Le figure femminili di Vincenzo Consolo

Rosalba Galvagno

Per quanto le pagine di Vincenzo Consolo siano disseminate di figure femminili, per alcune di esse non è facile delinearne i contorni o il profilo secondo i moduli tradizionali del ritratto o del personaggio a tutto tondo, anche perché spesso tali figure sono metaforizzazioni di oggetti naturali o culturali. La Sicilia ad esempio (e con essa il Mediterraneo tutto), nella sua complessità di «esistenza» e di «storia», di bellezza e di orrore, di attrazione e di repulsione, di natura e di cultura, di storia e di arte, di guerra e di pace, di mafia e di eroi, è sicuramente l’oggetto femminile più emblematico della scrittura di Consolo. Tutti gli altri non sono che degli avatars, dai più
orridi ai più teneri, di questo oggetto fondamentale che egli ha inseguito durante tutto il suo percorso di uomo e di artista, approssimandosi forse di più ad esso e perfino attingendolo (immaginariamente, s’intende) nei resti archeologici, nelle pietre antiche. I personaggi femminili consoliani consistono sovente in semplici nomi di figure mitologiche o di sante, in mere elencazioni caotiche di questi nomi, che si configurano come delle vere e proprie antonomasie. Nomi di divinità o ninfe mitologiche
talvolta accompagnati da un predicato (Afrodite, Artemide, Aretusa, Ciane, Demetra, Persefone, Hera, Athena, Venere celeste, Diana delle cacce, Cerere
delle messi siciliane, Malophòros, Ecate, Medusa, Core, Sfinge, Europa, Scilla, Antigone, Circe, Sirene ecc.); di sante o comunque di figure cristiane (Giovanna d’Arco, Santa Rosalia, Santa Lucia, la Madre, Annunziate, Maddalene, sante Caterine, Immacolate, sante Ninfe o Susanne ecc.).
Ora, queste semplici citazioni onomastiche non sono certo delle eccedenze barocche, dei meri ornamenti retorici, ma sono appunto delle antonomasie
che vanno lette come autentici significanti, cioè nomi. 1 Tutti i romanzi di Consolo sono citati da questa edizione. attraverso i quali il testo veicola ed evoca una pluralità, spesso contraddittoria, del femminile, come accade ad esempio col termine Malophòros al quale è accostato, tra gli altri, il termine mele (miele), che ricorre in altre due pagine dello stesso capitoletto (In Egesta degli Elìmi) del romanzo Retablo, in particolare nel contesto fortemente erotizzato della Confessione di Rosalia Granata: «come fa l’apa sopra la corolla dove al fine s’insinua e suscita il suo mele»1. Questo significante della dolcezza, specie quella erotica e materna, si riverbera anche nel capitoletto successivo (In Selinunte greca), nella mirabile descrizione della dea Malophòros, descrizione generata di fatto dalla prima parte del nome della dea: «e il tempio sacro in fondo e segretissimo in cui nel recesso più interno e proibito era Lei, la Molle, l’Umida, la dèa che porta la mela e che la dona, l’inconoscibile, insondabile padrona» (p. 437), dove a «Molle» si affianca qui il termine «mela», l’attributo proprio della dea, che designa il frutto e connota al contempo la fertilità. Accanto a questi nomi propri femminili appartenenti alla nostra tradizione mitologica e cristiana, incontriamo anche dei nomi comuni di parentela come madre, moglie, sorella, figlia, signora, fidanzata, i nomi cioè dei legami familiari più intimi spesso dolorosamente drammatici, come ad esempio il termine «sorella» riferito all’anonima fanciulla portata in corteo funebre sempre nel capitoletto intitolato In Selinunte greca del romanzo Retablo. O le sorelle di Petro Marano, Lucia e Serafina, intaccate anch’esse dal male catubbo (dalla melanconia) nel capitolo IV, La torre, del romanzo Nottetempo, casa per casa. D’altronde il capitolo VIII, la cui epigrafe è una citazione tratta dalla Nedda di Verga2, si intitola significativamente Le donne, mentre il capitolo X, Pasqua delle rose, introduce la tenera figura di Grazia la Piluchera, l’accogliente amante (prostituta?) di Petro (pag. 731 ss.). Da L’olivo e l’olivastro preme ricordare almeno la Lucia del Seppellimento di Santa Lucia del celebre dipinto di Michelangelo Merisi: Effigiò la santa come una luce che s’è spenta, una Lucia mutata in Euskìa, un puro corpo esanime di fanciulla trafitta o annegata, disposto a terra, riversa la testa, un braccio divergente […]. La luce su Lucia giunge da fuori il quadro, dalla pietà, dall’amore dei fedeli astanti, da quel corpo riverbera e si spande per la catacomba, a cerchi, a onde, parca come fiammella di cera dietro la pergamena. (pp. 828-829) E la stessa madre dello scrittore, toccante e indimenticabile «vecchia Euridice»:
La guardava, ne studiava la faccia, la pelle
sottile e bianca, le venuzze azzurre, il neo sulla
tempia, i capelli fini e lisci fermati dietro con la
crocchia, la bocca a grinze, le orecchie trasparenti,
i buchi allungati dei lobi da cui pendevano gli
orecchini. Ma presto provava imbarazzo, disto-
glieva lo sguardo, gli sembrava di violare l’intimità
indifesa di quella donna ch’era sempre stata
candida, innocente, il suo privato e lento allontanarsi.

[…]
Cosa credeva? Che quella donna, sua madre, fosse rimasta sempre lì, uguale, come il giardino, le barche, le isole, con il ricordo di lui sempre acceso? Il dolore per gli altri figli andati, scomparsi? Aveva mollato pure lei (ma come, quando?) e s’era messa a camminare per la sua strada. Voleva annullare quel tempo, ritornare, lui, al punto della partenza, far tornare lei, vecchia Euridice, di là dall’ombra dell’oblio? (pp. 848-849)
Accanto a queste due ultime figure (Santa Lucia e la madre) delle quali, a differenza delle precedenti antonomasie, lo scrittore ci consegna un ritratto rapido ed essenziale, sono anche presenti nei suoi testi delle metaforizzazioni del femminile, come quella, notissima, della «chiocciola» del Sorriso dell’ignoto marinaio (pp. 233-238), o in Retablo quella dell’«arancio » (p. 427) o del «corallo» (pp. 454 ss.) e persino del tempio: il tempio di Segesta all’occorrenza, nella cui descrizione insistono le «madri» e la gran «Madre» (p. 414). Ma, tra gli oggetti inanimati, o più precisamente cosmici, bisogna annoverare la luna disseminata ovunque nelle pagine consoliane, 20 al centro, segnatamente, della splendida favola teatrale
Lunaria. La luna come figura per eccellenza del femminile («Deh madre, sorella, sposa, guida della notte, méntore, virgilia, dimmi, parlami, insegnami la via») 3 ha una lunga tradizione nella nostra letteratura,
basti qui citare l’esempio massimo del Canto di un pastore errante dell’Asia, e anche delle altre numerose lune di Leopardi, come quella dell’Odi Melisso e del Tramonto della luna letteralmente evocate
in Lunaria. Dopo questa rapida rassegna di figure femminili,
vorrei soffermarmi sul capolavoro di Vincenzo Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, che si apre su una interessante figura di donna, Catena Carnevale, un personaggio dal nome altamente simbolico, per
quanto lo scrittore si sia ispirato a una donna reale di Lipari di nome Maria Maggiore. Se il nome proprio Catena rinvia immediatamente
alla scrittura, alla catena significante, il cognome Carnevale non può non evocare una straordinaria eroina popolare immortalata da Carlo Levi in Le parole sono pietre: Francesca Serio madre di Salvatore Carnevale, una donna che non aveva paura di pronunciare, per ottenere giustizia per il sacrificio del figlio ucciso dalla mafia, «parole di pietra»4. Il ritratto di Catena viene presentato dapprima nell’Antefatto del primo capitolo del Sorriso dell’ignoto marinaio, e quindi ripreso e arricchito di ulteriori
tratti, nel secondo capitolo intitolato L’albero delle quattro arance. Di Catena sappiamo che è bella e irraggiungibile, la sua bellezza però non s’incarna in un corpo reale di donna, piuttosto in una sorta di raggio luminoso che al tempo stesso la vela e la svela «al rapido saettar d’occhi traversi […] dei giovani che passano e ripassano per la strada di San Bartolomeo » (p. 127)5. Ricama e sa decifrare la scrittura barocca delle ricette, sicché torna utile al padre speziale in Lipari. È «un’intellettuale»6, nervosa, irritabile, meteoropatica, un mistero quanto all’amore. A tal punto furiosa, da infierire sul ritratto dell’Ignoto perché somigliante al suo fidanzato lontano, con 3 Lunaria, p. 315 4 Cfr. C. Levi, Le parole sono pietre, Einaudi, Torino, 1955, pp. 138-152. Consolo ha dedicato allo scrittore torinese un denso saggio raccolto nella settima e ultima sezione di Di qua dal faro (Milano, Mondadori, 1999, pp. 251-257) intitolata significativamente Le parole sono pietre. 5 Vincenzo Consolo ha svelato, nel corso di un Convegno a lui dedicato e tenutosi a Capo d’Orlando nell’ottobre del 2006, che l’immagine alla quale questa descrizione di Catena rinvia è quella di una Annunciazione. 6 V. Consolo, Fuga dall’Etna, Donzelli Editore, Roma, 1993, p. 43. 7 Ivi, p. 46. 8 «il povero esclama / al fondo di tanto abisso / terra pane / l’origine è là / la fame senza fine / di libertà» (pp. 250-251). quel sorriso che l’affascina tanto quanto la perseguita, un sorriso inafferrabile che potrà incatenare, lei già incatenata da quel sorriso, solo sfregiandolo
col punteruolo d’agave da ricamo, solo lasciandovi sopra, tale un’erinni, il segno della sua passione assoluta (p. 127). Vorrei ancora, prima di passare a Rosalia, forse la figura princeps della ricca galleria di figure femminili
consoliane, soffermarmi sull’ultimo capitolo (IX) del Sorriso dell’ignoto marinaio, che contiene le famose scritte graffite sui muri del carcere dai rinchiusi colpevoli dell’eccidio di Alcara Li Fusi. Paradossalmente e perfino scandalosamente, questo carcere a forma di chiocciola rappresenta
forse il luogo per eccellenza del ‘femminile’, della scrittura autentica, corale e acefala, «indipendente da un corpo o da una mente» (p. 222), una scrittura capace di tradurre in linguaggio il trauma originario del Soggetto e della Storia. Un trauma che, nel punto finale della riscrittura storico-metaforica degli eventi riportati nel romanzo, si mostra quasi allo stato
puro senza i «colori dell’affresco»7, graffito di carbone e messaggio poetico per chi può leggerlo e intenderlo. L’ultima strofe dell’ultima scritta sul muro è infatti in lingua sanfratellana, incomprensibile per lo stesso Mandralisca e per noi lettori:
U pauvr sclama
Suogn ‘nta u mar
Au Faun di tant abiss
Terra pan
L’originau è daa
La fam sanza fin
Di
Libirtaa
8
Di questa strofe in sanfratellano la prima edizione del romanzo non forniva alcuna traduzione. Ora, proprio gli ultimi cinque, poeticissimi versi rinviano ad una parola mancante (propriamente la parola muta del desiderio), una parola fondamentale perché generatrice dell’intero canto. Si tratta della parola ‘lontananza’ intesa come separazione dall’oggetto
d’amore, vera e propria parola ombelicale che si iscrive nell’ordine silenzioso della lettera, e che coincide con quello che Freud nell’Interpretazione dei sogni chiama ‘ombelico del sogno, kern-punkt, punto opaco e non più decifrabile del desiderio del sogno, ma anche punto di generazione plurima e sovradeterminata della scrittura del sogno. Ma c’è di più. Soggetto di questa ‘lontananza’ è una fanciulla, una figura femminile dunque. È stato possibile risalire a questa parola ombelicale grazie all’eccellente studio di Salvatore Trovato sulla presenza del sanfratellano nel Sorriso. Lo studioso afferma che il verso:
au faun di tant abiss, rigo 28 della scritta, è ripreso dall’ottava num. 19 (dal titolo La lontananza) della raccolta di Luigi Vasi (p. 286), un’ottava d’amore che tratta appunto il tema della lontananza (Suogn ‘nta u mar au faun di tant abiss ‘sono nel mare al fondo di tanto abisso’ piange la fanciulla per la lontananza dell’amato nell’ottava popolare) da cui Consolo sa trarre elementi per la costruzione di un testo che tratta il tema della rabbia sociale, dell’odio di classe e del desiderio di vendetta9. D’altronde l’intera strofe è costruita con versi presi da varie altre ottave del Vasi e abilmente intrecciati dallo Scripteur, al fine di trasmettere un messaggio innanzi tutto etico-sociale, rivoluzionario, rivendicativo. Ma, mi permetto di postillare, questo messaggio è strutturato poeticamente e per di più in una lingua ‘altra’. Inoltre la voce che emana dal fondo dell’abisso, frammento di corpo staccato dal soggetto che la enuncia, è quella di una fanciulla innamorata e separata dal suo amato, la stessa voce profonda, anonima ed enigmatica che modula il canto della strage, del trauma, della separazione, della lontananza.
E passiamo infine alla figura di Rosalia nel romanzo Retablo, un romanzo diviso, com’è noto, in tre parti: due portelli laterali Oratorio e Veritas, e
un portello centrale, Peregrinazione. Esso narra il 9 S. Trovato, Valori e funzioni del sanfratellano nel pastiche linguistico consoliano del «Sorriso dell’ignoto marinaio» e di «Lunaria», in Dialetto e letteratura a cura di Giuseppe Gulino ed Ermanno Scuderi, Pachino 1989 (Atti del 2° Convegno di studi sul dialetto siciliano – Pachino 28/30 aprile 1987), p. 135. 10 «Alzai gli occhi e vidi nel riquadro, ah, la mia sventura!, la donna che teneva la funicella del panaro e accanto una fanciulla di quindici o sedici anni, la
mantellina a lutto sulla testa che lei fermava con graziosa mano sotto il mento. E gli occhi tenea bassi per vergogna, ma da sotto il velario delle ciglia fuggivan lampi d’un fuoco di smeraldo. Mai m’ero immaginato, mai avevo visto in vita mia, in carne o pittato, un angelo, un serafino come lei» (p. 371). viaggio e le peripezie dell’artista milanese Fabrizio Clerici e della sua guida Isidoro, un monaco del convento della Gancia, nella Sicilia del XVIII secolo (1760-1761 circa). Fin dal celebre prologo di Retablo da me chiamato Inno a Rosalia, la figura femminile non si riduce a una mera rappresentazione realistica. Essa soggiace piuttosto a delle figurazioni metamorfiche, che vanno dal ritratto a tutto tondo della protagonista
Rosalia all’«ottuso vortice» (p. 422) del corpo del godimento. Non a caso Rosalia è esattamente definita in due luoghi, e fuori da ogni figurazione possibile, come «la causa di tutto, il motore primo» (p. 372) secondo le parole di Isidoro, e «il motore primo del miracolo» (p. 420) secondo le parole dell’altra Rosalia, perché di «Rosalia» ce ne sono almeno
due in Retablo. Il romanzo non farà che dispiegare dall’inizio alla
fine ciò che il prologo annuncia: la perdita e quindi la quête di Rosalia, cioè dell’oggetto del desiderio e dei suoi avatars, che si incarna nelle figure di Rosalia Guarnaccia, l’amata di Isidoro; Teresa Blasco, l’amata di Fabrizio Clerici; alle quali bisogna aggiungere Rosalia Granata, la donna sedotta da Frate Giacinto da Salemi e salvata da Vito Sammataro, un frate costretto a farsi brigante. O, infine, «solamente la Rosalia d’ognuno che si danna e soffre, e perde per amore» (p. 423). Accanto a queste vi sono altre importantissime figure femminili come quelle mitologiche e religiose
già citate all’inizio di questo saggio o altre figure minori come Luzìa o Lucia Barraja (p. 467), che fa parte anch’essa della galleria delle Rosalie.
E se si volesse delineare un ritratto fisico, esteriore (secondo la terminologia dei teorici del Rinascimento italiano) di Rosalia10, è vero che esso consiste soltanto di alcuni tratti quali l’età (ha 15-16 anni),
lo sguardo acceso da lampi d’un fuoco di smeraldo, i capelli colore del rame, i denti di cagnola, mentre il suo ritratto interiore è fissato dall’ossimoro angelo/ diavolo, permanendo inestricabili i tratti angelici e
diabolici. È anche fresca, odorosa, bella di sette bellezze ecc., ma soprattutto ha un bel nome, infatti l’inno inaugurale del romanzo è una variazione attorno 22 al nome di Rosalia. Isidoro, d’altronde, risponderà a
Fabrizio Clerici che Rosalia «È solamente il nome» (p. 386).
Ciò che sembra emergere dall’analisi testuale dell’Inno a Rosalia11 è la scrittura dello slancio di un desiderio verso un oggetto femminile forse del tutto inedito nella tradizione letteraria italiana ed europea. Alle due donne – Venere celeste e Venere terrestre – celebrate da questa tradizione si sostituisce in Retablo una sola donna dalle molte sfaccettature, che è al contempo idealizzata e concupita (sogno o incubo di ciascun uomo forse). Ciò che il lavoro dello stile, della prosodia specialmente, rivela grazie
all’accordo stabilito da un certo ritmo tra elementi verbali appartenenti a ordini linguistici differenti e perfino opposti, è l’ibridazione di queste due figure di donna, ottenuta attraverso la coalescenza della corrente tenera e della corrente sensuale dell’amore, che fa sì che i tratti ideali e i tratti erotici di questo oggetto femminile divengono interscambiabili.
Le figurazioni del corpo di Rosalia vanno dunque dal ritratto della giovane adolescente paragonata per la sua bellezza al corpo della statua di Santa Ro- 11 Per questa analisi dettagliata cfr. Rosalba Galvagno, «Hymne à Rosalia» dans «Le Retable» de Vincenzo Consolo, in «Revue des Études italiennes», dirigée par François Livi et Claudette Perrus, Varia, Tome 63, n. 3-4/2017, pp. 41-53. salia, all’allegoria della Veritas scolpita dal Serpotta,
ad una panòplia di metonimie del corpo (sguardo, capelli, denti, ossa, reliquie, voce), alla ‘lettera’ e, per finire, al corpo del godimento difficilmente rappresentabile: si tratta piuttosto di una figura senza
figura del reale, ma al quale Consolo riesce addirittura a dar voce e nella cui specifica e originalissima articolazione si situa la scrittura dell’eros. La mise en abyme di questa scrittura si situa nel bel mezzo del romanzo, in quell’eccentrico capitoletto intitolato Confessione, voluto in corsivo da Consolo. Ora, la grandezza e l’importanza letteraria di questa Confessione
risiede proprio nella scrittura, difficilissima, dell’estasi mistica e al contempo arditamente sensuale del corpo di Rosalia ridotto qui a puro strumento del godimento, pura voce, pura onomatopea di una «gioia grande e senza nome»: «O bona, o bella, o santa creatura!» dissemi
con quella sua voce flautata stringendo forte nelle sue le mani mie.

«O padre, o padre, per me pietate, vi chiedo abènto!…» riuscii a sospirare, e venni meno. Mi ritrovai, al risveglio, riversa su un giaciglio
dentro un casalino ov’erano gli attrezzi per la selva,
la testa sul grembo del mio frate, che la mano,
ora con forza e ora lievemente, passava sul mio
petto, mentre il core affannoso mi battea come
del coniglio stanato dal furetto. E dal petto quindi
in giuso si moveva, fin su la nicchia ove natura
pose il nocciolo del caldo, il seme, il fomento d’ogni
brama, godimento, levitando, sfiorando tratteggiando,
come fa l’apa sopra la corolla dove al fine
s’insinua e suscita il suo mele, mentre che l’origlier
crescendo s’impetrava. O foco, foco! Foco che in
segreto ardi su la lampa, fiamma che bruci e non
consumi! Foco che avvampi il core, l’ossa, ardi il
midollo, ogni fibra dell’anima, del corpo! […].
Ah il furore, il delirio, l’ottuso vortice, la danza,
da cui sortiva sempre inappagata, sempre anelante
all’amor di lui, di lui che a poco a poco si negava,
di Lui che m’appariva irraggiungibile!
E prona pecora belava, guaiva cagna cana, hau
hau, lamentava, ma’, ma, tata cicia caca, ohu ohu,
nerva rova urìca, ahi ahiahi, mala mele fima…
(pp.
416-422)
23

1 V. Consolo, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e con uno scritto di Cesare Segre, Mondadori («I Meridiani»), Milano, 2015, p. 418.
2«… faceva altri lavori più duri che da quelle parti stimavansi inferiori al compito dell’uomo» (p. 710).

Dieci anni fa a Milano la morte del grande scrittore siciliano, collaboratore dell’Ora.

Fino al 25 febbraio numerose manifestazioni culturali. Da oggi l’omaggio de L’Ora Edizione Straordinaria con analisi, ricordi, foto, testimonianze. CONSOLO, IL DESTINO DI UN ULISSE SICILIANO
di FRANCO NICASTRO

“Più nessuno mi porterà nel Sud, lamentava Quasimodo. Invece – se m’è concesso il confronto – io nel Sud ritorno sovente”. Così Vincenzo Consolo spiegava il suo ininterrotto rapporto con la terra e la cultura siciliane: “Da Milano, dove risiedo, con un volo di un’ora e mezza, atterro in Sicilia. Dalla costa d’oriente o d’occidente, ogni volta, come per ossessione, vizio, coazione a ripetere, celebrazione d’un rito, percorro l’isola da un capo all’altro, vado per città e paesi, sperduti villaggi, deserte campagne, per monti e per piane, per luoghi visti e rivisti non so quante volte”. L’ultima volta che Consolo era tornato in Sicilia è stato nell’estate del 2010. A Gratteri, sopra l’amata Cefalù, in una limpida serata d’estate si presentava “L’isola in me”, un film documentario di Ludovica Tortora de Falco sulla Sicilia suggestiva e straziante di Consolo. Era un ritratto dello scrittore, dell’uomo e dell’artista attraverso i luoghi, i temi, le suggestioni letterarie della sua vita. Consolo si era assegnato quello che chiamava il “destino d’ogni ulisside di oggi”: quello di “tornare sovente nell’isola del distacco e della memoria e di fuggirne ogni volta, di restarne prigioniero…”. Di questo intenso legame passionale, civile e letterario con la Sicilia Consolo ha sempre dato testimonianza. Dalle profondità del mito ha ricavato una lettura lucida della storia italiana e siciliana dal dopoguerra a oggi. Lo ha fatto attraverso alcuni temi cruciali: l’emigrazione, la vita dei minatori delle zolfare, l’industrializzazione e le devastazioni del territorio, i terremoti e le selvagge ricostruzioni, le stragi mafiose. È una storia che Consolo ha vissuto in prima persona, condividendola con altri scrittori, in primo luogo Leonardo Sciascia a cui era profondamente legato. E proprio Sciascia aveva segnato il suo percorso letterario cominciato nel 1963 con “La ferita dell’aprile”. Prima che nel 1976 pubblicasse il suo secondo romanzo, quello che gli diede la notorietà, “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, Consolo si era lasciato tentare (lui diceva “irretire”) da Vittorio Nisticò e da Milano era approdato a Palermo nella redazione del giornale L’Ora. Ma vi era rimasto solo pochi mesi, poi era tornato a Milano da dove ha continuato a tenere un rapporto intenso, e continuamente rinnovato, con la Sicilia. Di questo legame con la storia e la cultura siciliana sono testimonianza, oltre al sodalizio con Sciascia e all’amicizia con Gesualdo Bufalino, anche la sua intensa produzione letteraria, da “Le pietre di Pantalica” a “Retablo”, da “Nottetempo casa per casa” (premio Strega 1992) a “L’olivo e l’olivastro”, da “Lo Spasimo di Palermo” a “Di qua dal faro”. A cui si aggiungono saggi di forte intonazione civile, interventi e una densa raccolta di articoli per il Messaggero e per l’Unità. Aveva scelto di vivere a Milano ma il suo cuore e la sua curiosità intellettuale erano radicati in Sicilia. ”La tentazione di sottrarmi alla Sicilia c’è – diceva – ma il meccanismo memoriale della mia narrativa me lo impedisce fino in fondo, è connaturato a uno stile che ingloba la memoria attraverso il linguaggio”. E proprio al linguaggio dedicava la sua cura sperimentale in una ricerca che lo allontanava sempre più dai canoni correnti. Da qui la sua invettiva contro la deriva di un paese “telestupefatto”, cioè scivolato verso la volgarità del linguaggio che uccide il pensiero critico. ANSA 21 gennaio 2012

-BIOGRAFIA VINCENZO CONSOLO Vincenzo Consolo era nato a Sant’Agata di Militello il 18 febbraio 1933. Sesto di otto figli, negli anni Cinquanta si era trasferito a Milano per frequentare la Cattolica dove si è laureato in giurisprudenza. A Milano è poi tornato, dopo un breve periodo di insegnamento in Sicilia, negli anni Sessanta per seguire una sua aspirazione letteraria sulla scia di Verga, Capuana, De Roberto. A Milano lavora nella struttura di programmazione della Rai ma intreccia un intenso rapporto con il grande giro culturale. Collabora con Einaudi, stringe rapporti intensi con Leonardo Sciascia e il poeta Lucio Piccolo. Nel 1976 viene chiamato a Palermo dal direttore del giornale L’Ora, Vittorio Nisticò, con il quale già collaborava da alcuni anni. Conclusa l’esperienza siciliana, ritorna a Milano mentre esce il romanzo che gli dà una grande notorietà: ”Il sorriso dell’ignoto marinaio”. Nel 1985 pubblica ”Lunaria” e due anni dopo ”Retablo”. Seguiranno ”Le pietre di Pantalica” e ”Nottetempo casa per casa”. Nel 2015 esce postuma la sua opera completa per i Meridiani Mondadori. Il curatore Gianni Turchetta, che a lungo ha lavorato sull’archivio dello scrittore poi rilevato dalla Fondazione Mondadori scrive: “Nel panorama italiano del XX secolo, pochi scrittori possono, come Vincenzo Consolo, mostrare in modo tanto conseguente e radicale che cosa è stato per l’Occidente moderno, per oltre un paio di secoli e che cosa forse si ostina ad essere quella che chiamiamo letteratura”. Per il critico Cesare Segre, “Consolo è stato il maggiore scrittore italiano della sua generazione”. Nei libri ma anche nei saggi e negli articoli per il ”Messaggero” e ”L’Unita”’ Consolo mantiene un intenso rapporto con la Sicilia. Si è sempre sentito un moderno Ulisse che torna nella sua Itaca dalla quale non riesce a staccarsi. Tutte le sue opere hanno infatti la Sicilia come punto di partenza e di approdo. CONSOLO, LE MANIFESTAZIONI Promosso dalla Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, dall’Associazione “Amici di Vincenzo Consolo” fondata per volontà di Caterina Pilenga, moglie dello scrittore, e da Arapán Film Doc Productionm si apre domani il #MESECONSOLO coordinato da Ludovica Tortora de Falco. Alle 15 su RadioTre Fahrenheit ospiterà critici, esperti e giornalisti per analizzare l’eredità di Consolo. Alle 20 Radio Tre Suite dedicherà in diretta dalla Sala di via Asiago a Roma una serata di letture di Consolo e brani musicali. L’evento clou a Sant’Agata di Militello, dove alle 21 al cinema teatro Aurora andrà in scena #Lunaria di Vincenzo Consolo nello storico allestimento dell’omonimo Teatro Lunaria di Genova diretto da Daniela Ardini che ne cura la regia. Interprete Pietro Montandon. Lunaria è la storia del Viceré e della Luna che cade su una remota contrada senza nome. Ancora a Sant’Agata di Militello, il 26 e 27 gennaio, presso il Palauxilium proiezione del film documentario #Lisolainme, in viaggio con Vincenzo Consolo per le classi quinte dei licei del territorio dei Nebrodi.Sempre il 26, a Milano presso il Laboratorio Formentini per l’editoria, via Marco Formentini, 10, Reading . Ricordi di Vincenzo Consolo a cura di Paolo Di Stefano e Gianni Turchetta. Voci recitanti Valerio Bongiorno e Laura Piazza. Il 28 gennaio all’University College Cork, in Irlanda, #MemorialConsolo a cura di Daragh O’Connell, organizzato da Claudio Masetta Milone, il concittadino dello scrittore che da sempre lo ha affiancato e curato nelle sue ricerche, l’amico di una vita, instancabile promotore della Casa letteraria Consolo di Sant’Agata e della serata evento di domani. Temi del convegno: tradurre, curare, studiare, raccontare Consolo con Joseph Farrell, Gianni Turchetta, massimo esperto italiano dello scrittore, curatore del Meridiano Mondadori, Nicolò Messina e Salvatore Maira. Link per i quattro appuntamenti: https://us02web.zoom.us/i/88579217433…. Meeting ID: 88579217433. Password: 060633.L’8 febbraio alle ore 10, a Palermo alla Sala Bianca dei Cantieri Culturali della Zisa a cura di Film Commission regionale, Centro Sperimentale di Cinematografia, Centro Studi Pio La Torre sarà proiettato per gli studenti dei licei il film documentario #InviaggioconVincenzoConsolo, prodotto nel 2008 da Arapán.Il 9 febbraio a Milano presso la Biblioteca Valvassori Peroni (via Valvassori Peroni, 56) serata con letture di testi di Vincenzo Consolo tra la Sicilia e Milano.Evento di particolare importanza l’11 febbraio alle ore 17 a Palermo presso la Biblioteca Centrale della Regione Siciliana, quando la Biblioteca presenterà l’e-book, promosso dal direttore Carlo Pastena e realizzato grazie alla cura di Antonella Bentivegna, che contiene il catalogo del patrimonio bibliografico di e su Vincenzo Consolo custodito presso la Biblioteca stessa. Contiene fotografie di Consolo tratte dall’archivio L’Ora, e i suoi articoli per il giornale di Vittorio Nisticò e per altre testate italiane. Coordinerà il convegno Antonio Calabrò, parteciperanno Salvatore Ferlita, Claudio Masetta Milone, Salvatore Silvano Nigro, Concetto Prestifilippo, Dario Stazzone e Piero ViolanteIl 15 febbraio alle ore 18,30 presso il Cineclub Arsenale di Pisa (vicolo Scaramucci, 2) Per Vincenzo Consolo, mostra fotografica a cura di Francesco La Francesca e Cecco Ragni. Infine il 25 febbraio alle ore 17,30 a Catania, alla Libreria Cavallotto di corso Sicilia, 91, presentazione del libro L’oggetto perduto del desiderio. Archeologie di Vincenzo Consolo di Rosalba Galvagno, Milella editore.

L’Ora Edizione Straordinaria
20 gennaio 2022