Potrebbe essere l’incipit del più noto romanzo di Vincenzo Consolo, il romanzo che costituì l’avvenimento letterario di quasi vent’anni fa e rivelò prepotentemente alla critica e al pubblico, soprattutto, lo scrittore siciliano. Ci si riferisce a Il sorriso dell’ignoto marinaio, che come si sa prende spunto, anche se lo scenario storico è quello delle vicende siciliane negli ultimi decenni del dominio borbonico dal celebre dipinto antonelliano conservato al Museo Mandralisca di Cefalù, il cosiddetto Ritratto d’ignoto, citato perfino nel titolo del romanzo. In quest’opera il sorriso dell’uomo ritratto nel dipinto di Antonello da Messina, sorprendentemente simile a quello di un marinaio incontrato dal barone Mandralisca sulla nave che lo portò da Lipari a Cefalù, rappresenta un preciso leitmotiv. Eppure la citazione iniziale non è tratta dal Sorriso dell’ignoto marinaio, bensì dall’ultimo volume di Consolo, L’olivo e l’olivastro. L’enigmatico sorriso antonelliano, dunque, continua a impressionare fortemente lo scrittore, in questo libro non è più un leitmotiv, vi appare solo un attimo, occupa poco meno di una pagina a tre quarti del libro, però è una sintesi emblematica che spiega esemplarmente il significato de L’olivo e l’olivastro.
Il viaggio di Consolo nella Sicilia odierna, novello Ulisse alla ricerca di una perduta Itaca, rivela una realtà in pieno disfacimento culturale, etico e ambientale, disumanizzata in nome di un falso progresso, che rischia di smarrire la propria identità e la propria memoria storica. Il profondo malessere esistenziale dell’autore, che sta alla base di questo libro indefinibile quanto genere letterario perché può essere letto come un saggio o un romanzo anche se alla fine propende più per il poema lirico si coglie proprio nell’immagine di quel Ritratto di Ignoto. L’uomo dipinto da Antonello ora per lo scrittore non ostenta più compiaciuta sicurezza nell’intelligenza dello sguardo e nell’ironia del sorriso: i suoi occhi sono chiusi, il sorriso si è tramutato in smorfia. Questa metamorfosi è allegorica, in fondo per certi versi paragonabile alle dicotomie di Stevenson e Kafka, perché se da un lato rappresenta l’equilibrio classico della razionalità, la fiducia nei valori, dall’altro simboleggia il delirio barocco dell’irrazionalità, la paura del vago. Vincenzo Consolo lancia anatemi per denunciare il degrado che segna inesorabilmente la Sicilia e le colpe di cui essa tutt’ora si macchia, ma in questa sua indignazione morale, in questa sua tensione civile, c’è la segreta speranza per un futuro migliore, la speranza forse nel riscatto umano e sociale di un’isola che diventa metafora di tutto un paese e del mondo intero.
L’olivo e l’olivastro è, insomma, opera di uno scrittore
che, rifiutando la diffidenza o l’evasione, si sente ancora motivato, crede
nell’impegno dell’intellettuale, ha una missione da compiere. Il pessimismo di
Consolo, dunque, a ben guardare, non rasenta l’annullamento alla Beckett, di
Aspettando Godot per intenderci, perché quest’ultima sua prova letteraria, alla
fin fine, è una dichiarazione d’amore nei confronti di un’umanità non ancora
perduta. L’ideale richiamo a La terra desolata di Eliot non si può tralasciare
( tanto più che questo testo è perfino citato esplicitamente), ma non ci sono approdi
metafisici in Consolo, perché la sua fede è laica, la sua speranza è tutta
terrena. D’altra parte L’olivo e l’olivastro, non a caso, già nel titolo stesso
mette in risalto le due anime della Sicilia e Consolo per questo è ricorso, con
felice scelta, a un’immagine dell’Odissea.
L’olivo e l’olivastro, infatti, nascono dal medesimo tronco, ma hanno sorte
diversa, simboleggiano il contrasto tra il coltivato e il selvatico, l’umano e
il bestiale, la salvezza nella cultura o la perdita di sé in un destino
puramente naturale. La scrittura fluisce quasi magmatica, non sostenuta da una
vera e propria trama, secondo una peculiarità stilistica di Consolo; la sua preoccupazione,
tuttavia, qui non è tanto il raccontare qualcosa organicamente, quanto far
evidenziare lo stato di disagio interiore dinanzi ad un mondo che non riconosce
più, un mondo dal passato glorioso, addirittura mitico, ora ridotto in cenere
dagli scempi ambientali, dalla corruzione politica, dalla sanguinosità della
mafia, dall’omologazione sociale, dal consumismo della civiltà post
-industriale che non rispetta secolari tradizioni e cancella i segni di una
singolare cultura millenaria. Il viaggio di Consolo, quindi, è davvero il
viaggio di un Ulisse disperato, che non si dà per vinto, però, e che nel suo
peregrinare oppone alle violenze del presente folgorazioni senza tempo dove gli
appaiono figure ed eventi straordinari: i leggendari mostri di Scilla e Cariddi
e gli armenti del Sole descritti nell’Odissea; Pirandello che rende omaggio a
un Verga vecchio e deluso; Caravaggio intento a dipingere per la siracusana
chiesa di Santa Lucia al Sepolcro una sacra effige giudicata oscena dal vescovo
per il suo drudo realismo. L’autore, tra un gorgoglio lessicale di
“sicilianerie”, che stuzzica il ricordo e la nostalgia (anche se il
potere evocativo della parola non servirà comunque a scongiurare l’oblio),
percorre i luoghi epici e domestici di Omero e dei Malavoglia, segue le orme di
viaggiatori illustri come Goethe e Maupassant, vagola nei paesi distrutti dai
terremoti o dall’insipienza degli uomini, lasciandosi prendere dallo stupore
ogni qualvolta paesaggi lui familiari disegnano l’orizzonte: “Ora remote,
lievi, diafane come carta o lino, ferme o vaganti in mare, sospese in cielo,
ora invisibili come cortine di nuvole, ora avanzanti, prossime alla costa,
scabre e nitide”. E’ una fiabesca visione delle Eolie, dettata forse da
una suggestione quasimodiana, dove lo scrittore può abbandonarsi alla poesia, a
quegli squarci lirici che insieme agli inserti romanzeschi costituiscono le
uniche, vere accensioni per il lettore. Bisogna dire, in effetti, che una certa
discontinuità in quest’opera di Consolo c’è, ma la sua risulta un’operazione
riuscita complessivamente, grazie all’attenta ricerca linguistica. Musicalità e
sapienza nell’amalgamare bene cronaca a prosa aulica, poesia a documento,
contribuiscono sensibilmente a fare de L’olivo e l’olivastro un libro
interessante con un grande pregio, quello di spingere alla riflessione,
espressionisticamente mettendo in luce il problema ecologico con un
procedimento che ricorda in qualche modo, sia pure trasposto in termini
cinematografici, Sogni, l’ultimo film del grande regista giapponese Akiro
Kurosawa.
Sergio Palumbo
(articolo tratto da “nuovo notiziario delle Isole Eolie” – Ottobre 1995)