poiché anche il silenzio è dolore[87], pur non credendo più nel romanzo, Consolo non rinuncia tuttavia alla scrittura e alla denuncia di uomo libero e solo. Ha giustamente osservato Massimo Onofri che l’afasia cui ci si riferisce non ha né una valenza psicologica né estetica, ma solo storica ed antropologica. Anzi: è proprio a questo livello che la ricerca di Consolo e la sua storia di scrittore sembrano caricarsi di futuro[88] Se il narratore tacque, l’uomo che nel suo intimo coltivava, contro ogni evidenza – spes contra spem – la speranza nella linfa nuova che dal Mediterraneo sarebbe venuta all’Italia e all’Europa intera, non cessava di intervenire in pubblico. La speranza non bisogna mai perderla, aveva dichiarato in un’intervista, io credo nella forza della storia. Malgrado i momenti bui, la storia si schiarisce. Viene la luce. Citando il poeta spagnolo Machado: desperados, esperamos, todavía[89].

Sperava, Consolo, sperava, per esempio, nelle nuove energie vitali che, in tempi di decadimento e di barbarie come quelli che registra attualmente la società del mondo occidentale, sarebbe venuta a noi dai paesi del Maghreb, a rinvigorire e temprare le nostre membra esauste e svigorite dagli eccessi dell’opulenza e dell’irrazionalità. In più d’una occasione ebbe ad auspicare che entro pochi anni i figli e i nipoti degli immigrati di questi nostri anni avrebbero potuto scrivere la loro letteratura, che sarebbe stata anche la nostra. Cosa che realmente si sta verificando da qualche tempo a questa parte. Riferendosi a Ben Jelloun, così annotava lo scrittore: E noi aspettiamo in Italia una voce come la sua che venga dal Maghreb, a far esplodere la nostra lingua, che venga ad arricchire il nostro romanzo[90]. In una intervista a Gianni Bonina Consolo dichiarava: Nel nostro contesto le voci nuove possono essere quelle di quanti arrivano qui e diventano, se non in questa generazione forse nella prossima, italianofoni, portando fantasia e immaginazione, come è successo in Francia e in Inghilterra. Speriamo che i figli dei nostri clandestini possano arrivare ad esprimersi e diventare scrittori e poeti, arricchendo così la nostra letteratura. Nella quale vedo un prosciugamento senza rimedio[91]. Alla luce di queste affermazioni, come non pensare al lavoro svolto in anni recenti in Italia dal giovane scrittore congolese Jadelin Mabiala Gamgbo, autore del romanzo Rometta e Giulieo e, insieme con Piersandro Pallavicini, curatore dell’antologia L’Africa secondo noi[92], nonché a quello di tanti altri autori immigrati?[93] Allora, possiamo arguire, sarà salva la nostra società, perché sarà garantita la salvezza di una memoria storica di ampia matrice mediterranea che oggi traballa e rischia di essere cancellata definitivamente. La nostra società tutta ha bisogno di nuova linfa culturale, senza preclusioni di ordine storico né geografico né etnico. È una prospettiva nuova, oggi per molti scandalosa, sulla quale è necessario riflettere, per sottrarsi ai condizionamenti dell’unidimensionalità alla quale ci costringe la realtà del mondo contemporaneo. Si tratta di una proiezione razionale dell’ethos profondo dello scrittore, che in Di qua dal Faro è calibrata in modi e termini non metaforici, come nelle opere narrative, ma comunicativi, quelli propri della scrittura d’intervento. Ne viene fuori un sostanziale atto di fiducia nelle possibilità dell’uomo, quasi una sorta di profezia che supera di fatto, lungo il percorso di un “orizzonte colloquiale”, come l’ha definito Giulio Ferroni, i tratti, per così dire, pessimistici che porta con sé il tono alto, elaborato, solenne, talora tragico, di quell’articolato e sofferto poema narrativo che è tutta l’opera narrativa di Consolo[94]. A ragione Gianni Turchetta, a conclusione del suo saggio introduttivo al Meridiano Mondadori con l’opera omnia dello scrittore, ha sottolineato che il disincanto e le delusioni non hanno impedito a Consolo di coltivare l’intensità del suo amore per il mondo…Il progressivo incupirsi della sua visione non deve indurci a sottovalutare un altro aspetto fondamentale delle sue scritture: l’instancabile, attentissima, partecipe valorizzazione degli infiniti aspetti del mondo, e più ancora dei soggetti che lo abitano, che giorno per giorno lo fabbricano[95].

Sperava Consolo, sperava e credeva nella poesia, per lui la forma più alta di espressione creativa, quella cui era maggiormente votato e con cui – quasi antico aedo, erede anche della memoria popolare della gente di Sicilia – chiude Lo Spasimo di Palermo, in un disperato urlo catartico, a somiglianza dell’Empedocle della sua pièce Catarsi, con una preghiera, quella preghiera alla quale egli, in Chino Martinez[96], alla fine approda, realizzando un passo avanti rispetto allo Sciascia, che, alla fine del Cavaliere e la morte, s’era fermato muto davanti alla soglia del mistero del tempo[97]. Sperava Consolo, sperava e confidava nei giovani, come dimostra il sostegno dato negli anni a tanti di loro, fra cui Aurelio Grimaldi, Roberto Andò, Roberto Saviano e altri. E nella società di oggi sono i giovani a dare i segnali forti del cambiamento. Quando mai era successo che un italiano figlio di immigrati magrebini riempisse il Forum di Assago, strapieno di giovani, come ha fatto l’estate scorsa il rapper, figlio di tunisini, Ghali Andouni?[98] E come non segnalare, a proposito di giovani artisti legati all’immigrazione magrebina, i nomi della cantautrice italiana ma di origine marocchina Malika Ayane e quello dell’italo-egiziano Alessandro Mahmood[99], che, segno dei tempi nuovi, ha vinto il festival di Sanremo 2019, con tutto lo strascico di polemiche che in ambito politico e mediatico ne è seguito[100] e a conferma, come ha sottolineato più d’uno e come sosteneva Consolo, che l’incontro di culture differenti genera bellezza; nomi, tutti questi, di giovani tra i tanti in cui sperava Consolo. E sappiamo tutti quanta influenza abbia il mondo della musica e dello spettacolo in genere nell’incontro tra i giovani di ogni latitudine, oltre ogni limite e pregiudizio culturale.

Sperava Consolo, e alimentava la speranza degli altri. Voglio ricordare, al riguardo, il mio ultimo incontro con lui, nell’aprile del 2011, nella sua casa di Sant’Agata Militello. Ero andato a trovarlo insieme con Nino De Vita, ed egli, che recava evidenti nel fisico i segni della malattia che lo stava divorando, ci parlava del suo romanzo in programma, ambientato, precisava, nel Seicento e al quale, ripeteva, stava lavorando, come mi aveva in precedenza anche per telefono più volte confermato. E io, forse più per sostenerlo che per intimo convincimento, pensando oltretutto ai tempi lunghi della gestazione dei suoi romanzi, lo incoraggiavo e lo spronavo, come avevo sempre fatto con lui nel corso degli anni. E lui: Sì, Jano, scriverò, scriverò… Illusione che tra metafora e realtà lo accompagnò sino alla fine per la fiducia che egli aveva nella scrittura, in virtù della testimonianza civile di cui per lui la scrittura letteraria era portatrice. E un sospetto, in verità, mi portai dentro alla fine di quell’incontro: che fosse stato lui a sostenere e confortare me con la naturale empatia, con la pietas umana e l’amicizia che mi aveva sempre dimostrato e confermato nel corso degli anni, al punto di non vergognarsi di versare lacrime, in mia presenza, accarezzando le pietre dell’antica Eloro, come stesse accarezzando delle persone, di quelle che, ebbe a dirmi, andando poi via dal sito archeologico e chiedendomi sommessamente scusa, erano passate e vissute tra quelle antiche pietre[101].

 

[1] Il libro, col titolo Sicilia teatro del mondo, e corredato di foto di Giuseppe Leone, fu pubblicato nel 1990 in occasione della 42° sessione del “Premio Italia” della RAI, che si tenne in Sicilia. L’anno successivo l’opera fu pubblicata in edizione economica col titolo La Sicilia passeggiata.

[2] Cfr. V. Consolo, Sicilia paseada, Ediciones Taspiés, Granada 2016, pp. 9-14.

[3] Il racconto è stato pubblicato in trentaduesimo a Napoli nel 2001 dalle Edizioni Dante e Descartes.

[4] V. Consolo, Op. cit., p. 12.

[5] Ivi, p. 13.

[6] G. Traina, Vincenzo Consolo, Cadmo, Fiesole 2001, p. 32.

[7] S. Mazzarella, Dell’olivo e dell’olivastro, ossia d’un viaggiatore, in “Nuove Effemeridi” a. VIII, n. 29, p.58.

[8] V. Consolo, La Sicilia passeggiata, ERI, Torino 1991, p. 5.

[9] Cfr. S. Burgaretta, L’illusione di Consolo e la Sicilia paseada, in “Notabilis”. A. IX, n. 3, maggio-giugno 2018, pp. 26-28.

[10] V. Consolo, Le pietre di Pantalica, Mondadori, Milano 1988, p. 179.

[11] Ivi, pp. 154 ss.

[12] AA. VV. ‘Nfernu veru. Uomini e immagini dei paesi dello zolfo, Edizioni Lavoro, Roma 1985.

[13] V. Consolo, La pesca del tonno in Sicilia, Sellerio, Palermo 1986.

[14] V. Consolo, Vedute dello Stretto di Messina, Sellerio, Palermo 1986. Sull’attenzione dello scrittore allo Stretto di Messina cfr. V. Consolo – N. Rubino, Fra contemplazione e paradiso. Suggestioni dello Stretto, Sicania, Messina 1988.

[15] Era uscito sul “Messaggero” del 30 novembre 1993.

[16] Cfr. V. Consolo, Così la Sicilia ingrata tradì il paladino Mimmo, in “Il Messaggero”, 8 gennaio 1995; Idem, Retablo siciliano, in S. Burgaretta, Retablo siciliano. I colori dell’epos nella Casa-museo “Antonino Uccello”, catalogo dell’omonima mostra tenutasi al Museo Teatrale alla Scala. Museo Teatrale alla Scala, Milano 1997, pp. 17-20.

[17] V. Consolo, La rinascita del Val di Noto, Bompiani, Milano 1991.

[18] Cfr. M. A. Cuevas, Introdución, in V. Consolo, A este lado del Faro, Editorial Parténope, Valencia 2008, p. 10.

[19] V. Consolo, Di qua dal Faro, Mondadori, Milano, p. 283.

[20] V. Consolo-N. Rubino, Op cit., p. 7.

[21] V. Consolo, L’olivo e l’olivastro, Arnoldo Mondadori, Milano 1994, p. 106.

[22] Ivi, p. 113.

[23] Ivi, p. 18.

[24] V. Consolo, Di qua dal Faro, cit., p. 39.

[25] Cfr. S. Burgaretta, I saggi di Consolo, un commento ai suoi romanzi; in “Stilos”, 23 novembre 1999.

[26] Cfr. S. Burgaretta, La parola che salva, in “Annali 12”, a. XX, 2003, Centro Studi Feliciano Rossitto, Ragusa 2004, pp. 298-299; Idem, Il beato Antonio Etiope, profeta dell’accoglienza, nel rinnovato culto degli avolesi, in Idem, Uomini e santi, vol. I, Armando Siciliano Editore, Messina-Civitanova Marche 2019, pp. 102 ss.

[27] M. D’Anna, I “dialoghi mediterranei”, in “La Sicilia”, 13 settembre 2018.

[28] G. Amato, Attenti al rischio intolleranza; il virus sta sconvolgendo la natura del popolo siciliano, in “la Repubblica”, 21 agosto 2018.

[29] V. Consolo – L. Manconi, Perché non ha senso essere razzisti, in “Sette” del “Corriere della sera”, 26 novembre 1992, p. 38.

[31] R. Andò, Vincenzo Consolo: la follia, l’indignazione, la scrittura, in “Nuove Effemeridi”, cit., p. 12.

[32] V. Consolo, Ai disperati non servono musei, in “la Repubblica”, edizione di Palermo, 22 agosto 2004.

[33] Cfr. A. Cusumano, I migranti senza valigie nelle stanze della memoria, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 35, gennaio 2019.

[34] G. Giordano, “Il libro? Deve ferire”, in “Giornale di Sicilia”, 24 dicembre 1988.

[35] V. Consolo, Di qua dal Faro, cit., p.213.

[36] Ivi, p. 215.

[37] Ivi, p. 239.

[38] F. Merlo, La nave della resistenza, in “la Repubblica”, 23 agosto 2018.

[39] F. Braudel, Civiltà e Imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, vol. I, Einaudi, Torino 1976, pp. 921-922

[40] V. Consolo, Il Mediterraneo tra illusione e conflitto nella storia e in letteratura, in G. Interlandi (a c d), La salute mentale nelle terre di mezzo. Per costruire insieme politiche di inclusione nel Mediterraneo, in “Fogli d’informazione”, terza serie, nn. 13-14, gennaio-giugno 2010, p. 7.

[41] V. Consolo, Di qua dal Faro, cit., pp. 217-222; cfr, inoltre, A. Campisi – F. Pisanelli, Memorie e racconti del Mediterraneo: l’emigrazione siciliana in Tunisia tra il XIX e il XX secolo, Mc éditions, Tunisi 2015, A. Campisi, Il pericolo è alle “nostre porte”. L’invasione siciliana in Tunisia tra il XIX e il XX secolo, in “Dialoghi mediterranei”, www.istitutoeuroarabo.it, n. 33, settembre 2018.

[42] Cfr. I muri d’Europa, in  www.nuovosoldo.it

[43] Cfr. V. Consolo, Nottetempo, casa per casa, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1992, pp.173-175; cfr. G. Traina, Op. cit., p. 33.

[44] V. Consolo, Memoriale di Basilio Archita, in Idem, Le pietre di Pantalica, cit., pp. 187-195. Il racconto, ispirato a un fatto di cronaca, era già uscito, quattro anni prima, con il titolo E il capitano ordinò: buttateli agli squali! In “L’Espresso”, 3 giugno 1984, pp. 55-64.

[45] F. Di Legami, Vincenzo Consolo, Pungitopo, Marina di Patti 1990, p. 43.

[46] V. Consolo, Lo spasimo di Palermo, Mondadori, Milano 1998, pp. 40-41.

[47] G. Bonina, In nome della nostra legge, in “La Sicilia”, 27 settembre 1998.

[48] Cfr. S. Burgaretta, L’illusione di Consolo, art. cit.

[49] V. Consolo, L’olivo e l’olivastro, Op. cit., p. 125.

[50] V. Consolo, Il boato di Santa Rosalia, in “L’Unità”, 6 agosto 1998.

[51] L. Sciascia, La palma va a nord, Gammalibri, Milano 1982.

[52] G. Bonina, Art. cit.

[53] G. Marrone, Consolo risveglia l’eco di parole dimenticate, in “L’Ora”, 14 aprile 1992.

[54] C. Medail, C’era il diavolo a Cefalù. Ma poi arrivò Mussolini, in “Il Corriere della sera”, 21 marzo 1992.

[55] O. del Buono, Sicilia con furore, in “Panorama”, 16 ottobre 1988, p. 137.

[56] A. Rossi, Il “contastorie” del bel tempo che fu, in “Grazia”, 30 ottobre 1988, p. 97.

[57] D. Alighieri, Purgatorio, VI, vv. 125-126.

[58] M. Onofri, I miracoli della poesia, in “Diario della settimana”, 7 ottobre 1998.

[59] L. Canali, Che schiaffo la furia civile di Consolo, in “L’Unità”, 7 ottobre 1988.

[60] Dalla registrazione del discorso che Consolo tenne ad Avola l’11 dicembre 1998, in occasione della presentazione, da me organizzata, dello Spasimo di Palermo. Cfr. anche L. Faraci, Ho scritto il romanzo per narrare le nostre perdite, in “La Sicilia”, 13 dicembre 1998.

[61] V. Consolo, Lo spasimo di Palermo, cit., p. 37.

[62] Ivi, p. 91.

[63] Ivi, p.88.

[64] Ivi, p. 105.

[65] Ivi, p. 91.

[66] Ivi, pp. 127-128.

[67] Ibidem.

[68] C. Prestifilippo, Parole contro il potere. Vincenzo Consolo, ritratti e lezioni civili, Navarra Editore, Marsala, 2013, p.69.

[69] Ivi, pp.129-130.

[70] Ivi, p. 93.

[71] Cfr. S. Burgaretta, Il Gran Lombardo schiavo dell’utile, in “la Sicilia”, 10 dicembre 1998.

[72] V. Consolo, Tu non mi avrai, città dei leghisti, in “Il Messaggero”, 20 giugno 1993.

[73] V. Consolo, Fuga dall’Etna, Donzelli Editore, Roma 1993, p. 5.

[74] Ivi, p. 4.

[75] Ivi, pp.68-69.

[76] V. Consolo, Di qua dal Faro, cit., p. 197.

[77] V. Consolo. Fuga dall’Etna, cit., p. 69.

[78] Cfr. S. Burgaretta, La nota dissonante, in “Il Giornale di Scicli”, 9 febbraio 2003.

[79] M. De Unamuno, Ensayos, tomo I, Aguilar, Madrid 1966, p. 849.

[80] Ivi, p. 855.

[81] M. De Unamuno, Ensayos, tomo II, Aguilar, Madrid 1966, p. 373.

[82] C. Prestifilippo, Op. cit., p.8.

[83] Ivi, p.12.

[84] Ivi, p. 13.

[85] V. Consolo, Fuga dall’Etna, cit., p.70.

[86] Cfr. la nota n. 59.

[87] Cfr. l’epigrafe in esergo con la citazione dal Prometeo incatenato di Eschilo.

[88] M. Onofri, Nel magma italiano: considerazioni su Consolo scrittore politico e sperimentale, in A A. V V. Per Vincenzo Consolo, a cura di Enzo Papa, Manni, San Cesario di Lecce 2004, p. 66.

[89] C. Prestifilippo, Op. cit, p. 27.

[90] V. Consolo, Di qua dal Faro, cit., p. 235.

[91] G. Bonina, Art. cit.

[92] AA. VV. , L’Africa secondo noi, a cura di P. Pallavicini e J.M. Gangbo, Edizioni dell’Arco, Pavia 2002.

[93] C’è da segnalare che da una ventina d’anni si va sviluppando in Italia una letteratura che è opera di immigrati che scrivono adottando la lingua italiana. Tra di essi sono Pap Khouma, Saidou Moussa Ba, Mohamed Bouchane, Mbacke Gadji, Amara Lakhous, Igiaba Scego e altri.

[94] Cfr. S. Burgaretta, I saggi di Consolo, un commento ai suoi romanzi, in “Stilos”, art. cit.

[95] G. Turchetta, Da un luogo bellissimo e tremendo, in V. Consolo, L’opera completa, Mondadori, Milano 2015, p. LXXIV.

[96] V. Consolo, Lo spasimo di Palermo, cit., p. 131.

[97] L. Sciascia, Il cavaliere e la morte, Adelphi, Milano 1988, pp. 90-91.

[98] Cfr. L. Bolognini, Ghali:“Dovrei esser pieno di amici, invece ne ho persi la metà, in “la Repubblica”, 11 settembre 2018, p. 35; G. Castaldo, Lasciatemi cantare, sono un italiano di nome Ghali, in “ la Repubblica”, 29 dicembre 2018, p. 34.

[99] Cfr. C. Moretti, Mahmood”Faccio Morocco pop nel segno di mio padre”, in “la Repubblica”, 6 febbraio 2019, p. 32.

[100] Cfr., fra l’altro, A. Laffranchi, Mahmood: italiano al 100°/° cresciuto in periferia tra i cantautori di mamma e la musica araba di papà, in “Corriere della Sera”, 11 febbraio 2019, p. 13; R. Franco, Sanremo, polemiche e veleni sulla finale. E la politica “sale” sul palco dell’Ariston, Ivi, p. 12; S. Fumarola, Sanremo, Mahmood l’italiano trionfo che spacca la politica, in “la Repubblica”, 12 febbraio 2019, p. 2; L. Bolognini, Nella periferia di Mahmood “È il mio mondo, io resto qui”, in “la Repubblica”, 18 febbraio 2019, p. 18.  

[101] Cfr. S. Burgaretta, Alle soglie del témenos, in M. Maugeri (a c d), Letteratitudine 3, LiberAria Editrice, Bari 2017, p. 350; Idem, L’illusione di Consolo e la Sicilia paseada, cit., p. 28.



foto di Claudio Masetta Milone

Milano, 6 – 7 marzo 2019
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